La cappa, di Piero Visani

La cappa

da https://derteufel50.blogspot.com/2018/11/la-cappa.html?spref=fb&fbclid=IwAR1Q1oyDyb6lv3L-sF04SigW6nuSOYGFEICVOtUEv0b6D3xd0jZWxmu0s4c
       I discorsi del presidente Mattarella in occasione del 4 Novembre e non pochi altri interventi di esponenti della casta politico-culturale che ancora grava su questo sfortunato Paese hanno avuto la splendida peculiarità di illustrare con estremo vigore quanto grande si sia fatto il distacco tra “Paese legale” e “Paese reale”.
       Da una parte, il “Paese legale”, con i suoi stanchi e sempre più vuoti riti, il suo cattocomunismo d’accatto, le sue cerimonie da sacrestia, i suoi sepolcri imbiancati, le sue mummie, le vittime delle guerre e le vittime di certe contiguità (à la Emanuela Orlandi…), il suo universo di (dis)valori in cui ormai si riconoscono in sempre meno, anche se quei sempre meno hanno occupato militarmente la società civile, mentre quelli che in teoria avrebbero dovuto loro opporsi gli facevano semplicemente il verso, presi in questioni di veline e olgettine, e di affari più o meno leciti.
        Dall’altra, il “Paese reale”, quello delle nostre famiglie, dei vostri nonni e di mio nonno, preso prigioniero durante la Strafexpedition del 1916 ma sufficientemente onesto, dopo due anni di prigionia in un Paese nemico come l’Ungheria, da riconoscere che la popolazione ungherese, pur ridotta alla fame dal blocco navale praticato dagli Stati dell’Intesa contro gli Imperi Centrali, era umana al punto da risultare capace di dividere il pochissimo che aveva con i prigionieri italiani.
       Quel “Paese legale” ormai esiste SOLO per coloro che ne fanno parte e le sue stracche giaculatorie sembrano figlie di un’altra epoca a molti di coloro che sono costretti ad ascoltarle, con crescente, insostenibile disgusto. Ai più acculturati sotto il profilo filmico, sembra di stare dentro “La notte dei morti viventi”. Ai più acculturati sotto il profilo politico-culturale, non posso dire che cosa sembra, perché non intendo beccarmi una querela.
       E i milioni di cittadini del “Paese reale”, quando sentono le note de “La canzone del Piave“, si emozionano, si commuovono, gioiscono, perché sanno che quella guerra terribile fu il completamento della nostra unificazione nazionale. I “sepolcri imbiancati”, per contro, non riescono ad emozionarsi di niente e per niente, ma non è che di morti, guerre e uccisioni non se ne intendano, come cercano di farci credere.
      La cappa metapolitica che grava sull’Italia, tuttavia, è ai suoi colpi di coda, anche se molti devono ancora comprendere che, se non si crea una narrazione alternativa a quella dominante, i progressi verso questo inevitabile cambiamento saranno più lenti di quanto si possa auspicare. Ma i tempi stanno cambiando, e i NEMICI DELLA VITA non riusciranno a fermare questo processo, anche se faranno ogni sforzo per ritardarlo.
                   Piero Visani
 
 

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! , di Gianfranco la Grassa

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! UN DIBATTITO NON INUTILE

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/riandiamo-un-po-alla-storia-un-dibattito-non-inutile

  1. Nel 1972, su Critica marxista, uscì un articolo di Emilio Sereni, improntato allo “storicismo” tipico del marxismo italiano, che di fatto lanciò un dibattito sulla centralità o meno, nel marxismo, dello sviluppo delle forze produttive o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai fini del passaggio da una formazione sociale all’altra, cioè da un modo di produzione, considerato il nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da lì iniziò appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anch’io, da poco tornato dal soggiorno a Parigi (all’EPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim, passato all’impostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di transizione al socialismo. In definitiva, l’unico gruppo che funzionò fu quello sul modo di produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblicò anche un volume con gli Editori Riuniti.

Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire quasi “teologico”. In ogni caso, non credo che la maggior parte dei “militanti di base” del Pci fosse in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla perché il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto più che la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata al “trasferimento” verso il capitalismo occidentale (io avrei dovuto capirlo fin dall’autunno del ’71 in seguito ad un importante incontro alle Botteghe Oscure; rimasi invece perplesso e afferrai il problema un po’ più tardi, comunque ben prima di altri e del famoso viaggio di un “plenipotenziario” piciista nel 1978, in costanza di rapimento Moro). In ogni caso, la nuova direzione del Pci non era per nulla intenzionata a disquisire su problemi come quelli dibattuti a “Critica marxista” nel ’72, riguardanti di fatto la lotta al capitalismo e la possibilità di transizione al socialismo. Tuttavia, è interessante comprendere il senso ultimo di quella discussione poiché si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la storia del comunismo e del suo pensiero; e poi perché serve a rendersi conto come, dietro a questioni apparentemente teoriche, considerate dai più astruse, si celino precise scelte di linea politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo.

Affinché si renda più comprensibile quanto si discusse allora ricordo brevemente, e non con intenti professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime riguardano la capacità lavorativa umana, con le sue prerogative e abilità specifiche (se ci sono); le seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacità lavorativa, quelle su cui quest’ultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che l’assistono nella lavorazione come la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne è pur sempre alla base), ecc. Tale distinzione va ricordata perché la polemica contro la tesi del primato delle forze produttive si è spesso esercitata con riferimento a quelle oggettive – tutte le ciance sulla necessità di rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute più blande e meno dannose per la natura – mentre esalta, in realtà relegandola al compimento di maggiori sforzi e fatica, la capacità di lavoro del “soggetto umano” (o dell’Uomo).

E’ bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o almeno più che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo l’infausto ’68 (scusate se ormai lo valuto abbastanza negativamente), una vera débacle per il Marx scienziato delle diverse formazioni sociali succedutesi nella storia della società umana; e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie interne ad un’unica religione; la discussione, cioè, avveniva in base ad una terminologia teorica in larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nell’interpretazione e nelle conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci s’intendeva, si sapeva bene dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non riguardante esclusivamente i “massimi sistemi”, le “alte concezioni” dell’Umanità e dei suoi “destini ultimi”.

Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle sue finalità in tema di lotta per il comunismo, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste più. Ci sono filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere le dinamiche dell’attuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx è stato triturato e ricondotto al minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dell’ultimo mezzo secolo. Ogni discussione con simili personaggi appare ormai sterile; allora no, il contrasto tra marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.

 

  1. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i “tesori” di dottrina che comunque venivano esibiti, si può, credo, sintetizzare come farò qui di seguito. I teorici delle forze produttive – cioè del loro sviluppo in quanto molla decisiva (pur con la possibilità di qualche “azione di ritorno”: dai rapporti alle forze) della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dell’intera società – sostenevano tale tesi per giustificare l’attendismo, l’accoccolarsi entro i meccanismi di riproduzione dei rapporti nelle società del campo capitalistico (“occidentale”), coadiuvando di fatto i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per l’immaturità dello sviluppo delle forze in oggetto.

Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che fungevano da sua “cintura protettiva”, soprattutto tesa però a creare una fitta nebbia in cui non si intravedesse il nocciolo centrale: l’attendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto (subordinato) allo sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sull’utilizzo della “democrazia” parlamentare (cioè elettoralistica, dunque nulla a che vedere con il preteso “governo del popolo”) per accrescere l’influenza delle “masse lavoratrici” sulle classi dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali monetari). Si trattava in realtà di captare i voti di queste masse per essere accettati all’interno dei gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla proprietà capitalistica stessa, mentre l’apparato di partito sarebbe divenuto l’organo privilegiato di rappresentanza nella sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante. Non avvertite un che di odierno?

Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le “riforme di struttura” (cardine dell’altrettanto nebbiosa “via italiana al socialismo”), di cui mai si precisò con nettezza il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate per fare scena, e nascondere alla “base” il proprio progressivo cambio di casacca (scrissi sull’argomento un preciso articolo nei primi anni ’70, che è stato pubblicato qualche anno fa nel sito Conflitti e strategie). Infine vi fu il blaterare sull’appoggio all’industria “pubblica”, che doveva servire a contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realtà, era più facile contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti – chiedendo fra l’altro di essere accettati quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica – attraverso contatti con le frazioni dei partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano l’influenza dei) gruppi manageriali delle grandi imprese “pubbliche”. Ve l’immaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito, che facesse in quegli anni carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private? Fiat, Pirelli, Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano “bella mostra” di sé intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo “ultrarivoluzionario” che serviva a far meglio risaltare il “buon senso” del riformismo (su cui poi del resto è ripiegata la stragrande maggioranza degli “ultrarivoluzionari”). Invece, nelle imprese “pubbliche” si trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati nell’imprenditoria “rossa” (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti.

Questa era comunque la “cintura protettiva” – per subornare le “masse” – della più dotta tesi circa la centralità dello sviluppo delle forze produttive: tesi, però, nella versione in uso nei partiti comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI. Nel campo socialista – che tale non era mai stato, ma lo si è capito un po’ tardi; e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta – la tesi in oggetto era presentata in forma diversa. In tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano già per l’essenziale stati trasformati; non però in rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali e politicanti odierni, bensì più semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo. Il problema fondamentale sarebbe stato allora rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare quest’ultimo ai rapporti.

In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (che ci pensavamo autentici marxisti-leninisti) accusato di “revisionismo”, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle forze produttive. Così agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente (campo capitalistico). A est (nel cosiddetto “socialismo reale”), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica ad essi, che avrebbe soltanto provocato l’indebolimento della trasformazione dei rapporti, appunto pensati come già socialisti, da irrobustire invece tramite l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.

Negli anni ’60, in particolare nella loro seconda metà, pur essendomi allontanato dal Pci nel ’63, ero discretamente edotto delle pratiche del partito, “molto produttive” in fatto di poteri acquisiti nell’ambito dell’organizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a Parigi – e non a Cambridge od Oxford o all’MIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica in un paese ormai succube degli Stati Uniti e del campo “atlantico” – perché interessato alla critica, non soltanto politicistica ma pure teorico-dottrinale, delle tesi “revisioniste”, gradual-riformistiche, del presunto comunismo italiano. Quindi, all’epoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata d’esso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si giocò per il veloce tralignare del piciismo in senso filo-“occidentale” (pur in modo mascherato fino allo sfacelo del “blocco sovietico”). Purtroppo ci fu chi nemmeno intuì, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise di fatto nelle mani di certe “trame”, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi già più volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali, appoggiati da buona parte dei “poliziotti” piciisti, con la creazione di un caos in cui chi non si era tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti “di piombo”. Anni in cui il tanto declamato (per incutere timore e violento anticomunismo) “terrorismo rosso” non fu tanto rosso, bensì frutto di trame e lotte segrete tra vari Servizi e forze politiche “occidentali” per arrivare infine, una volta crollato il sedicente “socialismo”, alla svolta in Italia con la distruzione della prima Repubblica e il tentativo di creare un nuovo regime fondato appunto sui postpiciisti (del “tradimento”); tentativo di fatto fallito per l’insipienza e rara inettitudine dei dirigenti di quel partito che mutò nome e colori più di un camaleonte.

Ricordo, en passant, che molti – anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non farò il nome – mi criticarono a quel tempo come “criptorevisionista” per aver compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda – condotta senza alcuna protezione, allo sbaraglio – contro il “revisionismo”, lotta che non poteva che condurre dove ha condotto certi “compagni”: galera o tradimento o tutti e due! Il fatto è che io non sono un vero intellettuale. Sono un prodotto della medio-alta “classe” imprenditoriale e ho sufficiente concretezza per capire che le “idee” non orientano il mondo. Purtroppo sono un prodotto mal riuscito che non voleva essere “padrone”, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi tutti); e purtroppo chi non sta da una precisa parte subisce le più malefiche conseguenze. Così non sono un miliardario (padrone) e nemmeno un “maître à penser” (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno un “esperto”, portaborse di qualche “Maestro” e andato ad “allenarsi” nel mondo accademico anglo-americano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine chiamato a cianciare nei media o infilato in qualche Ministero o simile (sono decine e decine i “chiamati in causa”, perché di questi bassi opportunisti, che hanno impestato tutti i gruppetti “antirevisionisti” e “rivoluzionari” dell’epoca per procurarsi titoli di merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantità superiore ad ogni più sfrenata immaginazione).

 

  1. La critica sostenuta dalla corrente, che poneva i rapporti di produzione in posizione decisiva nella transizione da una formazione sociale all’altra, intendeva riprendere l’orientamento rivoluzionario contro l’ormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (eurocomunismo) – ma anche di molti altri paesi, perfino del “terzo mondo” – e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dell’area a più alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudo-ortodossia leninista o di un più generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o neocoloniale.

Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verità) Prefazione del ’59 di Marx, trattata a volte addirittura da testo non marxista. In un mio libro di alcuni anni fa, “Due passi in Marx”, ho cercato di compiere una più ponderata valutazione di quel testo, considerato la base dell’economicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralità delle forze produttive. In realtà, molti dei critici di questa tesi non erano veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttività come sempre in grado di riprodurre i rapporti (capitalistici) in esse “incorporati”, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per qualche tempo). Si arrivava così, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poiché per distruggere i rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessità di non importare – nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo – le tecnologie dei paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai “bisogni” (del tutto imprecisati e non conosciuti) di quei paesi.

