L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE_di Pierluigi Fagan
L’IMPORTANTE È NON PARTECIPARE. La società demo-liberista tende a deviare la rabbia e lo scontento su tutto ciò che è per lei innocuo ed anzi, proficuo. Ecco allora l’ampio e coinvolgente gioco di società delle guerre culturali. Ve ne sono diverse versioni per diversi gusti e profili socio-psico-culturali.
Uno scenario che va molto è quello conservatori vs progressisti. Si tratta di due varianze dello spettro liberale classico, dai tempi dei tories e whigs inglesi del XVII secolo o repubblicani vs democratici americani. L’impianto della società è comune e ben accetto, si tratta solo di interpretarlo in chiave culturale più tradizionale o innovativa.
Un altro scenario è quello dei generi sessuali e dei sessi. Qui la varianza è su due livelli: c’è quello sessuale maschi vs femmine (o viceversa) o c’è quello dell’interpretazione sessuale arrivato ormai ad acronimo da codice fiscale: LGBTQIA2S ovvero Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Questioning, Intersex, Asexual e Two-Spirit. Ma credo ne esistano anche versioni più complesse, basta andare su un sito porno che sono lo shopping mall (ipermercato) del settore.
Ancora un altro scenario vede i maggioritari indigeni contro vari tipi di minoranze etniche, con una variante anche rispetto alle credenze religiose.
C’è anche quello anagrafico sebbene sia poco frequentato, quello tra anziani e giovani. S’è un po’ rivitalizzato durante il Covid con gli anziani più preoccupati della possibile infezione e sue conseguenze che imponevano come standard generale restrizioni delle sacre libertà giovanili, immuni o più resilienti verso il virus o convinti di esser tali.
Riguardo il contesto generale, troviamo la guerra climatico-ambientale e quella dell’opinione sulle guerre reali.
La guerra culturale sull’ambiente è oscurata da quella specifica sul clima: il clima sta cambiando? Sì, no? Perché, cosa o chi ne è la causa? L’importante è fare finta di occuparsi della realtà e soprattutto ridurre la complessità del tema eco-logico a slogan ed obiettivi deviati ed innocui per un modo economico la cui natura entropica è autoevidente dato il Secondo principio della termodinamica.
Quanto alle guerre di opinioni sulle guerre reali, abbiamo avuto due grandi festival in sequenza, quello ucraino-russo e quello israelo-palestinese. Sul primo, filo-americani, filo-russi, filo-pacifisti a priori o a posteriori, si sono dati sanguinosa battaglia per qualche mese, poi il filone della passione combattente si è esaurito. La guerra in quanto tale è andata avanti e soprattutto è andata sempre peggio per i filo-ucraini che non avevano mai sentito parlare di Ucraina e forse neanche sapevano dove trovarla sulla cartina. Poiché le guerre culturali sono mosse da posizioni morali effimere, l’attenzione si consuma presto, se poi il corrispondente concreto va anche male, meglio dimenticarle. Anche per non fare i conti di responsabilità con la tonnellata di stupidaggini che si sono dette, anche urlando con rabbia ed arrivando ad un niente dal voler mettere le mani addosso all’avversario d’opinione.
Il secondo festival è esploso in una baraonda di opinioni etno-religiose con nazisti, antisemiti, Shoa, minaccioso islam armato, grandi satana, civiltà vs barbarie et varia. A soli sessanta giorni dall’inizio del festival abbiamo: 1200 morti e 5000 feriti israeliani, 16.000 morti e 45.000 feriti stimati tra i palestinesi. Come inascoltati sostenevano all’inizio della tempesta, è oramai certo che -ovviamente- i vertici di Israele sapevano in anticipo dell’azione di Hamas&Co. È altrettanto chiaro come inascoltati sostenevano sin dall’inizio che il problema per Israele non era affatto Hamas, ma i palestinesi in quanto tali, quelli di Gaza in particolare. Forse le due cose sono collegate (far finta di non sapere nulla così da avere la scusa per perseguire il secondo scopo), ma fare abduzioni è complottismo. Così i 2,3 milioni di abitanti della striscia prima sono stati spinti verso sud, ora vengono attaccati proprio lì dove li si è concentrati così da fargli capire che semplicemente, se ne debbono andare. Dove, non è un problema di Tel Aviv. L’opinione morale filo-palestinese ha esaurito impeto per impotenza, lo scandalo è palese, sotto gli occhi di tutti, nessuno fa niente, per salvarsi dalla frustrazione da impotenza meglio volgere lo sguardo da altra parte. A sua volta, l’opinione morale filo-israeliana ha tolto lo sguardo perché vabbè, una reazione anche forte si capisce e si giustifica, una vera e propria guerra etnica magari no. Entrambi gli schieramenti però possono cambiare scenario ed entrare in uno di quelli descritti sopra.
