Stati Uniti! Crisi egemonica, rovesci militari e di credibilità, con G Gabellini e Roberto Buffagni

Una interessante discussione con Roberto Buffagni, curata da Giacomo Gabellini sul suo canale YOUTube “il Contesto”. Roberto Buffagni associa la crisi egemonica degli Stati Uniti alla caduta di credibilità della leadership statunitense. I rovesci militari si accompagnano ormai alla incapacità di garantire un equilibrio al proprio sistema egemonico. Più la conflittualità si diffonde e viene alimentata, più gli Stati Uniti sono costretti a scegliere apertamente tra le fazioni in campo e a perdere la funzione di equilibrio ambita dalla propria aspirazione di gestione unipolare del mondo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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La questione del Sahel, di Bernard Lugan

La questione del Sahel è visibile nella fragilità dei suoi Stati, nell’azione del jihadismo e nell’onnipresenza della criminalità. Le chiavi di lettura della questione del Sahel possono essere raggruppate intorno a dieci questioni principali:
1) Come area di contatto e di transizione, ma anche come frattura razziale tra l’Africa “bianca” e “nera”, il Sahel riunisce la civiltà meridionale dei granai, o Bilad el-Sudan (la terra dei neri), e la civiltà nomade del nord, Bilad el-Beidan (la terra dei bianchi).
2) Ambiente naturalmente aperto, il Sahel è oggi diviso da confini artificiali, vere e proprie trappole per le persone, il cui tracciato non tiene conto delle grandi zone di transumanza attorno alle quali si è scritta la sua storia.
3) La vastità del Sahel è il dominio del lungo periodo, in cui l’affermazione di una costanza islamica radicale è soprattutto l’alibi per l’espansionismo di alcuni popoli (berberi almoravidi nell’XI secolo, peul nel XVIII e XIX secolo).
4) A partire dal X secolo, e per oltre mezzo millennio, dal fiume Senegal al lago Ciad si sono succeduti regni e imperi (Ghana, Mali e Songhay) che hanno controllato le rotte meridionali del commercio trans-sahariano. Il commercio odierno si basa su queste grandi rotte.
5) A partire dal XVII secolo, le popolazioni sedentarie furono prese nella tenaglia predatoria dei Tuareg a nord e dei Peul a sud.
6) Alla fine del XIX secolo, la conquista coloniale bloccò l’espansione di queste entità nomadi e offrì la pace alle popolazioni sedentarie.
7) La colonizzazione ha certamente liberato i meridionali dalla predazione del nord, ma allo stesso tempo ha riunito razziatori e razziati entro i confini amministrativi dell’AOF (Africa Occidentale Francese).
8) Con l’indipendenza, i confini amministrativi interni dell’AOF divennero confini statali all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i meridionali prevalsero sui settentrionali secondo le leggi dell’etnomatematica elettorale.
9) La conseguenza di questa situazione fu che in Mali, Niger e Ciad, a partire dagli anni ’60, i Tuareg e i Toubou che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sollevarono.10) I trafficanti fiorirono allora in tutto il Sahel.
Poi, a partire dagli anni Duemila, gli islamojihadisti si sono opportunisticamente intromessi nel gioco politico locale, facendo sì che la ferita etnico-razziale, aperta dalla notte dei tempi, si incancrenisse. Una ferita tanto più difficile da rimarginare se si considera che la regione è una terra in palio per le sue materie prime e il suo ruolo di snodo per numerosi traffici, con l’esplosione demografica suicida sullo sfondo.

RIFLESSIONI SULLA QUESTIONE DEL SAHEL

Il conflitto che attualmente sta coinvolgendo Mali, Burkina Faso e Niger è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. All’epoca, stavamo assistendo alla chiara rinascita di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, ma i “decisori” francesi commisero un grave errore di analisi. Non hanno capito – o si sono rifiutati di farlo – che l’islamismo non era altro che una copertura per le continue rivendicazioni dei Tuareg fin dall’indipendenza del Paese, e che non era altro che la superinfezione di una piaga etno-razziale millenaria. Accantonata l’operazione Serval, con la partenza dal Mali delle forze francesi e poi di quelle dell’ONU, il vero problema maliano è riapparso alla luce del sole. E non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Lo scorso 12 settembre le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra in Mali e che ha mandato in fiamme l’intera regione. Quanto a Timbuctù, all’inizio di ottobre era praticamente circondata, ma da allora si è assistito a un’inversione di tendenza, con una sorta di tregua tra i gruppi dello Stato Islamico e le Forze armate maliane che, sostenute da Wagner, sono riuscite a liberare Timbuctù prima di prendere la città di Kidal, la “capitale” tuareg. Le implicazioni di queste operazioni sono chiare: per lo Stato Islamico, il cui nemico prioritario è l’alleanza Tuareg-Al Qaeda, i suoi leader sembrano aver scelto di lasciare che l’esercito maliano e i Tuareg si affrontino in una battaglia che li esaurirà entrambi… prima di lanciare una grande offensiva in un secondo momento.

I TUAREG SCOMPARIRANNO?

Con la progressiva riduzione del loro territorio, i Tuareg sono minacciati di estinzione dal suicidio demografico sahelo-sahariano, poiché la loro terra d’origine viene gradualmente colonizzata da migranti provenienti da tutto il Sahel. Il risultato è una crisi sociale che non offre prospettive ai giovani inattivi. Senza futuro se non nel traffico di ogni genere, i giovani tuareg vengono lentamente, e per certi versi inesorabilmente, emarginati.

All’inizio del XX secolo, la vastità del Sahel-Sahara era abitata da quasi 2.500.000 persone suddivise in diversi gruppi etnici, alcuni nomadi, altri sedentari, distinti per lingua: a nord vivevano i Berberi (Sanhaja, Touareg, Mozabiti), i Mori (Arabi-Berberi), gli Arabi (Chaamba, Kunta), i Toubou e gli Zaghawa. Nel sud c’erano molti popoli, alcuni nomadi come i Peul, altri prevalentemente sedentari. Oggi i Tuareg costituiscono solo una minoranza tra i gruppi etnici del nord. Stimati in circa un milione e mezzo, si trovano nel sud dell’Algeria, intorno al Tassilin’Ajjer e alle città di In Salah, Djanet e Tamanrasset, nel nord del Mali e in Niger, intorno a Bilma e Agadez. L’esplosione demografica fa sì che entro il 2040 la popolazione del Sahel sarà raddoppiata, raggiungendo i 150 milioni. Le regioni tuareg settentrionali del Mali hanno visto la loro popolazione crescere del 72% dal 1987, con una media annua del 3,6%, e addirittura dell’80% a Kidal e Timbuctù in soli quattro anni, dal 2005 al 2009. In Niger, Paese con il più alto tasso di fertilità al mondo (7,1 figli per donna), il tasso di crescita annuale è stato di circa il 3% negli ultimi dieci anni e la regione sahariana di Agadez (Arlit, Bilma, Tchirozérine) ha accolto non meno di 70.000 nuovi arrivi tra il 2008 e il 2011. In Ciad, Abéché supera oggi i 200.000 abitanti, grazie soprattutto a un tasso di natalità che si avvicina al 45‰ e a una popolazione molto giovane (il 46% ha meno di 15 anni). La crescita demografica e l’urbanizzazione hanno un’influenza diretta sulle popolazioni locali, sempre più emarginate numericamente: nelle regioni di Gao e Timbuctù i touareg, che costituivano un terzo della popolazione all’epoca dell’ultimo censimento coloniale del 1950, sono oggi meno del 20%.
Questo declino, dovuto essenzialmente alla migrazione, può essere spiegato anche da un tasso di natalità inferiore a quello di altri gruppi etnici, da un aumento dei matrimoni esogami e da una significativa migrazione verso il Nord e il Golfo di Guinea. Tuttavia, questo declino è essenzialmente il risultato di nuove popolazioni provenienti dal nord (arabi del Maghreb) e dal sud (bambara, zerma) che si sono insediate nelle terre dei tuareg, sia come migranti che come lavoratori attratti da aziende straniere. La rete urbana è quindi cambiata nell’arco di un decennio. Più grandi e più numerose, le città della regione del Sahel-Sahara sono anche più varie e, accanto alle vecchie città crocevia come Timbuctù, Mourzouk e N’Djamena, stanno emergendo nuove città come Faya-Largeau, Dirkou, Arlit e Taoudéni, oltre a città di medie dimensioni (Djanet, Ghat, Ain Guezzam e Zouar) che fungono da punti di sosta sulle rotte trans-sahariane, ma anche da alternative alle grandi città incapaci di offrire un futuro ai migranti. In Mali, diverse città, come Koro e Tonka, che non esistevano nel 2005, hanno ora più di 50.000 abitanti. Questo fenomeno sta interessando anche il Nord. In Libia, ad esempio, la popolazione del Fezzan è cresciuta a un tasso annuo superiore al 10% dal 1984, mentre quella delle wilaya del sud della Tunisia (Médenine, Tataouine, Kébili e Tozeur) è aumentata dell’80% dal 2004. In Algeria, la popolazione della sola wilaya di Adrar è aumentata del 39% dal 1998.

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L’allarmismo dell’establishment in overdrive mentre Raytheon Lloyd minaccia il Congresso di guerra, di SIMPLICIUS THE THINKER

Ho voluto fare questo rapido aggiornamento notturno perché ci sono alcuni sviluppi che non potevano aspettare.

Il più sorprendente di tutti è il tenore di panico con cui l’establishment statunitense sta cercando disperatamente di convincere il Congresso della necessità di aiuti all’Ucraina.

Come ricorderete, nell’ultimo rapporto ho sottolineato come il tono si sia ora spostato su: “La Russia sarà la prossima ad invadere l’Europa!”. Ma nemmeno io mi aspettavo che avrebbero portato avanti questa nuova narrazione in modo così provocatorio e allarmistico.

Ora una nuova serie di rapporti e dichiarazioni dei soliti sospetti ci fa capire quanto siano diventati disperati i guerrieri dell’establishment che rappresentano gli interessi del MIC.

Innanzitutto, questi due video. Biden dice apertamente che le truppe americane dovranno combattere contro le truppe russe se l’Ucraina non verrà rinforzata immediatamente:

Kirby e Blinken hanno anche intensificato la paura, evocando il “sangue americano” versato:

Stanno portando la paura a un livello isterico mai visto prima:

Dal pezzo di Breitbart sopra citato:

Il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha avvertito martedì il Congresso, durante un briefing privato, che se non approvano ulteriori aiuti all’Ucraina, è “molto probabile” che le truppe statunitensi debbano combattere una guerra in Europa. “Se [Vladimir] Putin si impadronisce dell’Ucraina, si prenderà la Moldavia, la Georgia e forse anche i Paesi baltici”, ha dichiarato a Il Messaggero il presidente della Camera per gli Affari Esteri Michael McCaul (R-TX), dopo che Austin e altri alti funzionari dell’amministrazione Biden hanno informato i legislatori della Camera sulla richiesta di maggiori aiuti per l’Ucraina. “E poi l’idea che dovremo mettere truppe sul terreno, secondo le parole del segretario Austin, è molto probabile”, ha aggiunto McCaul. “È quello che stiamo cercando di evitare”.
Ricordiamo che nell’ultima relazione ho citato la Moldavia proprio come prossimo vettore, data la sensibilità del punto di pressione della PMR per la Russia.

L’aspetto più rilevante è l’uso esplicito dell’aggettivo “molto probabile” per descrivere le truppe statunitensi che combattono sul terreno. In realtà, gli Stati Uniti si stanno preparando da tempo a questa grande guerra europea. Quest’anno sono continuate ad arrivare notizie sul tentativo della NATO di rimodellare le infrastrutture del fianco orientale per prepararlo adeguatamente dal punto di vista logistico a una guerra:

⚡️⚡️⚡️The EC prevede la costruzione di una ferrovia a scartamento europeo di 1435 mm nei Baltici entro il 2030. Ma non c’è certezza che Rail Baltica sarà costruita in tempoIl fatto è che le principali difficoltà affrontate da Lettonia, Lituania ed Estonia sono di natura finanziaria.Ad esempio, secondo le informazioni del Ministero dei Trasporti della Lettonia, dal 2015 al 2023, i partecipanti lettoni alle costruzioni hanno già speso 916 milioni di euro per il progetto di infrastruttura di trasporto Rail Baltica, quasi la metà dei 2 miliardi inizialmente previsti.Ma i 2 miliardi, una volta pianificati, sono poca cosa nella vita, aggiustati per le sanzioni e l’inflazione. Ora la parte lettone del progetto ha bisogno di 8 miliardi, e questo secondo le stime più prudenti.Approfittando dell’importanza strategica del progetto, i primi ministri dei Paesi baltici si recheranno presto a Bruxelles per chiedere money⚡️⚡️⚡️
Se aggiungiamo quanto sopra alle recenti notizie sulla “Schengen militare” della NATO, di cui mi sono occupato di recente, otteniamo un quadro chiaro del lento tentativo di portare l’Europa su un piano di guerra, con i relativi rinnovamenti infrastrutturali.

Ma la cosa più sorprendente è una nuova notizia, che Tucker Carlson dice essere “confermata” da sue fonti private, secondo cui Lloyd Austin è ricorso a minacciare apertamente i repubblicani rimasti alla Camera, dicendo loro: “Manderemo i vostri figli a combattere la Russia” se non romperanno l’impasse sugli aiuti all’Ucraina:

BREAKING REPORT: il Segretario della Difesa Lloyd Austin minaccia i membri del briefing riservato che se non stanziano più soldi per Zelensky e l’Ucraina, “manderemo i vostri zii, cugini e figli a combattere la RUSSIA”, dicendo in sostanza di pagarli, o uccideremo i vostri figli…

Allora perché questa urgenza sconsiderata proprio ora?

La ragione ha a che fare con questo. Il corrispondente del Congresso per Bloomberg news scrive:

Sembra quindi che l’aiuto all’Ucraina possa essere completamente bloccato per il resto dell’anno. Il Congresso andrà presto in pausa natalizia. Dopodiché, le prospettive sono poco incoraggianti per molto tempo.

Questo post ucraino coglie esattamente le prospettive di ciò che ci aspetta:

Il nostro successo l’anno prossimo dipenderà dalla rapidità con cui il Congresso riuscirà a trovare un accordo su un pacchetto di finanziamenti per noi per l’anno fiscale 2024 (1 ottobre 23-settembre 30, 24).Attualmente, qualche soldo è ancora rimasto, e gli Stati ci forniscono piccoli pacchetti fino alla soluzione globale della questione.Ma questo è per sostenere i pantaloni, niente di più.Se il finanziamento viene votato prima di Natale (25. Se i finanziamenti saranno votati prima di Natale (25.12), i primi pacchetti saranno annunciati a gennaio-febbraio, e le attrezzature arriveranno tra la fine di marzo e l’inizio di aprile. Il problema è che l’anno prossimo avremo una finestra di opportunità piuttosto limitata dal punto di vista offensivo, perché dopo le elezioni nelle paludi molto probabilmente annunceranno la mobilitazione di massa per la seconda volta. Dopo l’operazione Avdiivka (e forse anche l’operazione Kupyan), il nemico sarà duramente sconfitto. Ma anche le nostre unità saranno esauste, quindi non sarà possibile effettuare immediatamente un contrattacco. Tenendo conto di questo, non avremo più di 2 mesi. Quest’anno ci sono stati 5,5 mesi, per esempio. Si possono “ringraziare” quei farabutti trumpisti che in tutti i modi possibili hanno ostacolato l’adozione del bilancio, hanno organizzato una riunione di oratori, e ora vogliono in generale legare il nostro pacchetto al confine con il Messico (che Messico, bld????).👉 Ukrainian Post

Quindi, secondo loro, anche se i finanziamenti fossero stati erogati questo mese, le prime consegne importanti non sarebbero arrivate prima di marzo e aprile. Immaginate quindi cosa accadrebbe se fosse vero che i fondi sono morti per quest’anno. Il Congresso non tornerà dalla pausa fino a gennaio e la sua agenda sarà piena. Non avranno l’opportunità di ricominciare a votare sull’Ucraina fino a gennaio o addirittura febbraio.

Se dovessero raggiungere un accordo, le attrezzature più importanti potrebbero non arrivare prima di aprile, maggio o anche più tardi. L’Ucraina potrebbe trovarsi in una completa zona morta per mesi da questo momento in poi, e questo si aggiunge a una campagna invernale potenzialmente infernale di attacchi infrastrutturali che la Russia ha in programma di effettuare.

Lloyd Austin, Biden e altri hanno alzato il livello di paura proprio perché vedono la proiezione di cui sopra e sanno cosa comporta. Quindi sono ricorsi al tentativo di spaventare a morte i membri del Congresso del GOP per far passare gli aiuti, ma sembra che la tattica economica non abbia funzionato.

Per non parlare del fatto che la Russia sta avanzando su ogni singolo fronte, con progressi ovunque. Una volontaria ucraina ha dichiarato in un’intervista:

Questo minaccia le Forze Armate dell’Ucraina di ritirarsi di decine di chilometri in poche settimane: Le Forze Armate ucraine sono a corto di uomini, la Russia ha superato l’Ucraina in fatto di droni di parecchie volte▪️Ukraine è indietro di anni rispetto alla Federazione Russa in fatto di droni, perché la loro produzione è sotto il controllo personale di Putin”, ha dichiarato la volontaria M. Berlinskaya.▪️”Abbiamo perso tempo, e se prima c’era parità, ora i russi ci hanno superato di parecchie volte. Più automatizzano i loro sistemi e si muovono verso sciami di droni, quando il drone stesso riconosce l’obiettivo e prende la decisione di colpirlo… E quando migliaia di UAV ci voleranno addosso, ci ritireremo di decine di chilometri nel giro di poche settimane”. ▪️ “Ora non si tratta nemmeno di uno stallo sulla scacchiera, ma di un momento di sconfitta. Credo che il nostro popolo sia abbastanza grande per sentirsi dire la verità. E questa verità deve essere ascoltata dal Comandante supremo in capo.”▪️”Dove non ci sono droni, le persone diventano sacrificabili. Abbiamo raggiunto un punto in cui stiamo esaurendo le persone. E se non abbiamo più persone, dovremo sederci al tavolo dei negoziati. Per noi questo significa sconfitta”, ha detto Berlinskaya.

Molti personaggi pubblici ucraini, politici, ecc. stanno cominciando a prendere coscienza della realtà. Il deputato della Rada Goncharenko, ad esempio, trasmette questa ripresa davanti alla Casa Bianca, definendo ora improvvisamente la Russia indubbiamente il “2° esercito [più potente] del mondo”, proclamando che nessun’altra forza del XXI secolo è così esperta nella guerra moderna come l’esercito russo:

È interessante notare che il resoconto ufficiale del Ministero della Difesa britannico sembra essere d’accordo. Sono stati costretti a riferire a malincuore che un gran numero di ufficiali con esperienza di combattimento sta ora affluendo nel sistema delle accademie militari russe:

Ma ricordiamo che tutte queste difficoltà per l’Ucraina arrivano nel mezzo di un crollo delle esportazioni, dato che diversi Paesi stanno bloccando i trasporti ucraini su camion, con l’economia marittima già soppressa da tempo.

Tutto ciò si traduce in un enorme deficit nel bilancio ucraino, con voci che suggeriscono che i servizi sociali saranno tagliati a partire dal gennaio 2024. Inoltre, ci dà un’idea delle vere ragioni per cui Zelensky non è in grado di fare una mobilitazione sociale completa come molti credevano non avesse altra scelta. Questo perché l’economia ucraina è già appesa a un filo.

Ho già riferito in precedenza che le fonti indicano che l’Ucraina potrebbe scendere sotto i 20 milioni di abitanti. I giovani, i colletti bianchi istruiti e gli operai tecnologici di Kiev e delle grandi città sono l’ultima cosa rimasta a tenere a galla l’economia ucraina. Se li si vuole strappare via, si rischia di privare lo Stato ucraino delle sue ultime gocce di entrate finanziarie.

In effetti, negli ultimi tempi la conversazione nella società ucraina si è intensificata proprio su questo fatto.

Kiev è “la città più demotivata dell’Ucraina”, dice l’ex comandante dell’Aidar* Evgeniy Diky”. Mi sembra che le autorità abbiano paura di una forte mobilitazione a Kiev, perché la mobilitazione è sempre una cosa impopolare. Ma scusate, la guerra è una cosa impopolare. Le cose impopolari devono essere fatte. E Kiev in questo senso dovrebbe smettere di essere un’oasi”, ha detto Dikiy.

E la seguente voce pertinente:

Le nostre fonti hanno detto che l’Ufficio del Presidente ha vietato allo Stato Maggiore di condurre una mobilitazione attiva a Kiev, per non mettere i residenti della capitale contro Zelensky. In via Bankova si teme che i residenti di Kiev diventino l’avanguardia di Maidan-3, motivo per cui la capitale è la città più protetta dell’Ucraina e non ci sono quasi commissari militari per le strade.
Mentre la disperazione cresce dalla loro parte, la Russia e Putin continuano a godere di una rinascita in tutto il mondo: Putin ha completato un tour in jet-set che lo ha visto atterrare nel nuovo territorio BRICS di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, e in quello di Riyadh, in procinto di essere affiliato ai BRICS:

Nel frattempo, il Presidente iraniano Raisi è volato a Mosca:

Durante il viaggio Putin ha ottenuto un permesso speciale dai Paesi di sorvolo per essere scortato da Su-35 completamente armati. È possibile vedere l’esclusivo video del volo diurno verso Abu Dhabi e di quello notturno verso Riyadh. È interessante notare che alla fine si può vedere un primo piano dello squadrone che sorvola l’Iran, con un F-14A iraniano che scorta l’aereo presidenziale e i suoi Su-35. Uno spettacolo davvero unico vedere un iconico F-14 americano, nelle mani nientemeno che dell’Iran, volare accanto non solo a Su-35 russi ma anche a scortare l’aereo del presidente russo:

È una stagione intensa di crescita e opportunità per il Sud e l’Est del mondo, mentre il Nord e l’Ovest del mondo annegano nel loro caos autocreato.

Alcune dispense:

Le forze russe hanno catturato un Leopard 2A4 sul fronte di Rabotino. È possibile vedere la geolocalizzazione completa, i colpi del drone FPV russo sul carro armato e la successiva ispezione dello stesso. È interessante notare che i soldati indicano che alcuni membri dell’equipaggio sono morti, infrangendo il mito della “invincibile” armatura NATO che protegge sempre il suo equipaggio anche quando viene disabilitata da forti colpi:

È apparso un filmato di soldati del 71° Reggimento Guardie della 42° Divisione Fucilieri Motorizzati delle Forze Armate russe in posa sullo sfondo di un altro carro armato tedesco Leopard 2A4 abbandonato nella regione di Zaporizhzhya.