La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto trasformati in catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perciò state necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi rapporti. Nella critica a tale tesi si prendeva atto della capacità di sviluppo del capitalismo, che non ha alcun limite prefissato da nessuna “legge storica” (di tipo economico). Tuttavia, si accreditava di fatto l’idea che tale formazione sociale è la più adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi sempre dall’innovazione tecnico-organizzativa; giacché sviluppo e crescita (che non richiede, di per sé, l’innovazione) non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati. Nel contempo, una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che quest’ultimo riproducesse sempre i rapporti della società “da rivoluzionare”, per cui bisognava essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva così per nulla dalla tesi della centralità delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque l’innovazione tecnica; da cui consegue in genere l’impossibilità di aumentare la produttività del lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e l’introduzione di nuove tecnologie che spesso alleviano la fatica dei lavoratori.

Peggiore ancora è stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli “umanisti”, da coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, sacrificate sull’altare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei “parassiti” dei finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse, capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo così com’esso è!) d’inventività e innovazione sociale; soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a sé tutto l’insieme dell’Essere Umano, dell’intero suo corpo e delle sue capacità cognitive). La Fiera delle imbecillità sessantottarde (e seguenti) è stata ricchissima di prodotti di scarto di “avanguardie” pseudo-culturali di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della società umana. In ogni caso, in simili tesi – e in quelle del “comando” del Capitale, della “sfida operaia” con “risposta” del suddetto Capitale, e via vaneggiando – non c’è alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si esalta la forza produttiva dell’Uomo, o in generale o con specifico riferimento all’Uomo Lavoratore nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del capitalismo.

 

  1. Del resto, anche lo spostamento verso la centralità dei rapporti sociali (da trasformare) non è stato scevro di limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialità ci si è attenuti fondamentalmente ai rapporti mercantili, ai rapporti tra uomini “cosificati” nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica dei rapporti sociali è qui molto evidente; soprattutto però si fa dell’ambito di “superficie” della formazione sociale capitalistica – dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore libertà nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che non ci interessa) – il fulcro della società. Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore “equità” nello “sfruttamento” (creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che è la vera acquisizione di Marx come scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte dell’Uomo, alienato nel mercato. A che cosa si poteva giungere allora? A proporre quell’aberrazione teorica e politica del “socialismo di mercato”, ultimo rifugio (ormai diroccato) di meri “sopravvissuti”, che cercano di difendere il loro passato di fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.

C’è stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro “ultrarivoluzionarismo” parolaio in favore dell’Uomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle “Masse popolari”, ecc.). Si è trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con sostanziale inconsapevolezza della teoria del valore marxiana, che è teoria dello sfruttamento (estrazione di plusvalore, forma di valore del pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parità di forze e quindi di eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualità di merce. Tutto sembrava invece rinviare ad un rapporto di forza nella “lotta di classe” che, ad un certo punto, si trasformava così in entità piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosità.

Si è dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si è anche distinto tra la determinazione d’ultima istanza (dell’economico: ulteriore omaggio all’ortodossia) e la dominanza. Si è allora sostenuto che nella prima epoca del capitalismo (concorrenziale) sia la determinazione d’ultima istanza che la dominanza appartenevano all’economico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda epoca (monopolistica) quest’ultimo restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera della politica e dell’ideologia, condensata nell’indicazione della presenza decisiva degli “apparati ideologici di Stato”. Difficile pensare ai caratteri della determinazione d’ultima istanza, dato che non si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare semplice riferimento alla tecnologia e all’organizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla dominanza nell’epoca del monopolismo, è ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza pensati quali meri rapporti di potere.

Interessante la distinzione tra proprietà (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma giuridica (ma né Marx né alcun marxista pensante l’hanno ridotta a questo), e potere di disposizione o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava però appunto, in definitiva, a quello detenuto negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una più netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti l’egemonia attraverso l’ideologia; e anche nell’ambito di questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga durata (con le loro tradizioni, ecc.) e l’approntamento di ideologie più spicciole, spesso “di moda” per brevi periodi, che hanno solitamente una ben più scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa le intenzioni dei gruppi dominanti (per cui sono spesso fonte di incultura o di “semicultura” come quella tipica di certo ceto medio “sinistrorso” odierno).

Di fatto, lo Stato è divenuto nell’althusserismo un coacervo di apparati dei più svariati tipi, tutti però raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo), dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto “in verticale” tra dominanti e dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo Stato è, sì, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso intreccio di conflitti tra più gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di uno o di alcuni d’essi o il loro accordo compromissorio, ecc. L’insieme di apparati mantiene, anche a lungo, uno “statuto legale” unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e del potere vero e proprio; un potere, inoltre, sempre “corazzato di coercizione”, altrimenti non consente alcun predominio sicuro e prolungato di un dato gruppo sociale. Chi crede in quello decisivo della cultura (della sua egemonia non “corazzata di coercizione”) è il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti, sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali oppositori.

Inoltre, nella storia, i più lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di alto e medio-alto livello; a volte ciò si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui gruppi a più basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per questo, in tali periodi storici, all’interno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quand’anche si situino in posizione d’urto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (“élites”) che vengono infine cooptati verso l’alto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto e violento tra i dominanti, con disgregazione del collante (egemonico) sociale, paralisi del potere coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano l’un l’altro e alla fine si sgretolano), con conseguente crisi aperta del suddetto “statuto legale” unitario che tiene legati i vari apparati, le élites dei raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare altri (e diversi) gruppi dotati di egemonia (culturale) e di potere (politico) in una società nuovamente “normalizzata”, in genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora di una nuova formazione sociale).

 

  1. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha coinvolto principi fondamentali di una teoria – poi trasformata in dottrina – all’origine di complesse pratiche di quello che è stato denominato movimento operaio, in specie di quello di orientamento comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia si è allontanata del tutto dal marxismo. Ci si ricordi in particolare il Congresso del SPD tedesco a Bad Godesberg nel 1959, quando viene ufficialmente dichiarato l’abbandono di tale impostazione teorica e dottrinale. A qualcuno sembrerà forse che quel dibattito, lanciato dal Pci nel 1972-73, non abbia più molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto, pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste (e ambientaliste, ecc.) sono di fatto dentro l’orizzonte della tesi relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non cambia in nulla l’impostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente, il problema della trasformazione dei rapporti sociali – per la qual trasformazione occorre rifarsi alla politica del conflitto; magari non più “di classe”, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi sociali differenti – mettendo così in bella evidenza la vera natura di simili tesi.

Criticare la tesi della centralità delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione della società significa quindi prendere netta posizione contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei capitalisti, una parte dei quali ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di questa società; per cui si dedica a imbrogliare le carte – servendosi anche di “ultrarivoluzionari” pronti ad ogni lucroso servigio (non soltanto in termini di denaro) – pur di distrarre l’attenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nell’attribuire l’attuale crisi ai “cattivi” finanzieri o anche alla “finanza tout court” e ai banchieri o alle manovre monetarie, ecc.

Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della “difesa della Natura”) dipende dalla perdita di fiducia nelle “sorti progressive” del capitalismo; la parte maggioritaria è rappresentata da consapevoli imbonitori, pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le “mode” attuali: le energie alternative (che sono un modo accessorio di guadagnare lauti profitti), i commerci equosolidali, le coltivazioni “biologiche” e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di (inizialmente) semidiseredati, alcuni dei quali diventano agenti discretamente ben pagati dai dominanti. Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovrà attraversare una lunga crisi quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine ‘800.

In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema odierno: l’attuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in posizione preminente gli Stati Uniti, anche se cresce l’attuale multipolarismo, provocando quella frattura interna ai vertici politici di tale paese tutto sommato positiva per i futuri sviluppi della nuova fase in cui stiamo entrando. E’ senz’altro indispensabile coltivare la massima attenzione per la differente politica (in quanto complesso di mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve però indirizzarsi all’analisi e valutazione delle possibilità di un’opposizione alle loro mosse (appunto differenti), senza mai dimenticare che certe critiche alla società attuale, sommariamente indicata come capitalistica, servono in realtà gli interessi di specifici gruppi dominanti o di altri, dimenticando il fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i vaneggiamenti sulla difesa dell’“ordine naturale”  e dell’ambiente o della Umanità in generale.

La conoscenza del dibattito, di cui si sta discutendo, ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono alcuni vecchi arnesi del “rivoluzionarismo” sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che, tanto per andare al pratico, vede la società italiana in mano ai “cotonieri” (spero ci si ricorderà da dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e torbidi pseudo-pensatori del “fu” sessantottismo sviluppavano fino a non molto tempo fa il seguente argomento: se si è contro la decrescita, essi affermavano, allora si è favorevoli alla centralità delle forze produttive in sviluppo. Che si sia per lo sviluppo o per il sostanziale blocco di tali forze, non è affatto il problema centrale e non muta l’orientamento di fondo.

Mettere il segno meno invece che più alle forze produttive serve, in ogni caso, ad allontanare l’attenzione del critico dall’analisi dei rapporti sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi e nuovi arnesi di una rivoluzione soltanto declamata, anzi urlata, è proprio quello di impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un Male per l’Uomo; questo sostengono al massimo i finti rivoluzionari. Nel migliore dei casi, se sono in buona fede, manifestano soltanto insoddisfazione e angoscia. Si arrangino come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro fianco l’orizzonte della morte. Il capitale non c’entra nulla con questo problema, non lo può risolvere, ma nemmeno lo aggrava più che tanto.

I teorici della centralità dei rapporti sociali (di produzione o considerati in senso sociale complessivo) tentavano invece di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati “i revisionisti”, gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano, chi più e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si è mai scagliato contro la crescita della produzione, contro l’innovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto catene che impediscono la loro realizzazione. I “revisionisti”, per giustificare il loro cedimento opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perciò utile non creare disordini, non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di più, cosicché si sarebbe infine (campa cavallo….) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti allo sviluppo.

Oggi, quel dibattito è stato superato – ma non è caduta in disuso la sua utilità, ove attentamente valutata – perché è crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo che, per alcuni sopravvissuti, è ormai una semplice aspirazione sentimentale. Non vi è dubbio che il capitalismo – e fra l’altro la nostra ignoranza è tale che chiamiamo tutto capitalismo, senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali quali il “capitalismo borghese” di matrice inglese e la società dominata dai funzionari del capitale, sviluppatasi negli Usa e ormai diffusa in tutto l’“occidente” – si sta dimostrando una società con molte mostruosità, soprattutto però culturali. Adesso stiamo vivendo una crisi che rimette in discussione molte “conquiste” – di quelle che però i pensatori del disagio trattano da solo “materiali”, quindi quasi da disprezzare – ma non si tratta della fine di una società “cattiva”, da cui poi sorgerà quella “migliore”. E’ una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni sociali, alcune nuove in sul farsi “a est” e tutto sommato tuttora poco conosciute.

Sarebbe indispensabile mettere all’ordine del giorno l’analisi di questi differenti rapporti sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si abbandona ai lamenti sull’Uomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti – e soprattutto i subdominanti, i “cotonieri” reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti – li pagano bene, li ospitano nelle Università (ormai luoghi di abiezione), li fanno scrivere sui giornali, li ammettono in TV, pubblicano tutte le più futili e ignobili aberrazioni del loro pensare con case editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire viepiù il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.

 

  1. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico; fallimento solo se considerato in relazione all’obiettivo di trasformazione sociale che è stato l’intendimento dei comunisti per ben oltre un secolo. Ho già detto in altra occasione che la Rivoluzione d’ottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non è fallita per nulla; ma non era questo l’obiettivo perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo dobbiamo ragionare e trarre le opportune conclusioni. Tenuto conto dei vari “ismi” ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al liberismo è a mio avviso assai più avanti. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato con i suoi “automatismi”, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero all’abbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre più rapaci).

Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi (che non s’inventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarant’anni viviamo in un mondo di perfetti deficienti), dobbiamo sfruttare l’insegnamento del marxismo e del suo indubbio invecchiamento e logoramento – nel promuovere una pratica politica in base a determinate previsioni, rivelatesi assai imperfette, circa la dinamica della società capitalistica – che ci segnala errori di valutazione o comunque l’impossibilità dell’effettuazione di quella pratica con quei dati obiettivi. Secondo me, occorre giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto, è indispensabile smetterla con l’idea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una cosiddetta dinamica che è in effetti una cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e costruite via ipotesi) della struttura (inesistente come tale nel reale).

Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo l’immagine di un movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra “rappresentazione” del reale dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o probabilistiche. Sempre, all’improvviso, appare una discontinuità che ci lascia “sorpresi”; non è, però, in senso proprio una discontinuità; più semplicemente, la continuità costruita, ravvicinando quanto più possibile i momenti successivi, dipende pur sempre dalla struttura posta all’inizio appunto come mera rappresentazione del reale. Poiché quest’ultimo è continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo punto nella necessità di pensare una nuova struttura, che è una differente singolarità da cui riprende avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La “discontinuità” dipende dalla nostra impossibilità di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante. Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere un’attività capace di produrre effetti; così comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui essi non orientano più azioni dotate di senso e di incisività.

Salvo i soliti discorsi “orientaleggianti” – che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finché troveranno di contro a loro questi “santoni” imbelli – il nostro modo di agire nella moderna società non è in grado di discostarsi dal procedimento appena indicato. Essenziale diventa allora prendere atto del problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare decine e centinaia di milioni di anni, non ci interessa “qui ed ora”. E per favore lasciamo stare il fascino della microfisica perché non siamo microbi pensanti. Atteniamoci al nostro mondo – macrofisico, da una parte, e sociale dall’altra – e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica della società.

