Passi diplomatici, di Roberto Buffagni

Sulla recente mossa diplomatica del Vaticano per la modifica del DDL Zan.
La battaglia in punto di diritto internazionale ha un suo perché ma ovviamente è una battaglia che non promette bene. E’ una battaglia obbligata. La Chiesa tenta di uscire dall’accerchiamento anzitutto culturale e usa tutto quel che ha, o meglio che le resta. Lo strumento principale che le resta è lo strumento diplomatico, ed è un gran brutto segno, perché con l’accerchiamento culturale esterno interagisce una profondissima divisione interna, in termini bellici una nutritissima quinta colonna che è sostanzialmente concorde con la cultura anticristiana e anticattolica, seccamente avversa ai “preambula fidei” ossia al “diritto naturale”, prevalente nella società. L’obiettivo che si propone la Chiesa con questa misura è preservare la libertà religiosa nella sua forma più legalistica e ristretta: libertà di predicare nelle chiese, libertà di insegnare nelle scuole cattoliche. Entrambe sono direttamente minacciate dal DDL Zan, e da qualsiasi legge tipo legge Mancino che verta sul “genere” e inserisca la “discriminazione” su base di “genere” come fattispecie di reato. Per il motivo semplicissimo che in effetti, la Chiesa (e per il vero, l’intera cultura umana degli ultimi 5.000 anni almeno) “discrimina” gli aventi diritto alla celebrazione del matrimonio secondo il sesso, ossia secondo la loro determinazione naturale. Il matrimonio, che come istituzione culturale precede la fondazione della Chiesa di alcune migliaia di anni, è la forma simbolica centrale per mezzo della quale le comunità umane (tutte) hanno sempre garantito la riproduzione della specie all’interno della cultura/e umana/e. In quanto forma, è indifferente al numero di contraenti (x donne + 1 uomo, 1 donna+x uomini, x donne + x uomini) e anche al loro orientamento erotico, che può benissimo rivolgersi all’esterno della coppia (o gruppo) di sposi, o anche verso il proprio sesso. Il requisito indispensabile è che chi si sposa possa, almeno virtualmente, assolvere contemporaneamente a due funzioni essenziali, ossia 1) riprodurre la specie 2) prendersi cura della prole e integrarla nella cultura della sua comunità. (La sterilità, ovviamente, è una patologia dell’istituto matrimoniale, che non ne muta la fisiologia). Attraverso la forma istituzionale del matrimonio viene confermata simbolicamente anche l’integrazione tra corporeo e psichico, tra riproduzione della specie umana nel senso biologico o zoologico del termine (che può benissimo darsi senza ombra di matrimonio) e la sua integrazione nella cultura, che ovviamente è un fatto anzitutto psichico. Quando si introduce il concetto di “gender”, che nelle sue varie declinazioni è sempre riconducibile alla soggettività dell’individuo (il suo orientamento erotico, l’idea che si forma di se stesso) e lo si accoppia, in un provvedimento di legge, a una fattispecie di reato che ne punisce la “discriminazione”, è banalmente logico che si prenda di mira anzitutto questa antichissima discriminazione delle persone in base al sesso (ossia in base a “quel che sei”, e non in base a “quel che vuoi essere o senti di essere o quel che desideri”). Ne consegue, sempre per logica, che non solo il cattolicesimo, ma tutte le religioni e le metafisiche tradizionali, che, tutte, riconoscono e variamente celebrano e santificano l’istituzione matrimoniale, vengono prese di mira e chiamate a rispondere penalmente di una discriminazione che effettivamente operano e non possono non operare senza scalzare i loro stessi presupposti filosofici, teologici, metafisici, insomma senza suicidarsi. E’ tragicomico e paradossale, trattandosi di una discriminazione fondativa dell’intera storia dell’umanità, ma è così. Qui non c’entra nulla l’omosessualità in quanto tale. Ci sono religioni e tradizioni culturali più o meno severe con l’omosessualità. Nella tradizione culturale dell’antica Grecia, per esempio, l’omosessualità era non solo tollerata, ma in alcune sue forme addirittura celebrata ed esaltata (v. il battaglione sacro tebano, formato da coppie di amanti che giuravano di non abbandonarsi mai sul campo di battaglia e combattevano legati l’uno all’altro). Ciò conviveva serenamente con una solidissima istituzione matrimoniale di tipo patriarcale (v. come va il ménage a casa di Odisseo). Il cattolicesimo, tradizionalmente, è molto severo sull’omosessualità; nella pratica attuale, tenerissimo. Non si può però chiedere al cattolicesimo di vidimare il matrimonio same sex, perché per farlo dovrebbe dichiarare nullo addirittura un sacramento: il matrimonio cattolico è infatti un sacramento officiato dagli sposi, non dal prete che si limita a fare da testimone. Due uomini o due donne non sono qualificati (altra “discriminazione”) a celebrare il matrimonio cattolico, come non sono qualificato io a celebrare la messa o a cresimare, confessare, dare l’estrema unzione, ordinare prete chicchessia, perché non sono ordinato sacerdote (o vescovo nel caso della cresima e dell’ordinazione). Se lo faccio, commetto un sacrilegio. Su tutto questo ambaradan filosofico-teologico-antropologico, che farebbe sudar freddo un genio multiforme dotato di linea telefonica diretta con il Paraclito, in seguito a leggi modello DDL Zan dovrebbe poi decidere il PM, il quale – sporta la querela di parte delle associazioni LGBTetc che scalpitano ai blocchi di partenza e sono già pronte con gli avvocati e i moduli – deve determinare se per l’opinione denunciata (es., un laico o un vescovo si dice contrario al matrimonio same sex o all’adozione per le coppie omosessuali o all’utero in affitto) o il comportamento denunciato (es. rifiuto di celebrare matrimoni omosessuali etc., rifiuto di ospitarli nel proprio ristorante/albergo, rifiuto di salutarli con gioia sui media, a scuola, etc.) c’è la scriminante della libertà di espressione e di religione che la depenalizza, oppure no. Se non c’è la scriminante, il PM fa un riassuntino di una paginetta degli ultimi 5.000 anni di cultura umana, le dà la sua pagella, e ti rinvia a giudizio penale; e che qualcuno te la mandi buona.