Come nel ponte ologrammi di Star Trek, gli scenari sono infiniti. Intendiamoci, non è che il sottostante di queste guerre culturali sia inesistente, esiste. Tuttavia, non è affatto detto che sia correttamente rappresentato negli stereotipi culturali degli schieramenti d’opinione. Uno dei grandi vantaggi di queste guerre culturali è proprio sublimare le contraddizioni reali in un mondo di rappresentazione nette da offrire allo sdegno morale, suggerendo esiti deviati.
Ad esempio, non domandarsi che mondo sarebbe se la metà del Cielo avesse avuto ed avesse davvero la possibilità di esprimere il suo specifico (che è di origine bio-psichico evidente), ma offrirgli l’opportunità di diventare generale di corpo d’armata come fanno i maschi.
O domandarsi cosa mai ce ne dovrebbe fregare di come si innamorano o si eccitano o fanno sesso gli umani e perché mai qualcuno di tipo A dovrebbe esser meglio al tipo B.
O porsi davvero il problema di come convivere con complessi culturali diversi, né esagerando, né minimizzando il problema. O definire meglio cosa significa “convivere”, se accettiamo l’Altro o si può evitare “aiutandolo a casa sua” e nel caso, come. O magari scoprire che non sarebbe male importarne qualcuno visto che siamo in profondo inverno demografico che ci porterà a contare 10 milioni di connazionali in meno tra trenta anni. Ma “qualcuno” chi e come? O domandarci come mai un problema continentale non viene trattato a livello europeo.
O riflettere su quale è lo stato dell’assistenza sanitaria in Italia, la disponibilità ospedaliera, il rapporto tra pubblico e privato, gli occupati, la medicina di prossimità e la condizione ed organizzazione delle case per anziani quali siamo sempre di più (dove abbiamo primati mondiali).
O non ridurre la questione ecologica e climatica ad automobili elettriche che poi abbiamo anche scoperto che non sappiamo o possiamo produrre per via dello sbilancio tra costi di produzione e costi di acquisto, nonché scoprire che hanno bisogno di materie prime cinesi che però è il nostro nuovo grande nemico nello scontro tra democrazie ed autocrazie.
Quest’ultimo scontro foriero di altra guerra culturale che ha la stessa forma imposta al dibatto sessuale. Cosa mai ce ne dovrebbe fregare, ad esempio a noi europei, se i cinesi vivono in un paese dalla forma imperiale che però si definisce “comunista”? Perché potrebbero invadere Taiwan? Ma chi l’ha detto? Intanto Taiwan va ad elezioni presidenziali tra un mese e nei sondaggi il partito relativamente più filo-cinese è in testa sebbene di poco, quello più filo-americano o anti-cinese recupera ma siamo lì, un terzo che sulla questione è equidistante e si dedica più a questioni interne potrebbe fare da terzo incluso poggiandosi un po’ di qua o un po’ di là. La Cina dichiarò che la provincia ribelle doveva esse reintegrata entro il 2049, non c’è alcuna fretta ovvero non c’è alcuna attualità.
Così per le ragioni concrete sottostanti il conflitto ucraino che ci è costato non poco sotto molti punti di vista, pare inutilmente visto lo scontato esito e sul quale dovevano semmai domandarci perché non abbiamo fatto nulla per impedire che accadesse. Che poi vale anche per l’annosa questione israelo-palestinese. Salvo domandarci magari perché ci eccitiamo per l’autonomia dei taiwanesi e non di quella dei palestinesi che sono lì ad un tiro di schioppo. O che fine ha fatto l’eccitazione per questione curda? O magari domandarci perché non c’è una questione armena nel Nagorno-Kararabakh oggetto di pulizia etnica in corso ad opera degli azeri che poi sono i principali acquirenti di armi israeliane e base per tutte i nefandi commerci d’armi a base NATO, come ormai noto da tempo.