Se vogliamo elucubrare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della morte con tutto ciò che “ci va dietro”, nessuna obiezione; è atteggiamento assai più che comprensibile, direi doveroso. Quando però riflettiamo sul nostro vivere nel cosiddetto “divenire storico-sociale”, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che pretenderebbero di trascendere l’orizzonte spazio-temporale in cui siamo situati. Sia nel fare storia (pensare il passato) sia nella previsione del futuro, è meglio utilizzare categorie teoriche (più o meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; più elastici saremo, prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva riduzione di presa sulla “realtà”. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato e poi indirizzato come piacerebbe a noi; se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo “imbracato” definitivamente.

Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo. Quest’ultimo è in definitiva incertezza, indecisione, quasi sempre incapacità di scendere in campo prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacità (molto limitata invero) di valutare vari corni del dilemma con moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa quant’altre mai, frase di Voltaire, una frase “buonista”, di piatto conformismo, perfettamente adatta al “ceto medio semicolto” odierno!). Quando si agisce veramente – dove l’azione contempla pure l’apparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti velocisti) – e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere “partito” nel conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i diversi “partiti” e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare all’eventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano alla lunga i vincitori non meno dei perdenti ed esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarità sopravvenienti (che sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrerà ricercare le categorie interpretative, ecc. ecc.

 

  1. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria e nella pratica) del “modello” marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale del capitale, l’evoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione rimasta pressoché immutata da almeno un secolo e mezzo a questa parte. Un conto è impiegare genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione – in strumentazioni produttive ed in moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci – in possesso di particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della società); un altro è indicare un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perché questo è il capitale nella sua precisa accezione marxiana.

Marx studiò il “modello” di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di definitiva affermazione, l’Inghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso si sarebbe esteso a tutto il mondo. In effetti, tale “modello” fu surrettiziamente mutato in corso d’opera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse però troppi problemi al proposito. Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio usò indifferentemente classe operaia e proletariato, e la classe in questione (quella che avrebbe dovuto emancipare tutta l’umanità emancipando se stessa dallo sfruttamento) fu da lui a volte considerata – e i marxisti successivi sempre così la considerarono – l’insieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni fondamentalmente esecutive (e di più basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece riferimento al lavoratore complessivo (“ingegnere e manovale”).

Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza, nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi nell’unità produttiva in senso stretto, nella “fabbrica”, risultato di una storica trasformazione della bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non semplicemente crescita di “forze produttive oggettive”. La fabbrica è il luogo della trasformazione di materie prime in prodotti finiti; si può considerare più genericamente la trasformazione di input in output, in ogni caso è sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma cooperativa, la figura dirigenziale (“l’ingegnere”) e quella esecutiva (“il manovale”).

Il testo più significativo per le indicazioni, comunque sommarie, relative alla formazione dell’operaio combinato, in quanto complessivo insieme di lavoratori direttivi ed esecutivi in cooperazione, è il cosiddetto Capitolo VI inedito (edito molto dopo la morte di Marx), in cui vi sono pure le splendide pagine sulla sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (con passaggio da una determinata forma, transitoria, dei rapporti sociali capitalistici ad un’altra, quella considerata definitiva). Capitolo comunque tolto dall’autore stesso nella pubblicazione del primo libro de Il Capitale, l’unico testo di quest’opera effettivamente e integralmente di Marx. Non mi lancio in illazioni sui motivi del toglimento, non sono “addottorato” in sedute spiritiche; noto solo che non è stato pubblicato, rendendo più difficile quella coerentizzazione cui ho sopra accennato.

Il sottoscritto ha preteso di compierla con un lavoro durato molti anni e che è stato consegnato in centinaia, e più ancora, di pagine, tutte pubblicate negli ultimi 15-20 anni. Le do quindi per conosciute, altrimenti chi vuole si documenti. Ricordo solo che tale dinamica, fondata sulla “spietata” concorrenza intercapitalistica, mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva non tanto il passaggio al capitalismo monopolistico (e poi ancora a quello di Stato, tutto sommato una contraddizione in termini), quanto invece la trasformazione di quel rapporto che è il capitale. Le “potenze mentali della produzione” – in definitiva la capacità di dirigere e innovare nei processi produttivi di fabbrica, di trasformazione di input in output – spettavano nel più antico capitalismo concorrenziale al capitalista, considerato il proprietario privato dei mezzi di produzione.

Con la centralizzazione, tale capacità (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe trasferita, per il Nostro, nell’“ingegnere” divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte dell’operaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto solo proprietario; una proprietà trasformata con l’affermarsi della società per azioni. Detto in termini molto più moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di “rivoluzione dei tecnici” (in realtà un loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella “manageriale” teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ciò discendono le conclusioni di Marx in merito alla trasmutazione della società capitalistica in socialistica – un cambiamento da lui già creduto in atto ai suoi tempi (si legga anche soltanto l’ultimo paragrafo del capitolo sull’accumulazione originaria) – che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei scritti.

Una volta coerentizzato il “modello” marxiano di avvento del capitalismo, di suo sviluppo e di transizione ad altra società – sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per quanto concerne l’aspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici modificazioni delle “forme di mercato” – si comprende più facilmente l’impasse della lotta comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Può restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, sentimenti umanissimi; anche perché i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come sostengono gli incalliti delinquenti che si sentono appagati in questa società! Se però da questi sentimenti si insiste a volere trarre l’indicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il comunismo, dobbiamo allontanarci con molta decisione e chiarezza critica dagli “zombi” incapaci di afferrare la realtà del loro essere morti.

 

  1. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del “modello” marxiano – consegnata per il momento ai dieci video dedicati alla discussione su Marx – al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessità di superarlo, senza semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito scientifico e l’intento critico-problematico in merito alla doppia faccia della formazione capitalistica, con la sua “superficie” (soprattutto mercantile) e le sue “viscere profonde”, dove si agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta formazione sociale sia l’obsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata, oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica.

Mi è sembrato non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo d’uccello. Tuttavia, m’interessava soprattutto metterne in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto le modalità secondo cui avvenivano allora le discussioni in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa serietà e lo stesso rigore nei dibattiti (rari) che ancora ci sono. Bisogna inoltre ben dire che non vi è più, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna società, alcuna teoria comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di “revisionismo” o di “estremismo infantile”, secondo l’abitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere pur nelle più aspre diatribe. Era inoltre chiara a chi partecipava al dibattito – a parte la solita “base militante”, soprattutto interessata a quello che dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi soprattutto dopo il ’68 – la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento operaio e all’evoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.

Infine, non si creda che alcune delle misere tesi venute a quel tempo alla moda e ancora in piena vita – tipo la decrescita o l’eco-sostenibilità e altre piacevolezze di questi tempi di degrado intellettuale e culturale – non abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento dell’intelligenza teorica dei problemi. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo più o meno aperto, alla totale dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra interessi, sempre avvolti da specifiche ideologie, di dati gruppi sociali, in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono al 100% le danze in questa fase storica. I “deboli” critici del capitalismo diventano semplici detrattori di ogni modernità e progresso (considerato un termine osceno anche soltanto in termini del tutto “materiali”) perché non comprendono più nulla della necessità di andare ai rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una conoscenza via ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessità di revisioni o di drastici cambiamenti di indirizzo. Si preferisce oggi soddisfare l’orrendo ceto medio semicolto, il quale magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le più stupide insulsaggini che da quelle “scatolette” sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali che hanno ormai l’intelletto in completa défaillance.

Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendete questo mia memorizzazione come una vacanza, ma non credo sia priva di interesse per chi capisce come la teoria non sia una fisima da intellettuali. Anzi, oggi sono proprio quelli che passano per intellettuali presso l’incolto “volgo” i più carenti in fatto di teoria. Non pensano, sputano quello che ritengono più facile far passare per scienza, riducendo quest’ultima (basata su ipotesi sempre rivedibili) a certezza assoluta e indiscutibile, cui il “popolo” deve sempre adeguarsi. Poi ci sono i “tecnici”, anche peggiori nella loro limitatezza di visione e nell’arroganza e presunzione con cui “sparano” i loro verdetti e le loro ricette quasi che la lotta politica, oggi sempre più acuta e spesso sconclusionata per mancanza di ampie visioni e di solidi appoggi sociali, sia riducibile alle formulette imparate in Università che sarebbero ormai da chiudere, a partire da quelle “ricche e famose” anglo-americane. Viviamo un’epoca di transizione, ma particolarmente povera di intelligenza. Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva intellettualmente in un ben diverso ambito, assai meno deteriorato. Non parliamo della prima metà del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma ricordando; e facendo tesoro dei ricordi!

 

 

LA PEGGIORE DI TUTTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PEGGIORE DI TUTTE

È implicito (sempre) ed esplicito (molto spesso) che, quando le èlite del centrosinistra italiano si lagnano del governo del cambiamento, sono persuase che il loro modo di governare era il migliore e che il popolo italiano è stato irriconoscente a dar loro il benservito.

In realtà tale convinzione desta stupore, dati i risultati economici più che mediocri della classe dirigente della seconda repubblica, centrodestra compreso (anche se responsabile minore); e il perché lo spieghiamo.

Devo premettere di non essere convinto che la struttura economica determini le sovrastrutture (non sono marxista); e, di conseguenza non ritengo che il progresso o il regresso di una comunità si misuri (solo) in termini economici piuttosto che politici, culturali, morali, tecnici. Ritengo il dato economico non determinante ed esclusivo, ma comunque molto importante, e che abbia quanto meno il vantaggio di potersi esprimere in numeri, meno soggetti a manipolazioni e valutazioni soggettive (se i conti sono fatti onestamente).

Fatta questa premessa possiamo dividere le classi dirigenti, ovvero le èlite, la classe politica, (e anche la formula politica) dall’unità in poi in quattro “fasi”: la monarchia liberale (1861-1911), il regime fascista (1922-1943); la “prima repubblica” (1946-1994); la “seconda repubblica” (1994-2018), e  vedere quanto in ciascun periodo si sia incrementato il PIL individuale, indice privilegiato del benessere.

Orbene nella monarchia liberale l’incremento del PIL pro-capite fu dello 0,6% annuo, più modesto nell’ ‘800, molto più deciso nel periodo giolittiano (1,6% annuo).

Nel periodo fascista l’incremento continuò; anche se fu abbassato dalla depressione del 29-32 (-7,2%) e dalle guerre, soprattutto quella d’Etiopia (-4,3%) il  risultato, fino al 1939 fu di un aumento di circa il 50% rispetto al 1919. Con la seconda guerra mondiale si ridusse di quasi la metà.

L’età d’oro del PIL pro-capite fu quella della “prima repubblica”: l’aumento nel periodo fino al 1973 si attestò sul 5,3% annuo; dal 1973 al 1994 in un più modesto – ma rispettabile – 2.5% annuo.

Nella seconda repubblica la musica purtroppo cambiava: ad un modestissimo aumento dello 0,3% annuo, faceva riscontro un incremento del prelievo fiscale, anche in brevi periodi di PIL pro-capite in picchiata, come nella crisi del 2008-2014 in cui il calo è stato del 12,8%.

Resta il fatto che durante la “Seconda repubblica” i risultati, in termini di benessere, sono stati i peggiori di tutti i periodi politici in cui abbiamo suddiviso la storia dell’Italia unita.

Pertanto, non si capisce perché l’elettorato italiano non avrebbe dovuto concludere che i cattivi risultati non dovessero dipendere (se non totalmente, in buona parte) dalla mediocrità – politica e culturale – della classe dirigente. Semmai desta stupore la pazienza e la mansuetudine di un popolo che sopporta per un quarto di secolo l’inconsistenza di élite gàrrule e autoreferenziali.

Certo queste rispondono: noi siamo stati i più buoni. Abbiamo aiutato banche straniere e italiane, migranti africani e mediorientali, e soprattutto i tax-consommers, ossia la corte dei miracoli che prospera sul bilancio pubblico. Bilancio che Giustino Fortunato, oltre un secolo fa, definiva “la lista civile della borghesia parassitaria”, e che tale è – in larga parte – rimasto.

Buonismo, angelisme, legalitarismo sono le derivazioni odierne che servono ad occultare i risultati della classe dirigente in via di detronizzazione (il vertice – in gran parte – già licenziato, l’aiutantato no), sotto il profilo economico la peggiore, sia nel tempo che nello spazio, tenuto conto che nello stesso periodo 1994-2018 i risultati economici dell’Italia sono stati i peggiori sia dell’UE che dell’eurozona.

Onde spiegare ad un italiano indigente, a un “esodato”, ad un creditore della P.A. (e così via) che i sacrifici sopportati sono stati disposti per bontà d’animo verso migranti ecc. ecc., è assai difficile perché non si giudica sul criterio gnoseologico vero/falso o con quello etico (già più “vicino”) buono/cattivo ed è quindi irrilevante (o poco rilevante). Perché funzione della politica è proteggere la comunità e il di essa benessere e così gli interessi (pubblici) di questa e dei cittadini, come sostenuto da secoli di pensiero politico realista, da Machiavelli e Hobbes a Meinecke e Schmitt, passando per Richelieu e Federico il Grande (tra i tanti).

Fare della politica una litania di buone intenzioni è funzionale soprattutto ad individuare l’avversario in colui che non manifesta altrettanta devozione; al momento, soprattutto Salvini, che “devoto” non è ed è soddisfatto di non esserlo: ma, piuttosto, ricorda ogni giorno di difendere gli interessi degli italiani.

Speriamo che lui e Di Maio li perseguano con la stessa coerenza ed efficacia di altri governi europei, non di quelli italiani che li hanno preceduti.