La vena malinconica del varietà, di Roberto Buffagni

Qualche buontempone ha fondato la Federazione Italiana Grigliate all’Aperto.
Come sempre quando le cose vanno molto male, l’Italia si rifugia nel comico.
Com’ è triste, il comico italiano!
Da trentacinque anni faccio regolari immersioni nel mondo sommerso del Varietà e dell’Avanspettacolo, frequentandone piani nobili e chambres de bonne ormai eguagliati dalla morte, “ ‘a livella”, nella formula dell’ultimo Imperatore di questa Atlantide italiana, principe Antonio de Curtis. E’ solenne e ammonitorio, un quasi mezzo secolo: vediamo di ricavarne qualcosa…non so, un giudizio, una conclusione, una morale…
Ed eccola qua la morale: com’è bello e com’è triste, il comico italiano!
Che sia bello, non ci vogliono trentacinque anni per arrivarci. Guardatevi qualche vecchio spezzone di varietà in televisione, e ci arrivate in cinque minuti. La tristezza, invece, sta più in profondo, e per arrivarci ci vuole lo scafandro di un po’ di pazienza e di pensiero.
Le prime bucce di questa cipolla di tristezza sono quelle universalmente note dei lustrini che si sfaldano come forfora dall’abito di luce delle soubrette, del lusso in scena con fame nel backstage, dei denti del capocomico che in scena lampeggiano di sorrisi e in camerino addentano le ballerinette, del pubblico che in teatro sogna i grandi amori e all’uscita degli artisti allunga le mani e sbava, etc., etc.
Per esser triste è triste, ma qui restiamo nell’ Allgemeine Menschliche: lo scettico cafard apres la fête, il dialettico nesso maschera/volto, il melodrammatico cuore che sanguina mentre il carnevale impazza (“Ridi, pagliaccio!”), e volendo, anche lo scolastico sabato del villaggio. Insomma, restiamo sul generico, e non c’era bisogno di quasi mezzo secolo di pensierini della sera per arrivarci.
C’è invece un nocciolo di tristezza, nel Varietà e nell’Avanspettacolo italiani (e appena avvertibile col senno di poi nella grande forma drammatica da cui discendono entrambi, la Commedia dell’Arte) che è loro proprio: un nocciolo di tristezza italiana. Non faccio il misterioso e ve lo dico subito.
Il Varietà italiano è triste perché è solo: ed è solo, solo come un cane in chiesa, solo come un uomo in punto di morte, solo come un orfano, perché gli manca la tragedia.
Il posto del comico (come genere drammatico e come attore) è il posto del servo. “Tieni fame? Tieni freddo? Tieni paura? Allora puoi fare il comico.” sentenziava Totò, ed è così dai tempi di Aristofane e di Plauto. Il cibo, il calore e il coraggio li ha il signore: e infatti, è a lui che spetta il tragico.
Avendo il cibo assicurato, il calore di una casa avita e il coraggio ereditario, al signore, al tragico signore spetta un altro monopolio, che sul piano drammatico conta ancor di più: il monopolio del senso, della creazione di una storia con un principio, un mezzo e una fine; insomma, la sovranità sull’ordine.
Al servo, al comico servo cosa resta? Gli avanzi. Gli avanzi del cibo, del calore, del coraggio, e dell’ordine: la fame, il freddo, la paura; e la sovranità sul disordine, il frammento, il carnevale: insomma, la fantasia comica. Il Varietà si chiama così perché è composto da una varietà, una molteplicità slegata di frammenti drammatici, con giudiziosa modestia chiamati “scenette”.
E’ una distribuzione di ruoli classica, che in conformità all’atteggiamento classico “preferisce l’ingiustizia al disordine” (Goethe). Il comico servo potrà raggirare e imbrogliare il tragico signore, e anche deriderlo quando non è all’ altezza del suo ruolo; ma sarà sempre il signore a decidere l’ordine della storia e della vicenda drammatica.
Ma – e qui veniamo al dunque, al dunque italiano – se il signore non c’è? Se non c’è il tragico, il comico che fa? Come va a finire?
In Italia, infatti, e basta consultare le storie della letteratura e del teatro, il tragico non si può fare. Quando lo si fa, come lo si è fatto per esempio nel Seicento, è una esercitazione letteraria di corte, e non ci crede sul serio nessuno, né chi lo fa né chi vi assiste; e Alfieri è un grande uomo che parla da solo, dialogando con le ombre dei morti eroi: meglio delle figurine Panini, ma purtroppo i morti eroi riprendono vita sulla scena solo quando il pubblico sente l’impellente bisogno di avere degli eroi vivi.
Non è che qui manchino le capacità letterarie: a scrivere tragedie ci ha provato anche Manzoni, non proprio l’ultimo venuto, e ha saputo fare solo la tragedia della rinuncia all’ azione (l’Adelchi). E’, molto semplicemente, che per fare tragedia bisogna rappresentare credibilmente la sovrana libertà del signore alle prese con decisioni di vita e di morte che riguardino lui, e con lui tutta la comunità; per farla corta e semplificare, le decisioni politiche prese in stato d’emergenza, le decisioni che fondano la legge quando la legge scritta non c’è o non parla più.
Prova a contrario uno: l’unico genere drammatico che si avvicini alla tragedia, in Italia, sono le storie di mafia et similia. Dove l’eroe, in effetti, prende sovrane decisioni di vita e di morte che riguardano lui e tutta la sua comunità; peccato che la sua comunità di masnadieri non possa proporsi come comunità di tutto il popolo. Prova a contrario due: ne “Il mestiere delle armi”, un film di grande accuratezza scenografica sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere, un regista niente affatto spregevole o bugiardo come Ermanno Olmi miracolosamente non si accorge di quanto tutti i contemporanei alla vicenda capirono e scrissero a chiare lettere: che la morte di Giovanni era una tragedia politica, la morte delle ultime speranze d’indipendenza italiana.
E dunque, se il tragico e il signore non ci sono, il comico e il servo restano soli. Restano soli e sono tristi, perché si sentono pesare addosso l’ ingiusta responsabilità di creare un ordine, una storia, un senso, e non lo possono né lo vogliono fare.
E però bisogna pur vivere, e the show must go on. Il servo comico si carica anche il peso del signore assente, e stronfiando e bestemmiando tira la sua e nostra carretta. La “commedia all’italiana” cinematografica, ultimo atto della tradizione che nasce con la Commedia dell’Arte e ultimo genere drammatico autenticamente nazionale, questo lo ha capito molto bene. Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì.
C’è stato un momento, nella storia recente d’Italia, che il servo comico ha creduto di non essere più solo, e allora ha dato il meglio di sé. Piaccia o non piaccia, quel momento è stato il fascismo: gli anni del fascismo sono anche l’ Età dell’Oro del Varietà italiano. Il segreto di Pulcinella dell’amore che un comico eccelso come Ettore Petrolini portava al fascismo e a Mussolini sta tutto qui, nella gratitudine per il signore che mettendogli la mano sulla spalla, lo rimetteva al suo posto (per essere felici gli uomini in generale, dice Aristotele, ma in particolare gli artisti, aggiungo io, hanno bisogno soprattutto di questo: di trovare il loro posto).
Poi è andata come è andata, cioè male, e non tanto perché l’Italia fascista ha perso, ma perché l’Italia postfascista ha fatto finta. Fatto finta di non essere stata fascista ma antifascista in pectore; di non essere stata occupata ma liberata; di non avere perso ma vinto la guerra.
Ora, al servo, che per definizione vive in stato di necessità, è lecito fare finta, imbrogliare le carte e mentire: su che altro se non su questi raggiri si basano i meccanismi comici, da Plauto ad Arlecchino a Paolo Villaggio? Al signore, al tragico signore con la sua sovrana libertà, no: a lui non è lecito, far finta. Senza verità la tragedia è, nel migliore dei casi, melodramma.
Un signore che ne trasse le tutte le debite conseguenze fu, per esempio, Raimondo Vianello, il nobilnato Raimondo Vianello: suo padre era Ammiraglio di Squadra della Regia Marina, suo zio, ammiraglio anche lui, precettore del Duca di Spoleto. Raimondo, che non aveva gradito l’8 settembre dei Savoia, da signore si fece comico, e dunque servo (Aneddoto: in tournée a Bologna col varietà insieme a Galeazzo Benti[voglio], altro nobilnato transfuga, Vianello e Benti vanno a far visita di dovere all’anziana contessa Bentivoglio, zia di Benti. Si presentano al portone di Palazzo Bentivoglio in abito blu e mazzi di fiori, suonano. Il maggiordomo apre, si presentano, il maggiordomo va a sentire se la contessa è in casa. Torna e dice: “La signora contessa informa i signori che per loro non sarà mai in casa.”)
Insomma, dal dopoguerra il servo comico ha dovuto di nuovo caricarsi sulle spalle il peso dell’assenza del signore, il peso di rappresentare da solo la comunità nazionale. Da allora, fa quel che può. Ci fa ridere fino alle lacrime, degli altri e soprattutto di noi stessi. Ci rappresenta peggiori di quel che siamo, e così ci strizza l’occhio, ci rassicura e ci consola; vero, Silvio B.?
Ma a pensarci bene, com’è triste, com’è solitaria questa allegria! Che voglia di piangere lacrime di sconforto, di rabbia, di umiliazione, dopo queste risate!
Dibattito

Elio Paoloni

Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì. L’ho sempre detto

Roberto Buffagni

Elio Paoloni E’ curioso e significativo che alcuni tra i maggiori comici italiani dello scorso secolo siano stati fascisti impenitenti: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Aldo Fabrizi…
Bella riflessione.
Ma il mondo non si divide solo in comico e tragico.
E forse la tragedia dell’Italia non è quella di non avere la tragedia (la più grande opera letteraria di un nostro artista, in fondo, è una Commedia).
Grandi assenti in questa riflessione (e in Italia sono state spesso consapevolmente dimenticate) sono l’epica e, soprattutto, la fiaba.
Un paese tragico è un paese di conquistatori a cui onestamente invidierei poco (vedi l’Inghilterra).
Una cultura che dimentica grandi imprese ed eroi, per quanto lontani nel tempo e, soprattutto, perde lo sguardo verso l’alto e l’invisibile, è votata alla dannazione, che è peggio della morte.

Roberto Buffagni

Dario Biagiotti La tragedia è una delle dimensioni della vita, e una delle possibilità dell’arte. Non c’è solo quella, neanche nelle letterature che hanno prodotto tragedie eccelse. In Italia la fiaba c’è eccome (la fiaba popolare, e la fiaba colta, Collodi per tutti). L’epica c’è molto poco, spesso in forme comico-picaresche, molto interessanti però, pensa a Merlin Cocai (Teofilo Folengo), o, in altro modo, diciamo più civile, a Ippolito Nievo e a G.C. Abba, a Riccardo Bacchelli

Roberto Buffagni

Dario Biagiotti Aggiungo poi che le tragedie storiche inglesi, anzitutto shakespeariane, sono tragedie della guerra civile (Due Rose). Il punto che volevo sottolineare è che la tragedia è la forma drammatica che più si adatta e conforma alla dimensione del Politico con la maiuscola. Vedi la tragedia greca, che aveva una diretta funzione politica (mostrare il momento della decisione tragica, formarvi il pubblico) in una polis ove la scelta politica era questione di vita e di morte per tutti gli spettatori/cittadini.

Dario Biagiotti

Roberto Buffagni infatti ho detto che in Italia la fiaba è stata dimenticata (colpa soprattutto della borghesia intellettuale post marxista che ha eletto a grande letteratura solo ciò che avesse un riflesso immediatamente politico, con la minuscola – vedi l’insopportabile verismo e la sua propaggine recente, cinematografica, del neorealismo).
Poi, secondo me il Politico, anche con la maiuscola, è il grado più basso delle dimensioni umane. E la vocazione principale dell’arte dovrebbe rimanere la tensione dello spirito al trascendente attraverso il fatto estetico. La fiaba, che io intenderei come genere d’elezione del meraviglioso (nel senso che gli dà Todorov), è stata dimenticata nell’Italia di oggi e di ieri, sostituita dall’illusione stupidamente materialista della pseudo-cronaca. Facendo nostra la reazione di Ippolito d’Este all’Orlando furioso, ed eleggendola a criterio d’elezione di interpretazione del reale e dell’invisibile, abbiamo perso davvero l’anima.

Gennaro Scala

Molto interessante. Non so se aggiunge qualcosa il fatto Dante volga in conclusione la “tragedia di Ulisse” in comicità. Virgilio che congeda bruscamente Ulisse in mantovano, dopo avergli parlato in greco (Tasso sosteneva che Virgilio finge di essere Omero). Ed uno dei pochi passi in cui Dante effettivamente risulta comico. Secondo Julia Bolton Holloway “Dante writes his Commedia, turning the tragedy of exile into the comedy of pilgrimage”.

Roberto Buffagni

Gennaro Scala Dante non vuole far tragedia, perché la tragedia cristiana non esiste e non può esistere. Vuole fare un’altra cosa e la fa, direi, molto bene

Gennaro Scala

Roberto Buffagni sì, lo fa molto bene. Auerbach: “L’immagine dell’uomo si pone davanti all’immagine di Dio. L’opera di Dante ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta.”

Roberto Buffagni

Gennaro Scala Certo. Auerbach interprete all’altezza del suo oggetto.