Il concetto di guerra culturale si deve ad un sociologo americano, non tutti gli americani hanno perso la ragione. Lo presentò in un libro del 1991 come lettura della struttura culturale a forte base morale riconducibile al mondo delle credenze spirituali. “Le visioni progressiste e ortodosse sono principalmente sistemi di comprensione morale. Identifica l’ortodossia come un punto di vista attraverso il quale la verità morale è statica, universale e sanzionata attraverso poteri divini; in contrasto al progressismo, che vede la verità morale come in evoluzione e contestuale. Questi due gruppi sono bloccati in un’eterna “guerra culturale” per affermare il dominio sulle varie entità istituzionali e sistemiche influenzate dalla prassi culturale contemporanea, in particolare i rami governativi dell’America.”. Si tratta, in sostanza, di un gioco sociale con valenze politiche tipicamente americano che noi abbiamo importato o ci è stato imposto a seguire Halloween, il Black Friday, l’NBA e Taylor Swift.
Nel catalogo delle guerre culturali manca quella tra i tanti sempre meno ricchi ed i pochi sempre più ricchi, quella è vietata, davvero amorale, scandalosa, abbietta.
Poiché fine di ogni gioco è intrattenere e divertire, si dice che l’importante non è vincere ma partecipare. Ma credo che dovremmo invece domandarci se partecipare o meno. Questi giochi di importazioni a volte attecchiscono a volte no, ci fu anche la sfuriata delle sale Bingo poi diventate deserti spettrali e patetici per mancanza di allocchi. Forse prima di imbracciare la tastiera per urlare al mondo il nostro sdegno o la nostra accorata passione per l’opinione A o B, dovremo domandarci perché ci vogliono intrattenere e far divertire quando ci sono tante cose nel mondo concreto intorno a noi che non vanno affatto bene. Astenersi, a volte, è meglio che partecipare. Non cambia nulla lo stesso, ma almeno si salva la dignità di non contribuire a tenere in piedi queste macchine del nonsenso in cerca di consenso per fini non nostri.
L’ORIGINE DELLE IMMAGINI DI MONDO. All’oggi di centosessantaquattro anni fa, esce la prima edizione dell’Origine delle specie di C. Darwin.
A testimonianza di come noi spesso discutiamo di discorsi fatti da altri e non di discorsi attinenti ai fatti segnalo due punti.
Il primo è che nella prima edizione dell’Origine (1859) ed in quelle successive fino a quella che sopraggiunse ventitré anni dopo che recepiva i toni del dibattito svoltosi nel frattempo, Darwin non usò mai il termine “evoluzione”. Ricorda un po’ il caso di “capitalismo” in Marx, anche in questo caso un concetto non proprio del sistema di pensiero del tedesco, rilanciato in verità solo nel 1902 da un sociologo, W. Sombart. In effetti, così come Marx non era marxista, Darwin non era darwinista.
Evoluzione è termine derivato dal latino ciceroniano dove significava l’atto di srotolare una pergamena. Lo si poteva intendere come “svolgimento” e nel caso in questione come “trasformazione”. Il senso stesso dell’opera di Darwin era sostenere, cosa inedita per i tempi per quanto a noi nota e banale, che le specie cambiano nel tempo. L’immagine del mondo del tempo, invece, pensava che poiché le specie erano state create da Dio, erano perfettissime come il loro Creatore, quindi, non avevano alcun motivo di cambiare, quindi erano fisse.
Essendo quindi non pensabile il cambiamento delle specie, quando tre anni prima dell’Origine si trovarono i primi resti di quello che poi verrà chiamato “Neanderthal”, unanimemente vennero registrati come resti di un portatore di malformazione cranica. Se in via logica dovevano essere perfettissime le specie, figuriamoci l’uomo creato da Dio “a sua immagine e somiglianza”.
Se Darwin non usò per anni il termine evoluzione, usò però il verbo “…da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi” che termina l’opera con un lirismo raro nella scrittura dell’inglese. Ma ripeto, solo col significato di “…si sono trasformate e continuano a trasformarsi”.
Il termine evoluzione, usato da Spencer, appaiò il concetto di progresso anch’esso centrale nell’opera e nel pensiero del socio-filosofo positivista. Essere più o meno evoluto noi lo intendiamo come esser più o meno sofisticato, migliorato, idoneo. C’è anche una sorta di sottostante credenza sull’incedere combinatorio della materia, biologica e non, verso livelli maggiori di complessità.