Anche due Bradley sono stati catturati, questo è il nuovo ad Avdeevka:

Un bellissimo scatto che conferma che i Su-34 russi ora sganciano regolarmente 4 bombe a collisione UMPK alla volta:


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Riportare tutto a casa, di AURELIEN

Riportare tutto a casa
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Grazie anche a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano. Philippe Lerch ha gentilmente tradotto in francese un altro dei miei saggi (vedi ultima voce) che, a quanto vedo, sta già riscuotendo successo. Grazie Philippe.

Negli ultimi mesi, il malcontento di lunga data per le politiche migratorie dei governi occidentali, e soprattutto europei, si è fatto più acuto. I partiti che fanno dell’immigrazione un problema hanno ottenuto buoni risultati alle elezioni (da ultimo nei Paesi Bassi), i politici che prima tergiversavano sono costretti ad accettare che il problema (o i problemi) esistono davvero, e il problema si sta facendo strada nei media, nelle statistiche dei sondaggi d’opinione e si collega alle preoccupazioni per la crescente illegalità e violenza nelle città europee. Ma l’aspetto più sconcertante dell’intera situazione è che i governi, da cui ci si aspetterebbe che si accorgano di una causa politica popolare quando questa salta su e giù e agita le mani davanti a loro, si sono trovati in uno stato di catatonica negazione assoluta dell’esistenza di qualsiasi problema. Ecco quindi il tentativo di spiegare perché ritengo che ci sia un enorme divario tra i governanti e i governati.

Ed è un divario enorme. La cosa curiosa del “dibattito sull’immigrazione” è che si tratta di un non-dibattito, un dibattito che non deve avere luogo. Le grandi linee del dialogo dei sordi degli ultimi dieci anni circa possono essere schematizzate come segue:

Le persone: Per favore, qualcuno si accorga dei problemi causati dalla massiccia immigrazione dell’ultima generazione e faccia qualcosa.

Le élite. Non c’è nessun problema. Vergognatevi anche solo per aver suggerito che ci sia. Solo i nazisti vogliono parlare di immigrazione.

E non sto esagerando. L’immigrazione e i problemi che ne derivano sono diventati come uno di quegli argomenti di cui i miei genitori non volevano parlare quando ero giovane, perché “non era bello”. Leggete, ad esempio, questo magistrale resoconto dei retroscena dei recenti “disordini” di Dublino, pubblicato su Naked Capitalism da un residente e osservatore di lunga data. Oppure guardate la prosa e il ragionamento contorto di questo articolo del Grauniad sull’incredibile impennata dei crimini con armi da fuoco in Svezia, ora il Paese più pericoloso d’Europa ad eccezione dell’Albania, e che non ha nulla, assolutamente nulla, a che fare con l’immigrazione, anche se la violenza è in gran parte opera di bande di immigrati e ha luogo in aree ad alta penetrazione di immigrati. Si tratta invece di povertà e disuguaglianza che, come sappiamo, sono infinitamente peggiori in Svezia che, ad esempio, in Romania.

Dal punto di vista della politica pratica, questo è folle. Rifiutarsi di parlare di immigrazione non è una politica e, secondo il più cinico dei calcoli, lascia uno spazio aperto a coloro che sono pronti a pronunciare la parola e a suggerire che l’immigrazione ha prodotto problemi che devono essere affrontati dai governi. In Francia è diventato un luogo comune dire che i principali partiti politici non potrebbero fare di più per garantire la vittoria di Marine Le Pen alle elezioni del 2027 se ci provassero, ma questo non lo rende meno vero. Come si spiega allora il silenzio quasi suicida sull’argomento da parte dell’establishment occidentale? Vorrei fare una serie di proposte, dalle più banali a quelle estremamente tendenziose, e vedere cosa ne pensate.

In primo luogo, ovviamente, sarebbe necessario un grande sforzo. Bisognerebbe riconoscere gli errori, trovare i soldi, reclutare il personale, portare avanti la costruzione e così via. Soprattutto, qualcuno dovrebbe assumersi la responsabilità. È molto più facile, alla fine, lasciare che le cose continuino ad andare alla deriva, e lasciare che siano un problema di qualcun altro, potendo al contempo assumere una posizione moralmente superiore. Per i governi che non fanno più nulla, e anzi mancano sempre più della capacità di base di fare qualcosa, questa è praticamente la soluzione di default. Ma non credo che questo spieghi molto da solo. Dopo tutto, ai governi non costerebbe nulla riconoscere almeno l’esistenza di un problema, ma non lo fanno nemmeno. Anzi, sprecano capitale politico e danneggiano le loro prospettive politiche facendo il contrario. Cosa sta succedendo?

Forse può essere d’aiuto considerare la principale spiegazione che è stata avanzata per la volontà, o addirittura la smania, dei governi occidentali di adottare una politica di immigrazione di massa nell’ultima generazione o giù di lì. Non c’è bisogno di soffermarsi sull’invecchiamento della popolazione: l’alto tasso di disoccupazione tra le persone in età lavorativa significa che ci sono già molti lavoratori, e ce ne saranno anche nel prossimo futuro. È vero, naturalmente, che gli europei hanno storicamente richiesto cose come salari e condizioni di lavoro decenti, protezione dell’occupazione e così via, mentre gli immigrati, che non hanno scelta, di solito possono essere costretti ad accettare di peggio. Ma l’idea che l’immigrazione di massa fosse solo la ricerca di una forza lavoro flessibile e sfruttabile non regge.

Tanto per cominciare, anche se foste il tipico datore di lavoro avido e arraffone che cerca di risparmiare sui costi del personale, non vorreste almeno una forza lavoro in grado di fare il proprio lavoro? Diciamo che gestite una catena di supermercati a basso prezzo e che impiegate molta manodopera immigrata in ruoli umili. Ebbene, secondo le statistiche del governo francese dello scorso mese, solo il 50% circa dei quattordicenni nelle scuole francesi sa leggere e scrivere a un livello accettabile. (Circa il 20% è analfabeta funzionale e questo è vero da alcuni anni). Inevitabilmente, queste cifre sono molto peggiori nelle aree più povere e tra la popolazione immigrata. Forse non è importante se diventerai un influencer di YouTube o un artista rap. Ma se non lo sei? Se non sai leggere e scrivere correttamente, non puoi lavorare come cassiere, non puoi passare il test per guidare un camion, non puoi nemmeno impilare la merce sugli scaffali giusti. Allo stesso modo, un numero crescente di immigrati arriva come minore non accompagnato e non impara mai a parlare correttamente il francese, perché non sono mai state destinate risorse all’insegnamento della lingua. Dopodiché le prospettive di lavoro sono, diciamo, non ottimali. Il risultato è che in molti quartieri medio-bassi un quarto o un terzo della classe non riesce a parlare il francese abbastanza bene da seguire correttamente le lezioni, il che rovina le cose per tutti. Ma non parliamo di questo.

Ora, per quanto stupido sia il datore di lavoro medio o il politico di destra, deve essergli venuto in mente che avere una forza lavoro flessibile e a basso costo non ha alcun valore se i lavoratori non sono in grado di svolgere il proprio lavoro. Infatti, è comune incontrare datori di lavoro che in privato deplorano il fatto di non riuscire a trovare personale qualificato per il lavoro, a prescindere da quanto lo paghino. Allo stesso modo, è noto che la maggior parte degli hotel delle principali città europee impiegano cameriere provenienti dall’Europa dell’Est che non parlano la lingua locale e cercano di cavarsela con qualche parola di inglese. (Sarebbe stato bello se qualcuno avesse previsto questi problemi una generazione fa e avesse investito denaro per risolverli, o addirittura per evitare che si verificassero). Non credo quindi che le spiegazioni economiche siano sufficienti, tanto più che ora ci sono più potenziali lavoratori a basso costo e disperati che posti di lavoro, e ne arrivano sempre di più.

Quindi cos’altro potrebbe essere? E in particolare, perché le persone che non traggono vantaggi economici dall’immigrazione di massa la sostengono comunque? Una ragione, suggerisco, è il fascino dell’esotico. Quando ero giovane, si accettava che ci fossero ampie parti del mondo che non si sarebbero mai viste, a meno che non si fosse ricchi o si avesse un lavoro che comportava viaggiare o lavorare all’estero. Oggi non è così diverso come si potrebbe pensare, soprattutto in questi tempi di insicurezza, ma la gente non lo accetta più così facilmente, perché le immagini del mondo intero sono a portata di mano e ci sono potenti interessi economici che cercano di farci credere che possiamo permetterci di andarci. E per la maggior parte di quello che io chiamo il Partito Esterno (la parte subalterna della Casta Professionale e Manageriale, la PMC) la vita è in realtà piuttosto monotona e noiosa, e le vacanze significano Grecia o forse Disneyland con milioni di altre famiglie a un costo esorbitante. Ma se non puoi andare in India o in Thailandia, e non vuoi andare in Afghanistan, beh, forse loro possono venire da te, sotto forma di ristoranti, negozi, cibi esotici al supermercato, sushi di tanto in tanto, questo genere di cose. E per molti membri del Partito Esterno, questa è praticamente la somma totale delle loro interazioni con le comunità di immigrati, ad eccezione, forse, di quel brillante e laborioso figlio di un medico indiano che è amico di vostro figlio o figlia, e i cui genitori incontrate a volte.

Forse il silenzio più strano in tutto questo è quello dei partiti della sinistra fittizia che, si potrebbe pensare, sarebbero ben consapevoli dell’impatto dell’immigrazione sul loro nucleo di elettori e starebbero facendo qualcosa per mitigarne gli effetti. Invece no: i leader di questi partiti fanno a gara per difendere quelli che definiscono i diritti degli immigrati, in particolare degli immigrati clandestini, e per abusare e demonizzare chiunque provi anche solo a sollevare l’argomento. Perché? E al contrario, i partiti della Sinistra Nozionale prestano pochissima attenzione alle politiche che fornirebbero un aiuto concreto agli immigrati, come l’istruzione, la sicurezza o la fornitura di alloggi a prezzi accessibili. Perché?

Il punto di partenza, a mio avviso, è il ben noto cambiamento di proprietà dei partiti della vecchia sinistra nell’ultima generazione o giù di lì. È noto che sono stati presi in mano da professionisti della classe media, disinteressati a continuare a costruire una base politica di massa e a governare (quando governavano) con espedienti e focus group. Ma cosa c’entra tutto questo con gli immigrati? Beh, una volta i partiti di sinistra erano fortemente sostenuti dagli elettori immigrati, perché fornivano loro assistenza pratica, e in Francia, ad esempio, molti leader di spicco della sinistra avevano origini immigrate. Conoscevo un anziano francese di origine armena, i cui genitori erano giunti in Francia dopo la Prima guerra mondiale, come molti altri, per sfuggire ai turchi. Ricordava che uno zio, arrivato un po’ più tardi, gli aveva raccontato che gli armeni erano stati accolti a Marsiglia dal Partito Comunista locale, con tessere di iscrizione al Partito e ai sindacati, e che poi si erano presi cura di loro. Oggi sembra tutto così pittoresco e superato. Ma cosa è cambiato?

Dobbiamo capire che i partiti della sinistra nozionistica sono ora controllati non da leader provenienti dai sindacati o dal governo locale e dalle comunità locali, ma dai discendenti (e a volte dagli stessi personaggi) di quei noiosi gruppi di marxisti che si trovavano nelle università negli anni Settanta, che non facevano altro che urlarsi addosso e litigare su cosa avesse detto Marx nel 1853, di ecologisti che volevano far esplodere le centrali nucleari o di femministe che ti sputavano in faccia se gli aprivi una porta. Gruppi come questi – e ce n’erano altri, ma tre sono sufficienti – non cercavano il sostegno popolare. Si consideravano gruppi d’avanguardia, seguendo la logica del pamphlet di Lenin del 1905 Che cosa bisogna fare? Lenin, si ricorderà, sosteneva che i tentativi di politici come Jaurès di prendere il potere pacificamente attraverso le urne e i sindacati erano destinati al fallimento. Era necessario un gruppo affiatato di rivoluzionari professionisti, che avrebbero preso il potere in nome della classe operaia. In effetti, i bolscevichi riuscirono dove i movimenti popolari di massa avevano fallito, generando una corrente di pensiero elitaria, dalla Scuola di Francoforte alla Nuova Sinistra degli anni Sessanta, che riteneva che la gente comune fosse stupida e quindi incapace di organizzarsi e portare avanti una rivoluzione. Ma gli attivisti illuminati, di classe media e con una formazione universitaria, sapevano cosa era bene per la classe operaia, per le donne, per i bambini, per l’istruzione, per l’ambiente e per una dozzina di altre cose, e non c’era appello contro i loro giudizi. Soprattutto, come ricordo che i militanti del partito laburista dicevano negli anni ’80, non si poteva parlare di “placare l’elettorato”.

Questa è la mentalità, e queste sono alcune delle stesse persone, che hanno controllato i partiti della sinistra nozionistica in tempi moderni. E tutto ciò che è accaduto è stato l’estensione dell’atteggiamento paternalistico nei confronti delle classi inferiori ignoranti, anche agli immigrati. Così ora la sinistra fittizia pretende di parlare per loro e di sapere cosa vogliono e di cosa hanno bisogno. Hanno bisogno di marce contro il razzismo e di ONG, ma non di istruzione o lavoro. Hanno bisogno di protezione contro il “razzismo istituzionale” della polizia, ma non contro la criminalità di cui le loro comunità soffrono in modo sproporzionato. In Francia, ad esempio, dove si piange e si stridono i denti per la violenza tra coniugi, è difficile denunciare i maschi di origine immigrata, per paura di scatenare polemiche politiche, anche se tutti riconoscono che i problemi maggiori sono in quelle società. Le associazioni di donne musulmane che protestano contro la violenza domestica o le molestie sessuali non vengono ascoltate: anzi, le femministe hanno incoraggiato queste donne a tacere, per paura di “stigmatizzare” la loro comunità.

Per generazioni, gli immigrati hanno votato per i partiti di sinistra perché erano rappresentati in modo sproporzionato tra i poveri e gli indigenti e avrebbero beneficiato dei governi di sinistra. In una misura considerevole, l’inerzia fa sì che lo facciano ancora, ma alla sinistra fittizia di oggi non importa. Il suo messaggio alla comunità degli immigrati, così come al resto dei suoi tradizionali sostenitori, è: “Zitti e votate per noi”: Zitti e votate per noi, e non aspettatevi nulla. Così, l’anno scorso, un gruppo di donne delle pulizie che lavoravano per il gruppo Accor Hotels in un hotel in una delle zone più malfamate di Parigi ha ottenuto una vittoria sulla retribuzione e sulle condizioni dopo un lungo sciopero. Quasi tutte provenivano da comunità di immigrati. Eppure non c’è stato un solo antirazzista, una sola femminista, un solo intersezionista che abbia sposato la loro causa o che ne abbia parlato. La loro vittoria è stata riportata in poche righe dai media vicini al PMC.

E questo viene notato. A livello locale, i partiti della sinistra nozionistica non cercano più di fare appello alle comunità di immigrati in quanto tali. Stringono accordi con i “leader delle comunità” locali, spesso figure religiose, ma a volte, diciamo, individui legati alla criminalità, che portano voti in cambio di posti di lavoro in municipio e sovvenzioni per le loro organizzazioni. Anche questo viene notato, ed è per questo che in molti Paesi europei il voto degli immigrati si sta spostando a destra, mentre la sinistra fittizia abbandona qualsiasi politica che possa convincerli a continuare a sostenerla. Dopo tutto, se la principale politica pubblicizzata dal partito della sinistra nozionistica locale alle elezioni è una campagna contro la “transfobia” nelle scuole, perché mai i pii immigrati di prima generazione, da poco naturalizzati, provenienti da un Paese musulmano dovrebbero votare per loro?

A lungo termine, e anche per il più arrogante dei partiti d’avanguardia, questo è un suicidio. Ma a breve termine, permette ai partiti della sinistra fittizia di continuare a usare le comunità di immigrati come serbatoio di voti, attraverso pressioni morali e accordi conclusi in stanze segrete. Inoltre, permette loro di imporre un discorso particolare sulle questioni dell’immigrazione che si adatta ai loro obiettivi. Nel loro discorso, gli immigrati sono figure deboli e indifese, sempre vittime, vittime della discriminazione e dell’emarginazione e incapaci persino di esprimere le proprie rimostranze, per non parlare di cercare di porvi rimedio. Solo i salvatori bianchi possono farlo. Soprattutto, non è ammessa alcuna critica a qualsiasi aspetto del comportamento delle comunità di immigrati, nemmeno da parte di membri di queste comunità, poiché ciò non farebbe altro che rafforzare l’estrema destra e consegnare il Paese nelle mani dei fascisti. O qualcosa del genere.

Ma accettando il fatto che la politica è spesso cattiva, cinica e arrivista, mi sembra che nell’atteggiamento della sinistra nozionistica verso gli immigrati ci debba essere qualcosa di più di questo. Ho un suggerimento, che comporta una deviazione sul tema degli imperi, ma non nel modo in cui probabilmente vi aspettate.

La mente occidentale moderna ha una comprensione bizzarra del concetto di Impero: tanto più che gli Imperi sono stati la principale forza motrice e il principale sistema di organizzazione politica fino a tempi molto recenti. Gli imperi classici (assiro, persiano, romano, moghul, Qing, arabo, ottomano, ecc.) erano essenzialmente imperi di espansione da una regione di origine imperiale, attraverso la guerra e la conquista, e in qualche misura l’assimilazione. Il motivo era spesso l’accaparramento di ricchezze e territori, e in molti casi gli imperi combattevano tra loro, e al controllo di un territorio da parte di uno seguiva il controllo di un altro. La stragrande maggioranza dei Paesi del mondo di oggi erano territori imperiali non più di un secolo fa.

Ma quando oggi si parla di “imperi”, di solito si ha un’impressione poco chiara degli effimeri imperi britannico e francese in Africa, le cui origini sono molto più complesse e in realtà molto più interessanti. Gli imperi marittimi dipendono, ovviamente, dalle navi e fu lo sviluppo di questa tecnologia a consentire i primi imperi europei in America Latina, il cui scopo originario era semplicemente l’accumulo di oro. In seguito i portoghesi stabilirono quello che viene spesso descritto come un “Impero”, ma che in realtà era più che altro una serie di stazioni commerciali, con relazioni politiche molto limitate con i regni africani dell’entroterra. La “Colonia del Capo” olandese era in realtà solo un porto in acque profonde a Simon’s Town, dove le navi olandesi delle Indie Orientali potevano fare rifornimento e riposare. Anche quando gli inglesi sottrassero la “Colonia” agli olandesi, durante le guerre napoleoniche, volevano solo la base navale.

Mi dilungo un po’ su questo punto perché, come dimostrano alcune utili mappe di Wikimedia, fino a circa centocinquant’anni fa la principale potenza coloniale in Africa era di fatto l’Impero Ottomano, e la cultura araba e l’Islam erano stati diffusi lungo la costa orientale dell’Africa dai commercianti provenienti dal Golfo. In confronto, l’impronta europea in Africa era piccola e in gran parte legata al commercio. Le ragioni di questo cambiamento sono state oscurate dalla continua influenza del movimento anticolonialista degli anni Sessanta e dalla relativa letteratura che sosteneva che l’Africa era stata “saccheggiata” dalle potenze coloniali. (In realtà, è vero più o meno il contrario: gli imperi sono stati un pozzo di denaro senza fondo). Ora, tra i motivi reali c’era sicuramente l’avidità: Cecil Rhodes è solo il più famoso degli imprenditori che promisero ai loro governi che le colonie sarebbero state redditizie, per poi essere salvati da quegli stessi governi quando fallirono. E alcuni individui hanno fatto fortuna in seguito, ad esempio con le miniere d’oro in Sudafrica. Ma la storia reale del trionfo delle idee imperiali alla fine del XIX secolo è molto più complessa e variegata di così.

Alcune motivazioni erano economiche e strategiche. Gli inglesi, ad esempio, la cui economia dipendeva dal commercio marittimo, cercavano possedimenti strategici dove poter sostenere la loro Marina, soprattutto dopo il passaggio al carbone, e un approvvigionamento sicuro di materie prime per l’industria. I francesi, dopo il 1870, vedevano nei possedimenti imperiali una riserva di manodopera e di risorse per la successiva guerra con la Germania. Entrambi avevano ragione e gli imperi hanno probabilmente salvato la Gran Bretagna e la Francia in entrambe le guerre del XX secolo.

Ma alcuni erano più strettamente politici. La vasta ricchezza creata in Gran Bretagna, Francia e Germania dalle loro rivoluzioni industriali creò la possibilità di acquisire colonie sia per sostenere l’industria (come già detto), ma soprattutto come simbolo di prestigio e status nel mondo. Avere delle colonie, ad esempio nel 1895, era l’equivalente di avere armi nucleari e di essere un membro permanente del Consiglio di Sicurezza un secolo dopo. Così, i tedeschi, arrivati tardi alla festa dopo l’unificazione, dovettero accontentarsi della Namibia, del Tanganica e del Ruanda per il loro “posto al sole”, a cui pensavano di avere diritto grazie al loro potere economico.

Ma anche se la storia completa dell’ascesa e del declino dell’imperialismo come dottrina è affascinante, e raramente gli viene data sufficiente importanza, in questa sede mi occupo di uno degli aspetti dell’interazione occidentale con l’Africa e il Medio Oriente – che va quindi ben oltre gli imperi in quanto tali – che non viene quasi mai trattato: la dimensione umanitaria. E qui cominciamo ad avvicinarci al nucleo del rapporto tra il pensiero occidentale sulle parti meno fortunate del mondo di un secolo fa e il pensiero occidentale sugli sfortunati immigrati di oggi. E le corrispondenze, in termini di ideologia, strutture e tipo di persone coinvolte, sono piuttosto sorprendenti.

Il primo tipo di interazione, oggi poco ricordato, è quello del lavoro missionario: le fondazioni missionarie, spesso ben finanziate e politicamente influenti, erano le ONG del loro tempo. Naturalmente il lavoro missionario precede di molto l’imperialismo moderno: sono ben note le attività dei missionari cattolici in America Latina e in Giappone a partire dal XVI secolo. Ma il vero impulso è arrivato con l’ascesa del cristianesimo evangelico nelle nazioni protestanti nel XVIII secolo. L’impulso domestico a portare il Vangelo ai poveri e agli indigenti, ad agire per migliorare le condizioni di lavoro e le riforme sociali in patria, si trasformò naturalmente in una preoccupazione per le condizioni del resto del mondo. Le Chiese avevano già inviato “missioni” per sostenere le piccole comunità di coloni e commercianti europei in tutto il mondo, ma dalla fine del XVIII secolo vennero create organizzazioni missionarie (come la famosa London Missionary Society) per portare la Parola di Dio in tutto il mondo. Fin dall’inizio, i missionari hanno posto l’accento sull’istruzione e sull’azione umanitaria, imparando le lingue locali e traducendo la Bibbia. Il loro lavoro li portò spesso a scontrarsi con altri occidentali presenti per motivi più mercenari.