Gennaro Scala

Cmq, anche in termini formali quella di Ulisse è una tragedia, l’eroe che va incontro al suo inevitabile destino. Ma è la tragedia di Dante stesso, perché Ulisse è Dante, come già da detto e suggerito da vari commentatori, a cominciare da Boccaccio e Petrarca

Luciano Prando

caro buffagni e tutti gli altri, complimenti ho letto il suo pezzo e mi ha affascinato, ma ci terrei a chiarire che dramma e tragedia non sono la stessa cosa: la tragedia è irreparabile, sei andato a letto con tua madre e hai ucciso tuo padre, la tragedia racconta le conseguenze di un atto irreparabile…..il dramma invece racconta come si sviluppano fatti dalle conseguenze drammatiche: t’innamori di tua sorella, le uccidi il marito. la violenti, lei si uccide per la vergogna, tu diventi pazzo, la vecchia madre rimane sola e piange……la commedia è il racconto di fatti e sentimenti normali…….la farsa o la comicità è lo svelamento di fatti tragici, drammatici o normali in forma paradossale, il buffone di corte…..la suddivisione non è accademica ma corrisponde alla vita reale, a tutti capita di vivere situazioni tragiche, drammatiche, da commedia o comiche, paradossali…….detto questo è vero gli italiani mancano del senso del tragico e rifiutano il dramma, girano tutto in commedia, infatti non abbiamo mai avuto veri comici ma commedianti border line con la comicità, vero è che perdono una guerra disastrosa, viene distrutto un sistema sociale cui la larga maggioranza aveva aderito vengono occupati da truppe straniere e fingono di averla vinta la guerra, di entrare a milano quando non c’era più nessuno ad opporsi e le truppe alleate erano ad un tiro di schioppo…..forse gli unici veri comici di quelli citati sono stati walter chiari e bramieri che facevano ridere senza essere personaggi in commedia

Roberto Buffagni

Luciano Prando Grazie. Non concordo con la sua definizione di tragedia. Ci sono diverse tragedie che finiscono con l’happy end. Ciò che definisce la tragedia, per farla molto breve, è questo: che il protagonista deve prendere una decisione senza che la legge, il costume, la religione gli forniscano una soluzione prefabbricata. C’è il mondo che è grande, il cielo che è lontano, tu che sei solo: incipit tragoedia. Per questo è il genere drammatico più conforme al Politico, perché la situazione del protagonista corrisponde alla situazione del decisore sovrano nello stato d’eccezione. Ecco perché la tragedia, nell’Atene del IV secolo a.c., era finanziata dalla polis, e la partecipazione del pubblico gratuita: perché costituiva il principale strumento di formazione ed educazione politica di cittadini che in assemblea avrebbero dovuto prendere decisioni di vita e di morte per tutta la città.

Luciano Prando

caro buffagni, la definizione di tragedia come conseguenze di un evento irreparabile è propria del teatro greco, quello cui lei si riferisce è il dramma, infatti lei è costretto a dire “il genere drammatico”………il resto del ragionamento fila: puoi essere attratto da tua sorella ma devi decidere da solo se soddisfare il tuo desiderio in qualsiasi modo o soffrire senza soddisfarlo…..ripeto le definizioni non sono accademia ma specchio della vita reale

Roberto Buffagni

Luciano Prando Ho capito quel che lei intende dire, che è più che sensato. Non intendo farne una discussione tecnica, ma giusto per non fraintenderci le dico che “generi drammatici” sono tutti i generi di rappresentazione teatrale: tragedia, commedia, dramma (con le loro specificazioni). “Dramma” significa “azione”, e “sviluppo drammatico” hanno tutti i generi teatrali, il tragico come il comico, perché vi si dipanano delle azioni. La “irreparabilità” dell’evento tragico è senz’altro una caratteristica del genere tragico, che si svolge al cospetto della morte, nel senso che le azioni che vediamo sulla scena sono presentate nel peso specifico e nel valore che esse assumono soltanto quando abbiamo ben presente la morte, che rende irrevocabili gli atti. La stessa vicenda può essere raccontata in forma di commedia o di tragedia, appunto se la narriamo al cospetto della morte (tragedia) o no (commedia). Questo avviene anche nella nostra vita. Noi sappiamo di dover morire, e che dunque ogni nostro atto, anche il minimo, è irrevocabile e dunque “irreparabile”. Semplicemente, per la maggior parte del tempo non ci pensiamo, e agiamo, viviamo, pensiamo e sentiamo come se potessimo vivere in eterno e rendere revocabili e rimediabili tutte le nostre azioni.

Luciano Prando

caro buffagni, lei si scontra con uno che il teatro lo conosce bene…..la tragedia è la tragedia, il dramma è il dramma, la commedia la commedia, la farsa o il comico la farsa e il comico, altrimenti nel linguaggio gli eventi non verrebbero aggettivati come tragici, drammatici, da commedia, farseschi, altrimenti si fa solo confusione dialettica, altrimenti detta polverone…….si consoli, le cito un evento passato: quando strehler mise in scena la trilogia della villeggiatura nessun professore si accorse che aveva tagliato tutti gli a parte trasformando il teatro frontale di goldoni in intimismo realista
NB_tratto da facebook

In ricordo di Piero_La redazione

Un anno fa è morto Piero Visani. Tra le cose che amava, c’era la Scozia; i luoghi e i paesaggi, e l’allegra, ostinata lealtà combattiva degli scozzesi. Lo ricordiamo con l’Epitaffio per un amico del poeta scozzese per antonomasia, Robert Burns.

Epitaph On A Friend

An honest man here lies at rest,
The friend of man, the friend of truth,
The friend of age, the guide of youth;
Few hearts like his, with virtue warm’d,
Few heads with knowledge so inform’d;
If there’s another world, he lives in bliss;
If there is none, he made the best of this.

Robert Burns

http://italiaeilmondo.com/category/dossier/contributi-esterni/piero-visani/

LA MERITOCRAZIA DEI COMPETENTI E LA MERITOCRAZIA DEI TALENTI, di Leo Renzi

LA MERITOCRAZIA DEI COMPETENTI E LA MERITOCRAZIA DEI TALENTI: PERCHE’ MARIO DRAGHI HA BISOGNO DI ELODIE
Lo scenario socio-economico è drammatico: disoccupazione femminile galoppante, l’aumento del disagio psichico giovanile a causa dell’isolamento sociale e dell’assenza di prospettive per il futuro, il Sud abbandonato a se stesso. Il Recovery Fund promette di portare alle casse dello Stato pochi spicci in cambio del pareggio del bilancio… in questo scenario di generale smarrimento e sfiducia nel futuro, le lotte collettive sono pressoché azzerate, dato che ognuno s’ingegna a sopravvivere come può.
In questo contesto il potere per legittimarsi deve dare una speranza, proporre un ordine dai valori monolitici e dai criteri chiari per dividere chi rientra nella società post-pandemica e chi no. Il valore individuato proposto da Draghi è la meritocrazia, di cui lui è la massima incarnazione tricolore. Il problema della meritocrazia che propone come modello i Draghi, i membri del CTS, i CEO delle multinazionali, gli scienziati delle Big Pharma ecc è che i suoi connotati di classe sono fin troppo lampanti: solo se vieni da una famiglia ricca o quanto meno benestante puoi sperare di poter investire decine di migliaia di euro in istruzione e master, per aprirti un’azienda hi-tech o mentre scali dal basso le gerarchie delle istituzioni universitarie o degli organismi internazionali… e se nasci come Elodie in una famiglia povera o appartenente alla classe media impoverita? In quel caso il sogno della scalata dal basso si arresta già alla fine delle superiori, quando altri 5 anni di studio e altre decina di migliaia di euro investiti sembrano uno sforzo titanico alle finanze familiari. Ecco allora spuntare il puntello all’autoevidente classismo del sistema della meritocrazia dei competenti, che noi chiameremo la meritocrazia dei talenti: nel caso tu nasca povero e i soldi per acquisire le competenze per la scalata sociale non li hai, puoi puntare sui tuoi talenti sportivi e artistici che abbisognano più di tempo che di soldi per essere sviluppati e messi a rendita… se ti mancano i soldi per diventare Draghi, puoi diventare Elodie o Ibrahimovic, Marracash o Paola Egonu.
E’ il sistema USA delle “attitudini” trasportato nel Bel Paese: esattamente come negli USA alle minoranze etniche (e ai bianchi poveri) escluse dall’american dream a causa delle svantaggiose condizioni sociali di partenza vengono proposte potenziali ricche carriere nel basket o nel cinema, nel baseball o nel rap, qui si tenta un’operazione simile, facendo balenare ai poveri esclusi dal sistema della competenza il sogno dell’ascesa sociale tramite lo sport, il cinema o la musica.
Elodie (intesa ovviamente non come persona, ma come idealtipo) è quindi l’altra faccia della medaglia di Mario Draghi: il tutti contro tutti per arrivare ad occupare il vertice dello showbiz sostituisce la lotta di classe per il miglioramento delle condizioni collettive, chi nasce economicamente svantaggiato invece di lottare per migliorare le proprie condizioni di partenza o le proprie condizioni di lavoro tramite welfare state e diritti sindacali, si batte perché gli sia garantito l’accesso all’arena dei talent o delle giovanili sportive. Il fatto che ai vertici dello sport o dello spettacolo ci possano stare solo poche centinaia di persone non mette in crisi il modello: l’importante è che la lotta per essere fra i pochi privilegiati sia aperta a tutti, così che tutti si impegnino nel combatterla distogliendo le loro forze dalle lotte collettive. E chi non vuole partecipare a tale battaglia o si accorge fin da giovane di averla persa? Non gli rimane che la povertà e l’insignificanza, perché ogni altra forma di miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche è svanita: i partiti con radicamento popolare sono morti, lo stato è ovunque in ritirata e contrae i fondi destinati alle fragilità sociali, i sindacati non promuovono più lotte salariali.
Il problema del discorso autobiografico-motivazionale di Elodie a Sanremo non è quindi l’essere la storia del suo riscatto personale, ma il suo fungere da puntello ideologico inconsapevole ad una nuova idea di società: quella in cui pochi competenti iperistruiti dominano una massa di poveri ed impoveriti in lotta per accaparrarsi i posti al vertice dello showbiz.
AFFINITA’ E DIVERGENZE FRA LA COMPAGNA ELODIE E NOI, di Leo Renzi
Parafrasando il titolo di un vecchio album dei CCCP rispondo alle obiezioni più interessanti generati dal mio post sul discorso autobiografico-motivazionale di Elodie, per chiudere la polemica e passare ad occuparmi d’altro.
1) Prima obiezione: il discorso di Elodie non collima al 100% con la mia definizione dello stesso come “american dream in salsa tricolore”.
La mia risposta: io ho preso il discorso di Elodie come un idealtipo di una serie di uscite analoghe fatte da cantanti, attori, sportivi, ecc sul medesimo tono e nel medesimo arco temporale (quest’anno segnato dalla pandemia). L’ideatipo è un modello, a cui i singoli discorsi concreti non si conformano mai al 100%. Questo perché gli esseri umani non sono stereotipi ambulanti ma biografie complesse da cui si estraggono minimi comun denominatori: è quello che fa da sempre la sociologia e la critica del costume.
2) Seconda obiezione: criticare Elodie è classista.
Risposta: classista sarebbe se avessi criticata la sua scelta d’aver abbandonato la scuola per la carriera d’artista, invece di proseguirla e diventare l’ennesima laureata squattrinata. Io non l’ho assolutamente fatto, sia perché dal punto di vista della sua ascesa sociale personale ha compiuto la scelta migliore, sia perché non ho il feticismo dell’istruzione. Il problema che ho posto io è un altro: a livello statistico è più facile migliorare o mantenere il propio status sociale puntando sull’istruzione che scegliendo la via dello showbiz. Per questo è problematico proporre la sua ascesa personale come un modello per altri dal palco di Sanremo.
3) Terza obiezione: il fatto che un mascio-etero-bianco critichi una donna è una forma di etero-patriarcato maschilista.
Risposta: questo è fondato solo se si adotta il modello liberal delle politiche dell’identità: quindi ogni genere, orientamento sessuale, etnia, ecc è un mondo chiuso in se stesso, a cui è impossibile muovere alcuna critica o persino azzardarsi a fare un’analisi di ciò che propone. Essendo un umanista io ritengo invece che ogni essere umano, indipendentemente da razza, sesso, religione, ecc sia dotato di ragione, e quindi ogni essere umano abbia il diritto di analizzare e criticare ciò che un altro essere umano sostiene pubblicamente.
4) Quarta obiezione: criticare (o perfino analizzare) significa odiare l’oggetto criticato.
Risposta: questa è un’aberrazione concettuale che rimanda tanto alla retorica berlusconiana (critichi il Cavaliere perché lo invidi) quanto alla visione emozionale e sentimentalistica tipica dei talent, dove non esistono idee neutre ma solo odi, amori, ammirazioni e rancori. Non sono nè pro nè contro Elodie, e non vedo perché dovrei esserlo: è un individuo che si muove in un determinato ambiente sociale, ha un determinato ruolo e lo esercita secondo determinate idee. E’ questo ad interessarmi, null’altro.
5) Quinta obiezione: lei ha solo raccontato la sua vita davanti a tutti, e ha proposto un sogno che da speranza ad altri.
Risposta: vederla in questo modo significa decontestualizzare totalmente il discorso. Parlare della propria autorealizzazione e ascesa sociale dal palco del festival musicale più seguito d’Italia non è un accidente, ma una scelta. Proporre una determinata scelta individuale come modello in un momento storico di crisi economica generalizzata non è un caso, ma suggerire implicitamente una possibilità per uscirne.
Ribadito questo, non c’è assolutamente nulla di male nella persona di Elodie né nel suo discorso preso in sé: è il proporlo implicitamente come modello per altri nell’attuale contesto socio-economico ad essere perlomeno problematico.
Detto questo e ritornando al titolo del post, le affinità che trovo con la compagnia Elodie sono tante quanto le divergenze: l’ambizione nel puntare all’ascesa sociale è sacrosanta se sei povera, dato che è quell’ambizione a muovere da sempre tanto la lotta individuale quanto quella collettiva; il farlo bypassando il sistema classista dell’istruzione se hai i talenti e le conoscenze per farlo è un punto a favore, poiché il feticismo dell’iperistruzione è tipico della classe media benestante e della wannabe tale, classi che amo molto poco; l’esprimere pubblicamente dubbi e insicurezze nonostante il successo raggiunto significa rimanere esseri umani complessi, evitando di diventare stereotipi ambulanti del mito del selfmade man/woman.
Detto ciò, il punto rimane quello del mio primo post: i posti disponibili al vertice dello showbiz sono poche centinaia, ai milioni di individui che non ce la faranno a fare la scalata cosa resta? E’ ancora possibile per loro aspirare ad una vita dignitosa? Questo è il vero punto su cui riflettere.
Maurizio Tirassa