Teodoro Kltsche de la Grange

DALLA STORIA PROFONDA, DI PIERLUIGI FAGAN

A proposito di contesto e induzione. Il ruolo della componente soggettiva?_Giuseppe Germinario

NOVITA’ DALLA STORIA PROFONDA. E’ ormai in pieno corso una rivoluzione paradigmatica nel campo della storia umana pre-antica. L’ Antichità e la sua storia narrativa, inizia con le prime forme di testimonianze scritte, circa cinquemila anni fa. La storia profonda è quella che la precede e sconfina con la paleoantropologia, avvalendosi di archeologia, geologia, biologia, climatologia e tutto ciò che può aiutare a ricostruire il quadro. Il processo è fortemente abduttivo, secondo Peirce, la vera forma del pensiero scientifico, l’unica forma che davvero produce nuova conoscenza.

Il focus della rivoluzione paradigmatica è nel periodo che va dal 15000 a.C. al 3000 a.C., un periodo prima segmentato tra Paleolitico superiore, Mesolitico e Neolitico, classificazioni che hanno due problemi collegati: le due principali (paleo-neo) vennero fatte nel 1865 quando le prove dei tempi addietro erano ben scarse e prese in esame solo per i cambiamenti nella lavorazione della pietra. La mentalità dominante al tempo era prettamente da Rivoluzione industriale. Oggi usiamo una grandissima massa di scavi e reperti, un grande ventaglio di discipline che ci raccontano cose dei tempi profondi che esulano dalla morfologia dei soli strumenti di pietra. Scaviamo un po’ dappertutto e sono spuntate fuori talmente tante incongruenze con la narrativa consolidata (Kuhn), da necessitare quello che oggi è il salto paradigmatico ad una nuova ricostruzione comprensiva.

In breve, non c’è stata nessuna rivoluzione neolitica, l’agricoltura non è stata “inventata” ma praticata per 10.000 anni prima come cura del selvatico, poi orticultura, poi agricoltura intenzionale, sempre come integratore alimentare di un dieta molto variata (caccia, pesca, raccolta, vari tipo di coltivazione) offerta dalle “terre umide”, prima di diventare l’unica forma di sussistenza. Ciò si è accompagnato con la domesticazione animale che è altrettanto longeva. La stanzialità è altrettanto antica, ancora quattromila anni prima della nascita del binomio stabile agricoltura-stato, c’erano città di 5000 abitanti che o non coltivavano nulla o molto poco.

Hobbes, Locke, Vico, Morgan, Engels (Marx), Spencer, Spengler, sulle orme di Giulio Cesare, hanno confezionato una narrativa moderna retro-proiettata su un telo bianco passivo che ha dato l’illusione di conoscenza reale quando in realtà si trattava di cinematografia. Non fu l’innovazione umana a cambiare la storia, né il motore primo fu il modo di produzione che cambiò come adattamento e non di sua spontaneità, né tutto ciò fu un progresso ma semmai un triste adattamento a condizioni sempre più strette, la faccenda durò migliaia di anni.

Nella Mezzaluna fertile allargata, il motore degli eventi del tempo profondo fu un meccanismo di correlazioni tra geografia, demografia, ambiente-clima. Il clima che s’avviava alla de-glaciazione subì uno shock tra il 10.800 ed il 9.600 a.C., poi una lunga fase “paradisiaca” (a cui si riferiscono tutte le mitologie antiche inclusa la Genesi che è solo quella che qui da noi si conosce meglio) e di nuovo un beve shock intorno al 6000 a.C. . Le comunità umane si mossero nei territori in virtù delle migliori ecologie locali, crescendo con una certa continuità. Più crescevano e si stanzializzavano, più aumentavano le epidemie, più aumentava la fertilità riproduttiva per compensare. Dopo il 6000 a.C., clima più secco, aridità dei terreni dovuta a molti fattori, rendimenti decrescenti della sussistenza mista, portarono ad un ricorso sempre maggiore all’agricoltura. Questa, tra l’altro, retroagì sulla complessione umana fragilizzando le ossa, rimpicciolendo il cervello, de-complessificando la mente umana esternalizzando la complessità nella struttura sociale (divisione del lavoro necessitante prima coordinamento e poi gerarchia), tutte dinamiche che rinforzavano il processo che le causava (rinforzo di feedback).

Tanti stimoli si possono trarre da questo cambiamento paradigmatico in corso: come usiamo le discipline se in forma integrata o imperialistica (oggi ad esempio l’economia), come consideriamo il tempo storico (a lunghe transizioni o a balzi “rivoluzionari”), quante variabili inseriamo nei modelli descrittivi (sistemica e complessità delle descrizioni) (da dopo McNeill ovvero da dopo quello che i meno addentro alle faccende degli storici scambiano per dopo Diamond, le epidemie sono diventate un fattore decisivo prima del tutto ignorato), l’antropocentrismo motore mosso poi da chissà cosa lascia il campo all’ adattamento condizionato dal fuori di noi, cambiano modi di considerare la società complesse ed i modi di produzione, la gerarchia e la guerra, la convivenza interna alle società, tra le società tra loro, tra le forme associate di vita umana e l’ambiente in cui crescono o decrescono periodicamente, per non dire delle trasformazioni di cultura materiale e non, incluse le concezioni metafisiche, teleologiche, escatologiche ed il senso della faccenda se ce ne è uno o più d’uno o nessuno.

Il libro postato (che sto studiando) non è che una delle tante ricostruzioni aggiornate che contemplano alcuni importanti risultati della ricerca degli ultimi venti anni, non è detto sia il miglior modo di interpretare i fatti ma i fatti usciti dalla ricerca sono tutti riferiti e quindi aiutano a farsi una idea complessiva. Qui una recensione da parte di un grande archeologo (che stimo molto) diverso dall’Autore, J.C. Scott, che è un professore di scienze politiche nonché antropologo di tendenze anarchiche di Yale, fortemente influenzato da Karl Polanyi.

Si cambia il modo di leggere il passato, quando si è spinti a trovare nuovi modi di leggere il presente ed il futuro. Oggi è uno di quei momenti. Meno male che c’è almeno un campo in cui il pensiero umano prende il moto ondoso, la bonaccia intellettuale prelude a morte certa.

Consiglio la lettura di questo articolo prima del libro: https://www.lrb.co.uk/…/steven-mit…/why-did-we-start-farmin

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”, di Fabio Falchi

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/10/multipolarismo-e-pragmatismo.html?fbclid=IwAR2FkxZRIOgVgpP7B-1BXLecqoDzwi6g9MSQGZ5rxLF_cZI1dIEPqvaMvbw

La vittoria di Bolsonaro difficilmente potrà riportare l’America Latina ai tempi dell’operazione Condor, ma certo segna l’inizio di una nuova fase storica per il continente americano dopo la breve fase del cosiddetto “socialismo dell’America Latina”, che comunque non potrà essere cancellata. Facile prevedere perciò anche per l’America Latina un periodo contrassegnato da nuove lotte e aspri conflitti, ma si può pure ritenere che la politica degli Usa nel continente americano dipenderà sempre più dai gruppi subdominanti latino-americani.
In ogni caso, la partita decisiva nei prossimi decenni sarà (salvo che non vi siano mutamenti improvvisi e di portata mondiale) quella in Estremo Oriente, che assorbirà sempre più le limitate risorse degli Usa. Pure in Medio Oriente del resto gli Usa si vedono già costretti a dipendere sempre più dai loro alleati (Israele e Arabia Saudita – non a caso Obama, con l’accordo sul nucleare con l’Iran, aveva cercato di evitare che la politica di questi Paesi potesse compromettere gli interessi degli Usa a livello globale) e qualcosa di simile vale pure per l’Europa.
Lo scontro in atto ai vertici della potenza egemone peraltro riguarda la ridefinizione del ruolo degli Usa anche a livello geopolitico (che non si può separare dalla questione dell’economia degli Usa) e in particolare il confronto con la Russia che per la parte del gruppo dominante ostile a Trump è ancora il nemico principale, anche se al riguardo la stessa politica di Trump è tutt’altro che coerente e chiara. Di fatto, gli Usa a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso hanno cercato di risolvere il problema del loro declino relativo (Paul Kennedy) mediante l’espansione del capitalismo finanziario (Giovanni Arrighi), puntando tutto sulla globalizzazione made in Usa. Il crollo dell’Urss favorì una “accelerazione” di questa politica e la prima guerra del Golfo illuse gli Usa di potere pure ridefinire la carta geopolitica mondiale con interventi di carattere militare. Invero, questa politica – confermando il giudizio di Fernand Braudel secondo cui la prevalenza del capitalismo finanziario è il segnale dell’autunno della potenza egemone – ha favorito l’eccezionale crescita della Cina, ha generato instabilità a livello mondiale, ha indebolito il sistema socio-economico americano, ha evidenziato la debolezza del sistema militare degli Usa per quanto concerne il controllo diretto di un Paese (Afghanistan e Iraq) e ha creato un caos che è stato sfruttato sul piano geopolitico sia dalla Russia che da potenze regionali, e su quello economico (oltre alla Cina e altri Paesi asiatici) soprattutto dalla Germania, cui tutto o quasi era stato concesso per saldarla all’Atlantico dopo il crollo dell’Urss.
In questo contesto non sarà facile quindi per gli Usa gestire la crisi della Ue, che non è altro che una aggregazione di Stati nazionali in lotta tra di loro (ossia una nullità geopolitica e militare) ed è prevedibile che anche in Europa gli Usa dovranno contare sempre più su gruppi subdominanti. Tuttavia, mentre il gruppo obamiano-clintoniano (per capirsi) sostiene decisamente l’euroatlantismo in funzione antirussa, secondo la logica deterritorializzante tipica del predominio del capitalismo finanziario, viceversa la politica di Trump cerca (non senza contraddizioni) di conciliare la politica di potenza degli Usa con una forma di riterritorializzazione della politica e dell’economia che vada a vantaggio della società americana nel suo complesso.
Comunque, sia che prevalga la politica di Trump sia che prevalga quella dei suoi avversari, è inevitabile che gli Usa si imbattano nei limiti della propria potenza, limiti che dipendono sia da una “sovraesposizione imperiale” dell’America sia dalla crescita di altre potenze. In altri termini, Trump o non Trump, il multipolarismo non solo è già una realtà, ma è pure una realtà che genererà nuovi conflitti e numerose scosse di terremoto geopolitico e geo-economico. Che questo possa pure essere occasione di crescita politica ed economica per diversi Paesi lo si può concedere, ma certo sempre più si evidenzieranno i difetti dell’architettura politica ed economica della stessa Ue, i cui centri di potere sono legati a doppio filo con la parte dello Stato profondo americano ostile a Trump.
D’altronde l’Ue è imperniata sulla supremazia dell’area baltica, mentre l’area mediterranea è quella ormai che conta di più sotto il profilo geopolitico e geostrategico. E nei prossimi decenni l’“esplosione” demografica dell’Africa, potrebbe avere effetti devastanti per il continente europeo, tanto più se si considera il totale e vergognoso fallimento della Ue nel controllare l’immigrazione irregolare. In pratica, l’unica strategia degli eurocrati per quel che riguarda l’area mediterranea pare consistere nel dare carta bianca alla Francia, la cui politica nel continente africano oltre ad aver già danneggiato gravemente l’Italia è del tutto inadeguata a risolvere gli attuali problemi dell’Africa. Invero, l’ambiziosa e velleitaria politica della Francia, che da tempo non è più una grande potenza, potrà solo rendere ancora più difficili i rapporti tra l’Europa e l’Africa.
Pertanto, pare logico che la politica di un Paese come l’Italia nella presente fase storica dovrebbe essere il più possibile “pragmatica”. Nondimeno, è difficile non riconoscere che la politica dei giallo-verdi, benché sia attenta, a differenza dei governi precedenti, a difendere l’interesse nazionale, mostra già molteplici carenze sotto il profilo strategico. La mancanza di una vera strategia politica da parte dei giallo-verdi del resto è confermata dalla manovra del governo, che punta soprattutto sul consenso elettorale.
Una legislatura dura (in teoria) cinque anni. Vi era quindi tutto il tempo per rivedere la riforma delle pensioni e per introdurre il reddito di cittadinanza (al riguardo si sarebbe potuto agire in “modo graduale”) mentre essenziale sarebbe stato puntare subito su investimenti nella R&S, nelle infrastrutture e soprattutto nei settori strategici (energia, robotica, sistemi di difesa ecc.) e al tempo stesso ridefinire gli equilibri di potere nel nostro Paese, adottando nuovi dispositivi di legge e una serie di misure di carattere politico-culturale (a cominciare dal settore della comunicazione, sostenendo la piccola editoria e moltiplicando centri studi e di ricerca in funzione di un nuovo corso politico e culturale).
In questa prospettiva, lo scontro con gli eurocrati avrebbe avuto ben altro significato (e lo stesso vale per la possibile adozione di nuovi strumenti finanziari). In sostanza, barcamenarsi tra Scilla e Cariddi non significa essere “pragmatici” ma solo navigare a vista.