Anche se oggi sembra difficile da accettare, ci sono stati tempi in cui la politica era dominata da persone moralmente serie. In Gran Bretagna, il movimento evangelico ha avuto una grande influenza sulla politica, dato che alcuni politici famosi – tra cui Gladstone, il grande primo ministro riformatore – sono stati profondamente influenzati dalle sue idee. Le riforme dell’epoca – istruzione, condizioni di lavoro, diritto di voto – erano accompagnate dal desiderio di essere ciò che i governi successivi avrebbero definito “una forza per il bene” nel mondo. Gli evangelici erano stati estremamente influenti negli sforzi per porre fine alla tratta degli schiavi nei possedimenti britannici e successivamente avevano contribuito a persuadere Londra a istituire l’Africa Squadron, che pattugliava le coste dell’Africa occidentale, cercando di intercettare i mercanti di schiavi e di liberare gli schiavi. Questi gruppi di pressione si sovrapponevano agli appassionati di opere missionarie e di opere di bene in Africa e altrove. Anche più tardi, quando fu istituito l’Impero britannico formale, gli amministratori coloniali che andarono a gestirlo parteciparono dello stesso fervore morale profondamente serio che portò alle riforme politiche, sociali e governative in Gran Bretagna.

Pur non avendo la stessa tradizione evangelica, i francesi non tardarono a seguire gli inglesi nella diffusione del cristianesimo. Non appena i francesi ebbero strappato il controllo dell’Algeria agli Ottomani e riuscirono a pacificarla, iniziarono a costruire la basilica di Notre Dame d’Afrique, che ancora oggi domina lo skyline di Algeri. Sotto Napoleone III ci furono spedizioni e iniziative coloniali private, ma fu dopo la fondazione della Terza Repubblica nel 1871 che la colonizzazione divenne una causa popolare. Come in Gran Bretagna, fu sostenuta da un gran numero di PMC dell’epoca, come il famoso socialista Jules Ferry, l’architetto di gran parte dell’Impero francese in Africa, che sosteneva nel vocabolario standard dell’epoca che “le razze superiori hanno il dovere di civilizzare le razze inferiori”. (Tuttavia, questa idea fu osteggiata da molti esponenti della destra, che temevano che avrebbe interferito con il buon funzionamento dei mercati).

I francesi, naturalmente, avevano il vantaggio dei principi repubblicani universali risalenti alla Rivoluzione, e proprio l’universalità di questi principi significava che potevano essere applicati con sicurezza a qualsiasi situazione, ovunque. Condividevano anche lo zelo modernizzatore degli inglesi (abolendo la schiavitù, diffondendo l’istruzione e cercando di migliorare lo status delle donne, ad esempio).

Per circa tre generazioni, l’apparato formale degli imperi di Gran Bretagna e Francia, tanto stravagantemente elogiato all’epoca quanto stravagantemente demonizzato in seguito, distolse l’attenzione da molte delle realtà quotidiane che avevano più effetto sulla vita della gente comune. Oltre alle annessioni, alle invasioni, alle ribellioni, alle scoperte di risorse naturali, ai trattati e a tutto il resto, c’erano amministrazioni coloniali che lavoravano alacremente, cercando di introdurre quello che oggi definiremmo “buon governo”. Scrissero leggi, istituirono strutture formali di governo locale, abolirono la schiavitù, cercarono di “modernizzare” società e costumi, costruirono strade e ferrovie e mandarono giovani nativi promettenti a studiare nella madrepatria. E oltre a loro, c’erano grandi reti di insegnanti, medici, ufficiali militari, specialisti tecnici e altri, attratti da un’intera gamma di motivazioni, dalle più elevate alle più mercenarie.

Il che significa che un amministratore coloniale o un missionario che si fosse addormentato cento anni fa e si fosse svegliato oggi, si sarebbe sorpreso di quanto poco fossero cambiate le cose. Come in passato, la concentrazione dei media sugli elementi più noti del rapporto tra Occidente e Resto del mondo può far sembrare che si tratti di un conflitto. In realtà, come in passato, la maggior parte di questa relazione consiste in un potere “morbido” piuttosto che “duro”, ed è gestita oggi dai ministeri dello sviluppo e dalle organizzazioni internazionali. È impressionante, per usare un eufemismo, vedere l’enorme volume di attività finanziate da queste organizzazioni in quasi tutti i settori che si possono pensare: riforma giudiziaria, diritti delle donne, gestione del settore pubblico, redazione legale, media indipendenti, responsabilità della polizia, trasparenza del bilancio, formazione anticorruzione e centinaia di altri. Se dubitate di me, visitate i siti web dell’UE, delle Nazioni Unite, dell’OCSE e dei principali donatori come Canada, Svezia, Germania e altri, e ammirate le pagine e pagine e pagine di progetti che coprono ogni aspetto della vita laggiù. Ci sono persino società di consulenza che vi aiutano a trovare i progetti e newsletter che vi guidano, soprattutto a Bruxelles. Oppure guardate i siti di alcune agenzie di sviluppo nazionali e stupitevi dell’arroganza neocoloniale di funzionari senza alcuna esperienza reale che ingaggiano consulenti senza alcuna esperienza reale per mettere insieme squadre di persone che interferiscano nelle aree più sensibili dei Paesi di altri popoli.

Se vi recate in un’ambasciata di un Paese occidentale di medie dimensioni nel Sud del mondo, scoprirete che, a parte l’ambasciatore e alcuni membri della cancelleria, il personale consolare e forse un addetto alla difesa e uno specialista del commercio, il grosso degli sforzi dell’ambasciata si concentra su questioni vagamente definite “sviluppo”, “governance”, “riforme”, “prevenzione dei conflitti” e “diritti umani”, che sono un codice collettivo per i tentativi di imporre un’agenda PMC al Paese. Ci saranno un paio di giovani entusiasti distaccati dal Ministero dello Sviluppo, che avranno bisogno di interpreti, un po’ di personale assunto localmente che ha studiato all’estero e che parla inglese, che è la lingua in cui l’Ambasciata dovrà in pratica lavorare, e la maggior parte del lavoro effettivo sarà appaltato a ONG locali con personale giovane che ha studiato all’estero e che parla anche inglese. L’argomento più importante sarà probabilmente il genere: l’Ambasciata potrebbe avere un consigliere a tempo pieno per il genere, un ambizioso programma per il genere, sponsorizzare seminari di giovani donne istruite all’estero e assegnare ogni anno un premio speciale a una donna che ha avuto un successo particolare negli affari. (La condizione reale delle donne comuni, soprattutto al di fuori della capitale, non sarà una priorità: i problemi sono comunque troppo grandi). E poi c’è un colpo di stato o una guerra che nessuno ha visto arrivare perché stava facendo altre cose.

Se tutto questo suona come un’accusa un po’ stizzita al fatto che non è cambiato molto negli atteggiamenti dall’epoca coloniale, beh, in un certo senso è così. E probabilmente è peggiorato: cento anni fa, gli amministratori e i missionari coloniali erano più informati e meno invadenti dei loro discendenti. Ma è importante capire due cose. Uno è che, come nel periodo della colonizzazione formale, le persone vengono coinvolte per i motivi più disparati e molte hanno forti imperativi ideologici o morali per quello che fanno. Il Primo Segretario (Sviluppo) medio di un’Ambasciata probabilmente crede di “fare del bene”. E questo a sua volta significa che, come il resto dell’agenda della PMC, i loro progetti sono intrinsecamente virtuosi e non possono mai fallire, possono solo essere falliti. Come ho sempre detto, non c’è nessuno più pericoloso di un idealista.

Ma il secondo punto, direttamente collegato all’epoca coloniale, è forse più importante. Durante quell’epoca, c’era una completa distinzione tra chi lavorava sul campo e chi lavorava nelle organizzazioni e nei governi del Paese d’origine. L’Ufficio per l’Africa a Londra era gestito da persone che in quasi tutti i casi non avevano mai visitato il continente. Allo stesso modo, il personale in loco tornava solo occasionalmente nella madrepatria: un membro del Servizio Civile Sudanese, un’organizzazione governativa molto rispettata all’epoca, poteva essere assunto a Londra, ma avrebbe trascorso tutta la sua vita lavorativa in Sudan, con il diritto forse a una visita in patria qualche volta nella sua carriera. (Il padre di George Orwell, ad esempio, tornava a casa dall’India una volta ogni sette anni). Allo stesso modo, i funzionari delle Società Missionarie o delle numerose organizzazioni di volontariato che inviavano medici e insegnanti all’estero, raramente lasciavano il loro paese.

Non è così bizzarro come sembra. Cento anni fa, per andare da Londra a Khartoum, passando per Alessandria, potevano volerci settimane e costare una fortuna. Oggi, il funzionario del Ministero degli Esteri responsabile per il Medio Oriente può fare un tour introduttivo in dieci giorni. Un secolo fa ci sarebbero voluti sei mesi. In pratica, i responsabili delle politiche, i finanziatori e i leader politici avevano solo una vaga idea di ciò che accadeva sul campo, e chi era sul posto spesso faceva ciò che gli sembrava meglio. Spesso le due cose erano in conflitto, dato che i missionari e gli amministratori coloniali erano sul campo.

Con il passare delle generazioni, naturalmente, la serietà morale di quell’epoca si è affievolita. Il senso del dovere di portare il “buon governo” o la “Parola di Dio” alle popolazioni native è stato sostituito dal desiderio meccanico, e spesso aggressivo, di obbligare altre parti del mondo a ricostruirsi a nostra immagine e somiglianza. Il fervore repubblicano che animava personaggi come Ferry è oggi considerato con imbarazzo in Francia, che ha completamente inghiottito l’ideologia liberale di stampo PMC. Ciò che rimane è proprio questa ideologia liberale vuota e incoerente, e il desiderio di imporla agli altri attraverso il potere politico e finanziario, spesso per motivi carrieristici e per avere un’influenza non riconosciuta su settori sensibili dei governi stranieri. E rimane anche, in forma degenerata, il desiderio di sentirsi bene con se stessi, di far compiere all’estero una serie di atti performativi che confermino che siamo persone meravigliose.

Eppure la globalizzazione offre ogni sorta di nuove opportunità per iniziative performative e autocelebrative. Anziché limitarci a inviare persone laggiù, possiamo portare qui la materia prima del nostro senso di orgoglio e di virtù, in modo da assumere ulteriori pose morali. In effetti, i nostri leader hanno importato le colonie nei nostri Paesi, in modo da poter patrocinare la loro gente come facevamo cento anni fa. Naturalmente, la PMC non si sporcherà le mani con i dettagli pratici, così come non lo facevano un tempo la London Missionary Society o il Ministère des Colonies. Vivono distaccati dagli ingredienti performativi che hanno portato con sé quasi quanto i loro antenati ideologici di un secolo o più fa. Lasciano la gestione concreta della situazione alle forze dello Stato, spesso mal pagate e non considerate (personale del municipio, assistenti sociali, polizia, personale medico e insegnanti, che sono quotidianamente all’opera) e alle organizzazioni caritatevoli, che sono completamente sopraffatte dalla portata dei problemi. Nel frattempo, i PMC nelle loro zone chic delle città si congratulano compiaciuti di quanto siano virtuosi e superiori, e di quanto sia malvagio e spregevole chiunque critichi le loro politiche di immigrazione, o voglia anche solo parlarne.

E questo, forse, è il beneficio finale dell’attuale politica di immigrazione incontrollata: la superiorità morale, che questa volta non deriva da qualcosa che hai fatto, ma solo da ciò che pensi. Ci sono pochi piaceri più squisiti e delicati, dopo tutto, che sedersi a giudicare moralmente gli altri, senza dover fare nulla di concreto. Alcuni decenni fa, Michel Rocard, allora primo ministro di François Mitterrand, disse notoriamente che la Francia non poteva “accogliere tutta la miseria del mondo”. Fu criticato furiosamente per questa affermazione, ma un attimo di riflessione dimostra che aveva ragione: quanto tempo ci vorrebbe, ad esempio, per trovare, trasportare in Francia, ospitare, nutrire e vestire le centinaia di milioni di persone indigenti nel mondo? L’errore di Rocard è stato quello di trattare il linguaggio performativo e normativo come se fosse destinato ad applicarsi al mondo reale, come se si trattasse di una questione di ciò che dovremmo fare, in contrapposizione alla questione molto più importante di ciò che dovremmo dire. Ed evidentemente la PMC non si sta affrettando a offrire ai miserabili del mondo un posto in casa propria. (Diffidate sempre di chi dice “dobbiamo” quando in realtà intende “dovete”).

E ora, credo, ci sono segnali che indicano che questo abile teatrino della superiorità morale sta iniziando a crollare. Come sempre, è impossibile dire a quale velocità avverrà, ma è chiaro che il processo è in corso. Arriva un momento in cui l’intimidazione normativa non funziona più. Per ironia della sorte, basterebbe ascoltare le stesse popolazioni immigrate. Non vogliono marce contro il razzismo e appelli per il disboscamento della polizia. Vogliono posti di lavoro, opportunità e un’istruzione decente per i loro figli, sicurezza nella loro vita quotidiana e libertà dall’influenza delle bande di droga e degli estremisti religiosi. (Qualsiasi amministratore coloniale del 1900, riportato in vita, avrebbe visto esattamente cosa c’era da fare).

Forse in un futuro non troppo lontano organizzeranno una marcia antirazzista e anti-islamofobia, ma non verrà nessuno.

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A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, Tramedoro, Bologna 2023, pp. 110, € 10,00.

Questo volume fa parte della collana “Biblioteca della proprietà”, promossa da Confedilizia.

Prende l’occasione dalla direttiva sulle Case-green e in genere dall’andazzo ecologista dell’Unione europea per riproporre l’importanza e la necessità della proprietà, non solo in generale, ma anche per l’ambiente.

Per far questo deve superare due luoghi comuni propagandati: il primo che la proprietà privata comporti necessariamente peggioramento dell’ambiente, mentre quella pubblica no, o quanto meno lo comprometterebbe in misura minore; dall’altro il riflesso condizionato antiproprietario, in particolare da Marx in poi che, dopo il crollo del comunismo ha scelto la tutela dell’ambiente come ragione fondamentale del proprio livore.

Come scrive nell’introduzione Piombini, l’obiettivo «politico principale delle classi politico-burocratiche occidentali, appoggiate dai media e dagli intellettuali (è)  Usare la confisca, il clientelismo, la centralizzazione e la coercizione per combattere il cosiddetto “cambiamento climatico”». E così aumentare (e giustificare) il proprio potere. A tale proposito sostiene Lottieri che «la direttiva detta “case green” è soltanto l’ultimo frutto avvelenato di un’idea pervertita di Unione europea e, oltre a ciò, dello stesso declino del diritto». Tra le due mende, la più interessante è quella del “declino del diritto”. Questo è assorbito dalla legislazione, cioè dalle norme emanate dal principe, che hanno assunto, nello Stato moderno, un ruolo esclusivo (o quasi). Questo a scapito della concezione romana del diritto il quale, oltre alla leges, alle constitutiones, ai senatus consulta era “costituito” dai responsa prudentium, dagli edicta dei Pretori, dai mores maiorum. Cioè era un sistema pluralista e non (quasi del tutto) monopolizzato dallo Stato. Oltretutto negli ordinamenti giudiziari continentali, fino a meno di un secolo fa, privo di quello che Hauriou chiamava, per quello degli Stati Uniti, la superlegalité constitutionnel che garantisce la società civile dall’invadenza dello Stato.

Nell’individuare la ragione di tale bulimia pubblica, Lottieri scrive «alla base di tutto questo, allora, c’è l’antica, antichissima questione del potere. Perché non c’è dubbio che il potere esiste e una delle sue manifestazioni più caratteristiche consiste proprio nella capacità da parte di  alcuni (dominatori) di estrarre le risorse di altri (dominati)». Come gli italiani tartassati da un fisco predone coniugato ad un’amministrazione sgangherata, conoscono bene.

Restando nei limiti di una recensione ricordare tutti i contributi degli autori che affrontato i diversi aspetti del problema: vi rinviamo i lettori.

È opportuno fare comunque un’eccezione per quello di A. Vitale, già dal titolo assai attraente “dall’economia verde a una società al verde”.

Scrive Vitale nella post-fazione che «questo libro mette il dito nella piaga della legislazione e della regolamentazione, nel fondamentalismo ecologico e nella bulimia regolatoria europea – che minacciano di non avere limiti – giustificate con la “crisi climatica globale”» e prosegue che in realtà questo « è funzionale ai pianificatori di ogni colore per un rimodellamento della società secondo i loro desideri (l’uso delle espressioni “cambiare il mondo” e “nuovo mondo” è infatti molto frequente)». Peraltro l’obiettivo dell’ambientalismo radicale è «il controllo e in prospettiva l’annientamento della proprietà, del mercato, dell’economia libera. L’ambientalismo infatti, ignorando il ruolo del meccanismo del libero mercato, dei prezzi e della proprietà privata nella conservazione e nell’aumento delle risorse naturali, finisce sempre per perorare la causa di un’economia pianificata, interventista». Carente di sicuri presupposti, l’ideologia ambientalista non considera le esigenze sociali che sacrifica «di occupazione, di costi per i meno abbienti, di prezzi troppo elevati per i salari medi». E così conduce al verde la comunità.

Nel complesso un libro che possiede il pregio più importante in un’epoca di “politicamente corretto”: la demistificazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Aggiornamenti: I finanziamenti per l’Ucraina crollano di nuovo mentre Zelensky, sempre più isolato, è sempre più sconfortato, di SIMPLICIUS THE THINKER

Volevo provare a scrivere un aggiornamento più breve oggi, per non sovraccaricare coloro che forse stanno ancora digerendo la voluminosa posta di ieri.

Gli sviluppi più importanti sono che Zelensky avrebbe dovuto parlare al Congresso in una riunione riservata stasera, che per qualche motivo è stata cancellata all’ultimo minuto. Una delle possibili spiegazioni è che i Repubblicani hanno snobbato le offerte di Biden e dei Democratici per sbloccare i fondi per l’Ucraina, in quanto i Repubblicani semplicemente non vogliono rinunciare alle loro richieste di garantire prima il confine.

Il “briefing segreto” avviato dai democratici per i senatori, in cui si prevedeva di convincere i legislatori dell’importanza di concordare rapidamente nuovi aiuti per Kiev, è completamente fallito I repubblicani non hanno nemmeno voluto ascoltare e sono usciti dal briefing

Quali sono esattamente queste richieste?

Le più rilevanti riguardano le leggi sull’asilo e sulla libertà vigilata nei procedimenti di immigrazione. I repubblicani vogliono che tutti i “richiedenti asilo” siano trattenuti al momento dell’ingresso, in attesa che le loro richieste vengano esaminate. Attualmente vengono semplicemente rilasciati nel Paese, permettendo a molti di loro di fuggire facilmente senza alcun processo legale.

I Democratici hanno respinto questa proposta, proponendo invece uno “snellimento” del processo di richiesta d’asilo, definendo le proposte repubblicane “estreme” e sostenendo che “porrebbero fine a tutto l’asilo come lo conosciamo, e chiuderebbero di fatto il confine” – sì, credo che questo possa essere il piano.

Anche Lindsay Graham ha improvvisamente fatto marcia indietro rispetto alla sua posizione di guerra estrema e ora chiede di non fornire più aiuti all’Ucraina senza garantire il confine. Sembra che entrambe le parti siano piuttosto irremovibili; si può capire perché per i Democratici bloccare l’immigrazione illegale significherebbe perdere le prossime elezioni.

Per ora hanno tempo fino al 15 dicembre, poi ci sarà una pausa fino all’anno prossimo. Dopodiché, l’Ucraina potrebbe non ricevere alcun aiuto fino al 2024, quando avrà già iniziato a sperimentare l’equivalente delle armi militari della respirazione agonica. Qualche mese fa, è stato riferito che gran parte degli aiuti critici all’Ucraina, come conchiglie e altro, vengono dati “di bocca in bocca”. Cioè, non appena escono dalla linea di produzione, vengono immediatamente spediti e altrettanto immediatamente utilizzati. Non hanno grandi magazzini e quindi l’interruzione della produzione avrebbe teoricamente ripercussioni immediate sulla loro capacità di svolgere le funzioni di base sul campo di battaglia.

Nel frattempo, la folla pro-USA sta avendo un crollo. Tutti i tipi di analisti e commentatori ucraini hanno emesso strilli e grida di allarme sempre più acute. Tutti, da Arestovich a Gordon, da vari soldati al fronte, sembrano avere solo cattive notizie.

Anche i media occidentali stanno annegando nella tristezza.

Arestovich ha dichiarato apertamente che, purtroppo, “abbiamo scelto la parte sbagliata”.

Continua spiegando come gli Stati Uniti e l’Occidente non siano in grado di eguagliare la produzione industriale russa e cinese, perché l’Occidente ha completamente dissolto le capacità produttive che lo hanno reso la potenza del mondo durante l’era della Guerra Fredda:

Egli estrapola il conflitto ucraino a quello più ampio tra l’Occidente e l’intero Sud ed Est del mondo e afferma di non avere più fiducia che l’Occidente vincerà lo scontro globale.

Ciò è confermato da una serie di rapporti occidentali, come questo, che afferma che:

Anche mentre infuria una guerra nel continente europeo, la spesa per la difesa europea è bloccata leggermente al di sopra della neutralità, con una serie sovrapposta di problemi politici e industriali che bloccano qualsiasi rapido aumento delle capacità e frenano le forniture all’Ucraina.

Ciò che l’articolo di cui sopra approfondisce è la narrativa ormai diffusa secondo cui la NATO nel suo complesso deve aumentare la propria produzione militare ai livelli della Guerra Fredda e la sensazione generale che tutto debba essere militarizzato su scala quasi da Seconda Guerra Mondiale.

Alla base di questo recente impulso tra l’intellighenzia occidentale del MIC c’è la crescente affermazione che la Russia “non si fermerà all’Ucraina” e che intende attaccare [inserire nazione qui] come prossimo passo.

Questo è stato evidenziato da un articolo della National Review, tra i tanti:

 

Questa è l’affermazione più forte degli ultimi giorni. Dichiara apertamente che tra tre anni la Russia potrebbe colpire i Paesi del fianco orientale della NATO, come affermato da un responsabile dell’agenzia di sicurezza nazionale polacca.

Cita anche un thinktank tedesco che sostiene che la NATO deve essere pronta a “respingere un’offensiva russa tra 6-10 anni”.