Grazie, bella l’intervista di Sacchetti. A me poi la musica leggera piace, la ascolto poco ma ogni tanto sento cose belle. Nel cinema la svolta verso il basso è avvenuta quando a) lo Stato ha smesso di imporre quote alle importazioni da Hollywood (come insegna F. List, non si può competere con chi è già arrivato in cima alla scala con il free trade) b) quando Silvio ha comprato il catalogo Paramount e ha cominciato a iniettare film in tv 24/7. Manco Alessandro Magno poteva resistere a quelle condizioni. In concomitanza con questi eventi luttuosi c’è stato un profondo cambiamento di mentalità del pubblico riguardo al rapporto tra cultura/arte/artigianato e merce. Esempio illuminante. Nella vecchia pubblicità di Carosello, c’era una storiella con una sua autonomia + il personaggio famoso, di solito un attore, che faceva il testimonial, tipo Gino Cervi con “Vecchia Romagna etichetta nera, il brandy che crea un’atmosfera”: dopo la storiella Gino in giacca da camera col bicchiere in mano. Stop. Questa forma rispecchiava la mentalità profonda del pubblico italiano, in particolare della borghesia, alta media e bassa. In sintesi “i soldi piacciono a tutti ma sono una cosa inelegante e un po’ schifosa benché necessaria, che va tenuta a distanza dalla cultura, dall’arte, dall’amicizia e dai bambini” Sono abbastanza vecchio da ricordare che a) ai ragazzi le persone ammodo NON davano soldi, MAI, se non contati, per precise incombenze. L’idea di dargli la carta di credito non sfiorava la mente di nessuno, neanche dei ricchi. b) A persona di ceto non subalterno NON si davano MAI i soldi direttamente in mano, sempre in una busta, e posandoli sul tavolo o altra superficie, MAI direttamente in mano, tipo “facciamo finta di niente”. Negli anni 70, arrivò il primo esempio di pubblicità all’americana, con la merce sbattuta in faccia al pubblico. Era la pubblicità del Dash. Paolo Ferrari, ottimo attore caratterista del teatro italiano, assurto a fama universale grazie allo sceneggiato TV in cui Tino Buazzelli interpretava il detective dilettante Nero Wolfe e Ferrari il suo braccio destro Archie Goodwin, si presentava a un paio di casalinghe italiane con due fustini di detersivo ignoto e proponeva: “Le do due fustini se le mi dà il suo fustino di Dash”. La casalinga si dichiarava pronta a morire per il suo fustino di Dash. Bene. Dopo l’esordio del carosello Dash, Ferrari torna in teatro a fare il suo mestiere. Quando entra in scena, dalla platea buia sorge il mormorio “Dash….Dash…Dash”. Il pubblico tossisce, si agita, è inquieto, non ci sta a rivedere in scena “in una cosa seria” il buffone del fustino. Ferrari ha avuto seri, serissimi problemi a ritrovare scritture in teatro. Giustapponi questo aneddoto a quello di Accorsi e della svolta con il Maxibon che ho riferito sopra e capisci tutto della svolta di mentalità del pueblo italiano.

Prima & dopo la cura, di Roberto Buffagni

In sintonia con il 150esimo dell’Unità d’Italia, mi sento in vena di anniversari, bilanci e morali. Ho cominciato la scorsa settimana con il bilancio di venticinque anni di frequentazione del varietà, ricavandone la seguente morale: com’è triste, il comico italiano!Oggi la serie prosegue con un altro bilancio venticinquennale: la mia prima (1986) e seconda (2010) traduzione per le scene italiane di Glengarry Glen Ross di David Mamet.

Il banale aneddoto personale servirà per lanciare il seguente sondaggio d’opinione: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?” E via con la storiella.

Venticinque anni fa tradussi e adattai per le scene italiane Glengarry Glen Ross di David Mamet (Teatro Stabile di Genova 1986, regia L. Barbareschi, con P. Graziosi, U.M. Morosi). In America Glengarry aveva appena vinto il Pulitzer. Ivo Chiesa, che dirigeva lo Stabile di Genova, mi affidò la traduzione perché due anni prima avevo per primo tradotto e adattato per il Piccolo Eliseo un lavoro di Mamet (American Buffalo, regia F. Però, con M. Venturiello e S. Rubini). Problema: Mamet era ritenuto, con ottime ragioni, intraducibile. Il “Mamet speak”, come lo chiamano negli USA, è uno slang strettissimo dal ritmo jazzistico studiato sul modello criptico della lingua di Pinter, e punteggiato da un turpiloquio di asfissiante monotonia. I suoi personaggi sono così idiosincraticamente e naturalisticamente americani che li identificherebbe a prima vista per tali uno spettatore proveniente da Alpha Centauri. Con American Buffalo m’ero cavato d’impiccio con un radicale adattamento italiano, e avevo trasformato i due balordi di ghetto USA in due balordi italiani di periferia metropolitana, riscuotendo un lusinghiero successo personale. Ma Glengarry non si poteva trasportare in Italia, perché il contesto dell’azione drammatica non aveva un vero e proprio correlativo oggettivo italiano, e dunque avrei finito per riscrivere daccapo un dramma “liberamente tratto” dall’opera di Mamet (che mi avrebbe giustamente mandato in galera).

Che cosa c’era di così alieno per un italiano, nel contesto dell’azione drammatica di Glengarry? La trama è questa. Un gruppo di agenti immobiliari che lavorano al limite della truffa vende terreni farlocchi a prezzi gonfiati. I capi indicono un sales contest mensile: il primo in classifica vince una Cadillac, gli ultimi due il licenziamento in tronco. USA land of opportunities, e vinca il migliore? Mica tanto. La gara è falsata da una specie di Comma 22. Per vendere è indispensabile avere i nominativi di serie A, quelli dei migliori clienti potenziali, che i capi comunicano solo a chi fattura di più; a chi fattura di meno, danno nominativi di serie Z (balordi spiantati). A fine primo atto qualcuno sfonda la porta dell’ufficio e ruba i nominativi di serie A. Chi è stato? Non guasto la festa a chi volesse per la prima volta leggersi il dramma o vedersi il film che ne fu tratto (Americani, 1992, di J. Foley, con Al Pacino, Jack Lemmon, Ed Harris, Alan Arkin, Kevin Spacey e Alec Baldwin, quest’ultimo nella foto in alto, mentre prorompe nella ormai epocale battuta: “Secondo premio: sei coltelli da bistecca”…).

Per l’attore italiano del 1986, e di conseguenza per lo spettatore italiano suo contemporaneo, i personaggi di Glengarry e le loro motivazioni erano totalmente alieni perché:

1) I suddetti personaggi non agiscono in base a motivazioni psicologiche riconducibili alla loro storia ideologica, emotiva, familiare, etnica, sessuale, etc. Non hanno storia personale, non hanno profondità psicologica: in confronto, Arlecchino è un personaggio ibseniano. Come ai personaggi di Pinter, gli è stata chirurgicamente asportata la dimensione del “perché”, sotto tutto i rispetti tranne uno: i rapporti di forza di volta in volta vigenti nella situazione drammatica data. Nel caso di Glengarry, questi rapporti di forza dipendono esclusivamente da due elementi: a) i soldi b) la capacità di ingannare il prossimo allo scopo di fare soldi: un’abilità direttamente proporzionale alla fiducia in sé generata dai soldi fatti nell’immediato prima.