A riguardo va ricordato che la specie più longeva della Terra, sono i batteri che hanno trascorso quattro miliardi di anni senza diventare minimamente più complessi. Credo siano ancora oggi la maggior parte della biomassa esistente. Quindi non c’è alcuna freccia della maggior complessità. Sono idonee specie semplicissime e l’incremento di complessità si è avuto per logica combinatoria come ramo parallelo dell’esistente. Altresì, forme più complesse possono esser idonee alla maggior complessità del vivente nel suo complesso, ma sono anche più complessivamente fragili poiché richiedono tante e ben precise condizioni di possibilità.
Le specie si trasformano perché sono annegate nel mondo che cambia sempre. Se il contesto cambia sempre come molti hanno di recente scoperto osservando che ci sono stati periodi molto più caldi o molto più freddi dell’attuale Olocene, ciò che sta dentro deve cambiare di conseguenza, trasformarsi, solo in questo senso “evolversi”. Lo debbono fare per superare il vaglio adattivo.
Ma qui troviamo un altro concetto che non c’era nell’Origine ed è stato apposto, anch’esso, da Spencer ovvero “selezione del più adatto”. Selezione e vaglio dicono una cosa simile ovvero giudizio di amissione, solo che lo fanno presupponendo due situazioni ben diverse. Vaglio è come nei processi di controllo delle produzioni, individuare e scartare le poche copie uscite male dai macchinari. Selezione, invece e viepiù se usiamo il “più adatto”, implica un tanto da cui viene un poco. Quindi un poco da un tanto non va bene nel primo caso, un poco da un tanto va bene nel secondo caso. La formulazione sembra simile ma il concetto è diversissimo, l’uno è l’opposto dell’altro.
Spencer era un positivista liberale inglese della seconda metà dell’Ottocento e questa idea della selezione del più adatto mimava la forma della società dove una ristretta élite è tale perché più adatta in quanto più evoluta. Ma in biologia, non si nota affatto questa selezione severa del poco dal tanto, al contrario con il concetto di biodiversità sanciamo che ci sono “innumerevoli forme” tutte “bellissime e meravigliose” nella loro varietà adattativa.
Niente, volevo solo segnalare con quale invisibile logica si formano concetti e complessi di credenza nelle immagini di mondo. Da una parte l’idea del cambiamento costante per rimanere adatti al cambiamento costante dei contesti porta all’evoluzione di enti come trasformazione adattiva che troverà molte e diverse soluzioni per superare il vaglio adattivo. Dall’altra una marcia costante verso una qualche direzione di bene e valore assoluto che è il solo modo per superare la severa selezione del più adatto che vince l’agone competitivo.
Il primo caso è come funziona natura e realtà, il secondo è come funziona una narrazione che dia ragione dello strano modo in cui funziona la società moderna di tipo occidentale spacciandola per modo naturale.
A testimonianza di come noi spesso discutiamo di discorsi fatti da altri e non di discorsi attinenti ai fatti segnalo due punti.
Il primo è che nella prima edizione dell’Origine (1859) ed in quelle successive fino a quella che sopraggiunse ventitré anni dopo che recepiva i toni del dibattito svoltosi nel frattempo, Darwin non usò mai il termine “evoluzione”. Ricorda un po’ il caso di “capitalismo” in Marx, anche in questo caso un concetto non proprio del sistema di pensiero del tedesco, rilanciato in verità solo nel 1902 da un sociologo, W. Sombart. In effetti, così come Marx non era marxista, Darwin non era darwinista.
Evoluzione è termine derivato dal latino ciceroniano dove significava l’atto di srotolare una pergamena. Lo si poteva intendere come “svolgimento” e nel caso in questione come “trasformazione”. Il senso stesso dell’opera di Darwin era sostenere, cosa inedita per i tempi per quanto a noi nota e banale, che le specie cambiano nel tempo. L’immagine del mondo del tempo, invece, pensava che poiché le specie erano state create da Dio, erano perfettissime come il loro Creatore, quindi, non avevano alcun motivo di cambiare, quindi erano fisse.
Essendo quindi non pensabile il cambiamento delle specie, quando tre anni prima dell’Origine si trovarono i primi resti di quello che poi verrà chiamato “Neanderthal”, unanimemente vennero registrati come resti di un portatore di malformazione cranica. Se in via logica dovevano essere perfettissime le specie, figuriamoci l’uomo creato da Dio “a sua immagine e somiglianza”.
Se Darwin non usò per anni il termine evoluzione, usò però il verbo “…da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi” che termina l’opera con un lirismo raro nella scrittura dell’inglese. Ma ripeto, solo col significato di “…si sono trasformate e continuano a trasformarsi”.