IL LEGGIADRO FILO SPINATO, di Pierluigi Fagan

IL LEGGIADRO FILO SPINATO.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan?__tn__=%2CdC-RH-R-R&eid=ARCw5TGJ87JUTKj9tmT0_T6Wp4SJHFgCRC0vldc_c7P3znfOgHhwmobhgTsbuxt05tL6ZMVd2Ai0fUIB&hc_ref=ARRu_WEX732vEx9UNlFm3oi4_9TZBZGQUAzKJz71m8AT3o38F94hTd9-5t7vAJpN4b0&fref=nf

La geopolitica ha alcune costanti di lungo corso per via della parte “geo” che ne compone l’oggetto, la geografia fisica, in genere, non cambia. Così dalla Dottrina Monroe, ovvero dal 1823 (poi allargata dal Corollario Roosevelt 1904), ovvero da poco dopo che gli “americani” hanno avuto uno stato diventando quindi soggetto geopolitico, gli USA ritengono di dover esser il centro di un sistema che ha tutto intorno due fasce a cui non ci si deve/può avvicinare: 1) tutta la terra continentale (tant’è che chiamiamo “americani” gli statunitensi); 2) tutti e due gli oceani su cui affacciano.

Entro questi spazi, le sovranità le decidono loro se non direttamente, almeno evitando il formarsi di backdoor per eventuali nemici. Molti anni dopo, ci hanno provato anche i tedeschi a tirar fuori una teoria del genere pervertendo il concetto di Lebensraum (spazio vitale) che in verità aveva origini bio-geografiche o con Schmitt col concetto di “grande spazio”. Ma di nuovo, ciò che la geografia e la storia permettono in un contesto, non è detto si possa replicare in altro contesto. Non c’è nulla di più resistente all’idealismo della geografia fisica.

Gli USA si sono momentaneamente allontanati dall’applicazione della Dottrina Monroe in coincidenza dell’affermarsi della strategia globalista che aveva una sua convinzione post-materialistica quindi a-geografica che alcuni teorici liberali continuano a teorizzare (con sempre minor convinzione). Raggiunta una inedita massa critica di governi di centro-sinistra o sinistra-sinistra al 2008, è poi iniziata la Reconquista che ha segnato punti importanti in Cile, Argentina ed ora Brasile. Il Latinobarometro del 2016, censiva un 28% di elettori di centro-destra e solo il 20% di centro-sinistra, con ovviamente un baricentro di 36% centrista, spesso inclinato più a destra che a sinistra.

Alcuni indicano a spiegazione un mix fatto di sette protestanti, insopportabilità della criminalità e corruzione, incapacità della sinistra di far funzionare il capitalismo secondo i suoi spiriti animali, crollo dei proventi da vendita di materie prime che rimangono il principale asset latino-americano. Morti Kirchner, Chavez, Castro e con Lula in galera, le seconde generazioni non hanno ben performato. I leader della speranza hanno un certo vantaggio su i manager della gestione che quelle speranze, in genere, debbono ridimensionare.

Archiviato il trionfo di Bolsonaro, ora la partita si giocherà tra il mantenimento delle promesse fatte dalle destre coadiuvate ovviamente dagli Stati Uniti da vedere però quanto in grado di condividere la loro ricchezza vista la postura neo-egoista da una parte e il messicano Obrador ragionevolmente social-democratico dall’altra. Il crollo dei prezzi delle materie prime permane (con grande gaudio dei statunitensi nel frattempo riconvertitesi al materialismo-realista che a questo punto si riproporranno come principale/unico partner commerciale dotandosi di una congrua riserva utile a trincerarsi maggiormente in casa visti gli incerti tempi multipolari), la contrazione generale degli scambi internazionali pure, fintanto che gli statunitensi continueranno a drogarsi intensamente la criminalità certo non diminuirà, il Venezuela (preda ambita per via delle corpose riserve petrolifere) cadrà e la Cina continuerà a corteggiare l’area offrendo una alternativa sempre più difficile da perseguire.

Nel migliore dei mondi immaginabili ma non necessariamente possibili, la vera alternativa sarebbe la costituzione di uno stato latino-mediterraneo europeo dove portoghesi, spagnoli ed italiani potrebbero rappresentare l’alternativa ideale per un sistema di co-evoluzione basato su familiarità, reciprocità e differenza. In fondo, la Monroe che è una dottrina non solo geografica ma geostorica, venne fatta ai tempi proprio contro gli europei perché legami e relazioni stratificate nel tempo storico, contano.

Il tempo e gli uomini ci diranno come andrà a finire, per ora “Monroe is back” (che poi in realtà la dottrina era di J.Q.Adams, quinto presidente USA).

«Oggi […] le terre anche loro son libere, salvo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato.»

(Carlo Emilio Gadda, La meccanica, 1929)

Identitari e globalisti 3a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la terza parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

1a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

2a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/14/identitari-e-globalisti-2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Il nemico principale dei liberali italiani.

Quanto ai liberali italiani, l’individuazione del nemico principale è agevole. L’Italia è tra i primi dieci Stati del pianeta (su quasi 200) per prodotto nazionale lordo; tra i primi venti per il P.I,L. (Prodotto Individuale Lordo). Ma se passiamo a quelle classifiche dove ad essere presi in considerazione sono attività e funzioni pubbliche, raramente andiamo oltre metà (dai primi posti passiamo alle ultime file). Anche se certe graduatorie possono non apparire del tutto convincenti, le posizioni analoghe raggiunte, la distanza che le separa da quelle “private”, e la concordanza dei dati (da quelli sulla giustizia, a quelli sui tempi della p.a., da quelli sulla morosità del settore pubblico a quelli sul numero dei dipendenti in rapporto ai servizi) rendono evidente che il problema principale della società italiana è costituito dagli apparati pubblici, dal loro costo, dal rapporto di questo con il rendimento (la “macchina di Fortunato”), dalla scarsa responsabilizzazione, dalla tendenza a sottrarsi al controllo politico, a quella di approfittare delle stesse insufficienze per limitare la libertà dei cittadini e l’efficienza economica. Non stupisce che tali apparati – spesso parassitari – prelevino una quantità crescente di risorse (da un quarto del PNL di mezzo secolo fa alla quasi metà del 2015) e che tale prelievo sia aumentato durante la crisi economica (a PNL decrescente corrisponde una tassazione crescente).

Con la crisi del 2008, il “golpe” dello spread nel 2011 e la svendita dei titoli del debito pubblico, al parassitismo poliburocratico si è sommato quello della finanza (internazionale e non), rendendolo ancora più intollerabile.

Qualche anno fa un Ministro, con un’inconsapevole ironia, disse in Parlamento che “pagare le tasse è bellissimo”; da tutti i dati risulta che è sicuramente bellissimo, ma per chi ne approfitta, non per chi le paga; per quest’ultimo (cioè la grande maggioranza) è sicuramente inutile, perché ne riceve di ritorno solo una frazione di quel che da.

Anche (e soprattutto) perché, diversamente da un tedesco, francese o spagnolo, prestazioni e servizi pubblici erogati a un italiano sono generalmente di livello qualitativo e quantitativo inferiore, peraltro non in pochi casi peggiorato proprio quando ne erano aumentati i “corrispettivi”.

La difesa parlata del Welfare ha aumentato il volume quando ne calavano le prestazioni: tanto chiasso è stato in tutta evidenza programmato e gestito per occultare la prassi opposta (come diceva Aldo Bozzi, in politica le parole servono a coprire i fatti). Ciò non comporta solo un espropriazione ossia quello che Miglio chiamava “rendita politica”, declinata nella storia in tutte le forme e modi (dal saccheggio allo sfruttamento durevole dei governati), ma anche una perdita generale di libertà. E non solo economica: il parassitismo poliburocratico va riducendo anche gli spazi di libertà non economica. Ad esempio una delle vie indirette a tal fine più praticate negli ultimi vent’anni dalle élite decadenti è stato di peggiorare l’accesso alle procedure giudiziarie per la riscossione dei crediti verso le PP.AA., di guisa da procrastinarne il pagamento; o anche la riduzione ai tassi minimi degli interessi legali, che essendo lo Stato il maggior debitore, significa azzerare (o quasi) il costo – a carico dei creditori – del mantenimento del debito (e quindi incentivarlo). Se un Puviani redivivo dovesse riscrivere L’illusione finanziaria vi dedicherebbe un capitolo.

L’altro aspetto preoccupante è che le prassi predatorie, praticate dal regime decadente hanno consumato quella legittimità che, con una certa fatica, la c.d. “prima Repubblica” si era faticosamente conquistata. Anche se quella legittimità era stata lungi da essere piena, ma piuttosto ricordava – anche ai tempi di De Gasperi ed Einaudi – quella che Ferrero definiva “quasi-legittimità”, il consenso ai partiti di sistema (cioè i partiti del CLN) era comunque enormemente superiore all’attuale. In definitiva, ad impiegare l’indice elettorale, tra il 90% dei votanti degli anni ’70-’80 i partiti di “sistema” ottenevano circa l’80-90% dei suffragi (cioè il consenso di due terzi abbondanti degli elettori); oggigiorno i partiti non identitari ossia PD, spezzoni di centristi e Forza Italia ottengono circa il 45% dei voti espressi, questi pari a meno di 2/3 degli elettori. Cioè il consenso di circa il 30% dei cittadini.

Che poi la scarsa propensione a votare riduca anche il consenso dei partiti “populisti” è una magra consolazione: perché significa che recarsi a votare è considerato dagli elettori sempre più inutile. Disaffezione dalla politica che corrisponde a disillusione e spesso a disperazione per chi non vede via d’uscita e proposta credibile ad una crisi economica ed epocale.

E non ha neppure la consapevolezza e la visione delle soluzioni, né a livello di base né molto spesso a quello di vertice.

Nei partiti identitari se Lega e Fratelli d’Italia hanno una visione e un programma (abbastanza) coerente, anche se talvolta non liberale, quelli dei grillini sono assai più sfocati, equivoci, talvolta ondeggianti tra utopia e strumentalizzazione di idola consunti.

Va da se che la transizione in corso provocherà alle prossime elezioni politiche e nel Parlamento futuro, o una (risicata) maggioranza dei populisti o – meno probabile – un’altrettanta modesta maggioranza da “antico regime” ascrivibile probabilmente alla coalizione tra leghisti, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Comunque un paese spaccato in due.

Ma in una situazione difficile i liberali possono offrire le fondamenta di soluzioni condivise malgrado il cambio di discriminante: tutela dei diritti fondamentali (del cittadino e non solo dell’uomo), distinzione dei poteri, democrazia rappresentativa, funzioni pubbliche realmente tali e non appropriate (di fatto) a corporazioni, lobbies e così via. Sono le costanti che hanno sorretto il liberalismo in quasi cinque secoli, malgrado le transizioni tra discriminanti, che hanno arricchito nella storia il bagaglio ideale e la prassi del liberalismo, facendolo diventare common sense. Chi oggi contrasta, nel mondo “occidentale” il diritto di libertà religiosa o di pensiero? Chi il diritto di voto uguale per tutti? Chi la solidarietà (fraternité) fra cittadini in uno Stato sociale (caso mai sono le forme o la misura ad essere discusse)? Anche la discriminante identità/globalizzazione sarà ricomposta e conciliata.

Fine al quale il liberalismo italiano, per la sua caratteristica storica nazionale, intesa come tutela dell’esistenza e specificità della comunità tra altre comunità di pari livello e dignità, alieno da volontà di dominio e sopraffazione è particolarmente vocato. La servilità che Orlando vedeva nel secondo dopoguerra come tara (anche delle future) classi dirigenti della Repubblica può ormai solo accompagnare ed aiutare il processo di decomposizione comunitaria.

L’essenziale è tener la testa rivolta al futuro, e non averne paura. Peggio ancora, adagiarsi sul passato. Al termine di un ciclo politico, quando la decadenza stessa è alla frutta, guardare al passato significa solo ritardare la nascita del nuovo. Evento che non dipende tanto dalla volontà umana, quanto da regolarità politiche e storiche.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA ECONOMICA, di Piero Visani e l’arma economica in occidente di stratpol

UNA CHIOSA TEORICA E UNA RICOSTRUZIONE SUL CAMPO. La traduzione, per mancanza di tempo, è basata su di un traduttore. Appena possibile saranno corretti gli errori più vistosi_Giuseppe Germinario

Guerra economica

       E’ del tutto evidente, per chi non è (o  non vuole essere…) cieco, che ci stiamo addentrando vieppiù in un profondo scenario di guerra economica. Chi scrive non ha competenze al riguardo per esprimere pareri, ma sa bene che la guerra è, innanzi tutto, un confronto di forze morali, per le quali è comunque preferibile trovare delle baionette (o surrogati attuali).
       In secondo luogo, tale guerra deve essere accompagnata da tattiche e strategie di movimento, non statiche, per mostrare al nemico volti costantemente nuovi e capaci di rinnovarsi.
       In terzo luogo, ogni strategia seriamente definibile come tale ha bisogno di alleati, perché il “fare da sé” può essere bellissimo, ma non quando si è deboli. Ne consegue che una guerra di movimento – che spesso e volentieri potrebbe diventare guerriglia, perché, stante la nostra condizione di asimmetria, occorre ricorrere alla tattica tradizionale dei più deboli – deve cercare continuamente alleati e alleanze, in forma scoperta quando lo si vuol far sapere al nemico e in forma coperta quando gli si vuol fare male, e molto.
       Una condotta operativa del genere richiede la massima flessibilità e la massima mancanza di scrupoli, perché è una lotta per la vita, di una Nazione e di un popolo.
       Non credo che questi concetti siano ancora chiari, a molti che pur militano sul medesimo versante politico, ma è in un’ottica di guerra economica che occorre riuscire costantemente a muoversi, esattamente come fa il nemico. Ogni altra scelta non è sufficiente, anche se – a livello di linguaggio – occorre pure sviluppare un’adeguata strategia mediaticacom’è ovvio volutamente tranquillizzante. Al terrorismo dei mercati e dell’Eurolager si risponde con una “forza tranquilla” in superficie e con il contro-terrorismo sotterraneo.
 