Jacek Siewiera, capo dell’Ufficio per la sicurezza nazionale della Polonia, afferma che

Purtroppo questa analisi è coerente con gli studi elaborati negli Stati Uniti”, ha dichiarato al Nasz Dziennik, un giornale cattolico polacco. “Ma a mio parere il periodo di tempo presentato dagli analisti tedeschi è troppo ottimistico. Se vogliamo evitare la guerra, i Paesi della Nato sul fianco orientale dovrebbero adottare un orizzonte temporale più breve, di tre anni, per prepararsi al confronto“.
E prosegue sottolineando quello che sembra essere il vero spettro che spaventa l’Occidente, ovvero le crescenti capacità industriali della Russia:

Siewiera ha aggiunto: “Questa è la finestra temporale in cui dobbiamo creare una capacità sul fianco orientale che fornisca un chiaro segnale di dissuasione dall’aggressione. L’industria degli armamenti in Russia lavora su tre turni [ogni giorno] e può ricostruire le sue risorse entro i prossimi tre anni“.
In quello che sembra uno sforzo coordinato, tutti gli scribacchini occidentali stanno cercando in ogni angolo qualsiasi cosa che possa anche solo lontanamente assomigliare a qualche indizio dei presunti “disegni” della Russia contro l’Europa. Per esempio, Anton Gerashchenko ha postato questo episodio di Soloviev che, a suo dire, illustra i progetti russi di stravolgere completamente l’Europa, ricreando una zona speciale austro-ungarica.

Queste fantasie dominano ora i titoli dei giornali, con ogni piccola osservazione fuori luogo di Putin utilizzata per confermare qualche nuovo sogno selvaggio sulla rinascita dell’Impero russo. Per esempio, una nuova osservazione di questo tipo fatta da Putin sulla persecuzione dell’etnia russa da parte della Lettonia è stata distorta in un’affermazione del MSM secondo cui Putin avrebbe minacciato la Lettonia, designandola come “prossima” dopo l’Ucraina.

Questo spettro fraudolento dell’imperialismo russo viene alimentato per incutere timore alla popolazione europea e galvanizzare il sostegno all’Ucraina.

Ma, cosa più insidiosa, rappresenta la proiezione e la telegrafia dei piani della NATO di continuare a trascinare la Russia in un guado di guerra sempre più fitto per minare continuamente il suo sviluppo come superpotenza sovrana. Ne ho scritto nell’ultima mailbag dei lettori, ma il recente intensificarsi dei tamburi di guerra mi rende quasi certo che all’orizzonte si stia profilando un conflitto europeo molto più ampio.

L’articolo della National Review termina addirittura con questa nota premonitrice:

Il nocciolo della questione è che il Cremlino ha intenzione di cambiare l’ordine mondiale, soprattutto in termini di sicurezza, e la conquista dell’Ucraina è il primo passo di questo piano. Se l’Occidente abbandonasse ora l’Ucraina, esporrebbe ulteriormente la NATO all’aggressione russa negli anni a venire. Al contrario, per scongiurare il pericolo russo, la NATO e l’UE devono sostenere con forza l’Ucraina e continuare a sviluppare le proprie capacità militari. La minaccia russa deve essere neutralizzata e questo è l’unico modo per farlo.
Ma il loro maldestro salto narrativo mette in luce una grave falla in questo nuovo treno della propaganda occidentale.

Loro, come altri, sostengono che la Russia sta espandendo massicciamente le sue forze armate, stanziando nuovi budget giganteschi per il 2024 e oltre, il che viene usato per adombrare alcune incombenti conquiste future. Allo stesso tempo, però, sostengono comicamente che la spinta al cessate il fuoco è un’importante spinta propagandistica russa che serve gli interessi della Russia nel porre fine alla guerra e nel consolidare le nuove conquiste territoriali. Pertanto, sostengono, l’Occidente dovrebbe a tutti i costi continuare a finanziare militarmente l’Ucraina per ostacolare questo insidioso piano russo di utilizzare il trionfo del cessate il fuoco come un’importante convalida della sua conquista.

Pensateci un attimo. La Russia sta espandendo enormemente i suoi bilanci e sta pianificando la conquista di tutta l’Europa, ma allo stesso tempo è la Russia che chiede a gran voce di porre fine alla guerra e che il cessate il fuoco è una direttiva della “propaganda russa”? Come può avere senso?

È dello stesso ordine di stupidità del Tweet postato in precedenza, che evidenzia come l’Ucraina sostenga che solo l’adesione alla NATO la proteggerebbe, dissuadendo la Russia dall’attaccare di nuovo, ma allo stesso tempo sostiene assurdamente che la Russia è pronta ad attaccare altri membri della NATO dopo aver conquistato l’Ucraina. Quindi quale protezione può offrire la NATO?

È solo una bile risibile, che dimostra la totale aridità morale e intellettuale e la superficialità degli sforzi di propaganda dell’Occidente in declino: non ci provano nemmeno più. Basta osservare l’imbecille Stoltenberg che simula preoccupazione con i suoi ammiccamenti bovini mentre espettora alcune sciocchezze come: “Dobbiamo portare la pace continuando ad armare l’Ucraina!”.

È una vera e propria galleria di pagliacci!

Ma hanno sollevato un punto positivo: lo stanziamento da parte della Russia di ingenti fondi per la difesa per il 2024 e oltre sembra confutare l’idea che Putin e la Russia siano pronti a piegare il ginocchio e a firmare il cessate il fuoco nel prossimo futuro. Se la Russia si stesse preparando a porre fine alla guerra, perché dovrebbe investire miliardi per potenziare l’intera industria della difesa e portare il bilancio della difesa del prossimo anno a livelli quasi senza precedenti? Ciò implica che intendono continuare questa guerra fino alla fine e che, a differenza dell’Occidente, stanno gettando le vere basi.

Ora ci sono state diverse voci secondo cui la primavera del 2024 sarà il limite finale in cui gli Stati Uniti tracceranno la linea come ultimatum a Zelensky. Alcune fonti sostengono addirittura che sia prima:

⚡️⚡️⚡️#Insider information
La nostra fonte OP ha riferito che l’Amministrazione Biden sta facendo pressione sull’Ufficio del Presidente per congelare la guerra nel febbraio 2024 per la durata della campagna elettorale. In realtà, ci viene dato un ultimatum per iniziare il processo negoziale dalla primavera del prossimo anno, e nessuno parla della formula di pace di Zelensky come base, e ci viene posta la condizione di accettare di smettere di combattere in prima linea.

Il deputato della Rada Goncharenko ha persino affermato che all’Ucraina viene detto tranquillamente che non c’è alcuna possibilità di entrare nella NATO e che è meglio puntare all’UE:

Mentre tutto è in bilico, nascono molte teorie selvagge. Per esempio, l’analista veterano Starshe Edda si è chiesto se lo sterminio apparentemente deliberato dei marines ucraini che il regime di Zelensky sta compiendo a Kherson non sia forse un tentativo di ridurre le ultime unità forti e/o nazionaliste per impedire loro di marciare presto su Bankova.

Ho una teoria cospirativa. L’eliminazione dei Marines delle Forze Armate dell’Ucraina a Krynki, così come in generale la macinazione delle unità più pronte al combattimento dell’esercito ucraino in attacchi insensati, è necessaria affinché, in primo luogo, i militari di Kiev non inizino una marcia su Kiev e, in secondo luogo, siano ripuliti in modo che i partner di Kiev possano entrare in sicurezza e senza ostacoli nel territorio dell’Ucraina occidentale, annettendo ciò che vogliono.
Con un po’ di contesto in più:

Oggi, unità della 37esima Brigata di Marina delle Forze Armate dell’Ucraina sono arrivate in direzione di Kherson, vicino all’insediamento di Krynki. Prima di allora erano presenti unità della 36esima e 38esima brigata di marina e il 503esimo battaglione separato di marina delle Forze Armate dell’Ucraina. Le perdite del nemico sono colossali.

Vorrei ricordare che le unità dei Marines delle Forze Armate dell’Ucraina sono sempre state considerate d’élite e tra le più esperte, al pari della 25ª, 79ª e 95ª brigata anfibia delle Forze Armate dell’Ucraina. Non si sa perché Kiev continui a mandare i suoi Marines al massacro. E non è una sorta di propaganda, anche i nostri combattenti in quella direzione sono perplessi. Zelensky e co. stanno chiaramente unendo i loro soldati più capaci e liberando il territorio dell’Ucraina dalle persone. Il tempo ci dirà perché e per chi.
Forse c’è un pizzico di sarcasmo in questa teoria, ma di certo i coltelli sono stati tirati fuori in tutta la loro forza, con persino Klitschko che ha condannato apertamente Zelensky. Come si ricorderà, in un’intervista rilasciata all’inizio dell’anno, Klitschko aveva taciuto di criticare la Bankova o di accennare a una potenziale candidatura presidenziale, ammettendo di temere una rappresaglia dell’SBU. Ora sembra avere l’appoggio e l’autorizzazione di qualcuno a fare pressione su Zelensky, proprio come suggerivano le recenti fughe di notizie, come quella della telefonata di Poroshenko; è probabile che ora ci siano delle garanzie mentre si svolge la lenta operazione di smantellamento.

Come ultima nota divertente, i rapporti hanno affermato che il Marocco ha ricevuto una grande partita segreta di carri armati Abrams, così come una partita in arrivo di Bradley di dimensioni diverse da quelle ricevute dall’Ucraina:

Gli ucraini sono scioccati: Il Marocco ha ricevuto un nuovo lotto di carri armati Abrams M1A2 dagli Stati Uniti e sta aspettando la consegna gratuita di 500 veicoli da combattimento di fanteria Bradley, e hanno rubato 🖕 Nel frattempo, l’esercito statunitense ha 2.500 carri armati SEPv3 e 3.500 veicoli da combattimento di fanteria in servizio (altri 3.000 carri armati e 2.000 veicoli da combattimento di fanteria sono in deposito), ma l’Ucraina ha ricevuto SOLO 31 TANK (1%) e 190 veicoli da combattimento di fanteria (9%), 000 carri armati e 2.000 veicoli da combattimento di fanteria sono in deposito), ma all’Ucraina sono stati assegnati SOLO 31 carri armati (1%) e 190 veicoli da combattimento di fanteria (9%) – il Marocco riceverà immediatamente il 25% dei veicoli da combattimento di fanteria dalla riserva. ..
Se è vero, sembra un adempimento di un accordo precedente, ma è uno schiaffo particolarmente grave all’Ucraina, alla quale sono state raccontate un sacco di frottole sul motivo per cui potevano essere forniti così pochi Abrams.

 

Questo non fa altro che affermare che gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a vedere i propri blindati perdere tutto il loro prestigio sulla scena mondiale attraverso decine di video in HD di carri armati Abrams in fiamme, messi a nudo dal superiore armamento russo che avremmo dovuto ritenere ineguagliabile.

Ora la Pravda ucraina riferisce che Zaluzhny ha chiesto a Lloyd Austin l’incredibile cifra di 17.000.000 di proiettili d’artiglieria e 400.000.000.000 di dollari (sì, 400 miliardi di dollari).

Il comandante in capo delle forze armate ucraine ha chiesto agli Stati Uniti 17 milioni di proiettili. Valery Zaluzhny ha anche chiesto a Washington di trasferire a Kiev fino a 400 miliardi di dollari per la “de-occupazione dell’Ucraina”. Lo scrive la TASS con riferimento al materiale della pubblicazione Ukrayinska Pravda, che cita una fonte che ha familiarità con il contenuto dei negoziati del capo del Pentagono Lloyd Austin con Zaluzhny. “Ad Austin fu detto che c’era bisogno di 17 milioni di proiettili. Per usare un eufemismo, è rimasto sorpreso, perché una tale quantità non poteva essere raccolta in tutto il mondo”, ha detto l’interlocutore dei media ucraini. – Rapporti FRWL

Questo è quanto costerebbe liberare il resto dei territori richiesti, secondo il Generalissimo, che è in difficoltà e assuefatto. Ricordiamo che questo è lo stesso uomo che ha richiesto robot al plasma che scavano il terreno.

È talmente assurdo da giustificare un possibile bavaglio di qualche tipo. Infatti, alcuni analisti russi hanno ipotizzato che si tratti in realtà di una fuga di notizie della Bankova volta a screditare Zaluzhny, dipingendolo esattamente nella luce distaccata dalla realtà che il rapporto ritrae.

Si tenga presente che, con l’attuale produzione statunitense di 300.000 proiettili all’anno, 17 milioni di proiettili rappresentano mezzo secolo di produzione americana di proiettili 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Quindi, o Zaluzhny ha in mente un glorioso ritorno in Crimea nel 2075 circa, o forse sta prendendo tutti in giro di proposito, forse come gesto di ribellione o per inviare un segnale di disperazione per svegliare la gente.

In ogni caso, le cose tra lui e Zelensky sono peggiorate a tal punto che, secondo i rapporti, non solo i due non si parlano, ma Zelensky aggira completamente il comandante in capo comunicando direttamente con i comandanti di settore come Syrsky. I rapporti affermano che questo ha un effetto molto negativo sulle operazioni, poiché Zaluzhny spesso non viene informato delle loro decisioni se non molto più tardi, il che significa che viene di fatto escluso dal giro.

La mia ipotesi è che queste azioni siano volte a farlo stufare e a fargli dare le dimissioni di sua iniziativa, il che risparmierebbe a Zelensky l’enorme grattacapo di dover organizzare la sua estromissione o “rimozione corporea” tramite l’SBU, come hanno fatto di recente con il suo collaboratore.

Alcuni video divertenti per il vostro divertimento:

Mentre questa guerra assume contorni sempre più cyberpunk, le forze russe stanno già utilizzando i bot di evacuazione in direzione di Avdeevka, non solo per trasportare i rifornimenti necessari alle postazioni remote, ma anche per evacuare i soldati feriti:

È interessante notare che a un certo punto il bot ha anche uno di quei nuovi pacchetti di disturbo per droni EW anti-FPV “Volnorez”, mentre trasporta il soldato ferito:

Le truppe russe stanno già lavorando su altre varianti:

La storia della cattura di un M2A2 Bradley nuovo di zecca e completamente intatto ad Avdeevka:

I Ka-52 russi lanciano regolarmente missili LMUR a lunga gittata, a guida TV manuale da parte del copilota/gunner, contro la “testa di ponte” dell’AFU a Khrynki:

I Su-34 russi ora sganciano ben 4 glidebombs UMPK “JDAM ortodossi” alla volta:

Infine, Arestovich ammette anche che l’Ucraina si sta dirigendo verso un vero e proprio colpo di Stato militare:

POLL
At current rate, how long can Ukraine last?
End of year at most
Spring 2024
Late 2024
Indefinitely
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Che cos’è la politica?_di Dr. Vladislav B. Sotirovic

Che cos’è la politica?

Esistono molti approcci ufficiali e non ufficiali, accademici e non, e definizioni formali/informali della politica e del suo funzionamento nella società. Tuttavia, come concetto più universale, si può concludere che la politica è semplicemente la capacità di dirigere e amministrare uno Stato (in greco antico – polis o città-stato) o altre organizzazioni politiche (come quelle multilaterali, internazionali, sovranazionali, ecc.). In sostanza, l’amministrazione dello Stato o di altri soggetti politici è una questione di arte.

Lo Stato può essere definito come un’associazione politica che stabilisce una giurisdizione autonoma/sovrana entro confini territoriali definiti. Inoltre, la sovranità è la pratica di un’autorità politica superiore che si riflette nel fatto che lo Stato è l’unico e superiore creatore di leggi e del potere di proteggerle entro i confini dello Stato (reale o immaginabile). In pratica, esistono due tipi di sovranità statale: esterna e interna.

La sovranità esterna (politica) considera la capacità dello Stato di agire come attore indipendente nelle relazioni internazionali. In pratica, però, implica due punti cruciali:

1) gli Stati devono essere da diversi punti di vista (o almeno giuridici) uguali nelle relazioni reciproche; e
2) che l’integrità territoriale seguita dall’indipendenza politica di uno Stato è inviolabile.

La sovranità interna (politica) dello Stato, invece, si riferisce al territorio all’interno dei confini statali da parte del potere politico supremo (il governo, in pratica supportato da forze di sicurezza armate). Infine, la politica è strettamente legata al concetto di autorità, che è la capacità di influenzare la politica degli altri, fondamentalmente, sulla base del dovere e dell’obbedienza.

Tuttavia, come ci si può aspettare, la comprensione e soprattutto alcune definizioni ufficiali della politica sono, storicamente parlando, una questione molto complessa e persino essenzialmente contestata. In pratica, esiste un alto grado di disaccordo su questioni molto pratiche su quali aspetti della vita sociale e dell’ambiente umano possono essere applicati all’arte della politica. Secondo un approccio, una persona per nascita è politica, il che significa semplicemente, nella pratica, che l’essenza fondamentale della vita politica sarà vista in qualsiasi relazione interumana, comprese, ad esempio, le relazioni di genere (maschio/femmina). Tuttavia, nell’uso popolare in tutto il mondo (ma soprattutto in Occidente), il quadro ristretto della politica è quello del design. In altre parole, si intende che la politica opera solo a livello governativo e si occupa degli affari dello Stato. Nelle società occidentali, inoltre, la politica deve coinvolgere la competizione tra partiti politici seguita da elezioni multipartitiche per i diversi livelli di autorità. In generale, la politica come fenomeno socio-storico è estremamente limitata sia nello spazio che nel tempo.

La concezione tradizionale del fenomeno della politica era quella di “arte e scienza del governo” o “gestione degli affari dello Stato”. In questo caso, però, il problema pratico è ancora irrisolto: non è mai stato raggiunto un accordo comune sulla portata delle attività e dei livelli di gestione dello Stato di cui il governo è responsabile. Ad esempio, alcune delle domande principali sono:

1) Il governo si limita solo agli affari di Stato?
2) Il governo ha il diritto di interferire negli affari della chiesa, della comunità locale o della famiglia?
3) Il governo si svolge in un’economia (liberale)?

Storicamente, i filosofi della scienza politica si sono occupati di due questioni cruciali applicate al fenomeno della politica:

1) se altre creature, a parte gli esseri umani, esercitino la politica; e
2) È possibile che la società esista senza politica?

Alcuni di loro hanno sostenuto che altre creature (come le api) hanno la politica e che alcuni tipi di società, almeno teoricamente, (come quella utopica) possono esistere senza politica. In pratica, però, la politica si applica solo agli esseri umani; in altre parole, a quegli esseri che possono comunicare simbolicamente e di conseguenza fare affermazioni, accettare certi principi, discutere e infine dissentire. Per esempio, la politica si verifica nei casi in cui gli esseri umani discutono su alcune questioni pratiche nelle loro società e hanno determinate procedure per risolvere il problema al fine di trovare un accordo comune accettabile almeno dalla maggioranza aritmetica (democrazia), ma non necessario. Nella concezione occidentale (liberal-democratica) della politica, non c’è (vera) politica nei casi in cui c’è un accordo monolitico e totale sui diritti e sui doveri in una società (ad esempio, nel sistema dittatoriale/totalitario a partito unico).

Tuttavia, da un punto di vista più ampio, la politica si riferisce a certe attività utilizzate dagli esseri umani per creare, difendere e cambiare le regole ai diversi livelli in cui vivono. La politica è sempre stata strettamente legata sia a conflitti e cooperazioni che ad accordi e disaccordi. Da un certo punto di vista, c’è la pratica di argomenti opposti, desideri opposti su come risolvere il problema, desideri politici, economici, sociali, ecc. in competizione, e il battere gli interessi degli altri. In questo caso, c’è un disaccordo sulle regole in base alle quali vivono gli abitanti di certe società. Tuttavia, in molti casi pratici, per influenzare tali regole (leggi) o per forzarne l’attuazione pratica, le persone possono collaborare con altre persone. Tuttavia, la politica è un fenomeno estremamente controverso, in quanto è stata storicamente intesa come arte del governo/stato, come affari pubblici nella maggior parte dei punti di vista generali, come risoluzione non violenta di diverse controversie e, infine, come potere e distribuzione di vari tipi di risorse. Infine, lo statecraft (gestione politica dello Stato) può essere definito come l’arte di condurre gli affari pubblici e la politica estera per realizzare l’interesse nazionale: gli obiettivi della politica estera dello Stato per il (presunto) beneficio della società.

In ogni caso, l’azione dello Stato come attore politico indipendente, sia in politica interna che esterna, richiede il possesso di un potere reale. Il fenomeno del potere politico può essere inteso come la capacità di influenzare i risultati di determinate azioni, che include la capacità dello Stato di gestire gli affari politici e di altro tipo all’interno dei propri confini senza l’interferenza di altri attori politici (esterni). In questo senso, politica statale e potere sono in strettissima relazione, sostanzialmente sinonimi.

testo originale: Sotirovic 2023 What is a politics

Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

© Vladislav B. Sotirovic 2023
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com                                                                                            © Vladislav B. Sotirovic 2023

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NOTE SU FREUND E LA DECADENZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU FREUND E LA DECADENZA

Non ho letto il libro di Freund, per cui queste brevi note si rifanno alle altre opere del filosofo alsaziano, particolarmente L’age de la renaissance, tradotto e pubblicato in italiano nel 1980 (da Armando) con un titolo (quanto mai opportuno): La fine dello spirito europeo.

La concezione della decadenza di Freund è quella “classica” della ciclicità delle istituzioni (e delle civiltà umane) per cui a fasi di espansione e crescita seguono quelle di contrazione e decrescita; a queste ultime succedono poi epoche di “rinascite” (cioè di nuova espansione) e così secondo un andamento che si ripete in cicli per certi aspetti molto simili. Questa concezione applicata alle forme politiche è stata condivisa già dal pensiero antico, dagli stoici e da Polibio di Megalopoli. Nel pensiero moderno tra i tanti che l’hanno sostenuta occorre ricordare G.B. Vico e, ovviamente con le dovute differenze, Spengler; i quali l’applicavano anche alle civiltà umane; e Pareto (alla società prima che alle istituzioni).

Tutte tali visioni hanno in comune di contrapporsi all’idea di progresso, per cui l’uomo progredisce rispetto al passato e questo cammino unidirezionale non conosce marcia indietro (il futuro è e sarà migliore del passato).

Il contrario di quanto ritenevano tanti pensatori antichi (ma non solo) che collocavano l’età dell’oro all’inizio della Storia, per cui la decadenza sarebbe un cammino costante in direzione contraria a quella del progresso. Tra le due, ma in effetti opposta a quella del progresso (prevalente nella modernità) è quella ciclica per cui l’andamento delle fasi di espansione/contrazione somiglia, nello spazio cartesiano, ad una sinusoide.