2) Il contesto descritto al punto precedente non produce una commedia magari nera sugli imbroglioni, ma una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte perché: a) non esiste la minima provvidenza sociale, né la minima rete di protezione familiare o amicale, per chi perde il posto di lavoro. Se non ne trovi subito un altro (e se non sei giovane e vincente non lo trovi) facile che finisci a dormire per strada e rovistare nei cassonetti b) le spese correnti assorbono tutto il reddito, e anzi è normale campare sui debiti, finché regge il plafond delle carte di credito. Se ti salta il reddito di un mese, non hai di che pagare la consumazione al bar. Se nella competizione per fare soldi (con qualsiasi mezzo) non vinci, vieni dunque annichilito, liquidato, cancellato anche dalla memoria altrui: sei morto e forse peggio che morto.

Insomma, per interpretare credibilmente un personaggio di questo dramma, l’attore italiano di venticinque anni fa non sa da che parte prenderlo. Proponendo i ruoli sulla base di una prima stesura della traduzione abbastanza fedele all’originale, il regista ed io ci sentiamo chiedere più di una volta: “Ma chi è questa gente?! Che storia ha? Perché dice questo?” (Un grande attore caratterista rifiutò il ruolo che al cinema fu di Jack Lemmon perché nel dialogo c’erano troppe parolacce: o gran bontà dei cavalieri antiqui…). Provo a spiegare quel che ho spiegato qui, do fondo alle mie capacità analitiche e retoriche, e vedo certe facce… niente da fare, il messaggio non arriva.

Una legge ferrea del teatro è la seguente: se gli attori non capiscono e accettano a fondo il loro personaggio e le sue motivazioni, tanto meno lo capiranno gli spettatori. Risultato: per quanto si parli e si spieghi, lo spettacolo va a sbattere. Dunque trasformo la traduzione in parziale adattamento, e pur senza modificare radicalmente l’azione drammatica e l’ambientazione, che rimane americana, arrotondo e do spessore psicologico ai personaggi. Dirò senza falsa modestia che feci un ottimo lavoro; infatti, col nuovo copione sbrigammo in quattro e quattr’otto il casting, lo spettacolo ebbe un largo successo di pubblico e di critica, e ci incassai anche un bel po’ di diritti d’autore.

Passano venticinque anni e succedono tante cose: a me, al teatro, all’Italia e agli italiani.

Nel 2010 un nuovo gruppo di attori, guidati da un’altra regista, vuole rimettere in scena Glengarry Glen Ross (Compagnia Jurij Ferrini in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, regia di C. Pezzoli, con J. Ferrini, M. Fabris). Cristina Pezzoli, una cara amica, e Jurij Ferrini che conoscevo e stimavo solo di nome (è un ottimo e inventivo attore) leggono la mia traduzione di venticinque anni prima, la confrontano con l’originale e si accorgono che c’è molta farina del mio sacco. Mi chiedono il perché, e io glielo spiego. Ne parliamo, e visto che il tempo c’è, decidiamo di provare a riavvicinarci all’originale. Riscrivo una traduzione aderentissima all’originale, nel lessico, nel ritmo, nella costruzione dei personaggi, insomma in tutto (un lavoraccio). La proviamo con gli attori, tutti giovani. Risultato: tutti entusiasti. Naturalmente si accorgono che è molto difficile interpretarla bene, ma nessuno fa problemi, nessuno chiede “Chi è questa gente? Che storia ha? Perché dice questo?”. Quando spiego che qui le uniche motivazioni reperibili sono i soldi, nessuno trasecola, nessuno fa la faccia perplessa, tutti annuiscono come quando dici che fuori piove, e in effetti sta scrosciando un temporale. Insomma, si va in scena al Festival di Asti, e Glengarry 2 nella nuova traduzione ottiene un buon successo di pubblico e di critica.

Dipende dal fatto che nei venticinque anni trascorsi dalla prima alla seconda messa in scena italiana di Glengarry David Mamet è diventato famoso anche qui? No. La fama ti garantisce disponibilità all’ascolto, non comprensione; e se un attore non capisce sul serio, sa di non poter fare una decente figura in scena.

No. Dipende dal fatto che in questi venticinque anni, il contesto americano di Glengarry è diventato il nostro contesto. Attori e pubblico italiani non trovano più strano un personaggio senza storia e senza psicologia, motivato esclusivamente da rapporti di forza basati sui soldi e basta. Non trovano più alieno un mondo in cui puoi venire licenziato di punto in bianco, e non avendo la protezione della famiglia, degli amici e dei risparmi, facile che finisci a dormire sotto i cartoni. Uno sviluppo drammatico basato esclusivamente su rapporti di denaro (per somme nient’affatto grandiose, poco più che spiccioli) li tiene col fiato sospeso e la faccia scura perché sanno che si tratta di una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte (venticinque anni fa, il pubblico rideva e sorrideva spesso; oggi, quasi mai).

Ah, per finire: di diritti, ci ho preso una miseria. Come mai? Perché venticinque anni prima il Teatro Stabile di Genova produceva lo spettacolo con la sua compagnia (altrettanto stabile e dignitosamente pagata), e garantiva una più che onorevole tournée italiana dello spettacolo. Venticinque anni dopo, il Teatro Stabile di Torino nella teoria produceva lui lo spettacolo, però nei fatti lo dava in franchising per due euro alla compagnia Jurji Ferrini, così: a) attori, regista, scenografo, etc., tutti precarizzati, erano costretti a lavorare per una miseria anticipando le spese vive b) non dovendo ammortizzare le spese di allestimento e riscuotendo egualmente il finanziamento ministeriale e regionale, lo Stabile di Torino non aveva motivo di garantire la tournée allo spettacolo.

Tant’è vero che a un certo punto, parve che addirittura lo Stabile di Torino non volesse ospitare il nuovo allestimento di Glengarry nel suo circuito regionale piemontese. Gli attori erano disperati: rischiavano di lavorare gratis e forse di doverci rimettere di tasca propria. Allora uno di loro, amico personale di Mario Martone, il regista cinematografico che era anche direttore artistico dello Stabile di Torino, inghiotte l’orgoglio e gli telefona. “Caro Mario, come stai?” “Ah, ciao caro ***”. “Sai, Mario, sto facendo Glengarry con Ferrini e la Pezzoli, il lavoro è appassionante, sta venendo molto bene, etc. etc.” “Ah sì? Mi fa molto piacere, poi lo so, Ferrini è bravissimo, la Pezzoli la stimo molto, etc. etc.” “Sì, però, vedi Mario, qui la produzione non ci vuole dare il circuito regionale, siamo disperati, senza quelle piazze finisce che ci rimettiamo di tasca nostra…” “Ma davvero?! Incredibile, dove andremo a finire! E dimmi, chi lo produce lo spettacolo?”

Lo spettacolo lo produceva lui. Lui, cioè il Teatro Stabile di Torino, grande istituzione culturale pubblica da lui diretta. Venticinque anni prima, per risolvere qualche problemino dell’allestimento di Glengarry 1 c’era capitato di dover telefonare a Ivo Chiesa, direttore dello Stabile di Genova e famigerato autocrate: posso garantire che se a volte ci mandò a quel paese, mai e poi mai dubitò di esserne il produttore (anzi, noi ci lamentavamo, poveri ingenui, che fosse troppo padronale; mica è roba sua lo spettacolo, siamo noi artisti che, etc., etc. … perdono, Ivo! Guarda di lassù, come siamo ridotti!)

Alzheimer? Vista l’età di Martone, escluderei. No, è che in questi venticinque anni, i teatri stabili sono diventati macchine celibi: producono soprattutto se stessi (e i redditi che ne derivano). Il resto, cioè il teatro, è un effetto collaterale, una variabile dipendente, un sottoprodotto, un niente. Grande importanza invece hanno assunto il packaging e l’immagine: ecco perché il Teatro Stabile di Torino ha trovato conveniente nominare (e pagare immagino bene) un direttore artistico celebre che avendo altri interessi, fa magari un salto alla conferenza stampa d’apertura della stagione, rilascia qualche intervista, se ne ha voglia produce uno spettacolo suo, e per il resto non disturba i conducenti.

A questo punto, direi che possiamo rispondere alla domanda che ho proposto in apertura: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e no, stiamo peggio o stiamo meglio?”

Io inauguro il sondaggio rispondendo: “Stiamo peggio.” A voi la parola.