                        Piero Visani

Il campo occidentale alla prova dell’arma economica: le lezioni del CoCom

 18 agosto 2018 STRATPOL

Appena la Repubblica federale di Germania ha formalizzato la costruzione del controverso gasdotto Nord Stream 2 16 maggio 2018, che la Polonia e gli Stati Uniti hanno sorprende espresso la loro opposizione a questo progetto. Questo gasdotto, che si estenderà sotto il Mar Baltico per 1.200 chilometri per collegare la Russia alla Germania, dovrebbe fornire a questi ultimi una fornitura di 55 miliardi di m³ di idrocarburi russi all’anno, evitando che la Russia debba pagare le tasse di transito in Ucraina e Polonia. Le autorità tedesche hanno dato il via libera al progetto nel marzo 2018, seguito dalla Finlandia in aprile, i lavori sono iniziati a maggio nella città di Lubmin.

I rappresentanti polacchi e statunitensi hanno reagito con prevedibile ostilità a questo progetto denunciandolo come una ”  minaccia alla stabilità europea  “. Così, l’incontro tra il Ministro degli Affari Esteri polacco, Jacez Czatupowitc e il Segretario di Stato Mike Pompeo 21 Maggio 2018 è stata l’occasione per la Polonia di affrontare l’argomento in particolare per garantire una possibile pressione americana su imprese europee coinvolte nella costruzione del gasdotto 1 dopo che il rappresentante degli Stati Uniti in Ucraina, Kurt Volker , ha espresso l’intenzione degli Stati Uniti di utilizzare questi metodi.

In un contesto di crescenti tensioni con la Russia sotto sanzioni e contro la possibilità di ricorrere alla rappresaglia economica americana, è necessario mettere in discussione l’esecuzione dell ‘”arma economica” alla luce di esperienze precedenti. Quindi questo articolo si concentrerà su un soggetto frainteso della guerra fredda e cioè Coordinamento Comitato per i controlli multilaterali esportazioni (COCOM) Questa organizzazione, fondata nel 1949 e collegato a un allegato dell’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi, è stato il Il risultato di accesi dibattiti tra le potenze occidentali per controllare i trasferimenti tecnologici al blocco socialista che dipendeva da loro.

Questa politica di ” contenimento economico” e il suo strumento principale, il CoCom, sono stati mantenuti in varia misura durante la Guerra Fredda fino all’Intesa di Wassenaar nel 1994 e avrebbero pesantemente coinvolto gli Stati Uniti e i loro alleati in La NATO, non senza continue polemiche; la questione di una questione delicata e di ampia portata: gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero permettersi di commerciare con l’Unione Sovietica?

Se la domanda non fosse mai unanime tra le parti interessate negli Stati Uniti, potrebbe ancora meno tra i membri della CoCom.

Una strategia volta a moderare i sovietici per alcuni, oa rischiare di ”  vendere la corda  ” per gli altri, ogni paese del CoCom implementerà gradualmente la propria concezione di questo commercio secondo le sue percezioni sulla sicurezza nazionale durante la Guerra Fredda.

La presente analisi si concentrerà su questi due estremi tra i quali il CoCom si è trovato tirato durante gli anni ’80 in un contesto di “guerra fresca” caratterizzato dal desiderio degli Stati Uniti di riprendere la lotta contro il comunismo sotto la guida del presidente Ronald Reagan.

 

Commercio I / Est-Ovest, tra apertura e confronto

La lotta ideologica tra il campo occidentale e il blocco orientale durante la guerra fredda non ha consacrato un’interruzione nelle relazioni commerciali. L’equilibrio del potere era prima facie a favore degli occidentali. Infatti, qualunque sia i fautori dei miracoli del mito dell’economia socialista, la Russia sovietica ha sempre mostrato una dipendenza pronunciato nei confronti di tecnologie occidentali che erano essenziali per il suo sviluppo come è stato dimostrato diversi studi, i più notevoli sono quelli del professor Antony Sutton 2 .

Ad esempio, negli anni ’20, la NEP 3 ha permesso l’apertura di 350 concessioni in Unione Sovietica incoraggiare la creazione di società occidentali la cui capitale tecnologico è stato il principale, se non l’unico fattore ripresa economica di questo paese devastato dalla guerra civile. Le concessioni furono poi rimosse da Stalin per ricorrere a “accordi di assistenza tecnica” che concedevano ad alcune aziende occidentali l’opportunità di contribuire con il loro know-how per aiutare la realizzazione di importanti progetti industriali nell’Unione Sovietica. Il periodo del rilassamentosegnata da un allentamento delle tensioni e da un allentamento dei controlli, è stata un’opportunità per i sovietici di acquisire una moltitudine di tecnologie occidentali a vantaggio del loro potenziale economico … oltre che militare.

Come è stato una volta così ben riassunto il professor Carroll Quigley: ”  Aziende come la Russia sovietica, che, per mancanza di tradizione scientifica, ha dimostrato basso creatività tecnologica, che comunque possono essere una minaccia per la civiltà occidentale con l’uso su una scala immensa, una tecnologia quasi interamente importata da questa stessa civiltà occidentale  ” 4 .

Una breve descrizione dei principali settori militari sovietici che hanno beneficiato dei trasferimenti di tecnologia occidentali lo appoggerebbe, oltre a stabilire il fallimento della CoCom e le speranze di pace alla vigilia della presidenza Reagan:

La flotta sovietica, il più grande del mondo, è stato fatto fino al 60% delle navi costruite in Occidente, come l’80% dei loro macchinari 5 . Le tecnologie sono state ottenute da Burgmeister & Wain di Coppenaghen e Litton Industries 6 . Erano alcune di queste barche che trasportavano i missili a Cuba e fornivano equipaggiamento a Haiphong. 7

L’industria automobilistica è stata eretta con l’aiuto di aziende occidentali, come Fiat e Ford tra i 30 ei 60 anni 8 . Alcuni veicoli militari, il plagio dei modelli occidentali, furono usati in Afghanistan e contro lo sforzo bellico americano in Vietnam.

missili sovietici posizionati in Europa hanno tratto grandi benefici da un know-how occidentale oltre a quella della società statunitense Bryant di serraggio Grinder società i cui cuscinetti a sfera hanno aumentato la precisione degli attacchi sovietici e la minaccia che rappresentavano per la sicurezza europea 9 .

Avremmo potuto aggiungere a questo equilibrio i settori agricolo e chimico, ma questi dati sono sufficienti per stabilire che il commercio con l’Unione Sovietica, che alcuni avevano promosso nell’ottica “per ammorbidire” i sovietici, aveva gli effetti opposti: il L’Occidente non ha comprato la pace piuttosto “ha venduto la corda 10 “. Considerando i molti sforzi legali e informali che i sovietici hanno fatto per ottenere la tecnologia, è stato per rimediare ad una vera e propria emorragia tecnologica in Occidente che Reagan voleva rimescolare la CoCom, i cui insuccessi richiedevano certe rettifiche.

Dato bisogno di questo ossessivo i sovietici in tecnologie occidentali potrebbero essere facilmente tentati di Antony Sutton ha concluso che un trasferimento puro e radicale tecnologia di blocco potrebbe contribuire a porre le ginocchia URSS e accelerare la fine della così Guerra Fredda. Tuttavia, questa visione è ideale perché il controllo delle tecnologie implicava considerazioni multiple che trascendevano il semplice uso della coercizione o di altre misure draconiane.

 

II / Orientamenti americani alle contraddizioni occidentali

Il controllo delle esportazioni è un’iniziativa prevalentemente americana. Agli albori della guerra fredda l’usèrent Stati Uniti per fare pressione l’Unione Sovietica attraverso il ”  Control Act  ” nel 1949, ponendo le merci esportate sotto controllo, ma anche a ovest con la ”  Battaglia Act  » nel 1951 causando la perdita della protezione americana in caso di scambi con il blocco socialista. E ‘in questo contesto qu’apparu CoCom 11 , spesso paragonato a un “club” non è basata su alcun trattato o accordo e dipendente dalla buona volontà degli Stati membri di disciplinare le transazioni di tecnologia verso l’URSS, i paesi del Patto di Varsavia e della Cina popolare.

Il COCOM ha stabilito tre elenchi di merci soggette a licenza: munizioni, beni nucleari e proprietà “a doppio uso”, fornendo opportunità per le “vendite eccezionali” 12 . Infine, operando su due concetti anglosassoni di guerra economica tra cui ha alternato come necessario, ossia la leva ( ”  leva” ) e ”  Linkage  ” 13 , il primo di sfruttare un vantaggio economico politicamente, mentre che il secondo è usare le azioni economiche per fare pressione su un obiettivo.

Il controllo americano sui paesi europei fu certamente ben consolidato dopo la Seconda Guerra Mondiale quando erano troppo esangui per potersi permettere di rischiare di perdere la protezione americana, ma come fecero la loro ripresa economica, essi ottenuto un margine di manovra risultante in diverse lacune.

Ogni paese membro aveva il proprio concetto di commercio est-ovest e una legislazione commerciale che non era necessariamente in linea con le linee guida statunitensi.

Così la Francia, capitale delle simpatie mondiali verso il comunismo, ricorse al commercio est-ovest per affermare la propria sovranità e distinguersi dall’egemonia americana. Il commercio con l’Oriente godeva di un ampio consenso e la comunità degli affari poteva contare sulla benevolenza dello stato. Se la tendenza era lassista fino al 1981, la Francia, pur rafforzando i suoi controlli, ha conservato la preoccupazione per la sua sovranità.

Il Regno Unito, con le sue tradizioni commerciali, si impegnò negli scambi con l’Oriente per soddisfare le sue esigenze economiche interne. Tuttavia, l’arrivo di Margaret Thatcher nel 1979 segnò una sottomissione alla politica di controllo americana.

Il FRG era l’anello debole della CoCom. Ciò è dovuto al fatto che il suo commercio con la RDT non è stato considerato come commercio estero e ha causato perdite di tecnologie non controllate dalla CoCom.

Infine, il Giappone si distinse per il suo lassismo. La legge prevedeva la libertà di esportazione ei controlli erano riservati alle società sul suolo giapponese senza estendersi alle loro controllate estere.

Figura: Il commercio dei paesi membri del COCOM con l’URSS e nei paesi del Patto di Varsavia (fonte: RHOADES WE; COCOM, il trasferimento di tecnologia e il suo impatto è la sicurezza nazionale; Calhoun: La NPS istituzionale archivio; 1989; p.127)

Grazie alla sua natura informale, le decisioni prese nel CoCom ha erano di alcuna forma vincolante nei confronti degli Stati membri sono liberi di attuare le misure di CoCom a loro piacimento. Così due concezioni opposte del blocco: la sicurezza (stabilire controlli stabili) e le sanzioni (secondo iniziative sovietiche) 14 . Gli Stati Uniti si alternano opportunisticamente tra i due ma non sono ancora d’accordo con i suoi alleati. Se si può presumere che vi era consenso per il controllo delle esportazioni di tecnologie strategiche (non senza riserve dai paesi europei), il problema principale è la definizione di “strategica”.

Gli elenchi dei beni da porre sotto controllo possono dunque essere unanime tra i membri del COCOM, gli americani a seguito di un approccio senza compromessi, ha voluto limitare il commercio attraverso le liste espanse, mentre proattive europei preferivano conservare i loro legami commerciali con la È con liste di controllo limitate.

Entrambe le parti spesso proceduto a reciproche accuse di ipocrisia, gli europei che vogliono difendere i loro interessi economici in Oriente e non esitando a mettere in discussione le linee guida COCOM in qualsiasi invasione di esso sul loro sovranità. Gli americani erano sotto pressione dai loro industriali, che si sentivano offesi dai loro concorrenti europei con restrizioni più flessibili dai loro rispettivi paesi.

Questi elementi evidenziano un doppio paradosso derivante da una dipendenza reciproca: l’URSS, sebbene fortemente dipendente dalle tecnologie occidentali, è riuscita a tenere il passo con il campo occidentale, mentre l’altra metà Gli industriali occidentali, benché esposti alla minaccia sovietica, continuarono a perseguire o addirittura difesero il commercio di tecnologia con il blocco dell’Est mostrando una riluttante riluttanza a qualsiasi ingiunzione americana o interferenza nelle loro attività economiche.

Un’osservazione che chiama seriamente a relativizzare i concetti liberali ispirati a Montesquieu per cui ” l’effetto naturale del commercio è portare la pace ” …

III / False speranze di rafforzare i controlli

Quando Reagan assunse la presidenza nel 1981, il deterioramento delle relazioni USA-URSS era già stato consumato da Carter. L’invasione dell’Afghanistan nel 1979 suonò la campana a morto della distensione e gli Stati Uniti reagirono prendendo alcune misure repressive.

Nel 1979 è stata promulgata l’Export Administration Act (EAA) la concessione al presidente il diritto di ispezionare sulle esportazioni seguita da un embargo sul grano nel 1980. La politica di Reagan iscritti a questa tendenza, notando il fallimento del ” commerciare e progettare un nuovo approccio al commercio est-ovest da imporre ai membri della CoCom. Ciò era in linea con le raccomandazioni fatte nel 1976 dal “Rapporto Bucy” 15 che insistevano sul controllo prioritario e selettivo sulle tecnologie “a duplice uso” e limitando l’accesso alla tecnologia statunitense ai membri della CoCom. La procedura si conforma anche all’approccio del Consiglio di sicurezza nazionale(NSC) sostenendo un rafforzamento del COCOM, la necessità di convincere gli alleati dei meriti di controllo delle esportazioni, l’azione collettiva e l’aderenza Est di etica aziendale del West 16 .