Il termine evoluzione, usato da Spencer, appaiò il concetto di progresso anch’esso centrale nell’opera e nel pensiero del socio-filosofo positivista. Essere più o meno evoluto noi lo intendiamo come esser più o meno sofisticato, migliorato, idoneo. C’è anche una sorta di sottostante credenza sull’incedere combinatorio della materia, biologica e non, verso livelli maggiori di complessità.
A riguardo va ricordato che la specie più longeva della Terra, sono i batteri che hanno trascorso quattro miliardi di anni senza diventare minimamente più complessi. Credo siano ancora oggi la maggior parte della biomassa esistente. Quindi non c’è alcuna freccia della maggior complessità. Sono idonee specie semplicissime e l’incremento di complessità si è avuto per logica combinatoria come ramo parallelo dell’esistente. Altresì, forme più complesse possono esser idonee alla maggior complessità del vivente nel suo complesso, ma sono anche più complessivamente fragili poiché richiedono tante e ben precise condizioni di possibilità.
Le specie si trasformano perché sono annegate nel mondo che cambia sempre. Se il contesto cambia sempre come molti hanno di recente scoperto osservando che ci sono stati periodi molto più caldi o molto più freddi dell’attuale Olocene, ciò che sta dentro deve cambiare di conseguenza, trasformarsi, solo in questo senso “evolversi”. Lo debbono fare per superare il vaglio adattivo.
Ma qui troviamo un altro concetto che non c’era nell’Origine ed è stato apposto, anch’esso, da Spencer ovvero “selezione del più adatto”. Selezione e vaglio dicono una cosa simile ovvero giudizio di amissione, solo che lo fanno presupponendo due situazioni ben diverse. Vaglio è come nei processi di controllo delle produzioni, individuare e scartare le poche copie uscite male dai macchinari. Selezione, invece e viepiù se usiamo il “più adatto”, implica un tanto da cui viene un poco. Quindi un poco da un tanto non va bene nel primo caso, un poco da un tanto va bene nel secondo caso. La formulazione sembra simile ma il concetto è diversissimo, l’uno è l’opposto dell’altro.
Spencer era un positivista liberale inglese della seconda metà dell’Ottocento e questa idea della selezione del più adatto mimava la forma della società dove una ristretta élite è tale perché più adatta in quanto più evoluta. Ma in biologia, non si nota affatto questa selezione severa del poco dal tanto, al contrario con il concetto di biodiversità sanciamo che ci sono “innumerevoli forme” tutte “bellissime e meravigliose” nella loro varietà adattativa.
Niente, volevo solo segnalare con quale invisibile logica si formano concetti e complessi di credenza nelle immagini di mondo. Da una parte l’idea del cambiamento costante per rimanere adatti al cambiamento costante dei contesti porta all’evoluzione di enti come trasformazione adattiva che troverà molte e diverse soluzioni per superare il vaglio adattivo. Dall’altra una marcia costante verso una qualche direzione di bene e valore assoluto che è il solo modo per superare la severa selezione del più adatto che vince l’agone competitivo.
Il primo caso è come funziona natura e realtà, il secondo è come funziona una narrazione che dia ragione dello strano modo in cui funziona la società moderna di tipo occidentale spacciandola per modo naturale.
CREDERE IN BIO. Il domenicale di oggi è un discorso molto complicato su un argomento complesso, in poco spazio. Spero quindi risulti intellegibile, ma non sarà facile. A me serve come appunto del pensiero, voi ne farete l’uso che vorrete, come spesso si fa su questa pagina. E’ molto lungo.
L’argomento è relativo l’immagine di mondo (idm) termine col quale intendiamo l’intera mentalità, di cui esistono innumerevoli versioni individuali, ma dentro un contesto del pensabile determinato da un numero molto minore di varianti, quello delle idm pubbliche e condivise. La più importante di queste idm generali, è l’idm dominante che è di solito un adattamento di una versione più longeva che connota una intera epoca storica e civiltà. Nel nostro caso, l’idm moderna occidentale. Attenzione perché anche le idm sfidanti, alternative a questo dominio del pensabile e del credibile, risentono nella forma del dominio di quella dominante.
Nelle idm c’è infatti una struttura ed un risultato di tale struttura, come c’è un genotipo ed un fenotipo. Le idm sfidanti, spesso, cercano un diverso fenotipo, ma condividono il genotipo di quella dominante più di quanto pensino. La radicale trasformazione di una idm, si ha quando introduciamo novità nel genotipo (ad esempio dalla forma medioevale a quella moderna), non nel fenotipo.