Scriveva Freund di aver mutuato la nozione di decadenza nel doppio significato datole da Pareto: della degenerazione di un tipo storico di civiltà, ma dall’altro, del rinascimento possibile ad uno stadio successivo sotto nuovi aspetti, differenti, come scrive Jeronimo Molina Cano (nella prefazione dell’edizione 2023) sintetizzando le linee direttrici “del suo opus magnum, la Décadence”. In effetti nei pensatori della ciclicità delle istituzioni e comunità umane, il tutto non stupisce. Perché dalla regolarità della successione dei cicli deriva anche la normalità del processo.

Sempre sul doppio aspetto della decadenza occorre ricordare quel che ne pensava Hauriou con la sua concezione sull’alternanza delle epoche medievali e di rinascimento[1]

Interrotte da crisi che non sono decadenze complete ma fasi di cambiamento intenso, che comunque conserva nella nuova epoca molti elementi della precedente[2]. La coincidenza (anche lessicale) della attuale epoca come di rinascenza – secondo Hauriou e Freund – (la modernità dal XVI secolo ad oggi) è un modulo ulteriore di collegamento dei due pensatori.

Quel che più interessa della concezione di Freund, oltre alla “ciclicità”, sono i caratteri che enumero di seguito:

1) il valore dato ai fatti e all’esperienza, rispetto alle costruzioni intellettualistiche che connotano molti dei nuovi idola della contemporaneità, derivanti da astrazioni di tesi settoriali, anche scientifiche (o pseudo-scientifiche); come ad esempio l’emergenza climatica, il genderismo, ecc. ecc.: ossia la prevalenza di quello che Freund definiva il pensiero razioide, essenzialmente una caricatura della razionalità occidentale[3] e già di per se connotato di decadenza.

Di converso il fatto che l’Europa sia in fase di decadenza è un’affermazione constatabile da una pluralità di circostanze reali e percepibili: in primo luogo l’arretramento territoriale, con la perdita degli imperi coloniali. In secondo luogo, al posto dell’aggressività della fase d’espansione, nel presente prevale – nel migliore dei casi – l’esigenza di conservazione. A questo si accompagna la perdita di fiducia nei valori che avevano ispirato la fase ascendente, i quali anzi, sono occasione di autocolpevolizzarsi, con una mollezza spirituale, prima ancora che materiale. Peraltro, come scriveva Freund, l’aberrazione delle autocolpevolizzazioni (oltre che le loro evidenti parzialità) consiste nel credere che biasimando l’azione degli europei si puliscono quelli che puliti non sono, cioè i governanti dei paesi decolonizzati, alcuni dei quali artefici di predazioni, stragi e genocidi non inferiori,  e spesso più efferati di quelli degli ex colonizzatori.

Secondariamente la tesi di Freund si basa sul fatto che quella materiale deriva dalla decadenza spirituale; la razionalità e la libertà, caratteri della rinascenza occidentale ne hanno fatto le spese, essendo trasformate da una ipertrofia senza limiti che le distorce.

Questa consiste nell’intellettualizzazione. Nell’esempio di Freund la civiltà europea ha costruito una serie di libertà concrete (di pensiero, di riunione, ecc.) per difenderle dall’arbitrio del potere; ovviamente. come affermato da secoli di pensiero, libertà e dominio sono opposti ed insopprimibili.

Invece l’intellettualizzazione “preconizza l’emancipazione totale del genere umano… restituisce al sistema delle libertà il fine escatologico di una libertà totale, senza condizioni” (ossia la fine del dominio). Così “l’intellettualizzazione svia la razionalità appartenente alla Rinascenza, da cui peraltro è nata, assegnandole una missione radicale nella quale perde il proprio significato”. E, sotto un altro aspetto “l’intellettualizzazione trasforma la razionalizzazione in una pura attività razioide, ossia in una discussione sterile, senza alcun riferimento al reale”. Inoltre “una delle illusioni dell’intellettualismo sta nel non accorgersi del rapporto sottile e spesso oscuro tra il tutto e le parti”; nonché tra fine e mezzi. È un modo di argomentare scombinato e sofistico: a farne le spese è soprattutto il principio che “nomina sunt consequentia rerum” sostituito dalla “produzione” di parole a mezzo di parole.

In terzo luogo Freund, come sopra detto, non ritiene che la decadenza sia annientamento delle istituzioni e, ancor di più, delle comunità, ma una fase di trasformazione. La gestione della quale, al fine di migliorare le doglie del nuovo che nasce, richiede la consapevolezza di essere decadenti. Ovviamente è una consapevolezza rigettata a priori da chi condivide l’idea che la Storia sia in costante progresso, che l’oggi è meglio di ieri, e domani lo sarà di oggi. Per cui i progressisti (più i convinti, meno quelli strumentali) sono i più inadatti a gestire le fasi di decadenza. E quindi le peggiorano, anche trascinando e ritardando i cambiamenti con doglie di durata pluridecennale. Gli europei pensano di non essere in decadenza perché vivono bene, e il loro benessere attrae i non europei, scrive Freund in una prolusione del marzo 1985, prevedendo gli inconvenienti delle conseguenze (multi-culturalismo, terrorismo). Profezia quanto mai azzeccata: “Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per affrontarlo”.

Anche perché, aggiunge Freund, per percepire la decadenza occorre (previamente) aver coscienza della propria identità “come popolazione particolare e come civilizzazione originale”.

L’identità “implica due elementi: da una parte la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione”. E l’identità presuppone la distinzione dall’altro perché “non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro”. Peraltro l’identità è anche “il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare”.

Aggiunge Freund che “La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica”. Anche in queste affermazioni Freund ricorda Hauriou secondo il quale l’istituzione è caratterizzata non dalla stasi (che il giurista francese rimproverava al sistema di Kelsen) ma da un movimento lento ed uniforme che le consentiva di rinnovarsi pur durando nel secoli.

Ne consegue che comunque “La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non foss’altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione”. L’importante, al fine di contrastare la decadenza, è non farsi illusioni rifiutandone l’idea. Come spesso, fanno le classi dirigenti detronizzate.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e all’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”.

[2] V. La science sociale traditionnelle, cap. III section I e ss.

[3] Hauriou l’avrebbe chiamato l’eccesso di spirito critico.

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L’età del ferro della decadenza, di Julien Freund_Un inedito

Qui sotto un inedito di Julien Freund sul tema dell’identità e della decadenza delle civilizzazioni. Lo scritto è apparso sul settimanale francese “Eléments” nel suo formato cartaceo, in occasione della riedizione del libro, pubblicato nel 1984, La décadence. Il testo è preceduto da una presentazione, anche essa tradotta in italiano, di Laurent Vergniaud. La décadénce è parte della trilogia fondamentale di Julien Freund composta da “L’essence du politique” e da “La sociologie du conflit”, nessuno dei quali, purtroppo, disponibile nella traduzione italiana. Tre testi che meriterebbero a pieno titolo la medesima attenzione riservata, sia pure in diverse gradazioni, tra gli altri, ad autori del calibro di Max Weber, Carl Schmitt, Gramsci, Vilfredo Pareto, Carl Marx. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Le lezioni del dottor Freund

sintomatologia della decadenza

di Laurent Vergniaud

La décadence (1984), opera maggiore di Julien Freund, nella riedizione di quest’anno delle éditions du Cerf. Una analisi illuminante – storica, sociologica, filosofica ed esistenziale – della decadenza.

 

Si avrebbe torto a relegare Julien Freund a un semplice ruolo di ricercatore e di teorico del Politico, in quanto nozione astratta. Benché abbia sempre rifiutato le etichette (sino a definirsi “reazionario ma di sinistra”), il suo rigetto delle ideologie non ha significato assenza di prese di posizioni particolarmente nette. Attore della Resistenza, poi osservatore degli avvenimenti del ‘68, Freund rimase per tutta la vita un feroce oppositore dei totalitarismi e un  partigiano della Unione Europea. Benché classificasse la “décadence” come “la sua ricerca puramente storica, quindi di un novizio”, egli dispiega una analisi conseguente tanto sociologica che filosofica della decadenza in quanto esperienza, secondo lui una dimensione ignorata dagli sorici del suo tempo. Intende così porre una pietra miliare di una storia della “sociologia delle mentalità”, di “esplorare le credenze vissute in epoche determinate”.

La storia, questo cimitero delle civilizzazioni

La civilizzazione è l’insieme di norme morali e imperative che uniscono un popolo ed una società funzionale, la decadenza rappresenta il degrado di queste norme. Esperienza percepita sul piano metafisico, ciò non di meno manifesta dei sintomi materiali osservabili. Freund la descrive come una accumulazione di crisi affliggenti ogni categoria della attività umana: politica, economica, artistica e religiosa.

Dagli antichi a Pierre Chaunu, passando attraverso il pensiero controrivoluzionario, i romantici tedeschi e i dissidenti sovietici, Freund documenta con pedagogia ed esaustività l’evoluzione della nostra comprensione della decadenza. Questa si è trasformata a partire dalla concezione ciclica degli antichi. Freund evidenzia due visioni inconciliabili della decadenza: una escatologica, catastrofista e utopista, profondamente irrazionale; l’altra, pessimista e realista, alla quale si rifà, erede dei valori umanisti occidentali.

Per Freund l’essenza della civilizzazione europea risiede in due virtù cardinali: la libertà, incarnata dalla democrazia e l’indipendenza nazionale; lo spirito di verità, fonte del progresso scientifico. Valori minacciati da un egualitarismo utopico che lo svuota di ogni significato, da uno scientismo e progressismo che non sono alro che le manifestazioni più moderne del pensiero escatologico. Pervertite, queste credenze spianano i rapporti gerarchici che hanno consentito alla nostra civilizzazione di irradiarsi. Si ritrova così una costante del pensiero di Freund: senza gerarchie, niente valori; senza aristocrazia, niente progresso. “Siamo noi in decadenza? A questa domanda io rispondo senza esitazione: sì”; così debutta la perorazione appassionata che conclude l’opera. In effetti la décadence non è affatto un semplice studio della storia, ma mira ad affrontare frontalmente  il problema della decadenza in Europa. Freund ne isola i sintomi: ripiegamento degli imperi di fronte al terzo mondo, emersione di iperpotenze non europee, pacifismo rinunciatario, divisione della Germania, i più recenti stati nazione europei. Ai quali si aggiunge l’affossamento della struttura della famiglia, la legislazione dell’aborto, così come il cambiamento della popolazione indotto dall’immigrazione incontrollata. Esattamente come l’Impero Romano sommerso dai barbari, la nostra decadenza è quella di una società che non crede più nel suo proprio avvenire e sacrifica i propri valori in cambio delle comodità materiali immediate, di orizzonti messianici e  della fascinazione verso l’Altro. Di fronte al pericolo di affossamento Freund si appella al risveglio politico e militare degli europei, alla difesa dei confini esterni e delle norme di regolazione interna, contro i nostri nemici, in primo luogo il comunismo. Ossessionato dalla consapevolezza di un pericolo comunista, egli sovraestimerà sino alla fine la minaccia dell’Unione Sovietica. Di fatto, la riunificazione della Germania e la fine del blocco sovietico non hanno portato al tanto auspicato risveglio generale europeo. Le conclusioni di Freund rimangono, ciononostante, profetiche, allorquando il matrimonio omosessuale cancella le antiche norme familiari o la Grande Sostituzione sconvolge ogni stato europeo. La storia è un cimitero di civilizzazioni. Raddrizzare la nostra è impossibile senza prendere coscienza della possibile sparizione.

L’età del ferro della decadenza Julien Freund

Successivamente alla comparsa del libro “La  décadence” (1984), Julien Freund ritorna sul tema in numerosi interventi pubblici. Siamo felici di offrirvi il testo di una brillante, ma inedita prolusione prevista nel marzo 1985 in una conferenza all’Università Fiamminga di Bruxelles, non pronunciata per ragioni di salute

Questa età del ferro è l’epoca che noi viviamo, se si intende per età dell’oro un periodo eccezionale durante il quale un fenomeno storico si dispiega in tutta la sua pienezza e nel quale gli uomini sono nella sostanza felici del contesto in cui vivono.

L’umanità ha conosciuto numerose fasi di decadenza: a partire dagli imperi assiro ed egiziano, inca e azteco, numerose fasi di decadenza in Cina e India, soprattutto la decadenza dell’impero romano, il quale è restato da allora paradigmatico nello studio di tali fenomeni.

Or dunque, tutti questi esempi non hanno raggiunto l’ampiezza della decadenza europea alla quale noi stiamo assistendo. È la decadenza per eccellenza. Prima di entrare nel vivo del soggetto, conviene rispondere alla questione cardinale: l’Europa è realmente in decadenza?

La nozione di decadenza è una categoria dell’interpretazione storica grazie alla quale noi cerchiamo di render conto della sparizione delle civiltà passate, la caduta della potenza da esse sviluppate e le nuove civilizzazioni alle quali hanno consentito la nascita. La nozione di decadenza, come ogni categoria storica, è una nozione relativa; non la si può, quindi, concepire che in relazione ad altri periodi che non sono stati decadenti, ma che, al contrario, sono stati marcati da una lenta progressione di potenza e dall’espansione della corrispondente civilizzazione, sino al momento in cui, raggiunto l’apogeo, intraprende il proprio declino.

Alcuni storici rifiutano il termine di decadenza, sotto pretesto che non significherebbe né più né meno che il cambiamento costante che si produce nella storia. E però non abbiamo avuto solamente un cambiamento a seguito del declino di Roma; piuttosto l’impero romano non esiste più. Un’altra configurazione storica ha preso il suo posto. L’ascesa di Roma costituì, per tanto, un cambiamento, come pure la rivoluzione degli astri. L’idea di cambiamento rimane vaga sin tanto che non la si caratterizzi, sin tanto che non si determini la sua natura e specificità.

La nozione di decadenza è la maniera di caratterizzare nella storia il cambiamento che consiste nel declino di una configurazione politica. Il fenomeno non è improvviso, ma si estende lungo numerose generazioni.

Singolarità dell’Europa

L’Europa è in decadenza in rapporto a quello che è stata. È stata la padrona delle terre e dei mari del globo; oggi  è raggomitolata nel suo spazio geografico. È il segno oggettivo della decadenza europea. Non insisterò sul fatto che questa riduzione dell’Europa in se stessa ha avuto l’effetti diversi  sulla sua mentalità. Mi interessa precisare in cosa tale decadenza si differenzia dalle altre conosciute.

  1. Tutte le civilizzazioni conosciute sono state delimitate, locali; la sola civiltà europea è stata mondiale, planetaria. Ha raggiunto quindi con gradazioni diverse, tutti i popoli del mondo. In questo è unica. Il fatto che entri in decadenza ha inevitabilmente delle implicazioni su tutti questi popoli, anche nel cado essi stessi non siano in decadenza. È ormai storicamente irreversibile il fatto che questi popoli non possano svilupparsi come se non fosse esistita la civilizzazione europea, come se non avessero avuto contatti con essa. È in questo senso, in quanto civilizzazione unica e mondiale, che quella europea costituisce la decadenza per eccellenza. Una realtà mai prodotta sino ad ora.
  2. Questa è la decadenza della potenza politica dell’Europa; aspetto che non esclude che in altri ambiti non si faccia ancora sentire, ad esempio nel dominio economico, tecnologico e artistico. Detto altrimenti, la decadenza non raggiunge uniformemente tutti i settori. In sovrappiù, gli europei  colgono comunque fascino da questa condizione. Rifiutano di prenderne coscienza perché a permettere loro di vivere bene. Gli europei continuano quindi a vivere come se non esistesse e i cittadini di paesi non europei, messi per la prima volta in contatto tra di loro dagli europei, emigrano in Europa perché anche essi vogliono profittare di tale relativo benessere.. Di fronte a questo afflusso esogeno, gli europei  tentano  di trovare soluzioni che dovrebbero in linea di principio giustificare il mantenimento di tale condizione: il pluriculturalismo, il multietnico ed altre dottrine universalistiche di questo genere. Non vogliono d’altronde rendersi conto che i loro territori sono luoghi privilegiati del terrorismo; un segno di debolezza poiché essi faticano a proteggersi da questa forma di aggressione indiretta.

La decadenza per eccellenza

 

  1. Avendo ricevuto parzialmente la civilizzazione europea, i popoli non europei hanno ugualmente ricevuto i germi di tale decadenza. Sarebbe un errore credere che essi potrebbero discernere tra gli elementi di questa civilizzazione, come si può separare il grano dal loglio. La civiltà europea è pervenuta loro nella sua globalità, nella sua tecnologia come nella sua filosofia.  I paesi non europei certamente l’integrano a modo loro, ma comunque,anche in questo caso, interiorizzano la sua potenza e le sue debolezze. Non è possibile prevedere tutti gli effetti di questo processo nell’insieme del mondo.
  2. È in ragione di questa contaminazione perché c’è decadenza in lei che gli altri popoli faranno fatica a sormontare gli effetti. Si sforzano di tutelarsi rifiutando il regime politico propriamente europeo, nella fattispecie rappresentativo, e instaurano a casa propria un sistema dispotico o semidispotico. Investendosi, però, dell’insegna del socialismo o della democrazia egalitaria, essi integrano elementi che, con ogni probabilità, creeranno delle faglie nel loro modo di governare.
  3. Essendo un dato di fatto la varietà degli scambi che la civilizzazione europea ha introdotto nel mondo, il movimento di decadenza potrà svilupparsi attraverso numerose generazioni, forse durante uno due secoli, prima che possa apparire un nuovo stile di civilizzazione nella sua unità e con le sue norme. Quale sia la durata, il nuovo stile di civilizzazione, anche al di fuori dell’Europa, avrà inevitabilmente un carattere mondiali sta; non è possibile, a meno di un cataclisma,, tornare indietro, segnare una linea su questa acquisizione. Ogni nuova forma di civilizzazione sarà erede di quella europea; poco importa se questa ritrova un altro dinamismo oppure langue per lungo tempo nella propria decadenza.

È per tutte queste ragioni che la decadenza europea  costituisce un caso unico nella storia; che rappresenti l’età d’oro della decadenza in quanto siamo in presenza di una tale ampiezza del fenomeno da poter appena supporre i possibili sviluppi nell’insieme del mondo. In ragione della sua debolezza, l’Europa non ha più avuto la forza di sfruttare le risorse tecnologiche e scientifiche delle quali è stata iniziatrice, per esempio in materia di conquiste spaziali. Sono questi due paesi non europei, gli USA e l’URSS, impregnati della sua civiltà, che lo hanno fatto. Con ogni probabilità altri sistemi egemonici prenderanno parte al concerto tecnologico e svilupperanno altre possibilità aperte dalla civiltà europea.

Affrontare il nostro declino

La questione è di sapere se l’Europa intende compiacersi nella decadenza come se questa fosse una fatalità o ancora come se avesse esaurito l’insieme delle potenzialità della sua civilizzazione. Dando seguito alla risposta da dare a questa questione o noi ci compiaceremo nella decadenza, accentuandola in virtù del nostro attuale benessere fin tanto che durerà oppure, a patto di stimarci capaci di un soprassalto, accettando i conflitti che alimentano ogni vitalità. Credo personalmente alla seconda possibilità. Per conseguirla, tuttavia, credo che ci si debba piegare a due condizioni.

La prima consiste ad assumere la condizione di decadenza, a prenderne quindi coscienza, a riconoscerla in modo da adottare le misure più idonee possibili che, senza dubbio, non ci faranno uscire dalla decadenza, ma permetteranno di instaurare una tregua in attesa che le generazioni successive prendano le misure. Vuol dire che si deve invertire la tendenza attualmente dominante negli spiriti, che si rifugiano illusoriamente nell’utopismo  di  un miglioramento continuo della situazione senza ricorrere ai mezzi necessari. Non non assumeremo consapevolezza della decadenza e non ci daremo i mezzi per una tregua, per una rivitalizzazione in qualche misura durevole, in tanto che noi persisteremo nell’ignorarla e nel fuggire nelle chimere della divagazione futuriste. L’avvenire non è rosa; crediamo che non lo sia unicamente perché continuiamo a ragionare con le categorie del secolo passato (‘800); quelle, quindi, di una espansione materiale, economica e sociale, di una espansione materiale, economica e sociale, dell’estensione della civiltà europea sino ai confini del mondo. Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per  affrontarlo.

Soccombere o persistere

La seconda condizione consiste nel prendere coscienza della nostra identità, a la volta come popolazione particolare e come civilizzazione originale.

Bisogna quindi sapere cosa vuol dire concettualmente identità. Essa implica due elementi: da una parte, la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione.

Chiariamo questi due aspetti.

L’identità è il rapporto a sé in tanto che lo si afferma in ciò che si è. Questa affermazione è indivisibile dal riconoscimento della differenza dall’altro, dell’alterità. Impossibile pensare l’identità senza l’alterità e viceversa. È quindi attraverso l’alterità che appare la determinazione del  significato, essendo questo il rapporto al tutto di cui si fa parte o alle altre parti del tutto. Non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro. Il senso di una parola si stabilisce attraverso la sua distinzione dalle altre parole; sarebbe sufficiente, altrimenti, una sola parola. Il secondo aspetto è il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare.

L’identità europea  racchiude lo spirito che fu proprio dell’Europa dalla sua esistenza in tanto che furono gli Europei ad introdurre nel mondo lo spirito filosofico, critico e storico, il regime rappresentativo libero e l’economia della crescita e dell’investimento denominato capitalismo. Ogni identità suppone conservazione; in questo senso sono conservatore.

La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva  se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica. Tutto questo possibile se non si accetta preliminarmente la libertà. Il tempo è alla volta corruttore e creatore; l’importante è la conservazione creativa che tiene in scacco l’unilateralità, quindi in termini sociali la decadenza.

Di per sé il tempo è indifferente, fluisce. Lo trasformiamo in storia dandogli la dimensione del passato, del presente e del futuro; non si può introdurre queste dimensioni che attraverso l’azione cosciente, cioè l’azione meditata. Attraverso le loro azioni gli uomini danno consistenza al tempo, sia queste azioni siano intese nel senso di una crescita, di una ascesa, sia che in quello di una corruzione, di una decadenza. Il fatto è che l’Europa non è più in una fase ascensionale, bensì in una decadente. La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non fosse altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione.

Soccombere o perdurare? L’Europa soccomberà se continua a farsi illusioni per via del rifiuto dell’idea di decadenza. Se l’assumiamo, rimangono le possibilità. La possibilità, diceva Pasteur, non sorride se non a quelli che sono preparati e che sanno tentarla. Non ha alcuna possibilità di essere acquisita da chi rifiuta l’iniziativa, di intervenire nel corso degli eventi.