La guerra economica sembrava essere un’opportunità in quanto alcuni osservatori percepivano nell’URSS la premessa di un collasso economico; il rifiuto del trasferimento tecnologico potrebbe quindi esacerbare questa fase declino e curva URSS verso compromesso in termini di consumi e investimenti, gli effetti potrebbe essere combinata con la corsa agli armamenti, causando l’URSS il knockout 17 .

Questa strategia viene dalla prospettiva americana che i contributi tecnologici al settore industriale sovietico traggono beneficio indiretto dal settore militare 18 , un concetto che rompe con la ”  compartimentalizzazione” adottata da altri paesi della CoCom per i quali il settore militare è indipendente dalle tecnologie civili dal settore economico 19 . Per quanto riguarda gli alleati, gli Stati Uniti alterneranno due tendenze: i “multilateralisti” e gli “unilateralisti”, ciascuno dei quali difende una posizione distinta all’interno del CoCom e che ispirerà l’approccio da seguire in caso di due grandi crisi

Il primo è la costruzione del gasdotto Urengoy, certamente l’esempio più rappresentativo di una gestione disastrosa di embargo multilaterale dopo un’iniziativa unilaterale.

In risposta ai disordini che si sono verificati in Polonia nel 1980, Reagan fa le sue minacce e ha deciso nel dicembre 1981 di sospendere tutte le licenze di esportazione di beni e componenti destinati a garantire la costruzione di un gasdotto siberiano 20 . Era necessario, tuttavia, obbligare i membri della CoCom a seguire questo passo. Il 18 giugno 1982 il divieto è stato esteso alle filiali di società statunitensi e alle società straniere che producono attrezzature con licenza. Ciò aveva portato alla tensione con i membri europei dei paesi COCOM cui società sono penalizzati dalla extraterritorialità di una decisione degli Stati Uniti, soprattutto perché vedono Reagan paradossalmente sollevare l’embargo sul grano 21a vantaggio dei fornitori statunitensi. I governi francese e britannico apertamente incitato le loro imprese per ignorare le linee guida di Reagan e vis-à-vis il COCOM, costringendo il presidente degli Stati Uniti di revocare l’embargo nel novembre 1982. Il gasdotto alla fine saranno costruite a beneficio della URSS.

Diverse conclusioni da trarre da questa esperienza: possiamo considerare questo incidente come prova che l’unilateralismo degli Stati Uniti ha fallito, piuttosto che ottenere il sostegno degli alleati, gli americani riuscirono a alienarli, in quanto considerate alcune variabili (dipendenza dal gas sovietico, interessi economici) come precedenza sui loro obblighi nei confronti della CoCom.

Poiché l’unilateralismo si è rivelato inadeguato alla fine di questa crisi, l’amministrazione Reagan è stata spinta al multilateralismo per rafforzare, non senza difficoltà, la CoCom dopo il 1982.

Gli Stati Uniti hanno presentato un triplice progetto alla CoCom: ampliare le liste di controllo, rafforzare le sanzioni e rafforzare la struttura istituzionale della CoCom. Gli europei erano pronti a condurre una guerra economica solo se i prodotti interessati erano di importanza militare. Così, all’incontro del 1982, 58 dei 100 prodotti proposti dagli americani furono aggiunti agli elenchi. Inoltre, l’anno successivo l’applicazione diretta dei controlli per i 10 beni prioritari soggetti a diversione e nel 1984 il divieto di esportazione di determinate apparecchiature di comunicazione.22 .

Sebbene questo sviluppo multilaterale della CoCom abbia sollevato crescenti denunce da parte dei funzionari sovietici, questo successo relativo deve essere qualificato per determinati motivi: questi rinforzi sono limitati all’interno dei confini occidentali e sono accompagnati dalla persistente riluttanza degli europei ; gli Stati Uniti hanno rinunciato all’unilateralismo, sono stati costretti a lottare con i partner disposti a seguire le nuove procedure nel lungo termine in cui nuove denunce da loro che hanno ricevuto i freni per la riesportazione di tecnologia degli Stati Uniti come una violazione delle leggi internazionali. Questi controlli interni hanno infine indebolito la volontà dei paesi della CoCom di cooperare, con europei e giapponesi che percepivano le ambizioni unilaterali unilaterali degli americani.

I difetti di questa nuova impostazione verranno scoperti presso lo scandalo Toshiba-Kongsberg nel 1987. Entrambe le società sono state vendute ai sovietici macchine utensili in licenza essenziale per la modernizzazione delle loro sommergibili nucleari di sicurezza più compromettente Europa occidentale 23 . In risposta, il Senato degli Stati Uniti, con l’ emendamento Garn, ha richiesto la chiusura del mercato statunitense a tutte le società che non rispettano le normative di CoCom come sanzioni. Paradossalmente, questa misura è stata sconfessata dall’amministrazione Reagan, che temeva che i paesi europei applicassero le stesse restrizioni alle rappresaglie delle compagnie americane. Inoltre, una tale iniziativa unilaterale avrebbe solo compromesso la CoCom 24 . La via multilaterale doveva essere favorita in cooperazione con il Giappone e la Norvegia. Le sanzioni contro Toshiba e Kongsberg-Vapenfabrik sono state efficacemente implementate in aggiunta al crescente impegno del Giappone nel controllo delle tecnologie sensibili.

L’entità di questa crisi ha portato gli altri membri della CoCom a rafforzare la loro cooperazione con gli Stati Uniti nella CoCom. Questo cambiamento potrebbe essere incoraggiante se tra il 84 e il 89, il FRG non ha violato i suoi obblighi girare consentendo al Imhausen-Chemie per costruire impianto chimico in Libia trascurando di presentare i propri prodotti per il controllo CoCom con la silenziosa complicità delle autorità federali tedesche …

L’avvento al potere di Gorbaciov e allentare le tensioni con gli Stati Uniti completeranno la spesa sarà a convincere Reagan nel 1986 per allentare la sua politica di controllo.

Conclusione: da Ronald a Donald

L’esperienza della CoCom è edificante nel contesto attuale poiché ci consente di mettere la leadershipamericana in prospettiva tra i suoi alleati economici. Se il dominio americano militare e diplomatico rimane una costante oggi nella NATO, il dominio economico è il tallone d’Achille di questa supremazia. È proprio a livello economico che tutta l’eterogeneità del campo occidentale ci viene rivelata alla luce del giorno, ogni paese membro ha specifiche specifiche economiche divergenti su cui gli interessi americani possono inciampare.

Donald Trump, che ha preso le funzioni presidente degli Stati Uniti nel 2016, si trovano di fronte alcune sfide che si affacciava il suo predecessore Reagan. Se l’uso di sanzioni economiche contro la Russia è stata applicata dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel marzo 2014, i risultati contrastanti o addirittura controproducente ottenuto non discutere a favore di questa politica. Le relazioni economiche sono intrinsecamente reciproca, le sanzioni sono spade a doppio taglio che possono portare a un punto morto 25

Pertanto, la parte occidentale dell’Unione europea, in particolare la Germania, è più preoccupata di preservare le sue relazioni economiche con la Russia e di conseguenza meno incline ad appoggiare tutte le direttive di Washington.

Di fronte al gasdotto Nord Stream 2 , gli americani possono contare sul sostegno dei paesi membri dell’Europa dell’Est della Three Seas Initiative 26 i cui interessi, come riconosciuto dal generale L. Jones del Atlantic Council , sono ”  più in linea con la percezione americana del mondo rispetto ai nostri tradizionali alleati nell’Europa occidentale  ” 27 .

Anche se gli Stati dovessero cooperare in una politica di boicottaggio contro la Russia, la comunità imprenditoriale che è stata impiantata lì probabilmente esprimerà la sua disapprovazione.

La Russia è un caso speciale nell’approccio alle politiche di guerra economica. Qualunque cosa fosse, secondo Lenin, ”  un semi-coloniale capitalismo monopolista  ” nei giorni di zarista o ”  mercato vincolato  “, secondo Antonio Sutton sotto il comunismo. Questo paese, paradossalmente, sapeva sempre come organizzare questa dipendenza economica e tecnologica pronunciata verso l’Occidente tra i suoi beni fino a renderla reciproca.

Le prospettive economiche offerte dalla Russia e la sua posizione ineludibile sul mercato mondiale susciteranno inevitabilmente l’interesse dei giocatori stranieri che saranno guidati da un irresistibile desiderio di ritorno sugli investimenti. Più capitale dedicherai alla Russia, più saranno riluttanti a qualsiasi politica di sanzioni che renderà la Russia insolvente e metterebbe a repentaglio i loro profitti.

Pertanto, come per il gasdotto Urengoy, nulla può garantire l’annullamento della bozza di Nord Stream 2prevista per il 2019, soprattutto perché gli sforzi degli Stati Uniti per ottenere la cancellazione di Nord Stream 1 nel 2012 non hanno avuto successo.

Come ai tempi della CoCom, non vi è inoltre alcuna garanzia che la minaccia di sanzioni nei confronti di società coinvolte in progetti con la Russia potrebbe dissuaderli dal continuare le loro attività, soprattutto perché questo provvedimento è stato già bruscamente ripudiato da le proteste di Germania e Austria a giugno 2017.

Dovrebbe prendere in considerazione i risultati contrastanti della CoCom sotto Reagan non invitare Trump più circospezione nella tentazione dell’uso dell’arma economica contro la Russia di Putin?

 

Hedi ENNAJI

 

Bibliografia selettiva:

  • BERTSCH GK (sotto la direzione di); Controllo del commercio est-ovest e trasferimento tecnologico, potere, politica e politiche; ed. Duke University Press; 1988; Georgia; 508 p.
  • BUCHAN D .; Impatti strategici del commercio est-ovest; ed. boschetto; al. Hermes; Paris; 1985; 169 p.
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  • HOLIDAY GD; Trasferimento di tecnologia all’USSR, 1928-1937 e 1966-1975: il ruolo della tecnologia occidentale nello sviluppo economico sovietico; ed. Westview Press; Colorado; 1979; 225 p.
  • LACHAUX C., LACORNE D., LAMOUREUX C .; L’arma economica; ed. Fondazione per gli studi di difesa nazionale; al. Le 7 spade; Paris; 1987; 406 p.
  • LAÏDI S .; Storia mondiale della guerra economica; ed. Perrin; Paris; 2016 576 p.
  • MASTANDUNO M .; Contenimento economico, CoCom e politica del commercio est-ovest; ed. Cornell University Press; New York; 1992; 353 p.
  • UFFICIO DELLA VALUTAZIONE DELLA TECNOLOGIA; Tecnologia e commercio est-ovest; ed. Allanheld Osmun & co; New Jersey; 1981; 303 p.
  • PARROTT B. (sotto la direzione di); Commercio, tecnologia e relazioni sovietico-americane; ed. Indiana University Press; Bloomington; 1985; 394 p.
  • SANDBERG M.; Imparare dai capitalisti, uno studio sull’assimilazione sovietica della tecnologia occidentale; Almqvist & Wiksell International; Göteborg; 1989; 264 p.
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  • SUTTON AC; Suicidio nazionale, aiuto militare all’Unione Sovietica; ed. Arlington House; New York; 1974; 283 p.

 

Ripensare la politica ripensando la guerra – 2a parte, di Piero Visani

Ripensare la politica ripensando la guerra – 2

https://derteufel50.blogspot.com/2018/10/ripensare-la-politica-ripensando-la_18.html

http://italiaeilmondo.com/2018/10/17/ripensare-la-politica-ripensando-la-guerra-1-di-piero-visani/