In paleontologia, S.J.Gould ed altri, ad un certo punto provarono ad inserire il concetto di saltazionismo nel cambiamento evolutivo che Darwin aveva previsto lento e costante. Al pari della dialettica tra riformismo e rivoluzione, Gould et alter, spingevano per la rivoluzione, una radicale trasformazione in un breve tempo. Il caso in esame erano i famosi fossili nell’argillite di Burgess in Canada (500 mio anni fa), che mostravano una relativamente improvvisa eccezionale produzione di nuovi phyla (gruppi tassonomici tra regno e classi). Il tutto è raccontato in un bel libro dal titolo “La vita meravigliosa” a cui però l’Autore aggiunge “I fossili di Burgess e la natura della storia”. A dire come nelle idm, si può parlare apparentemente di evoluzionismo, ma il pensante lo fa con lo stesso strumento (la sua mente e la sua versione di mentalità) con cui pensa ad esempio “la storia” o “la politica”. Gould poi ne trarrà un concetto che chiamerà “equilibri punteggiati” ovvero lunghe fasi di equilibrio e salti radicali improvvisi e brevi come metrica del cambiamento. In verità il tempo in cui occorsero tali cambiamenti del piano genetico è breve solo su scala molto ampia (centinaia di migliaia di anni, forse addirittura qualche milione), tuttavia citavo il caso perché quei cambiamenti non solo erano avvenuti sul piano del genotipo, ma di alcuni geni in particolare, proprio i geni “strutturali”, quelli che definiscono i piani corporei.
Trasferendoci alla gnoseologia delle immagini di mondo (anche se questo argomento è rubricato nella più limitata epistemologia), troviamo identico meccanismo nel concetto di “paradigma” di T. Khun. Quando cambia il paradigma, la più piccola struttura ordinante una intera immagine di mondo, cambia tutta l’immagine di mondo a cascata, radicalmente. Tant’è che questi salti, nella modernità, sono spesso detti “rivoluzioni”, ad esempio quella copernicana o quella quanto-relativistica in fisica. Altri ritengono (tra cui chi scrive) che in effetti non si danno mai rivoluzioni è sempre un lento accumulo di novità che poi porta a riconfigurazioni complessive come nella Gestalt. Tuttavia, rimane la possibile analogia tra novità dei geni strutturali e paradigmi delle immagini di mondo.
Il post quindi si dedica ad osservare la nascita di un possibile spostamento di paradigma nelle nostre immagini di mondo generali. Noi qui ci siamo spesso lamentati del fatto che di recente il mondo è cambiato radicalmente ma non così le nostre immagini di mondo. Siamo cioè in una nuova epoca storica ma continuiamo a pensare con le forme del moderno. Vediamo allora di cosa si tratta.
Di recente, ha fatto parecchio rumore una nuova teoria generale dell’essere, una teoria fisica derivata però dalla biologia. Un team multidisciplinare con tre filosofi della scienza, due astrobiologi, un data scientist, un mineralogista e un fisico teorico, provenienti dalla Carnegie Institution for Science, dal California Institute of Technology e dall’Università del Colorado, oltre alla Cornell, hanno presentato una teoria generale che è una sorta di estensione all’inorganico della teoria dell’evoluzione di Darwin nell’organico.
La teoria dice che nel vasto mondo dell’essere materiale c’è una selezione positiva per sistemi fisico-chimici che mostrano almeno tre caratteristiche. La prima è la stabilità atomo-molecolare, ciò che è stabile permane. La seconda è che vengono selezionati sistemi con fornitura costante di energia. La terza e forse più importante, è che vengono selezionati positivamente i sistemi che producono novità. Questo terzo punto assieme al primo, dice che c’è una condizione generale positiva tra costanza e cambiamento, alimentata dal secondo punto, la fornitura costante di energia.
È una costante tensione tra equilibrio interno ed equilibrio nella relazione con l’esterno, col contesto. Il contesto che ospita gli enti cambia sempre, di sua natura. Dal cosmo alla Terra, dalla geografia all’eco-clima, è da sempre, tutto in movimento, in divenire. È portato delle impostazioni della nostra idm occidentale e moderna, ad esempio, lo sforzo fatto da molti pensatori di individuare le “leggi della storia”, come se si dovesse trovare un motore interno le forme di vita associata umana che desse conto del perché c’è il cambiamento, cioè la “storia”. Ma se collocate l’oggetto nel suo contesto, dato che questo cambia sempre di default e dato che l’oggetto deve risultare adatto allo stato dell’essere generale, va da sé che la storia è la storia di queste rincorse che le forme ordinate della vita associata (culture, stati, civiltà) che avevano trovato una loro stabilità funzionale, sono obbligate a fare per rimanere adatte. Da qui la tensione tra permanenza e novità, tradizione e cambiamento, ordine e disordine.