(Testo recuperato da Gilles Banderier grazie all’autorizzazione di Jean Noel, René e Jacques Freund)

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Nichilismo del lavoro nella società capitalista, di Paolo Galante

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Nichilismo del lavoro nella società capitalista

 

FINI MOTIVANTI IL LAVORO

Il lavoro è azione su ciò che ci è esterno, imprimendo su esso una forza per modificarlo. Sul mondo agiscono forze oggettive: gravità, elettromagnetismo, ecc. Il lavoro è invece una forza messa in atto dalla nostra soggettività: è pensiero fatto azione. A differenza degli animali, il cui lavoro è finalizzato soltanto a soddisfare stimoli che fanno capo all’istinto di conservazione e riproduzione, l’uomo lavora anche sotto la spinta di pulsioni che non hanno strettamente a che fare con i due istinti testé menzionati .

Ad es. c’è chi lavora per far carriera, onde accrescere la propria autostima e/o gratificarsi esercitando un potere sugli altri; altri lavorano per non essere costretti, stando con le mani in mano, a prendere atto di una situazione esistenziale non propriamente felice.

C’è anche chi poi fa del proprio lavoro una sorta di rituale ossessivo, con cui mettere ordine nella propria vita. A mo’ di esempio mi vien da pensare a chi pulisce giornalmente la casa perché, essendo incapace di mettere ordine nel proprio essere, lo vuole mettere almeno nelle cose che possiede, illudendosi che all’ordine nell’avere corrisponda metaforicamente quello nell’essere. L’uomo contemporaneo ha perso l’accesso all’interiorità, a ciò che egli è indipendentemente da ciò che possiede. Nella nostra società il lavoro è quindi la manifestazione del prevalere dell’avere sull’essere.

 

LAVORARE PER AVERE

L’uomo odierno si pone nei confronti dell’essere non più con l’attitudine di chi cerca di attribuirgli un significato positivo, ma con quella di manipolarlo al fine di piegarlo al proprio servizio, illudendosi così che esso non ci causi dolore e infelicità. Per manipolare l’essere ci vuole però la potenza; con essa crediamo di assoggettare l’essere per renderlo un nostro avere.

 

Nella società odierna il lavoro è finalizzato quasi esclusivamente ad accrescere la potenza e di conseguenza l’avere. Esso rappresenta perciò una modalità essenzialmente predatoria e sopraffattrice di rapportarsi con l’esterno. Ad es. se l’essere in noi va in un bosco per godere della bellezza della natura e per sentirsi in sintonia con la sua forza vitale, l’avere in noi ci va per vedere cosa c’è da predare: trasformare gli alberi in legname, far piani di disboscamento per far posto a lucrose piantagioni, ecc.

 

L’ESSERE AMBISCE ALL’UNITÀ COL TUTTO

L’essere si rapporta alla natura con lo scopo di creare un legame con essa, onde far nascere un sentimento di unità col tutto. L’essere infatti – come ci ricordano gli antichi filosofi – è uno, per cui la sua modalità di azione è finalizzata a produrre unità.

Chi sperimenta in sé il sentimento di unità col tutto avverte che la sua piccola vita individuale viene arricchita dalla vita del tutto cui è legato. La potenza che sente in sè coincide con la volontà di essere legato al tutto. È una Potenza quindi ben diversa da quella che ha per scopo il dominio sul tutto. Questa è fondata sulla logica del “divide et impera”, quindi sulla rottura dei legami; quella sul la volontà di legame col tutto.

Di più, la prima crea divisione all’interno dell’essere, frantumandolo in parti che, in quanto separate, percepiscono le altre come oggetti (objecta, poste fuori da sé). È una potenza che trae la sua forza dall’oggettivazione dell’essere un essere ridotto a materiale a servizio della potenza.

La seconda invece è fondata sulla volontà che l’essere sia uno, quindi che sia soggetto, in quanto niente è al di fuori di esso (objectum). Non è quindi una potenza – quella data dagli oggetti – ma una potenza di natura immateriale, che non ci viene quindi dall’esteriorità degli oggetti, ma che è in noi, la Potenza insita nella nostra soggettività.

Si è potenti non separandoci dall’essere oggettivandolo, ma unendoci ad esso soggettivizzandolo. Oggettivando l’essere lo tra- sformiamo in materia, per cui esso diventa per noi un avere. È invece soggettivizzandolo, cioè creando legami onde superare l’alterità dell’oggetto, che l’essere conserva la sua autentica natura, quella di essere uno.

Chi vive secondo l’essere sente che la potenza datagli dal lega- me con il tutto è interna a lui; che non è separabile dal suo essere, come può esserlo ciò che è materiale. Egli sente che la potenza è il suo stesso essere, che è una cosa sola con lui. La natura del suo legame col tutto è il prodotto del fatto che egli si identifica totalmente col tutto, per cui egli sente che non c’è da una parte lui e dal- l’altra il tutto, col legame a fungere da trait d’union fra loro. Egli sperimenta il suo essere come il legame stesso, come ciò che crea unità.

Finché egli proverà in sé un tale sentimento dell’essere, niente e nessuno potrà spezzare tale legame, a meno che non sia egli stes- so a volerlo, scindendo il suo legame di identità assoluta col tutto e scegliendo di riconoscere una parte del tutto come esterna.

 

LAVORARE PER AVERE È UN’ESPERIENZA SEPARANTE

La nostra civiltà, avendo scelto di rapportarsi all’essere secondo la modalità dell’avere, ha rimosso la percezione che il legame è con- sustanziale all’essere. Ne consegue che, per evitare la disgregazione dell’essere, il legame diventa cosa da creare; infatti, per chi vive secondo l’avere, originario non è il legame, bensì la separazione. Per lui l’essere è molteplicità, per cui i legami sono da creare con la forza, costringendo l’altro a piegarsi alla volontà di chi vuole legarlo a lui.

Di qui l’ossessione della nostra civiltà di dover lavorare incessantemente per accrescere la potenza. Essa diviene necessaria per tenere unito l’essere, in quanto da noi percepito come disgregato.

Il problema però è che, per ottenere potenza, si deve dividere l’essere ancor più di quanto sia già diviso. Di conseguenza il lavoro, invece di creare ordine, legami che appianino i conflitti fra gli opposti, crea ancor più divisione, facendo degradare i legami a un qualcosa di prodotto dalla sola forza e non da una libera volontà. Si tratta di legami costretti, creati dalla necessità.

Lavoriamo per creare un mondo di schiavi talmente disumanizza- ti da assomigliare quasi a dei robot (ciò d’altra parte è in linea con chi ritiene che anche la vita sia un fatto meccanico) e siamo con- vinti che questo sia l’unico modo per salvare l’essere: privarlo del- la libertà e quindi della coscienza. Ma questo significa distruggere la vita, riducendo l’essere allo stato minerale, dove maggiore è l’in- coscienza. Mi sembra che l’umanità attuale – fra guerre, inquina- mento, programmi di distruzione più o meno controllati – stia pericolosamente avvicinandosi a questa meta così “progredita”.

 

PENSIERO AL SERVIZIO DELL’AVERE

La nostra è la civiltà dell’agire, del fare, della trasformazione incessante dell’essere. Con ciò esprimiamo molto più eloquente- mente che con le parole quale sia il nostro concetto dell’essere e il modo con cui intendiamo relazionarci con esso: vogliamo negarne la stabilità e unità, per consegnarlo a un divenire assoluto che lo renda talmente plastico da permetterne una manipolabilità totale.

Anche il pensiero viene posto di conseguenza al servizio del fare, al fine di trasformare l’essere, rompendo i legami che ne assicura- no l’unità. È messo al bando pertanto il pensiero filosofico che pen- sa l’essere come unità, sostituendolo col pensiero analitico-sepa- rante della tecnica. Si pensa per accrescere la separazione, l’instabilità e quindi il divenire. Si vuole che l’essere sia sempre più fratto, separato dai suoi legami, affinché divenga più facile impossessarsene. E tale è la fretta che abbiamo, la fretta di incrementare il nostro avere, che finiamo per volere secondo le modalità di sessantottina memoria del ‘tutto e subito’; vogliamo un mondo a portata di mano del nostro desiderio, perché ci hanno messo in testa che i desideri devono essere gratificati subito, altrimenti diventiamo

 

esseri frustrati, in quanto al nostro essere verrebbe negata la possibilità di avere ciò che desidera. Il desiderio inappagato, poi, produrrebbe uno stato di tensione nell’essere, ritenuto innaturale dal- la psicologia mainstream.

 

PER IL PENSIERO ANTIDIALETTICO L’IMMOBILITÀ CREA STABILITÀ; PER QUELLO DIALETTICO LA STABILITÀ È PRODOTTA DAL MOTO

Per la nostra civiltà, l’essere si trova nelle condizioni ideali quando è in uno stato di quiete , riposo; quando cessa di desiderare per- ché ha già tutto. In tale stato l’ essere è immobile, quindi impossibilitato a divergere da se stesso. Ci illudiamo stoltamente di poter così sottrarre l’essere all’azione del divenire che modificandolo annullerebbe l’identità dell’essere con se stesso. Il venir meno di tale identità per noi starebbe a significare che l’essere, divergendo da sè, diventa non essere.

Solo un pensiero antidialettico può pensare che la stabilità si raggiunga con l’immobilità!

Ciò però è assolutamente falso. Paradossalmente a dircelo però non è la filosofia ma una disciplina come la fisica. Purtroppo la filo- sofia ormai si è scordata del suo compito di insegnare all’uomo che non esiste solo la logica del principio di non contraddizione, ma anche quella del principio di contraddizione o, in altre parole, la logica dell’unione degli opposti o dialettica. Paradossalmente – ripeto – è la fisica moderna che ora ha preso le difese della dialettica. Tanto per fare un esempio ad hoc, la meccanica quantistica è arrivata alla conclusione che il principio fondamentale della natura è che tutto è in movimento, e che è esso movimento a produrre stabilità. Ma senza scomodare la fisica, basterebbe osservare che la dialettica viene confermata anche a livello delle piccole cose. Ecco un esempio terra terra: una bicicletta è in uno stato di equilibrio, quindi di stabilità, solo se è in movimento.

A livello psicologico la stessa legge la ritroviamo nel fatto che

 

l’individuo è in grado di superare la conflittualità interiore raggiungendo così uno stato di stabilità solo quando, e nella misura in cui, ha in sé una tensione tale da pro-gettarlo oltre la determinazione del presente, mettendolo così in marcia verso l’oltreità del futuro.

 

OGGI SI LAVORA PER EVADERE DALL’INTERIORITÀ

Per la nostra civiltà, purtroppo, l’essere dev’essere pensato solo come avere: non si è l’essere, ma lo si ha; lo si possiede, per cui abbiamo l’essere nella misura in cui riusciamo ad afferrarlo salda- mente nelle nostre mani. Di conseguenza la progettualità dell’uomo contemporaneo, onde agguantare con maggior sicurezza e presa l’essere, si prefigge scopi molto vicini nel tempo, scopi a portata di mano. Se non lo sono, ci penserà la tecnica ad avvicinarli per ras- sicurarci circa la nostra capacità di avere.

Più i nostri scopi sono vicini però, minore è la tensione del nostro essere verso di loro. La nostra progettualità – capacità di andare aldilà (pro – gettare ) – diminuisce. Se essa – come diceva Heidegger – è ciò che costituisce la nostra essenza, allora il ridurre la sua tensione, volendo ottenere tutto e subito, implica anche una riduzione della nostra essenza. Diventiamo così sempre più statici, inanimati, sempre più oggetti e sempre meno soggetti.

Mi vien da pensare quindi che la frenesia di azione, di lavoro del- la nostra società esprima la volontà di fuggire dalla nostra soggettività. Si lavora per diventare sempre più oggettivi; il nostro lavoro assomiglia sempre più a quello delle macchine. Di qui l’alienazione del lavoro.

Attraverso il divenire incessante prodotto dal lavoro rompiamo la caratteristica fondamentale del nostro essere, l’unità, per cui diventiamo non essere, altro dall’essere, cioè alienati. Lavoriamo, quindi accrescere il divenire, perché esso è ormai diventato ciò con cui ci identifichiamo, soppiantando la stabilità, modello di riferimento per l’uomo di civiltà non ancora contagiate dal morbo del progresso tecnologico.

 

Identifichiamo il nostro essere col trasformare frenetico e quindi col distruggere l’unità per creare molteplicità, alterità negante la nostra identità. Identificandoci col divenire, non siamo più noi stessi, ma altro da noi; non più soggetti, ma oggetti (objecti: ciò che sta in opposizione a noi stessi).

Ecco allora che, per corroborare la nostra identità oggettuale, produciamo sempre più oggetti, che però non facciamo altro che alienarci ancor di più, in quanto l’oggetto è, per definizione, ciò che sta fuori di noi.

Questo poi rientra nella strategia dell’oligarchia dominante che, con il periodo del consumo facile – almeno negli USA, Europa occidentale e Giappone – ci ha, come dice Latouche, colonizzato il nostro immaginario, attuando una sorta di rivoluzione antropologi- ca, il cui impatto sulla società è stato devastante.

Infatti la gente è diventata sempre più dipendente dall’esterno – cioè da ciò che possiede – per ricevere motivazioni esistenziali e gratificazioni morali. Da qui il bisogno di accrescere incessante- mente il potere sull’esterno per porlo al nostro servizio.

Questo lo chiamiamo progresso, civilizzazione; riteniamo che sia un lavoro volto a perfezionare un mondo sentito come imperfetto per il solo fatto che non è completamente prono alla volontà umana.

 

GIÀ DAL MONDO ANTICO SI AFFERMA L’IDEA CHE IL MONDO SIA IMPERFETTO

Per gli antichi Greci il mondo era perfetto in sé e per questo chiamato cosmos, cioè perfezione. L’idea della sua imperfezione la dobbiamo al pensiero giudeo-cristiano, per il quale il mondo è imperfetto a causa della caduta di Adamo, caduta che richiede quindi una redenzione.

Se tale pensiero fu accolto e fatto proprio dalla civiltà greco-latina, c’è da ritenere che in essa fosse già traballante il sentimento della perfezione del creato. Ciò – a mio avviso –spiega l’emergere di personalità come Alessandro Magno prima, Giulio Cesare poi, che incarnarono il bisogno di riplasmare il mondo secondo un ordine stabilito dalla loro volontà di potenza.

È singolare che ad un certo punto della storia, nell’umanità del bacino del mediterraneo – e specialmente nella sua parte più occidentale – si sia radicato in maniera così forte il sentimento dell’imperfezione del mondo.

Ora, dato che la visione che abbiamo del mondo esterno rispecchia il sentimento che abbiamo verso la nostra vita, anche la concezione dell’imperfezione del mondo viene a essere conseguenza del sentimento di imperfezione che abbiamo verso la nostra stessa vita, come se fosse mancante di qualcosa.

Ma perché mai – vien da chiedersi – si cominciò a sentire la mancanza come negatività?

Essa, in realtà, è la molla che ci spinge ad agire, in quanto ci sottrae all’immobilismo cui ci ridurrebbe la perfezione. La mancanza nel presente è perciò la condizione perché ci sia un fare ulteriore, e quindi un futuro.

Avvertire la mancanza come negatività è da imputare a una sorta di rifiuto del futuro, derivante da un sentimento di sfiducia nei con- fronti della vita; sfiducia che ci porta, quindi, a volere ora ciò che temiamo che il futuro non ci possa dare dopo.

Il rifiuto del futuro non significa però un rifiuto del fare, anzi! Proprio perché rifiutato coscientemente, il futuro ci condizionerà senza che ce ne rendiamo conto, quindi a partire dall’inconscio.

Mentre l’accettazione del futuro ci porterebbe a un fare equilibrato –un fare che non ricerca una realizzazione immediata – il rifiuto del futuro ci porta invece a voler realizzare i nostri desideri nel presente. Ciò, conseguentemente, ci porta a un fare compulsivo, perché dettato dal bisogno di realizzare i propri scopi immediata- mente, nel presente cioè.

 

NELLA SOCIETÀ TECNOLOGICA SI LAVORA PER TRASFORMARE LA VITA IN OGGETTO

Lo stato di carenza, di bisogno dell’uomo moderno, è diventato ormai tale da spingerlo ad un attivismo frenetico per tentare di por- vi rimedio. Questa constatazione mi porta a dire che ormai cifra del- l’uomo moderno, più che il pensiero (come diceva Cartesio), è l’a- zione. Ormai l’uomo è perché agisce; in altre parole il suo essere è talmente fragile da indurlo a pensare che solo un costante apporto di energia dato dal fare può salvarlo dall’annichilimento.

D’altra parte già il pensiero – per come era inteso da Cartesio e da chi, prima e dopo di lui, condividevano la metafora del mondo- macchina – è una sorta di fare, in quanto finalizzato a modificare l’esistente e non tanto a interrogarsi sul significato dello stesso. È quindi un pensiero finalizzato all’azione, un pensiero strumentale – come lo definiva la scuola di Francoforte – che, al pari di una macchina qualsiasi, ha lo scopo di accrescere la potenza.

Essa, però, si accresce con la strategia del ‘divide et impera’ cioè rompendo i legami fra gli enti. Di conseguenza nella nostra società il lavoro si configura sempre più come un passaggio del vivente (l’essere come espressione di una rete di legami molto complessa e strutturata: l’essere come unità) al non vivente (l’essere come molteplicità, divisione, chiusura rispetto a ciò che gli è esterno); passaggio che comporta la reificazione della natura, la sua trasforma- zione in mero oggetto.

Non solo ad esempio gli alberi diventano legname, gli animali carne e/o pellame; ma anche la vita umana diventa mera forza-lavo- ro o, a seconda delle esigenze del mercato, carne da piacere, carne da cannone, carne fornitrice di organi da espianto, ecc. L’essere nella sua totalità viene oggettivato: il suo interno viene completa- mente svuotato per essere posto al di fuori di esso (objectum). Ecco allora che di conseguenza noi sentiamo di essere solo in virtù della capacità di afferrarlo per attaccarci a esso.

 

PER RECUPERARE OCCORRE IL DISTACCO DAL FARE FINE A SE STESSO

Per la grande tradizione filosofica l’autenticità dell’essere si manifesta nel distacco; per la nostra civiltà invece nell’attaccamento. Per essere, ci attacchiamo a ciò che ci è esterno e quindi oggetto rispetto a noi. Chiediamo all’oggetto di farci essere; senza di lui sentiamo infatti di non essere. È difficile pensare ad una follia più grande di questa!

Secondo Dante – e con lui ancora tutto il pensiero medievale – l’essere era salvato dalla dissoluzione grazie a ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’. In seguito, a partire dal 1600, si impone una concezione meccanicista dell’essere e il mito scientista di galileiana memoria che il mondo sarebbe scritto in caratteri matematici. Si cominciò a pensare che non era più l’amore, ma la potenza a salva- re l’essere dalle insidie del non essere.

Da allora il lavoro non ebbe più solo lo scopo di provvedere a soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo e, tutt’al più, di rende- re la vita più comoda, grazie alla produzione di comfort di ogni genere; o, ancora, di essere espressione di creatività, volta alla produzione del bello, e come bisogno di esternare in forme materiali sentimenti e passioni che agitano la nostra psiche.

Da allora il lavoro fu finalizzato ad accrescere la potenza, onde assolvere al compito metafisico di salvare l’essere dal nulla. Di qui l’ossessione di accrescere indefinitamente la produttività del lavoro e con essa la potenza, nell’illusione così di rendere sicura e dura- tura la nostra presa sull’essere. Il lavoro è diventato la risposta sul piano dell’azione materiale alla rimozione della capacità di sentire che l’essere non ha alcun bisogno di essere salvato dalla disgregazione, perché è da sempre e per sempre integro.

Il fare scomposto e frenetico dell’uomo contemporaneo è oggi il sintomo più eloquente della malattia nichilista del nostro tempo, derivante dalla perdita della percezione dell’unità e quindi integrità intrinseca all’essere.

 

Non c’è lavoro che basti per rimediare a tale perdita. Anzi più si lavora, più si cerca soluzione nella direzione sbagliata, cioè quella del fare che genera potenza. Infatti la potenza, lungi dal produrre unità, richiede e crea disgregazione, cioè divenire dell’essere, divenire che è poi negazione dell’identità dell’essere e della sua integrità. Solo ponendo un freno all’attivismo demenziale del nostro tempo possiamo rallentare il divenire – divenire che è trapasso dall’identità all’alterità, dall’essere al non essere, dall’uno al molteplice

– condizione questa imprescindibile, affinché possa riemergere nella nostra coscienza il sentimento che niente e nessuno potrà mai spezzare il nostro eterno legame con l’essere o, meglio, annullare il nostro eterno essere identici all’essere.

 

ILLUSIONE CHE LA TECNOLOGIA CI LIBERI DALLA NECESSITÀ

Secondo la nostra civiltà, la volontà dell’essere deve realizzarsi all’istante: non bisogna frapporle ostacolo alcuno, altrimenti l’essere vive in uno stato di necessità che, ostacolando la sua libertà di volere, nega l’essenza stessa dell’essere, cioè la sua volontà.

Ora solo una modalità di sentire antidialettica ritiene la contrapposizione degli opposti – in tal caso necessità e libertà – come assolutamente inconciliabile, tale per cui ogni rapporto fra loro compor- ta soltanto una negazione reciproca, una diminuzione di essere. Una volontà quindi sarebbe veramente libera solo quando ottiene tutto e subito ciò che desidera. Tutto ciò che limita il ‘tutto e subito’ è percepito come necessità negante la volontà dell’essere. Una volontà che ottiene tutto e subito ciò che desidera è una volontà onnipotente, una volontà non ostacolata da alcuna necessità limitante la sua libertà.

L’incredibile progresso tecnologico realizzato dalla nostra civiltà è – a mio avviso – stato possibile solo dal desiderio antidialettico di accrescere illimitatamente la libertà, rimuovendo con la potenza tecnica la necessità. Più la necessità tende a zero, più la libertà tende all’infinito, tende ad annullare i limiti che de-finendola le danno forma e quindi la possibilità di riconoscersi.

Per intendere meglio la dialettica libertà/volontà e necessità, ricorriamo alla coppia di opposti luce e buio. La luce è visibile solo al buio; sarebbe assurdo che io usassi la luce per vedere la luce. La luce si manifesta solo quando svolge la sua funzione di illuminare. È evidente che si può illuminare solo il buio e non certo la luce.

Altrettanto ne è della libertà. Essa si manifesta solo quando svolge l’azione di liberare dalla necessità. Senza la necessità non siamo certo in grado di sentirci liberi e quindi neppure consapevoli di ave- re una volontà. È la necessità che fa sì che la volontà prenda coscienza di compiere l’atto del volere, presa di coscienza che richiede sforzo, fatica, sacrificio. Ed è poi attraverso tale atto che l’essere acquista coscienza di sé, realizza cioè di essere in quanto la sua azione è voluta. Ben diversamente invece le cose stanno con la macchina: essa non ha coscienza di essere perché priva di volontà. La rimozione della necessità, cui punta la nostra civiltà della potenza, diventa in tale prospettiva anche rimozione dell’essere. Senza la necessità, infatti, la volontà non ha più nulla da volere, allo stesso modo che la luce senza il buio non ha più nulla da illuminare. La volontà diventa perfetta nel senso che ha già compiuto totalmente (perfectum) la sua azione di volere. Non vuole più nulla, in quanto ha già tutto. L’assenza di distanza fra ciò che vuole e ciò che ha comporta che la volontà coincida completamente con l’avere.