       La concezione europea del mondo è stata, per secoli, di natura sostanzialmente polemologica. In essa, la guerra non è stata intesa come un fenomeno patologico. Per quanto non piacevole, né desiderabile, né augurabile, la guerra ha sempre fatto parte del reale (di ciò che è reale). Tuttavia, se si ammette che la guerra faccia parte del reale, si deve contemporaneamente ammettere che essa è relativa, poiché il reale, nella sua costante mutevolezza e particolarità, non conosce l’assoluto. In altre parole, riconoscere nell’esistenza un perpetuo confronto di contrari significa parimenti riconoscere la possibilità di una loro conciliazione: l’avversario, infatti, è tale soltanto momentaneamente e il fatto che lo si affronti non significa che si voglia annientarlo; è sufficiente sconfiggerlo (7).
       All’interno di questa logica, non può esistere un nemico assoluto, ma soltanto un nemico relativo, la cui designazione costituisce certo il presupposto della politica, ma con il quale una composizione pacifica è sempre possibile, alla luce di un perpetuo divenire che muta continuamente le situazioni.
       Quest’universo di valori fu sconvolto dal leninismo, con la sua definizione del nemico come nemico assoluto e con la sua teoria dell’ostilità generale e permanente anche in tempo di pace, al punto da creare uno stato di guerra anche in assenza formale di conflitti. A sua volta, Carl Schmitt seppe definire nel modo più lucido i caratteri di conflittualità che costituiscono il presupposto stesso della politica, elaborando una teoria spesso rifiutata a parole da chi la praticava, ma sempre ampiamente riscontrabile nei fatti.
       Se oggi si ritorna a riflettere criticamente su questi concetti, ciò non avviene però soltanto perché la situazione internazionale fa incombere minacce di guerra (8), ma soprattutto perché si avverte ogni giorno di più la necessità di ripensare la politica ripensando la guerra, rivedendo cioè quel principio di conflittualità che sta alla base della politica stessa e sulla cui esistenza molti paiono concordare, anche in quelle fasce culturali un tempo assai caute al riguardo.
       Punto di partenza comune dovrebbe essere – a nostro parere – l’accettazione del principio della natura conflittuale della politica, secondo la classica impostazione schmittiana. Posta la distinzione tra amico e nemico, e individuato concretamente quest’ultimo, si dovrebbe riflettere sui contenuti di ostilità di cui fare oggetto il nemico stesso. Le scelte possibili sono – come sappiamo – sostanzialmente due: fare oggetto il nemico di un’inimicizia relativa oppure assoluta.
       A questo punto, ci pare opportuno ricordare che stiamo parlando dei contenuti di conflittualità della politica e non, tout court, della guerra. Ciò premesso, non crediamo si possa condividere la forte carica di manicheismo presente nell’inimicizia assoluta. Se è vero, infatti, che i contrasti di fondo tendono inevitabilmente ad ascendere verso gli estremi, a trasformarsi in lotte senza esclusione di colpi in cui l’obiettivo finale non è la sconfitta ma l’annientamento fisico dell’avversario, non è meno vero che l’attitudine mentale che sta alle spalle di quest’atteggiamento affonda le sue radici in tutte quelle ideologie che sono inclini a far prevalere il giudizio morale su quello politico, la carica emozionale e il manicheismo che inevitabilmente ne discende su una pacata e realistica valutazione delle circostanze. Da ciò, demonizzazione dell’avversario, individuato propagandisticamente come incarnazione del Male e suo annientamento da parte delle forze del Bene, a ciò legittimate dal fatto stesso di considerarsi (più che veramente essere, ammesso e non concesso che lo si possa…) tali. La storia del Novecento è tragicamente piena di esempi di questo genere e non vale la pena citarli ancora una volta. Ci pare tuttavia indispensabile sottolineare come, nella più parte dei casi, essi siano stati frutto della perniciosa contaminazione – operata da alcune ideologie – tra morale e politica, e della conseguente tendenza delle stesse ad operare in nome dell’umanità, trasformando i conflitti tra Stati o il tradizionale agone politico (entrambi retti da regole precise e codificate) in un’unica guerra civile internazionale, con tutte le conseguenze del caso. Molto meglio, quindi, la dosata carica di ostilità contenuta nell’inimicizia relativa, nel contrasto tra forze e Stati che concepiscono la politica e la guerra come “gioco”, con regole codificate e nel quale è concepibile soltanto la sconfitta, non certo l’annientamento dell’avversario, al quale sono riconosciuti tutti i crismi della legittimità e il diritto di rovesciare, un giorno, i rapporti di forza esistenti.
       E’ noto che, per secoli, la guerra e lo stesso conflitto politico si sono svolti in genere in conformità a una logica che prevedeva la sconfitta più che lo sterminio dell’avversario. Non che siano mancate eccezioni anche di rilievo, ma la tendenza di fondo era quella. Tuttavia, se davvero si vuole ripensare la politica ripensando la guerra (o meglio il conflitto e i principi che lo reggono), non si può negare che i toni smorzati dell’inimicizia relativa sono i più validi soltanto a condizione che non siano fittizi, cioè a condizione che implichino davvero l’accettazione del divenire storico e non costituiscano una mera facciata formale, dietro la quale si celi l’immobilismo più assoluto. Ci spieghiamo: la conflittualità politica intesa come “gioco” può anche diventare un “gioco sporco”, i cui partecipanti sono tutti d’accordo, rappresentano aspetti diversi delle medesime istanze e dei medesimi interessi, ma fingono di essere in contrasto tra loro per dare una patina di legittimità al loro agire e giustificano l’esistenza stessa di un “gioco” politico in realtà solo apparente. In tal caso, anche la dichiarata conflittualità è puramente formale e i gruppi avversi sono al contrario legati da una sostanziale solidarietà, che li rende egemoni della vicenda politica e profondamente interessati alla conservazione di tale egemonia. In tali condizioni, parlare di inimicizia relativa diventa ridicolo, poiché in realtà siamo in presenza di una solidarietà assoluta e attivamente operante a scapito di tutte quelle forze che sono rimaste (o sono state) escluse dai gruppi che egemonizzano il sistema politico e intendono congelarlo sui rapporti di potere esistenti.
       Certo, una genuina inimicizia relativa sarebbe ancora possibile, anzi auspicabile se, come nei secoli passati, le linee di conflitto coincidessero con i confini degli Stati nazionali e all’avversario esterno (“straniero”) fosse riconosciuta non solo la possibilità di avere interessi diversi dai nostri, ma anche il diritto di difenderli nell’ambito di un’organizzazione statale da noi riconosciuta. Ma quest’articolazione – che è stata un vanto del diritto internazionale – è ancora oggi possibile nell’ambito di una realtà tanto mutata, in cui esistono forze, ideologie e interessi sovranazionali, e in cui lo stesso concetto di sovranità è ormai applicabile – nelle sua forma originaria – solo a pochissime grandi potenze? Crediamo di no e riteniamo sia indispensabile trarne le inevitabili conseguenze. Queste non possono che strutturarsi come segue: no all’inimicizia relativa perché, a causa della natura delle relazioni internazionali, essa è ormai impossibile sul piano esterno e fittizia su quello interno (almeno nelle forme in cui si è finora manifestata); ma parimenti no all’inimicizia assoluta, poiché non è possibile condividere il manicheismo e il desiderio di assoluto in essa impliciti. Al contrario, sì – nella definizione del contenuto di conflittualità che costituisce l’indispensabile presupposto della politica – all’identificazione di un nemico reale, contro il quale far convergere un’inimicizia altrettanto reale.
       Chi è il nemico reale? In sostanza, è il nemico relativo di un tempo, valutato – con una ben superiore dose di spegiudicatezza – alla luce delle nuove realtà della politica. E’ un nemico oggetto di un’inimicizia reale, ma altresì relativa, non assoluta, perché con esso – anche se il conflitto è tutt’altro che fittizio – la composizione è sempre possibile, in quanto non è considerato in sé intrinsecamente malvagio e dunque da annientare, ma soltanto mosso da interessi diversi e contrastanti, dunque al più da sconfiggere, in un’ottica che però non esclude affatto la possibilità di una sua vittoria, nell’ambito di una concezione (e di un sistema) di alternanza.
Siamo così giunti, sia pure per strade diverse, a conclusioni non troppo dissimili da quelle cui è pervenuta la Nuova Sinistra nella sua riflessione sulla politica, la conflittualità e la guerra. Una coincidenza casuale? Non crediamo, ma neppure la classica coincidentia oppositorum, come qualche maligno e disinformato non mancherà di insinuare.
In realtà, la ricerca di un nemico reale esprime, da entrambe le parti, la volontà di ripensare la politica superando i tradizionali schemi interpretativi e lasciando da un canto categorie ormai logorate dal tempo e incapaci di rinchiudere in sé i molteplici aspetti della realtà attuale. Gli obiettivi sono sicuramente diversi, ma comune è l’aspirazione di restituire dinamismo a un sistema politico e di pensiero da troppo tempo sclerotizzato e statico tanto sul piano interno quanto su quello internazionale, e anche di favorire, a entrambi i livelli. quella circolazione delle élites così indispensabile al corretto funzionamento dei sistemi politici e così inopinatamente caduta nel dimenticatoio o ridotta ad accademica dichiarazione d’intenti.Piero Visani


Note
(7) De Benoist, Alain, “Ni fraiche ni joyeuse”, in Eléments, n° 41, marzo-aprile 1982, p. 28 sg.
(8) Precisato che questo intervento è stato scritto nel 1982, non mi pare che la situazione sia molto cambiata anche oggi.

PASTICCIO COSMICO-STORICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

PASTICCIO COSMICO-STORICO

Se accadrà, come Di Maio e Salvini prevedono, che alle prossime elezioni europee gli equilibri politici saranno ribaltati, soprattutto per la prevedibile, drastica riduzione dei socialisti e per l’aumento – altrettanto notevole – dei populisti il contributo decisivo a tale risultato sarà dato dagli italiani. E ciò non solo perché i partiti sovran-popul-identitari, si attestano ormai, a seguire i sondaggi post 4 marzo, a circa due terzi dell’elettorato complessivo, nè perché il nostro è l’unico paese euroccidentale ad aver un governo populista “puro”, ma perché la crescita di tali partiti sovran-popul-identitari è stata (inconsuetamente) veloce e tumultuosa.

Al contrario di altri paesi (come la Francia e l’Austria) dove l’incremento fino alle ragguardevoli – ma non maggioritarie – percentuali elettorali si è “spalmato” in un ventennio (e anche qualche anno in più), il nostro si è realizzato in pochi anni; ad essere più precisi dai sette (al minimo) ai 10 (al massimo).

In effetti, come ci è già capitato di notare, nel 2008 i 5 Stelle, e la Lega “sovranista” (cioè salviniana) non erano presenti in Parlamento; lo era la Lega bossiano-secessionista, peraltro in percentuali ridotte.

C’è da interrogarsi quindi sulle cause di un incremento così rapido e travolgente, e su quello che sia successo in quei 7-10 anni per convincere gli italiani a un rapido cambio di regime politico – o più modestamente – di sistema partitico, con il “pensionamento” della vecchia coppia centrosinistra-centrodestra.

Non è sufficiente al riguardo dare la risposta che mi è capitata di sostenere più volte: che la vecchia scriminante del politico, ossia borghese/proletario è finita da quasi trent’anni (col crollo del comunismo) e ne è in corso la sostituzione con la nuova, cioè identità/globalizzazione, perché questo non da conto della differenza italiana, essendo comune a tutti i popoli dell’ “occidente”.

Neppure l’obiezione più calzante, ossia che dal 2008 è iniziata la crisi, spiega la differenza italiana per la stessa ragione: la crisi è comune a tutta la parte più sviluppata del pianeta (che include l’occidente). Anche se in Italia ha morso (forse) più che altrove.

La spiegazione (principale) della differenza è un’altra, o meglio altre. La prima è che l’Italia stagna da venticinque anni – esattamente la durata della seconda repubblica: è l’ultima per tasso di crescita sia nell’area euro che nell’area UE. Non è solo la crisi ad averci ridotto così, ma quel che l’ha preceduta.

La seconda è l’inconsistenza e la modestia del governo Monti, non riparata ma, in larga parte condivisa da quelli che gli sono succeduti, peraltro con un centrodestra che, anche quando collocato all’opposizione, non riusciva a distinguersi adeguatamente dai governi. Anche nei tempi il grande balzo dei 5 Stelle (dallo 0 al 25%) coincide con le elezioni del 2013 il cui risultato consisteva essenzialmente in un giudizio negativo sul governo “tecnico” e su chi l’aveva sostenuto (in Parlamento) e propiziato (anche da fuori).

A tale proposito sul “golpe” del 2011 c’è ormai una vasta letteratura; anche se discordante sul punto di chi fossero i mandanti della detronizzazione di Berlusconi  e dell’intronizzazione del governo tecnico.

Chi, al riguardo sostiene l’insieme Francia-Germania-Ue, altri i poteri forti – finanziari soprattutto – non solo europei e così via. Probabilmente tutte le spiegazioni hanno qualcosa di vero (nel senso di essere concause); interessa a questo punto vedere se, almeno per la classe dirigente europea e nazionale il tutto non si risolva e si risolverà in un caso esemplare di eterogenesi dei fini.

Con tale espressione è stato chiamato il fatto che molto spesso gli effetti delle azioni degli individui e delle comunità umane non sono quelli che gli agenti si propongono, ma altri, diversi e spesso opposti. Osservazione già contenuta in S. Agostino e ripetuta, modificata, integrata e secolarizzata da tanti, da Vico a Wundt, da Hegel a Max Weber e Freund. In particolare Hegel scriveva che «dalle azioni degli uomini risulti qualcosa d’altro, in generale, da ciò che essi si propongono e … immediatamente sanno e vogliono …(essi) recano in atto quel che a loro interessa, , ma da ciò vien portato alla luce anche altro, che vi è pure implicito, ma che non è nella loro coscienza e intenzione». A seguire tale concezione  – e quella, prossima, dell’ “astuzia della ragione” – causa, non esclusiva, ma principale della débacle annunciata potrebbe essere il golpe del 2011 con la catena di eventi che ha provocato.

La considerazione su esposta induce ad una riflessione “post-hegeliana”. Scrive Hegel che gli individui cosmico-storici sono coloro che eseguono nella storia il “piano” dello spirito del mondo (Weltgeist).

In questo caso ai vari complottisti del 2011 andrebbe conferita la medaglia al merito del Weltgeist, per aver favorito l’emergere della nuova fase storico-politica, anche se (speriamo) a spese delle loro fortune personali.

Ho però seri dubbi che quanto scrive il filosofo sia da condividere sic et simpliciter. A mio avviso i governanti vanno più utilmente divisi in due categorie: quelli che hanno la capacità di vedere a lungo termine (di pre-vedere) e coloro che riescono a percepire solo nei tempi brevi. I primi costruiscono gli Stati e le loro principali istituzioni; i secondi le coalizioni di potere (partiti compresi) destinate a durare qualche anno. Nella classe dirigente italiana ed europea vedo tanti che appartengono alla seconda, nessuno alla prima. Al contrario De Gaulle e Deng-Tsiao-Ping facevano parte, e la Costituzione della V Repubblica è sopravvissuta mezzo secolo al suo fondatore, come il nuovo corso del PC cinese voluto da Deng ha salvaguardato l’unità della Cina e ne ha promosso la potenza.

Sarà, ma ho la netta impressione che le élite nazionali ed europee, in lista di sbarco, potranno essere ricordate nella storia come quelle che affossarono inconsapevolmente la costruzione dei vecchi europeisti, da Adenauer a Martino.

In questo, ma solo in questo esecutori di un disegno (forse) superiore. Magra consolazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

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