Questo è il primo tentativo, a me noto, di sfida alla posizione di paradigma scientifico ma forse di paradigma generale dell’immagine di mondo complessiva, portato non dalla fisica come s’è verificato nei quattro secoli della modernità, ma dalla biologia. La cosa potrebbe svolgere una funzione genotipica-strutturale per il cambiamento delle nostre immagini di mondo, aprire al cambiamento della sua intera forma che è poi quello che ci serve per avere nuove immagini di mondo adatte ai nuovi tempi non più semplicemente moderni. Ne conseguirebbe infatti, una cascata di nuove costellazioni concettuali e cambiamenti strutturali del pensabile.
Ad esempio, lo stato standard del divenire e dell’essere non più ritenuti alternativi ma abbinati ovvero come essere nel divenire (la “nave di Teseo”, metaforizzarono i Greci). Ma anche il concetto di adattamento ovvero quella sistematica convocazione dei contesti che spesso lamentiamo come mancanza nel discorso pubblico, dalle nuove guerre alla caterva dei nuovi fatti sociali. I biologi evoluzionisti dicono “adattamento” in due sensi: cambiare il dentro di sé per adattarsi al contesto, ma anche cambiare il contesto per favorirsi l’adattamento.
In geopolitica, le grandi potenze si dedicano attivamente a modificare continuamente i contesti per non dover cambiar internamente. Le non potenze, invece, rincorrono trafelate ed esauste il cambiamento dei contesti, dilaniandosi nella dialettica tra conservazione e cambiamento. Ma anche quando decidono di cambiare, lo fanno passivamente non scegliendo il come ed il quando, subiscono interamente la dittatura della realtà, per mancanza di potenza. Non hanno potenza per intermediare il cambiamento, quindi subiscono il contesto.
Sono molti i portati concettuali da esplorare in questa nuova traiettoria. Ad esempio, cosa cambia nelle nostre pretese di precisione. A. Koyrè scrisse un bel libro dal titolo “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” per significare il passaggio dalla mentalità del medioevo alla modernità operata su base scientifica della fisica meccanica. Per costruire cose materiali (ponti, macchinari etc.) è richiesta questa precisione che poi diventa dominio della matematica e metafora generale per la quale una vite deve corrispondere precisamente alla filettatura del buco in cui si deve fissare. Per costruire economie o società umane o trovare nuovi equilibri mondiali tra sistemi umani e tra sistemi umani ed ambiente geo-atmosferico, però, tale precisione (stabilità, certezza, precisione) è non solo impossibile, ma anche non adattativa. Manca infatti quello scarto di vocazione alla novità che modifica continuamente l’ente poiché cambia il contesto per rimanere nella banda di oscillazione adattiva. Ci troviamo in una sorta di passaggio “dall’universo di precisione all’universo del pressappoco”.
Per chi penserà che questo concetto sulla “precisione o limitata imprecisione” non sembra poi così rilevante a prima vista, segnalo che ha effetti diretti sulla nostra concezione della “verità”. E la “verità” o almeno la nostra credenza su cosa sia, è invece massimamente rilevante per giudicare la legalità di una immagine di mondo, una teoria, un giudizio.
La questione ha effetti diretti sull’intero spettro delle discipline umano-sociali ed il loro statuto di scienze. Le scienze non hanno in comune il metodo, hanno semmai in comune la natura dell’oggetto. Oggetti fisico-chimico-geo-biologici sono passibili di scienza, oggetti dotati di intenzionalità (uomo individuale e sociale e tutto ciò a cui dà vita studiato in psicologia e psicoanalisi, etno-antropologia, sociologia, economia, linguistica, diritto, politica, storia), no. Si può e si deve estendere ciò che si può estendere del famoso “metodo scientifico” (ad esempio non l’esperimento cruciale), ma ciò non farà queste discipline delle scienze. Ogni conoscenza è fatta certo di metodo ma applicato alla natura dell’oggetto o fenomeno e gli oggetti o fenomeni dotati di intenzionalità hanno natura diversa da atomi o molecole o neuroni.