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2012/01/

Draghi sintetizzato, di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Draghi è un politico, non un tecnico. Per la precisione, è un proconsole inviatoci dall’impero euro-atlantico con l’obiettivo di stabilizzare il sistema politico italiano, non di “salvare l’Italia” e tanto meno di “salvare gli italiani”, i quali si arrangeranno (nostra specialità da secoli).
Formando questo governo zeppo di revenants, lo conferma. Con la sua sola presenza, Mario Draghi riesce a:
a) integrare il centrodestra polverizzando in nanoparticelle l’espressione politica del “sovranismo/populismo”
b) riconfigurare l’intero sistema politico italiano, centrosinistra compreso (PD e M5* dovranno rifondarsi)
c) ostendere urbi et orbi che il refrain qualunquista “sono tutti uguali” è una TAC della realtà, ossia a delegittimare il suffragio universale, che dà molto fastidio ma non è possibile abolire, e demoralizzare l’iniziativa politica autonoma
d) predisporre lo scarico di tutte le colpe sui partiti (tutti) e l’avocazione di tutti i meriti a sé e ai tecnici che purtroppo, rispettosi come sono delle leggi e dei popoli, non possono guidare da soli come sarebbe opportuno e giusto
e) infine, come effetto collaterale, semplificare il recupero crediti e le procedure fallimentari (la riforma della giustizia civile consisterà in questo) + gestire il Recovery Fund in modalità più presentabili.
E’ un risultato politico di eccezionale valore e importanza per i mandanti di Draghi (l’amministrazione USA), che così fanno un decisivo passo avanti nell’integrazione dell’intero Stato Maggiore politico di tutte le forze antisistemiche “sovraniste/populiste” occidentali, che li hanno seriamente preoccupati negli scorsi anni. L’Italia non è più un problema, la Francia è avviata nella stessa direzione. Più lungo e difficile il lavoro di integrazione delle forze che hanno espresso Trump negli Stati Uniti (normalizzazione del partito repubblicano tutto).
Comunque, il campo euro-atlantico si è guadagnato anni di tregua e di stabilità. I problemi di fondo restano insoluti, ma dormienti. “Goodnight, sweet prince”.
Non si capisce la questione della competenza se non si tiene presente che nel corso del Novecento – oltre al conflitto centrale tra capitale economico e capitale culturale che costituisce la vera “lotta di classe”, ovvero borghesi contro burocrati, trasfigurato nella fase di transizione in un conflitto tra padri e figli – è andato in scena un continuo conflitto *all’interno* della classe competente, attorno alla definizione stessa della competenza in funzione di una lotta per il potere direttivo, articolato in dicotomie: tecnici contro organizzatori, e prima ancora specialisti contro intellettuali. In più piccolo è lo stesso conflitto che ritroviamo in ogni dibattito contemporaneo, o meglio in tutti quei dibattiti che non arrivano all’esistenza perché un’opposizione radicale sul metodo li precede, e sostituisce direttamente il dibattito. La disfatta culturale cui oggi assistiamo consiste nell’avere costituito un sistema educativo perfettamente in grado di formare tecnici, specialisti e organizzatori, salvo renderci conto che essi non possono soddisfare domande di ordine valoriale (cioè relative ai fini) mentre siamo totalmente incapaci di formare chi sarebbe preposto a rispondervi, ovvero gli intellettuali (che era poi l’ideale della Bildung, su cui non a caso si era fondata la precaria legittimità dei tempi moderni). Non stupisce che quel vuoto ora pretenda di occuparlo la religione. Nel frattempo la sindrome dell’arto mancante ha prodotto una galassia di pseudo-intellettuali, nella peggiore ipotesi inconsapevoli dei propri giganteschi limiti e nella migliore impegnati a rimpiangere quello che avrebbero potuto essere se non fossero stati costretti a inventarsi da soli, senza maestri e senza direzione.

Governo Draghi, sintesi_di Roberto Buffagni

Governo Draghi, sintesi.
Il campo anti-sistemico (populista/sovranista/nazionalista) ha tentato e fallito il superamento della contrapposizione destra/sinistra (governo gialloverde) in conformità alla comune designazione della UE come “nemico principale”.
Oggi riesce a superare la contrapposizione destra/sinistra il campo sistemico (euroatlantico/mondialista), e ottiene una vittoria strategica di prima grandezza: integra in forma subalterna la principale forza politica anti-sistemica italiana (Nuova Lega) e predispone un contenitore/ghetto per le lunatic fringes anti-sistemiche (Fd’I). Fd’I è il contenitore/ghetto ideale delle forze anti-sistemiche perché è una forza politica erede del fascismo, che con il suo semplice rifiuto di integrarsi nella maggioranza sistemica la definisce e legittima, sul piano dei valori, quale riedizione/riattivazione dell’ arco costituzionale antifascista.
Qualcosa di analogo era già avvenuto in Francia con la riuscita dell’esperimento Macron, brillantemente improvvisato per scongiurare il pericolo Front national nelle presidenziali 2016; ma il governo Draghi ne è la forma compiuta e integrale.
Come sempre avviene, la vittoria del campo sistemico consegue agli errori (catastrofici) e alle insufficienze anzitutto culturali (gravi) del campo anti-sistemico; e ovviamente alla bravura degli strateghi del campo vittorioso.
I problemi che hanno portato alla nascita di un campo anti-sistemico in tutto l’Occidente, però, non spariscono, sebbene per ora non trovino una sintesi culturale e politica adeguata.

Investitura e legittimazione di Mario Draghi, di Roberto Buffagni

Roberto Buffagni:
<Investitura e legittimazione di Mario Draghi, brevissima nota.
In superficie, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi provengono dalla sua competenza tecnico-operativa, che viene messa in risalto dalla simmetrica e conclamata incompetenza del ceto politico italiano, che per l’ennesima volta si è fatto sfilare la patente da un banchiere. Sotto la superficie, però, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi sono sacrali, regali e sacerdotali insieme. Perché Mario Draghi è stato il banchiere centrale UE, ossia colui che conferiva legalità al denaro (funzione regale) e insieme colui che lo creava (funzione sacerdotale, analoga alla Transustanziazione delle specie eucaristiche). Mi spiego meglio. Nelle società tradizionali, il denaro ha valore intrinseco (oro, argento, beni preziosi in genere) e la funzione regale si esprime nel conio della moneta, che le conferisce legalità. Ma nella nostra società, il denaro non ha alcun valore intrinseco: consiste in biglietti di banca (forma residuale) e soprattutto in accrediti e addebiti elettronici, pure scritture contabili. Nelle nostra società, insomma, il denaro è moneta fiduciaria, ossia puro segno che acquisisce valore per il solo fatto che i prenditori glielo attribuiscono “sulla fiducia”, ossia “per pura fede” (“sola fides”, il presupposto della Riforma luterana). La fiducia e la fede però sono cose serie, e vanno garantite da qualcuno. Il qualcuno che le garantisce, in questo caso il banchiere centrale che transustanzia una pura scrittura elettronica nella moneta a corso legale che consente a tutti di vivere la vita quotidiana, assume by stealth la funzione sacerdotale. E sia detto per inciso, è questa funzione sacerdotale che lo qualifica a richiedere e celebrare “i sacrifici” che vengono regolarmente richiesti alle popolazioni dalle istituzioni economiche e politiche, che oggi risulta difficile distinguere.
Funzione regale e funzione sacerdotale implicano ovviamente una legittimazione incompatibile con la legittimazione oggi ufficialmente rivendicata da tutti i regimi politici occidentali, ossia “la volontà del popolo” (la democrazia a suffragio universale).>

 

vedo o non vedo?_di Roberto Buffagni

L’EMANCIPAZIONE REGRESSIVA
I media riportano con grande enfasi l’episodio del Liceo Socrate di Roma, dove la preside avrebbe invitato le studentesse a non mettere la minigonna perché sennò “ai professori casca l’occhio”.
Trattandosi di una vicenda francamente insignificante tacere sarebbe la cosa giusta da fare, ma dopo le minacciose “richieste di chiarimenti” della ministra Azzolina e l’odierna badilata di banalità di Gramellini, forse dopo tutto un commento è opportuno.
Le parole della preside di primo acchito sembrano solo una tra le molte possibili espressioni malriuscite in un contesto, come quello delle scuole italiane, che di solito veleggia più che dalle parti dell’inappropriatezza, da quelle dell’ordinaria follia.
Davvero niente di cui mettersi a discutere, se non fosse emersa la solita indignazione a molla sul “diritto leso” che oramai sembra occupare la totalità del discorso morale contemporaneo.
La raccomandazione della preside sarebbe un attacco alla libertà di espressione; non sarebbero le studentesse a dover sorvegliare il proprio abbigliamento ma i professori (quei maiali) a dover sorvegliare i propri sguardi.
Ora, questo, che nella sua concretezza reale sembra un non-problema, può diventarlo se diamo libero corso ad alcuni degli argomenti che sono stati usati. Si tratta di argomenti ipocriti ed ideologici, dove da un lato avremmo le pure “esigenze di espressione della personalità” espresse nella scelta dell’abbigliamento (qui femminile, ma vale anche per i maschi) e dall’altra avremmo l’improvvida animalità istintuale degli sguardi (qui solo maschili), che – signora mia – sarebbe tempo che si civilizzassero.
Ecco, questo giochino è pura manifestazione di malafede.
Innanzitutto, che il vestiario (a maggior ragione adolescenziale) sia la manifestazione di un “impulso espressivo endogeno” del tutto puro, non macchiato da alcuna valutazione degli effetti su terzi, e che “ci si veste per stare bene con sé stessi” sono ridicole fiabe.
Da sempre, e a maggior ragione nell’odierna cultura dell’immagine, e alla seconda potenza tra gli adolescenti, il vestiario è un codice rivolto agli sguardi altrui, un codice che non essendo verbale presenta sì maggiori margini interpretativi, ma che è ben lungi dall’essere neutrale o arbitrario.
Non è, naturalmente, mai un pezzo di stoffa, o la sua mancanza, a definire univocamente un messaggio: il contesto è sempre anch’esso parte determinante del messaggio. La medesima parte di pelle scoperta se si è dal medico, al mare, o in classe sono tre messaggi diversi, e questo è perfettamente chiaro a chiunque ne faccia esperienza, attiva o passiva.
Ora, in un contesto come quello di un’aula scolastica certe forme di vestiario che evidenziano i propri ‘punti di forza’ (e insisto, ciò vale oggi per le femmine come per i maschi) sono un codice definito, un codice che segnala interesse sessuale.
Non si tratta, per la natura del messaggio, di una dichiarazione o di un invito, e spesso capita che il messaggio sia pensato da chi lo predispone come vagamente rivolto a Tizio e Caio, mentre sciaguratamente esso finisce per suscitare l’attenzione di Sempronio.
Capita, la vita è piena di trabocchetti, e tuttavia prendersela qui con Sempronio sembra davvero improprio.
D’altro canto che vi siano manifestazioni di interesse sessuale è la cosa più normale e bella dell’universo – e rendiamone grazie al cielo – perché l’interesse sessuale è probabilmente l’ultima cosa che ancora separa le nuove generazioni dal passare l’intera esistenza in bolle autistiche con cuffie e iPhone. Il buon vecchio istinto sessuale, Deo gratias, resta ancora una delle poche cose a spingere verso interazioni non virtuali.
Dunque tutto bene?
Non proprio.
Partiamo dall’ABC.
Le aule scolastiche, soprattutto se parliamo di minorenni, sono luoghi deputati ad attività specifiche che predono il nome di ‘studio’. Lo ‘studio’, dal latino ‘studium’, indica applicazione, cura, diligenza, impegno, attività che richiedono concentrazione, sforzo, attenzione.
Dunque, che collateralmente allo ‘studio’ possano accadere altre belle cose, tra cui espressioni di interesse sessuale, è accettabile, ma deve anche essere tassativamente qualcosa di marginale. La scuola potrà cercare di essere accogliente e umana, ma deve restare chiaramente distinguibile da una pizzeria, una discoteca, una piazza.
Ora, cosa c’è di problematico nel porre l’accento sulla ‘libertà d’espressione’ manifestata col vestiario in ambito scolastico?
Ecco, il problema è che la scuola NON ha al suo centro questo ordine espressivo.
Non perché l’ordine espressivo degli interessi sessuali sia ‘male’, ma perché esso ha una capacità di imporsi all’attenzione e di dislocare ogni altro livello attentivo, e ciò va contro il senso dell’istituzione scolastica.
Per ciò è inaccettabile, oltre che falso, il giochino per cui:
a) le espressioni di vestiario sarebbero istanze innocenti, neutrali, che non intendono nulla, e di fronte a cui gli altri sarebbero chiamati a passare come se fossero ciechi;
b) e “chi saremmo noi per giudicare”, sindacare o, figuriamoci, vietare l’altrui libertà d’espressione.
Ecco, anche no.
Le espressioni del vestiario, e soprattutto quelle meno convenzionali, sono messaggi sparati ad alto volume verso un ‘uditorio’ imprecisato, ma non per ciò sono messaggi neutrali o innocenti. Il fatto che i messaggi visivi abbiano una caratteristica polisemia, e che quindi non siano traducibili in parole precise, non li rende perciò innocenti. Sono messaggi che chiamano ad una reazione, che invocano uno sguardo, che bramano un giudizio. In tutto ciò non c’è niente di casuale e niente di innocente, anche se possono mescolarvisi ingenuità, confusione o mera emulazione.
Che importanti sezioni dell’attenzione dei ragazzi in età scolare venga dedicata alla scelta e all’acquisto dei capi d’abbigliamento più attrattivi, alla loro attenta valutazione, che la scuola tenda a diventare un circo Barnum di esibizione competitiva, lasciando sullo sfondo come noie contingenti i fattori formativi non è indifferente e non è un bene.
In quest’ottica, tra le tante idee inattuali che dovrebbero essere tirate fuori dalla famosa ‘pattumiera della storia’ c’è l’adozione scolastica di una divisa.
Sappiamo tutti quanto ricco e vitale sia il mercato del vestiario giovanile, e come l’elogio della ‘concorrenza’ venga introdotto forzosamente in modo precoce nelle famiglie attraverso le emulazioni, imitazioni e competizioni quotidiane sul ‘come apparire’. Tutto ciò verrebbe simpaticamente stroncato con un taglio netto dall’adozione di una divisa.
Non è per altro accidentale che la divisa sia oggi adottata solo in alcune scuole private di alto livello, come nelle public schools britanniche (da cui prende spunto, peraltro, la narrativa di Hogwarts…). Sono le scuole dove i ceti dirigenti cercano di riprodurre nella generazione successiva la propria superiorità quelle che hanno maggiore consapevolezza delle virtù della divisa.
Invece le scuole delle periferie degradate di tutto il mondo sono il regno della ‘libertà d’espressione’ – piccoli fortunati.
La divisa evita (o limita) insensate competizioni tra opposti narcisismi, depaupera la sfera del consumismo adolescenziale, e riduce i motivi di distrazione. Sarebbe una soluzione semplice, lineare, economica, ottimizzante, democratica ed egalitaria.
Ed è per questo che rimarrà un proposito letterario, mentre noi continueremo a chiacchierarci addosso a colpi di ‘libertà di espressione’, ‘sguardi colpevoli’, ‘oppressione dei corpi’, e altri animali fantastici.
Minigonne, sintesi 2.
A scuola si va per imparare e studiare (gli studenti), per insegnare i professori. Per imparare, studiare e insegnare bisogna concentrarsi e prestare attenzione. Poche cose disturbano la concentrazione e l’attenzione come il desiderio erotico, dal quale nessuno, quale che sia la sua età, è immune (per fortuna); anche se ovviamente lo frena e non passa immediatamente all’atto, se appena appena è civilizzato. Dunque, a scuola nessuno si deve vestire in modo provocante. Poi ovviamente si può provocare il desiderio erotico in cento modi, anche vestendosi con la massima sobrietà. Ci vuole tanto a capirlo?