Tale coincidenza comporta dunque anche la coincidenza fra avere ed essere.

 

L’ESSERE COME POSSESSO

La nostra civiltà però non si rende conto che l’essere lo si è, non lo si ha. Non possiedo il mio essere come possiedo una macchina, una casa, un oggetto qualsiasi. Non capire questo implica ridurre il proprio essere ad oggetto, a cosa, per cui ci rapportiamo ad esso come ad un qualcosa di esterno a noi (objectum), un qualcosa che possediamo, ma non siamo; un qualcosa cui siamo attaccati grazie alla potenza della nostra presa su di esso.

Stando così le cose, si capisce allora l’ossessione della nostra civiltà per la potenza: crediamo – e ancor più sentiamo – che abbiamo un essere solo fin tanto che riusciamo, grazie alla forza della nostra presa, a tenerlo stretto a noi.

Da qui ne consegue anche che ci rapportiamo in modo antilibertario col nostro stesso essere, perché abbiamo paura che ci scappi di mano. Diventiamo i tiranni, i carcerieri di noi stessi. La parte di noi che ritiene di avere l’essere, invece di esserlo, schiavizza la totalità del nostro essere per non perdere la presa su di esso.

Il fatto però è che più rafforziamo la presa sul nostro essere, nel- l’illusione di acquisirne possesso totale, più ci radichiamo nell’idea che l’essere è avere, che l’essere è quindi attaccato a noi grazie alla nostra presa. Ma per quanto forte essa sia, non potrà mai superare la separazione iniziale onde far sì che l’essere sia nostro una volta per tutte. E questo perché, se l’unità non è originaria, per non spezzarsi abbisogna costantemente di una forza esterna che la mantenga nel suo stato.

Sarà pertanto un’unità mediata, ottenuta cioè grazie alla media- zione di una forza; un’unità prodotta, non originaria, un’unità che viene dopo (pro-dotta) come conseguenza dell’azione di un mezzo (medium): la forza esterna.

Ora, il fatto che la nostra unità con l’essere sia mediata comporta che la causa di questa unità non sia in noi ma fuori di noi; sia cioè nella forza esterna. Il nostro essere dipende quindi dall’esterno. Di qui il senso di precarietà esistenziale e l’ossessione di accrescere il dominio sull’esterno propri della civiltà della potenza.

 

ILLUSIONE CHE L’ESSERE SI CREI COL LAVORO

Tale sentimento di alienazione dell’essere è a mio giudizio la causa prima e principale dell’ossessione della nostra civiltà per il fare; un fare che, al pari del lavoro di Sisifo, non può mai arrestarsi perchè esso è finalizzato al perseguimento di uno scopo errato in par- tenza cioè realizzare la certezza del possesso dell’essere. Per quanto si lavori per accrescere la potenza della nostra presa, non potremo mai avere il dominio assoluto sull’essere, perché l’essere è libertà. Non c’è da fare nessuno sforzo per essere; anzi bisogna al contrario ritirare la nostra presa su di esso, perché è solo lasciandolo libero che gli permettiamo di rivelarsi a noi nella sua libertà. Riprendendo il parallelismo con la luce e il buio dove la luce è l’essere e il buio è il non essere, la nostra civiltà volendo anche l’es- sere (la luce) testimonia così di non coincidere con l’essere, di non essere l’essere (la luce), ma di identificarsi col buio.

Ora che fa la nostra civiltà per manifestare l’essere (la luce)? Lavora accanitamente per produrre l’essere (la luce), onde uscire dal non essere (il buio). Se noi fossimo non essere (buio), avrebbe senso produrre la luce; noi però siamo già l’essere (la luce), per cui è assurdo che produciamo della luce per manifestare la luce che già siamo. Anzi più luce produciamo, meno appare la luce del nostro essere.

Al contrario è smettendo di produrre luce cioè di produrre essere, come se fosse un oggetto che dominiamo e utilizziamo per i nostri scopi, che dal buio del non essere emergerà in tutto il suo splendore la luce del nostro essere.

La nostra civiltà, avendo rimosso la natura dialettica della vita, non si rende conto che è il buio del non essere che permette alla luce dell’essere di brillare. Siamo talmente terrorizzati dal buio del non essere che pensiamo di dover lottare come dei forsennati contro di esso, per non esserne annichiliti, quando invece tale buio è la condizione necessaria perché possiamo scorgere la luce del nostro essere.

Non abbiamo capito che non è la potenza ad aprirci l’accesso all’essere, ma il coraggio e la forza di stare nel buio, sostenuti dal- la fede che più il buio si fa denso, più luminosa apparirà la luce dell’essere.

 

L’ETICA È CONNESSA ALL’ESSERE, NEGATA DALL’AVERE

Non c’è dubbio che la volontà della nostra società di risolvere l’es- sere in avere è anche la causa della perdita nell’uomo contemporaneo del senso della dignità, dell’onore, del senso stesso della vita.

Per l’avere ha senso solo ciò che si può possedere, solo ciò che possiamo far nostro, sottraendolo alla proprietà comunitaria. L’avere è quindi in contrapposizione con l’etica in quanto, avendo essa per scopo il perseguimento del bene comune, promuove la condivisione dei beni. L’individuo etico è quello che identifica il suo bene con quello della totalità. Egli trascende così la sua individualità, la sua separatezza, riconoscendosi come totalità. Concepisce l’unità in ter- mini unificanti: cioè l’unità si ottiene unendo. Sembrerebbe una cosa lapalissiana, ma non è così. Con ciò si vuol dire che secondo l’etica l’unità non è il risultato di un fare, non è un prodotto, una conseguenza di una causa esterna ad essa. Che l’unità si ottiene unendo significa che l’unità è causa di se stessa; essa è nello stesso tempo causa ed effetto. L’unità non è solo prodotto – un qualcosa che vien fuori dopo (prodotto), ma è anche causa di sé in quanto compie l’atto di unire.

Ne consegue anche che l’individuo etico si sente uno, un’unità sia come causa che come prodotto; cioè sente che egli è la causa della produzione del suo essere, del fatto che il suo essere è condotto fuori (prodotto) nella dimensione dell’esistenza. Egli può ben dire di essere causa di se stesso, caratteristica questa che la filosofia ha sempre riconosciuto all’essere nella formula “esse est causa sui”.

 

L’INDIVIDUO CENTRATO SULL’AVERE SI REALIZZA SPEZZANDO I LEGAMI

L’individuo centrato sull’avere, invece, concepisce l’unità in ter- mini separanti: si arriva all’unità dividendosi dalla totalità. Si sente uno perché ha scelto di rompere in modo più o meno drastico i legami col tutto. La sua è un’unità fondata sul narcisismo individualistico asociale.

 

Ora, è evidente però che, se l’unità è intesa solamente come il prodotto di un’azione separante, le si disconosce la sua funzione causante, si nega cioè che sia l’unità stessa a essere causa dell’es- sere. Ne consegue che l’individualità fondata su un’unità intesa come prodotto divenga essa stessa un prodotto; divenga quindi un oggetto, un qualcosa privo di originalità, in quanto originato da altro da sé.

Declinato a livello del singolo, ciò equivale dire che uno si sen- te individuo solo dopo che una causa lo ha prodotto, cioè dopo che lo ha condotto all’essere. Così facendo però, non si riconosce come causa di sè, ma come causato (prodotto cioè), come oggetto: ciò che sta fuori (objectum) dalla causa , in quanto è di questa conseguenza, un qualcosa che viene dopo che la causa ha svolto la sua azione. Ma in tale dopo c’è solo ciò che è inanimato e come tale può essere facilmente posseduto; c’è quindi l’essere una volta che è stato ridotto ad avere.

Secondo la logica dell’avere l’unità è quindi un prodotto e tale prodotto è l’individualità. All’opposto, secondo la logica dell’essere, l’unità è causa, forza che unisce ciò che è separato, quindi forza che produce condivisione, ovvero unità con ciò che è diviso (condivisione).

 

GIUSTIFICAZIONE METAFISICA DELL’AVERE

Credo che non si possa comprendere la bramosia smodata di ave- re della nostra epoca se non la si inquadra all’interno di una visione metafisica. Intendo con ciò dire che una tale bramosia non derivi da pulsioni coscienti, ma da pulsioni le cui radici affondano negli abissi della nostra psiche, là dove l’essere e il nulla – Eros e Thanatos, direbbe Freud – si disputano la nostra esistenza.

Chi identifica l’essere con l’avere non cerca l’avere per il semplice gusto che può ricavare da ciò che possiede; egli vuole avere per essere. La sua volontà di avere è volontà di potenza. La potenza gli è necessaria per tenere stretto a sé l’essere.

 

Ora, siccome l’essere – al pari dell’amore – è libertà, pretendere di avere l’essere afferrandolo saldamente comporta che quello che si stringe a sé non sia certo l’essere, ma un oggetto che dell’essere è solo un vano simulacro.

Di ciò è consapevole anche la nostra civiltà dell’avere. A rivelarglielo è la profonda infelicità da cui è avvinta l’umanità odierna. Tuttavia essa non è sufficiente a farci capire che la soluzione è lasciare la presa sull’essere. Al contrario, reagiamo perseverando nell’errore: vogliamo accrescere ancor più la potenza con cui ci afferriamo come dei disperati all’essere. L’avere diventa per noi come l’aria da respirare; diventa pertanto il solo e unico progetto della nostra vita che pertanto progetteremo in modo da renderci l’essere a portata di mano per poterlo così più facilmente afferrare.

 

ILLUSIONE CHE IL PASSATO CONSENTA IL POSSESSO DELL’ESSERE

Vogliamo un essere vicino sia nel tempo che nello spazio. Tale desiderio però comprime le dimensioni spazio-temporali entro cui l’essere si manifesta, per cui finiamo per negare all’essere la possibilità di dispiegare la sua potenziale vitalità.

Per quanto si riferisce al tempo, volere l’essere a portata di mano comporta il circoscriverlo nel presente, negandogli così la stabilità del passato e la mobilità del futuro, caratteristiche queste che osta- colano la brama di possesso di chi vorrebbe catturare l’essere per servirsene per i suoi scopi.

Nella dimensione temporale del passato l’essere è indisponibile alla nostra volontà predatrice perché la necessità, legandolo indissolubilmente a ciò che è già stato, nega la strategia del ‘divide et impera’ di chi vorrebbe separarlo dal legame col suo passato per appropriarsene.

Il passato – a ben vedere – è la massima espressione della finitezza dell’essere; in esso trova realizzazione compiuta l’ipotesi atomista dell’assoluta indivisibilità dell’essere, in quanto nel passato non è concesso all’essere di uscire dalla sua de-terminazione. Il passato è quindi il massimo vincolo che si oppone a tutto ciò che voglia staccare l’essere dall’identità con se stesso. Ciò che è passa- to non può essere diversificato; non può divenire diverso, per cui non può che coincidere completamente con se stesso.

Almeno così ci appare, anche se la fisica moderna, mettendo in discussione l’immodificabilità della freccia del tempo, non esclude che il tempo possa scorrere anche da quello che per noi è il futuro verso quello che per noi è il passato.

Ciò vuol dire che nel passato l’essere ha una presa assoluta su se stesso; lì è completamente se stesso (nel senso che è immodificabile); lì esercita una presa assoluta su di sé, tale per cui nessuna forza è superiore a quella con cui l’essere tiene integra la sua identità.

In una società come la nostra, dove la potenza rappresenta l’alfa e l’omega dei nostri desideri, è inevitabile che il passato eserciti un’attrazione formidabile, in quanto ne invidiamo la sua potenza assoluta, di fronte alla quale anche il divenire è impotente.

Ma è anche vero però che esso rappresenta per noi un ostacolo insormontabile per la nostra volontà di potenza, perché non le sarebbe concesso di modificare l’essere, una volta che fosse finito nel passato. La nostra reazione di attrazione e ripulsa verso il pas- sato non si esplica ovviamente verso un passato inteso in senso assoluto, poiché, per definizione, con l’assoluto non è possibile alcuna relazione.

Si esplica invece verso il passato inteso in senso relativo, cioè il passato inteso in senso non materiale, ma psicologico; il passato quale sentimento della lontananza, della perdita, della separazione, ma anche della stabilità, della durata, della certezza – quindi anche il passato quale manifestazione della verità: in comune con essa infatti ha l’assolutezza, l’immodificabilità che li rende unici ed eterni.

In pratica noi vorremmo strappare l’essere alla signoria del passato, per esercitare su di esso un uguale potere: vogliamo avere sull’essere la stessa presa assoluta che ha il passato, onde dominarlo per i nostri scopi. Tale presa è la necessità.

Nel passato essa è assoluta. Noi vorremmo esercitare sull’essere una necessità parimenti assoluta, illudendoci così di rendere asso- luta anche la nostra libertà, grazie alla potenza ottenuta col dominio assoluto dell’essere.

 

RIPROPOSIZIONE DELLA NECESSITÀ NEL PRESENTE

Come già detto, noi vogliamo circoscrivere l’essere nel presente, perché è solo nell’attualità del presente che è possibile agire sull’essere, attuando i nostri progetti su di esso.

Ma questo comporta negare all’essere il passato e il futuro. Pren- diamo in considerazione dapprima il nostro modo di relazionarci col passato. Di esso rifiutiamo il dominio che la necessità vi esercita, non certo però per liberare l’essere dal dominio della necessità.

La libertà, valore tanto conclamato dalla nostra civiltà, ha per noi il solo scopo di spodestare il passato dal dominio sull’essere, per sostituirsi a lui. Ora il fatto che vogliamo esercitare un dominio assolutamente necessitante sull’essere sta a indicare che vogliamo che la necessità non agisca più sull’essere nella dimensione del passato, ma in quella del presente.

Mentre però nel passato, dimensione temporale del finito, anche la necessità agisce in modo finito, nel presente invece – dimensione dell’atto (il presente è attuale) – la necessità è costantemente in azione. Essa agisce continuamente sull’essere senza mai passare, senza mai finire, per cui la tirannia che essa esercita sull’essere è infinita.

Il nostro modo di relazionarci col passato è quello di riportarlo (in latino “referre”, da cui anche relazionare) nel presente – si intende di riportare nel presente la necessità, qualità propria del passato – di renderlo attuale. In tal modo però ci troveremo a vivere un presente colorato dal passato: un presente già finito ancor prima di cominciare; un presente dove già tutto è finito, per cui non c’è più spazio per niente di nuovo e dove caso mai il nuovo altro non è che reiterazione di ciò che è già stato, di riproposizione dell’uguale, in quanto il passato non può essere diverso da ciò che è stato.

 

NELLA GABBIA DELL’ETERNO PRESENTE ANCHE IL LAVORO DIVIENE OBSOLETO

A pensarci bene, quanto la nostra vita è la conferma di ciò! Pensiamo ad es. al lavoro al quale, nolenti o volenti, siamo costretti a dedicare la maggior parte delle nostre energie e tempo. Ogni giorno è sempre la stessa routine: gli stessi atti, le stesse preoccupazioni, lo stesso ambiente.

E questo quando va bene, perché al giorno d’oggi il capitalismo, deposta la maschera democratica con la quale si presentava in Europa, sta mostrando anche da noi il suo volto feroce che, per quanto riguarda il lavoro, si palesa come ipersfruttamento e precarietà.

Se la routine del lavoro ci nega di progettare un futuro, di gettar- ci oltre (pro-gettare) la ‘stessità’ di un presente che, ripetendosi sempre uguale, non passa mai; l’odierna precarietà lavorativa ci toglie addirittura la routine del lavoro e quindi la possibilità di agi- re, seppure entro il carcere del presente. Si è condannati a stare in un presente a-progettuale senza nemmeno che ci sia concesso di muoverci al suo interno grazie all’azione del lavoro; un lavoro magari compulsivo e ripetitivo fin che si vuole, ma che, pur non dischiudendoci la dimensione del nuovo, ci dà almeno lo sfogo fisi- co del moto col quale tentare di sfuggire all’immobilismo assoluto, condizione psicologica di uno stato dell’anima dove il presente è stato completamente colonizzato dal passato.

La routine del lavoro aveva sottratto la meta al nostro agire; ora la precarietà ci sta quasi privando perfino dell’agire. Ormai l’uguale, l’identico, in un tempo ridotto come l’uomo di marcusiana memoria ‘a una dimensione’ (l’eterno presente), non ha neppure più bisogno dei servigi del movimento – seppure del movimento asservito, in quanto costretti a rieditare solo lo stesso lavoro routinario; la produzione industriale che – a differenza dell’artigiano – riproduce in serie l’uguale; la standardizzazione del gusto, del desiderio, del pensiero.

L’uguale quasi non ha bisogno di un moto che lo ribadisca, che lo riaffermi. Il suo dominio è diventato così incontrastato, per cui anche la sua riproduzione quantitativa attraverso il lavoro sta diventando obsoleta. Domina perché non ha più nessuno che lo contrasti dal punto di vista qualitativo in quanto – come dice Latouche – ci ha colonizzato l’immaginario.

 

UN PASSATO CHE NON PASSA NECESSITA IL PRESENTE OGGETTIVANDO L’ESSERE

Vogliamo la potenza assoluta, quella che esercita sull’essere la stessa forza necessitante che su di esso esercita il passato. Il risultato è che ci siamo trasformati in passato. Come il passato siamo diventati totalmente uguali a noi stessi; abbiamo escluso dalla nostra vita ogni apertura al diverso, al divenire. Ci illudiamo così che, eliminando il divenire, il nostro essere duri in eterno.

Il passato però è il regno del finito per cui l’eternità che vogliamo garantire al nostro essere, ricorrendo alla forza necessitante che ha il passato, sarà quella di un eterno finito, di un eterno passato. Il nostro essere diverrà la vittima della potenza della necessità; avremo un essere assolutamente necessitato, privo di qualsiasi libertà. La forza con cui eserciteremo la presa su di lui lo trasformerà ipso facto in oggetto.

La potenza, come insegnano molti miti, la si paga perdendo l’a- nima, diventando inanimati come lo sono gli oggetti.

La logica della vita non può essere solo una logica di potenza; altrimenti non c’è più spazio per dei soggetti, ma solo per degli oggetti. È una logica questa che – come dice Anders – fa dell’uomo ‘un essere antiquato’ poiché, in quanto a potenza, sarà sempre inferiore a quella delle macchine.

 

La logica della vita è quella che Hegel sintetizzò nella formula “Lasciare che il finito finisca”. Bisogna lasciare che il passato passi affinché non invada la sfera del presente, facendolo così finire nel momento stesso del nascere.

In altre parole bisogna che la necessità del passato termini con esso. Lasciamo al passato la forza assoluta che ha la necessità; altri- menti una volontà di potenza malata che voglia trasportare tale for- za nel presente, al cospetto dell’essere (presente) cioè, farà del presente un passato, dell’essere un non essere.

In un certo qual modo noi abbiamo, chi più e chi meno, un sentore del pericolo che costituisce l’azione della potenza sull’essere; avvertiamo che essa lo rende sempre più necessitato e per converso meno libero. Privato della libertà, l’essere diventa infatti finito, quindi diventa passato.

La chiusura che la forza necessitante esercita su di lui è analoga a quella che esercita il passato. Confinato nel passato, l’essere per- de la libertà, diventando così oggetto, un qualcosa che è posto fuori (ob-jectum) dal presente, dall’attualità e quindi dalla capacità di essere attuoso.

Certo, la nostra civiltà della potenza si illude di essere lei a esercitare la forza necessitante sull’esterno e di non esserne vittima. Il fatto è che più oggettiviamo il mondo per poter esercitare più facilmente il nostro potere su di esso, più ci relazioniamo con un mondo di oggetti; un mondo che, essendo privo di libertà, appartiene – per quanto detto – al passato.

Ma relazionandoci col passato, diventiamo noi stessi passato. Come è finito il passato, così saranno finiti i legami con quel mondo: finiti nel senso di incapaci di estendersi, ma anche di destinati a finire.

Senza legami perdiamo la percezione di ciò che ci tiene insieme, che fa di noi qualcosa di unico; ci disgreghiamo diventando molteplicità, numero, una quantità che ha preso il posto della qualità.

 

VOLONTÀ DI POTENZA E VOLONTÀ DI LIBERTÀ

Più o meno conscia di questo pericolo, la nostra civiltà reagisce con un’ossessiva smania di libertà e quindi di futuro.

Infatti, se il passato è la dimensione della necessità, il futuro lo è della libertà, la dimensione di ciò che, non essendo ancora rin- chiuso dentro i confini del de-terminato, può andare oltre il terminato, il finito. Il futuro è quindi anche la dimensione in cui è possibile il progetto, l’andare oltre, al di là del finito (pro-gettare).

Possiamo dire quindi che, come la volontà di potenza ci ha indotti a trasportare il passato nel presente, così la volontà di libertà il futuro nel presente.

Portare il passato nel presente risponde alla volontà di immobilizzare l’essere, necessitarlo, onde renderlo disponibile alla nostra potenza manipolatrice.

Alla minaccia che il nostro essere rimanga impigliato nella rete della necessità, reagiamo con una volontà ossessiva, perché dettata dalla paura, di libertà; cosa che, dal punto di vista della temporalità, corrisponde al voler portare il futuro nel presente.

Ma è illusorio credere che in tal modo possiamo sfuggire alla morsa della necessità. Portando il futuro verso il presente accorciamo la distanza fra volontà desiderativa del presente e sua realizza- zione futura. La volontà, così, si sente tanto più libera quanto più la sua meta è a portata di mano.

Una tale volontà è quindi in realtà una volontà di potenza. E tale è la nostra identificazione con la potenza, che ci sentiamo liberi solo nella misura in cui abbiamo a nostra disposizione la potenza. Pensiamo che anche la libertà, al pari di tutto ciò che è, sia cosa da possedere. Non capiamo che possedendola la riduciamo a oggetto, trasformandola così nel suo opposto, la necessità.

Inoltre, voler portare il futuro nel presente fa sì che esso divenga, per ciò stesso, passato, in quanto facciamo muovere il futuro all’indietro (nel passato cioè) invece che in avanti (come dovrebbe essere il moto del futuro). Facendo indietreggiare il futuro ne accorciamo vieppiù la progettualità, cioè la sua distanza dal presente.