Per questo dobbiamo rinunciare al criterio di precisione ed abbracciare, ci piaccia o meno poco importa, quello di pressappoco. Certo vanno trovati i criteri ammessi di questo pressappoco che non può rifluire nella vaghezza sfocata e contradditoria del dire tutto ed il suo contrario, senza verifiche e fondazioni per quanto elastiche e provvisorie. Definire cioè il suo statuto di verità o ammissibilità, specie nel discorso pubblico (episteme, doxa, endoxa). Ne conseguirebbe anche la fine di quella mania di cercare “leggi” in cose e fenomeni che non mostrano alcuna legge ma al massimo una regolarità imprecisa e mai assoluta. Non può essere “assoluta” perché sono enti non sciolti da legami, sia perché sono fatti e dediti a creare legami (sono cose intessute, intrecciate assieme da “cum-plexus”), sia perché seguono adattativamente il contesto che è sempre in divenire. Quindi meno leggi e più regole.
Un nuovo dominio paradigmatico del bio cambierebbe la forma delle immagini di mondo in modi radicali, si pensi a cos’è l’economics astratta (una “fisica dell’economia” nell’intento che poi però si perde proprio la dimensione fisica) e la bioeconomica, l’architettura e la bioarchitettura, la riduzione dell’ecologia ai motori elettrici, la storia evenemenziale basta su “i grandi uomini del destino” e la geostoria che reintroduce i contesti e la natura in cui si svolgono i fatti umani, umani che poi sono fatti di natura.
Anche in politica e sociologia politica si dovrebbe forse indagare una nuova forma di pensiero che potremmo chiamare “biopolitica” non nel senso francese, ma in quello aristotelico, su base di una nuova biosociologia che nulla avrebbe in comune con la scriteriata sociobiologia (o almeno quella della prima ora poi morta, per fortuna). Per precisare, alcuni pensatori biopolitici sono compattamente scesi in campo al tempo dei problemi relativi alla gestione del Covid, ma a mio avviso mostravano tutti una certa misconoscenza proprio del “bio”. Sebbene non sia chiaro il poter dare statuto di “vivente” ad un virus, il problema “virus-corpo” è prettamente un problema “bio”.
Segnalo che Foucault studiò filosofia ma proveniva da una famiglia con padre chirurgo e nonni chirurghi e madre con genitori chirurghi quindi la critica sociale e politica della medicina ci sta; tuttavia, studiare un po’ meglio il bio di cui si occupa la medicina non gli avrebbe fatto male. Magari avrebbe evitato di prendersi l’AIDS di cui morì. Altresì, Diogene Laerzio ci dice che la netta maggioranza di scritti di Aristotele (a noi non pervenuti) era di biologia. Quando notiamo ad esempio in Politica, una concezione più “organica” dello Stagirita rispetto ad altri, forse a questa sua idm più generale dobbiamo pensare.
Un campo in cui si mostra questo iato tra materia morta e materia viva è la c.d. “intelligenza artificiale”. Per motivi che qui non posso approfondire, ritengo che sia impossibile in via di principio replicare una funzione corpo-mentale come l’intelligenza umana usando materia morta, usando la teoria dell’informazione come medio logico riduttivo (ovvero ridurre l’intelligenza corpo-mentale a teoria dell’informazione e farsi guidare da questa per maneggiare materia morta che ad un tratto diventerebbe per funzione, analoga a quella viva). Sarà per questo che nei multimiliardari gruppi di ricerca e sviluppo dell’IA mancano in genere i biologi. È curioso (ma meno inusuale di quanti si pensi) che in questo fronte più avanzato della tecno-scienza si mostri un ampio fondo di pensiero magico. L’intelligenza artificiale o meglio la teoria dell’informazione così usata, mi ricorda l’ostia che dovrebbe sintetizzare il corpo di Cristo.
Tutta la modernità è stata dominata in idm dalle nostre scoperte su come funziona la materia morta, è tutta una lunga storia di macchinismo e di culto religioso della scienza meccanica. Forse le auspicate prospettive di sviluppo di nuovi modi di pensare potrebbero beneficiare dalla sostituzione in paradigma del molto più complesso ed impreciso mondo della materia viva, quella parte della natura che fino ad oggi abbiamo evitato per eccesso di complessità, misconoscendo la nostra stessa natura e lo stesso mondo cui dobbiamo adattarci.
Chiudo con una citazione, si tratta di un geografo e geopolitico ma anarchico, Elisée Reclus: l’uomo è la natura che prende coscienza di sé stessa.
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