L’amico

Francesco Maria De Collibus

ha cortesemente riportato un mio breve post sulle minigonne sulla sua bacheca. Interessanti i commenti ivi prevalenti, che illustrano come l’ideologia (in questo caso, politically correct) e l’accecamento che provoca sia bipartisan. Destra e sinistra unite nella lotta contro la ragione e il buonsenso. Ad majora.

POVERI NOI MODERNI …COSI’ IPOCRITI E COSI’ STUPIDINI…
La protesta della “minigonna” in un Liceo romano – notizia di per sé cretina come poche altre – mi suggerisce tuttavia un paio di riflessioni sparse che vi propongo. Premetto: non ho nessuna fiducia nel fatto che la gran parte dell’umanità attuale – giovani, giovanissimi o vecchi che siano – riesca a comprende qualsivoglia ragionamento un po’ più articolato, ma questo non è un buon motivo per non ragionare (almeno per chi questo dono lo possiede ancora).
In sostanza, alle “pasionarie” del diritto al Tanga, io proverei a far capire due concetti antropologici basilari:
1) IL LINGUAGGIO DEL CORPO E’ MOLTO PIU’ EFFICACE DI QUELLO VERBALE. I nostri gesti, la nostra fisicità, i nostri sguardi, ancor più il nostro vestire, non sono MAI neutri, ma implicano sempre – che ne siamo coscienti o meno – un messaggio inviato a terzi. Faccio un esempio estremo per far capire: se io entro al supermercato in mimetica, attrezzatura tattica da guerriglia e faccia dipinta, questo rientra nella mia cosiddetta “libertà”, ma è anche vero che, in quel momento, io sto lanciando un messaggio esplicito; pertanto, se le vecchiette che fanno la spesa mi guarderanno con perplessità o forse con un po’ di timore e se, al limite, fuori dal mercato mi ritrovo una pattuglia che, come minimo, mi chiede i documenti, questa è una reazione che devo tenere in conto…
La sedicente civiltà dell’immagine ci ha fatto dimenticare che “l’immaginario” si nutre e reagisce in base, appunto, alle forme che percepisce.
Altro esempio: se io (donna o uomo) inondo il web di immagini seducenti o ammiccanti di tutto o parte del mio corpo è evidente che la percezione che il 98% degli spettatori avrà di me sarà di una persona “a caccia di preda” – cosa che spesso corrisponde al reale, malgrado tutte le scuse che possiamo accampare a noi stessi – e il fatto che lo si voglia negare è solo un’ipocrisia sciocchina.
In sostanza: le immagini parlano sempre molto più delle parole. E questo non è il frutto di chissà quale, immaginaria, società “repressiva”, ma un dato antropologico ineliminabile.
2) IL CORPO DELLA DONNA E’ POTENZA. La natura della Donna è un qualcosa di realmente straordinario, ragazze mie. Vi hanno mai insegnato a casa, a scuola, al centro sociale autogestito o anche in parrocchietta che la Donna è Potenza? Qui si va molto oltre la “morale”: qui stiamo su un piano metafisico. La donna è la Shakti, come chiamano gli Indù la Potenza Divina che da origine al creato. Ora, la Potenza tuttavia è sempre qualcosa da usare “cum grano salis”. Una Potenza profanata, svenduta, continuamente esibita, diventa automaticamente pre-potenza: e la pre-potenza non è esattamente la condizione migliore per crescere, evolversi, migliorare, conoscere. L’ipersessualizzazione di massa che ha trasformato le donne in bambole gonfiabili da vendere a poco prezzo e gli uomini in annoiati e grassi peluche sbavanti su youporn, non mi pare abbia reso felice molte persone.
Poi, per carità, se non avete niente di meglio da fare, continuate a protestare per il diritto di far vedere il fondoschiena; tanto state tranquille, la gran parte dei vostri professori, allevati ed evirati dal post-sessantottismo e dall’ACR, probabilmente neanche vi guardano più. E poi, infondo, siete merce inflazionata, oramai…

Barboncini, processi e buchi nell’acqua, di Roberto Buffagni

Barboncini, processi e buchi nell’acqua

 

Cari Amici vicini & lontani,

in queste belle giornate estive due fatti di cronaca campeggiano sui media: lo sbarco di immigrati tunisini a Lampedusa con barboncino (di nazionalità ignota) al seguito[1], e l’autorizzazione a procedere per il caso Open Arms[2] contro Matteo Salvini concessa dal Senato[3].

L’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Open Arms è motivata, ovviamente, da ostilità politica nuda e cruda, manifestata in forma particolarmente indecente , perché a) si è trattato di un atto squisitamente politico compiuto da un ministro in carica b) la responsabilità politica di quell’atto è condivisa, come minimo, dal Presidente del Consiglio del governo giallo-verde Giuseppe Conte, che andrebbe dunque processato anch’egli: cosa un po’ complicata e ossimorica, visto che Conte continua ad essere il Presidente del Consiglio in carica anche del governo giallo-rosa, sostenuto dalla maggioranza che ha appena votato l’autorizzazione a procedere contro Salvini.

Probabilmente, a Matteo Salvini non dispiace la prospettiva di finire sotto processo per il caso Open Arms, perché gli serve su un vassoio d’argento l’opportunità di presentarsi come vittima di un’ingiustizia e unico difensore degli italiani dai pericoli dell’immigrazione incontrollata. Tant’è vero che ha già diffuso il trailer dello spettacolo mediatico-giudiziario di cui sarà protagonista, dichiarando a caldo «Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l’Italia: lo rifarei e lo rifarò. Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita»

L’autorizzazione a procedere è sicuramente un’ingiustizia; resta da vedere se Salvini sia una vittima.

Secondo me, sì: Salvini è una vittima, ma è una vittima anzitutto di se stesso e della povertà desolante della sua cultura e azione politica. Motivo? Ecco il motivo, anzi i motivi.