Tale modo di procedere è proprio di una volontà che si sente tan- to più libera quanto più ristretta è la distanza verso cui si progetta. Ma chi in noi si progetta verso scopi immediati? Ciò che in noi manca di pazienza, di fede – intesa come apertura fiduciosa verso ciò che è lontano (futuro) e quindi non soggetto al nostro potere – ciò che teme il lontano, quindi ciò che teme l’altro da noi; infatti l’altro è ciò che essendo lontano non ci appartiene, non è parte di noi (appartiene); ciò che non accetta che il futuro sia diverso dal presente, perché ciò incrinerebbe la nostra identità, quella concepita, sulla scorta della logica della potenza, come qualcosa di statico che rimarrebbe perciò uguale a sé. Ciò che quindi ci suggerisce comportamenti fondati sulla logica del principio d’identità, logica pro- pria della tecno-scienza, dunque comportamenti automatici, irriflessi, aventi scopi di realizzazione immediata. Questa componente del nostro essere è quella fondata sull’istinto, sull’impulso; è la parte meccanica della psiche, quella che non agisce per realizzare un progetto, ma come conseguenza necessaria di una forza da cui siamo comandati.

Per la nostra civiltà, dunque, saremmo liberi solo quando ci abbandoniamo all’impulso, all’istinto, perché solo in essi la nostra volontà cessa di essere progettuale per divenire una volontà a realizzazione immediata, istantanea; saremmo liberi quando il volere si realizza subito, perché così abbiamo la sensazione che la nostra volontà, non distando dal suo scopo, coincida con se stessa. E in questo riproporsi uguale della volontà, ci illudiamo di rendere sta- bile anche l’identità del nostro essere.

 

LA CIVILTÀ TECNOLOGICA RIPRODUCE L’UGUALE

In relazione al lavoro, l’inversione verso il presente della natura- le posteriorità del futuro dà luogo al fenomeno della trasformazione della produzione in riproduzione: il produrre (portare in avanti, verso il futuro dunque) viene sostituito dal riprodurre (portare indietro ciò che sta in avanti).

Ora, il riprodurre è un ripetere, un rifare ciò che è già stato fatto; è quindi il ricreare l’uguale proprio della produzione tecnologica dell’industria, a differenza della produzione a bassa tecnologia del- l’artigianato del passato, nel quale all’unicità irripetibile del produttore era ancora permesso di lasciare una traccia in ciò che creava.

Nella nostra civiltà tecnologica invece anche il lavoro soggiace alla logica del principio d’identità, logica propria della matematica e quindi anche della tecnica. Si lavora per riprodurre l’uguale di ciò che già è, l’uguale di un modello già presente. Col lavoro si mette in moto ciò che è, l’essere presente appunto, non per andare avanti verso ciò che non è (il futuro), ma per ricreare ciò che è, per ricreare il presente, nell’illusione di renderlo così eterno.

Che cos’è dunque questo ossessivo darsi da fare dell’uomo con- temporaneo; questa sua mancanza di tempo libero, perché preso da mille impegni; questa mostruosa sovrapproduzione, che altro non è poi che trasformazione di ciò che è vivo o che è utile al vivente in oggetto al servizio della volontà di potenza dell’uomo?

A me altro non sembra che un gigantesco e smisurato rito apotropaico, onde costringere l’essere a sostare presso di noi (a essere presente cioè). La sua infinita riproduzione ha il compito sia di impedire che il passato lo faccia finire una volta per tutte, sia che il futuro lo allontani più in là della nostra presa. Per questo – come già detto – la nostra è l’epoca della riproduzione e non della produzione: l’epoca della creazione dell’uguale.

Certo anche il riprodurre, al pari del produrre, è un movimento che, come tale, può dare all’essere l’illusione di non essere inanimato come lo sono le cose, di non essere oggettivato.

C’è una bella differenza però fra il moto in avanti verso il nuovo del produrre e quello all’indietro verso l’uguale del riprodurre. È un moto questo che, ritornando su ciò che già è, impedisce all’essere di passare, imprigionandolo in un presente immobile, finito, un presente che è quindi un passato.

 

La nostra civiltà tecnologica conosce solo la quantità, per cui non ha cognizione neppure della qualità del moto. Il moto dell’essere progettuale (in avanti) e riproduttivo (all’indietro) per essa non fan- no differenza. Ma questo è vero però solo quando il moto lo subiamo, come lo subiscono gli oggetti. Per un oggetto, infatti, è indifferente la direzione del moto – l’essere gettato avanti (pro-dotto) o indietro (riprodotto) – perché, non avendo in sé la possibilità di cambiare, non ha nozione né di cosa era, né di cosa sarà.

La negazione della qualità del moto comporta di necessità che la nostra civiltà si metta in moto solo per produrre la quantità. In tal senso la macchinizzazione del lavoro, ancor prima di rispondere a motivi di ordine economico, è dettata dalla scelta filosofica della nostra civiltà di ridurre l’essere a quantità. La macchina, infatti, produce sempre e solo l’uguale, quindi una produzione avente per scopo unicamente la quantità. E l’uguale non può che essere un oggetto e non certo un soggetto, in quanto quest’ultimo è contraddistinto, appunto, dalla diversità propria dell’originalità.

Il lavoro nella nostra società produce l’uguale non solo attraverso la produzione seriale, ma anche per aver assunto un carattere sempre più routinario, che deborda poi anche nella nostra stessa vita, che, ripresentandosi sempre uguale, assume così la caratteristica di un oggetto.

La negazione della qualità del moto implica che il divenire assuma un carattere quantitativo dove l’unica cosa a divenire sarà la quantità; il che sta a significare che il progetto lungo cui si snoderà il divenire sarà quello dell’oggettivazione dell’essere, della sua riduzione a oggetto, in altre parole, della sua decoscientizzazione.

In un divenire quantitativo l’unica produzione possibile è la riproduzione dell’uguale, cioè di un modello preesistente. Non quindi produzione di essere, ma di pre-essere – quella del modello preesistente – produzione di ciò che sta prima dell’essere (pre-esistente), dunque del passato.

 

L’ORIGINALITÀ NON STA NELLA RIPRODUZIONE DELL’ORIGINALE, MA NEL FAR SI’ CHE IL NOSTRO ESSERE SI RIORIGINI A OGNI ISTANTE

Riprodurre un modello non è certo produrre qualcosa di origina- le. È vero che originalità deriva da origine, da ciò che sta all’inizio, che sta al principio; ma è anche vero che ogni originalità è creazio- ne del nuovo, di ciò che prima non c’era.

Ovviamente la riproduzione non crea originalità. Essa, riproducendo il modello originale, ripropone dell’origine soltanto la sua posizione iniziale, il suo essere passato; ma questo è tutto. La riproduzione infatti non ha niente a che fare con la forza creativa dell’origine, cioè di ciò che stando prima (principio) è causa di ciò che segue.

Ciò che segue, se è riproduzione di ciò che precede, sta nel futuro solo da un punto di vista quantitativo, cioè per il fatto che un moto l’ha allontanato.

Non sta però in un futuro qualitativo, un futuro inteso come dimensione nella quale può accadere il nuovo. In altre parole il moto in se stesso non ci porta in un futuro qualitativo.

La nostra civiltà, nella sua dabbenaggine, crede che il moto all’indietro del lavoro riproduttivo, essendo un andare verso l’origi- ne, sia anche un modo per ridestare la forza di produrre in modo originale e quindi di produrre il nuovo. Non ha capito che il nuovo, l’originale non può essere prodotto come una qualsiasi merce.

L’originalità, infatti, è ciò che produce, non ciò che è prodotto; è forza che produce, nel senso che è causa della produzione, mentre il prodotto è un causato, ciò che subisce passivamente l’azione di una causa che gli è esterna. L’attività produttiva comporta un andare avanti (pro – durre), un andare verso il futuro.

La nostra civiltà si vanta della sua grande capacità produttiva e, di riflesso, della sua capacità di creare futuro onde dischiudere anche alla nostra vita la dimensione del futuro. Ma, se per creare futuro bastasse solo produrre, allora anche una macchina col suo

 

lavoro creerebbe futuro, creerebbe ciò che non c’è ancora, ciò che sta dopo; sarebbe un’entità progettuale, che avrebbe delle aspettative dal futuro come ce le hanno i viventi.

È evidente però che la macchina, essendo priva di originalità, non tanto produce quanto riproduce, produce ciò che già c’è. La macchina crea sì il futuro, ma solo dal punto di vista quantitativo: un futuro dove il nuovo è semplice copia del passato.

In questo futuro pertanto, il nuovo è tale solo a livello quantitativo: l’unica cosa che cambia è solo l’accresciuta quantità delle copie.

Il futuro, inteso in termini puramente quantitativi, cioè cronologici, fa sì che il nuovo sia un qualcosa di separato da noi, in quanto risiede in un futuro che è altrove rispetto al nostro presente. Rispetto a noi è quindi un nuovo oggettivato.

Credere di avere accesso al nuovo grazie agli oggetti è dunque un’illusione, perché tale nuovo rimarrà sempre attaccato all’oggetto, quindi fuori di noi (objectum), fuori dalla nostra soggettività, che rimarrà così incapace di rinnovarsi, sempre uguale a se stessa. Ed è così perché in un futuro inteso cronologicamente come separato dal presente, il nuovo apparterrà solo all’oggetto.

Il futuro diverrà la dimensione dell’oggettività, un futuro creato da una progettualità avente per fine la trasformazione dell’essere in oggetto. La soggettività, di conseguenza, si troverà confinata nel passato, nella dimensione dell’immobilità dove vige la logica dell’identità intesa come riproposizione dell’uguale: la logica propria della tecnica. Lì la nostra vita dovrà adattarsi a divenire un qualcosa di meccanico, un’entità biologica decoscientizzata, un oggetto insomma.

La follia della riduzione del soggetto a oggetto ci porterà poi a ritenere paradossalmente che, per recuperare parte della nostra soggettività, dovremo oggettivare ancor di più il nostro essere. L’insana logica sottesa a questo pensiero è che, se il futuro è diventato la dimensione dell’oggettività, l’unico modo rimastoci di progettare – processo attraverso il quale esprimo la volontà e quindi la mia soggettività – rimane quello di trasformare ancor più la mia soggettività in cosa oggettiva. In altre parole, quanto più agisco come una macchina, tanto più affermerei la mia soggettività. Questa logica folle è poi la stessa che guida gli scienziati a ipotizzare di poter costruire macchine coscienti. Se non è nichilismo questo!

 

IL NUOVO COME STATO DELL’ESSERE IN CUI IL FUTURO È UNITO AL PRESENTE

Come detto, per la nostra civiltà il futuro si dà solo in termini quantitativi, è cioè la dimensione temporale in cui si ha solo accrescimento della quantità. Questo spiega perché siamo ossessionati dal bisogno di produrre sempre di più: non si tratta semplicemente del bisogno di avere sempre di più, ma anche di un bisogno più metafisico e cioè che il lavoro – ovviamente quello finalizzato a pro- durre quantità – è rimasto l’unico mezzo per sporgerci nel futuro. Pur di avere ancora un futuro, siamo disposti ad assumere lo status di macchine. Ma quale futuro? Solo quello quantitativo, adatto a ciò che in noi è quantità, adatto cioè alla volontà che vuole esercitare il dominio sul mondo materiale, il mondo della quantità.

Ma noi, fortunatamente, siamo anche qualità; siamo un’unità che, per quanto inconscia ci possa essere, non accetta di essere riduci- bile alla molteplicità della quantità. Siamo un’unità che non può pertanto accettare unicamente un futuro quantitativo, perché in esso la crescita quantitativa, comportando anche una crescita della molteplicità, inficia la possibilità di far emergere alla coscienza l’unità del nostro essere, la nostra individualità.

Essa sente il futuro come unitario, cioè un futuro dove la frattura temporale in istanti separati è superata; dove il nuovo, proprio del futuro, non è dopo, in un futuro separato da noi, ma è qui nel presente. È in noi, quindi non dobbiamo cercarlo fuori di noi.

Il nuovo è uno stato dell’essere nel quale l’essere avverte in sé una tensione che lo spinge oltre (pro – getta) il finito entro il quale è momentaneamente confinato. È quello stato nel quale l’essere sen- te di avere un’anima – nel senso di una forza che lo anima e che lo rende causa sui, produttore e non prodotto, soggetto e non oggetto.

È in virtù di tale tensione che è in grado di trascendere il finito del passato, in cui l’essere diventa non essere, per affermare se stesso.

L’essere non è ciò che ha avuto origine, ma ciò che dà origine in ogni momento a se stesso. La sua origine pertanto non si situa nel passato, ma è costantemente presente; ed è ciò che rende l’essere originale, mai copia di se stesso, mai riproduzione, ma sempre nuovo.

Il nuovo si manifesta allorché diventiamo originali, allorché cessiamo di essere copie, prodotti, per diventare produttori. In quanto produttori, poi, scegliamo di orientare la nostra vita verso l’essere; l’essere infatti è “causa di se stesso” cioè produttore. Scegliendo di essere produttori, inoltre, facciamo sì che in noi il presente si fon- di col futuro; cioè che ciò che siamo al presente si fondi col nuovo del futuro. Questo fa sì che per il produttore il presente non sia chiuso in se stesso, ma aperto alla novità, all’originalità del futuro, un presente quindi originale, sempre diverso dalle sue precedenti determinazioni.

Potrebbe sembrare che l’originalità neghi l’unità della coscienza perché la rende sempre diversa e quindi molteplice. Ma ciò è vero solo per una coscienza statica che vuole riprodursi sempre uguale. La coscienza di un produttore – di uno che scelga di essere causa di se stesso – è invece dinamica, una coscienza che fonde la determinazione del presente con l’indeterminazione del futuro, fonde quindi l’unità del finito con la molteplicità dell’infinito. È una coscienza dialettica: permane nell’unità proprio perché si diversifica.

Quello che permane in lei è ciò che Bergson chiamava “slancio vitale”, quell’essenza creatrice che la rende costantemente origina- le; permane il suo essere sempre nuova. Non permane il determina- to, il finito, ma la nostra essenza infinita.

 

L’infinito, diversamente dal finito, non separa il tempo nelle determinazioni del passato e del futuro. Al contrario, per il fatto di essere aperto, l’infinito supera le divisioni tra futuro e passato, per- mettendoci così di cogliere l’unità del nostro essere; un’unità dove, non essendoci più separazione tra passato e futuro, ci è permesso al fine di vivere veramente nel presente, cioè di vivere una vita dove il superamento della discontinuità temporale fa sì che l’essere ritrovi la sua essenza che è l’unità. L’essere si dà solo nel presente ovviamente, e lo ribadiamo ancora una volta; in un presente reso dinamico dallo “slancio vitale” che, superando le fratture del fini- to, è in grado di costruire l’unità. È infatti nel presente che l’esse- re ci sta davanti (presente), nel luogo cioè della manifestazione.

 

NEL LAVORO E NEI DESIDERI DE- FINITI VIENE MENO L’ORIGINALITÁ

Il moto riproduttivo consiste in un andare all’indietro, verso il passato, il finito, verso ciò che è de – terminato, chiuso entro i con- fini invalicabili della necessità, il cui significato etimologico vale appunto ‘non andare avanti’. È il moto proprio della produzione in serie del finito, della produzione di ciò che è necessitato, che non è libero, della produzione di oggetti.

Il lavoro, per come è concepito nella nostra epoca, porta di conseguenza ad accrescere continuamente il dominio del passato sul- l’essere, rendendolo sempre più finito e necessitato.

Non è solo con l’attività lavorativa però che perseguiamo questo obiettivo. Ormai, perfino i nostri desideri sono di natura ri – produttiva. Desideriamo, cioè, quasi esclusivamente ciò che non ci spinge lontano verso il nuovo, ma ciò che ci allontana quel tanto che basta per attivare l’effetto molla, onde ritornare indietro verso ciò che già siamo e così ribadirlo con maggior forza. Desideriamo il già noto, il già vissuto, la ripetizione dello stesso.

Si tratta quindi di desideri finiti, delimitati, di desideri, pertanto, di natura seriale, nel senso che sono sempre uguali a se stessi.

 

Si manifestano come ripetizione di un modello, per cui mancano di originalità: ciò che desideriamo non ha la capacità di originare in noi il nuovo, e quindi di mettere in moto la tensione progettuale del nostro essere,, onde proiettarci fuori dall’identità assoluta con noi stessi.

Il mondo dell’identità assoluta è quello della matematica, della tecnica. È il mondo adialettico dove vige il principio di non contraddizione, per cui un ente è sempre e solo se stesso. È il mondo del passato dove più nulla può cambiare, per cui è condannato a essere sempre uguale a sé.

Desiderare l’identità con se stessi implica quindi desiderare ciò che è immobile, inerte, privo della capacità di progettare, di divenire altro. Concretamente ciò si manifesta nell’abnorme materialismo della nostra epoca capace di desiderare solo il finito della materia. Si desidera ciò che è materiale, per esorcizzare con la finitezza della materia la lontananza del futuro. Al massimo possiamo accettare dei desideri che tendano il nostro essere solo entro il breve spazio di tempo richiesto per attuare il nostro ‘carpe diem’. Trascorso questo, sentiamo irrefrenabile il bisogno di tornare indietro da ciò da cui ci siamo allontanati. Non vogliamo diventare altro, ma rimanere ciò che già siamo: rimanere finiti, delimitati.

Ciò implica che i nostri desideri saranno improntati al finito, quindi a soddisfare la parte materiale del nostro essere, che si manifesta sia come attaccamento al corpo e ai piaceri ad esso lega- ti, sia – in modo più generale – come identificazione con la chiusura del finito.

 

PSICOLOGICAMENTE DIVENTIAMO DE-FINITI, CHIUSI

Tale identificazione si manifesta da un punto di vista psicologico come egoismo, egocentrismo; come rimozione della nostra natura progettuale, cioè di quella parte del nostro essere il cui fine è di gettarci oltre (pro – gettare) la statica identità col nostro ego, per farci sentire che il nostro essere si estende ben oltre la chiusura entro cui

 

vorremmo contenerlo. Oltre di essa c’è quella zona che, chi si identifica con la sua finitezza, chiama l’altro, il diverso dal suo essere e, di conseguenza, il non essere.

Sartre può affermare che “l’inferno sono gli altri” solo perché anche lui – sulla scorta del sentire della nostra civiltà – percepisce l’essere come rinchiuso identitariamente in se stesso, per cui ciò che sta oltre – gli altri appunto – costituiscono nient’altro che la minaccia del non essere verso l’essere.

In tale contesto anche il futuro dev’essere allora esorcizzato dal- l’alterità: dunque non un futuro dischiuso da un fare produttivo, un fare che ci fa andare avanti (pro – durre) allontanandoci dall’identità con noi stessi; ma il futuro del fare riproduttivo, cioè di un fare ripetitivo che ci porta indietro (ri – petere) per evitare così l’alterità. Lo sporgersi in avanti nel futuro diventa dunque un mezzo, il cui scopo, lungi dall’essere quello di portarci verso l’ignoto, è invece quello di riportarci verso il noto, il passato.

Il futuro perde così la sua funzione qualitativa di essere la dimensione in cui il nuovo può accadere e con essa perde anche la progettualità e la ricerca di uno scopo evolutivo. All’essere è concesso di sporgersi nel futuro solo per ribadire la sua identità tornando sui suoi passi. Ma così l’essere non fa altro che accrescere sempre più la coincidenza con se stesso e quindi diventare sempre più statico, immobile.

Ora, quanto più neghiamo al moto in avanti la possibilità di far- ci uscire dagli angusti confini del finito, tanto più esso diventerà frenetico, assillante. Lo stesso futuro sarà affetto dal bisogno identitario di riprodurre se stesso, col che negherà la sua natura qualitativa di produttore del nuovo, proponendosi solo come quantità riproduttiva di se stesso. Incarcerato nella gabbia del presente, del quale è condannato a riproporne incessantemente il modello, l’es- sere è ridotto al rango di oggetto seriale. La nostra civiltà, nella sua follia, si illude di poterlo riprodurre come si fa con le merci.

Ma ciò non può funzionare. L’essere non si lascia finire nell’identità assoluta con se stesso dell’oggetto. Credo che la prova più evi- dente di ciò sia data dal fatto che, quanto più ci affanniamo a immobilizzare l’essere per renderlo docile oggetto al nostro servizio, tanto più esso cercherà di sfuggirvi in tutti i modi.

E se non ci riuscirà col movimento di una progettualità tesa ver- so un futuro qualitativo, cercherà di porvi rimedio col movimento riproduttivo di un futuro quantitativo, quello a corto raggio della riproduzione dell’identico e del ‘carpe diem’.

Ma questo futuro, proprio perché di corto raggio, non può riuscire nell’intento di liberare il nostro essere dalla prigione in cui lo condanna la produzione dell’identità con se stesso.

 

LA VOLONTÀ DI POTENZA DISTRUGGE L’ESSERE

La volontà di accrescere a dismisura la potenza ci spinge a immobilizzare l’essere, negandogli la libertà e riducendolo così a oggetto; per compensazione l’essere che noi siamo e quello esterno a noi si ribellerà in tutti i modi ai nostri tentativi di oggettivarlo.

La nostra civiltà si illude di salvare l’essere dalla distruzione, accrescendone stabilità e durata con la potenza. Tale progetto però non può che essere destinato al fallimento perché la potenza, immobilizzando l’essere, gli nega la sua natura progettuale, e quindi la libertà di creare se stesso, di essere ‘causa sui’.

Ma questo è distruggere l’essere, altro che salvarlo! Pensiamo forse di salvarlo riducendolo ad oggetto? Sì, purtroppo! La nostra civiltà pensa che il solo modo per garantire l’eternità all’essere sia quello quantitativo di riprodurre un’altra copia dell’essere, una volta che quella precedente sia andata distrutta.

L’essere, però, non è un oggetto; e pertanto – nonostante il fanatismo ideologico della civiltà della tecnica, che vorrebbe convincer- lo di ciò – ce lo fa capire immettendo in noi una grande inquietudine e un bisogno irrefrenabile di cambiamento.

Nietzsche ben se ne avvide di ciò quando proclamò che “Dio è morto”. Intese con ciò affermare che era morto il principio della stabilità, dell’ordine, che l’essere non aveva più alcun vincolo necessitante per cui era finalmente libero. Senza entrare in merito al pensiero di Nietzsche, ritengo comunque che la libertà che abbiamo conseguito con la “morte di Dio” sia una libertà fittizia, una libertà che è l’altra faccia della medaglia della volontà di potenza.

A mio avviso questa è la libertà cui anela chi crede che il suo carceriere sia fuori di lui e non si rende conto invece di essere egli stesso tale. Non si rende conto che, volendo la potenza, si incarcera con le sue stesse mani. Il mito di Faust lo dice chiaramente a chi ha orecchie per intendere: se vuoi il potere, devi cedere in cambio la tua anima.

 

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