  1. La maggioranza parlamentare che l’ha indecentemente mandato a processo l’ha costituita lui, con la sua decisione dell’agosto scorso di far cadere il governo, nella speranza di provocare nuove elezioni e di incassare un diluvio di consensi[4]. All’epoca, la decisione di Salvini fu attribuita a valutazioni strategiche così raffinate da risultare accessibili solo a un Olimpo di pochi eletti strateghi. Ai molti perplessi si ingiunsero umiltà, silenzio, fiducia, come ai militi dell’Arma (mele marce escluse). Salvo prossimi, miracolosi rovesciamenti della situazione, forse implicanti intervento dei Piani Superiori (dagli USA di Trump a Padre Pio) mi pare si possa pacificamente riscontrare che le valutazioni strategiche di cui sopra erano, tutto sommato, sbagliate.
  2. L’azione politica per cui Salvini viene oggi indecentemente processato, e le altre analoghe da lui compiute come Ministro degli Interni, ovvero la chiusura dei porti agli immigrati clandestini, aveva già allora due caratteristiche principali: a) faceva acquisire una valanga di consensi a Salvini b) era ovviamente insufficiente per affrontare sul serio il problema (enorme) dell’immigrazione[5], perché da un canto è impossibile chiudere efficacemente i porti nell’attuale quadro politico e legislativo, e dall’altro, il problema dell’immigrazione si può affrontare solo se si ha una visione adeguata della politica internazionale, in particolare dei rapporti tra l’Italia e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Evidentemente, per Salvini era rilevante soltanto l’aspetto sub a) della sua azione politica, cioè il fatto che gli faceva acquisire tanti consensi. Consensi che in un regime di democrazia parlamentare a suffragio universale hanno certo importanza decisiva, per un politico, ma che non sono tutto; anche perché come si acquisiscono, così si perdono: e se si acquisiscono con azioni dimostrative attente anzitutto all’immagine, ma che non producono alcun risultato concreto, si perdono quando l’immagine di autorevolezza e di sbrigativa efficacia proiettata con l’ausilio di Photoshop si appanna, o addirittura viene smentita dai fatti.

Qualcosina di meglio e di più anche Salvini avrebbe potuto fare, quando era ministro, anche sotto il profilo dell’immagine. Qui vi racconto un minimo esempio di quel qualcosina di più e di meglio.  Ce ne sono certamente altri, ma vi racconto questo perché lo conosco bene, visto che alla Lega l’ho proposto io.

Come sanno i lettori di italiaeilmondo.com e non solo loro (se n’è parlato in più occasioni sulla stampa nazionale, è stato presentato in un importante convegno internazionale in Tunisia, lo conoscono molto bene il governo tunisino e l’ambasciatore italiano a Tunisi) il nostro collaboratore Antonio de Martini è il referente italiano di un importante e suggestivo progetto, appoggiato da tre Università italiane, “Mare nel Saharahttps://www.medinsahara.org/

In pillola, è la ripresa aggiornata di un antico progetto francese, mai realizzato per contrasti politici, che fu appoggiato da Ferdinand de Lesseps[6], promotore ed esecutore del Canale di Suez e del Canale di Panama. Nel deserto tunisino vi sono vaste depressioni naturali, gli chott, site in prossimità del Mediterraneo. Escavandole per aumentarne la profondità, e sterrando un canale, vi si potrebbe far irrompere il Mar Mediterraneo, creando un mare artificiale. Con l’evaporazione, esso cambierebbe il microclima, rendendo fertili i terreni circostanti. Risultano subito chiare le ricadute positive economiche e sociali per la Tunisia e per l’Italia. Per la Tunisia, creazione immediata di 60.000 posti di lavoro, estensione della superficie coltivabile e creazione di una nuova leva di agricoltori; sviluppo di pesca e turismo marittimo (il 20% del PIL tunisino si deve al turismo). Per l’Italia, 4-5 miliardi di euro di lavori per imprese italiane, alle quali sarebbero commessi i lavori che esigono superiori capacità e tecnologie; cessazione dell’immigrazione clandestina dalla Tunisia; accrescimento del prestigio e dell’influenza politica italiana nella regione che è la cintura di sicurezza geopolitica naturale per l’Italia, la costiera mediterranea dell’Africa; replicabilità dell’iniziativa anche altrove, per esempio in Algeria, dove esistono condizioni geografiche analoghe. Ma invito i lettori a consultare il sito https://www.medinsahara.org/, dove troveranno le informazioni essenziali su questo bel progetto.

Per quanto riguarda la Lega, e in generale il defunto governo giallo-verde, l’opportunità e il vantaggio politico, anche di immagine, di promuovere un progetto simile mi parevano abbaglianti come il sole del deserto. Anzitutto, sul piano dell’immagine e del consenso, appoggiare questo progetto significava  fare per primi quel che gli avversari politici immigrazionisti dicono sempre di voler fare e non fanno mai: “aiutarli a casa loro”: e quindi tappare la bocca all’avversario. Per forze politiche prive di esperienza internazionale e di governo nazionale come Lega e Cinque Stelle, inoltre, sponsorizzare un progetto del genere implicava presentarsi come forze responsabili e lungimiranti, capaci di strategia internazionale. Per Matteo Salvini personalmente, poteva essere una buona occasione per smentire le accuse d’essere un capopopolo incolto e chiacchierone di cui lo bersagliano gli avversari,  proponendosi invece come statista affidabile, che sa coinvolgere persino gli avversari politici in progetti di vasto respiro: se avesse voluto respingere a priori e disprezzare un progetto di cui tutto si può dire tranne che sia razzista, il PD si sarebbe trovato in grave imbarazzo.

A ciò si aggiunga che per acquisire gli elementi di valutazione indispensabili a decidere se passare alla fase operativa vera e propria, bastava finanziare con 3-400.000 euro uno studio di fattibilità, del quale sono già individuate le fasi essenziali. Se per una delle mille ragioni possibili si fosse poi deciso di non dare il via al progetto, nessuno avrebbe potuto accusare i promotori politici di aver sprecato ingenti risorse; e intanto, essi avrebbero incassato l’effetto promozionale di un nobile, encomiabile tentativo di affrontare il problema, sul serio enorme, dell’immigrazione.

Così, all’insediamento del governo giallo-verde interessai al progetto il sen. Alberto Bagnai, e lo misi in contatto con Antonio de Martini. Il sen. Bagnai, però, non ritenne opportuno incontrare de Martini (che peraltro abita anch’egli a Roma) e lasciò cadere la proposta.

Grazie alla cortese disponibilità di un intermediario, incontrai poi l’On. Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera. L’ On. Molinari, che qui colgo l’occasione di ringraziare, mi ha ricevuto con prontezza e cortesia, e mi ha dedicato due ore del poco tempo di cui dispone un politico molto impegnato. Nel nostro colloquio gli illustrai il progetto, e da lui richiestone mi diffusi sull’importanza politica e geopolitica del Mediterraneo per il nostro paese. In lui trovai un interlocutore attentissimo, intelligente e molto disponibile, benché la materia in discussione non facesse parte della sua esperienza politica precedente. Ci congedammo con l’intesa che l’On. Molinari avrebbe portato il progetto, con le sue implicazioni, all’attenzione del segretario del suo partito, Matteo Salvini.

Risultato: un buco nell’acqua.

E’ vero: l’attuazione del progetto “Mare nel deserto” non avrebbe risolto definitivamente il problema dell’immigrazione, né soddisfatto l’ambizione di Matteo Salvini di guidare il governo italiano. Forse, però, se Matteo Salvini, invece di scavare un buco nell’acqua dopo l’altro, avesse fatto scavare qualche buco nella sabbia del deserto tunisino, oggi si troverebbe meglio. L’Italia e la Tunisia, di sicuro.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_28/migranti-barboncino-travestiti-turisti-nuove-tecniche-sbarco-c3dcb4c0-d0a0-11ea-b3cf-26aaa2253468.shtml

[2] https://www.corriere.it/cronache/20_luglio_30/caso-open-arms-tar-scontro-ministri-ecco-cosa-accadde-f687df6e-d23d-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[3] https://www.corriere.it/politica/20_luglio_30/salvini-va-processo-il-caso-open-arms-senato-concede-l-autorizzazione-procedere-37b84b96-d27e-11ea-9ae0-73704986785b.shtml

[4] L’ho commentata nel settembre 2019, e purtroppo devo constatare che ci ho indovinato: http://italiaeilmondo.com/2019/09/11/lezioni-di-umilta-di-roberto-buffagni/

[5] Qui, in una serie di tre articoli, ne tratto sotto il profilo del conflitto politico su base etnico/religiosa che immigrazione e allargamento dello ius soli possono causare: http://italiaeilmondo.com/?s=ius+soli

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinand_de_Lesseps

Modelli di vita, di Roberto Buffagni

Domanda: c’è un rapporto tra la riforma della scuola e i carabinieri di Piacenza che diventano criminali?
Risposta: sì.
La riforma di Giovanni Gentile, che sta per compiere cent’anni, ha certo limiti e difetti (come tutto) ma sotto un aspetto essenziale coglie il punto: è intesa a insegnare alla futura classe dirigente a pensare criticamente l’ordine dei fini, in parole povere e chiare il perché si fanno o non si fanno le cose. Ecco perché è costruita intorno all’asse della filosofia, ed ecco perché nella scuola di vertice, il liceo classico, si insegnano il latino e il greco, senza i quali è impossibile accedere direttamente ai testi fondativi della civiltà europea. Le odierne proposte di aggiornamento alle “esigenze della modernità”, in soldoni di incentrare l’asse della scuola sull’apprendimento di materie scientifiche e lingue straniere per allinearsi ai “paesi più avanzati” omettono di rilevare il fatterello che la scienza non ha NIENTE da dire in merito all’ordine del fini, al “perché si fanno e non si fanno le cose”, e che il benchmark di apprendimento delle lingue straniere è la lingua materna (nessun italiano imparerà mai l’inglese meglio dell’italiano, anche se lo studia per tutta la vita).
E i carabinieri criminali? Cosa c’entrano?
I carabinieri non diventano criminali per difetti operativi, per esempio per un criterio di reclutamento inadeguato o procedure di controllo interno insufficienti. i carabinieri diventano criminali perché, fatta esperienza di ingiustizie, ipocrisie, abusi, corruzione nell’Arma, nello Stato, nel mondo in generale, prima pensano “chi me lo fa fare”, poi pensano “sono tutti corrotti, perché non approfittare delle occasioni?” poi commettono le prime irregolarità, poi constatano la propria impunità, poi diventano criminali veri e propri, e fino a quando non li beccano sentono di essere nel giusto, perché il giusto non esiste.
E attenzione, ragazzi: il giusto non esiste sul serio, se non esiste dentro l’anima, o se si preferisce nella mente, delle persone.

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