La genesi del nazionalismo americano: le origini di un’eccezione storica

publié le 18/10/2023 
Per quasi due secoli, e fino a poco tempo fa, il nazionalismo americano è stato caratterizzato da una capacità di resistenza fuori dal comune. Mai i fallimenti e le battute d’arresto esterne, le crisi interne e i cambiamenti culturali hanno indebolito la fede degli americani nel loro eccezionalismo, né la loro incrollabile certezza nell’eccellenza e nella superiorità morale della loro nazione. Si tratta di una caratteristica di civiltà che è unica per gli Stati Uniti e che li distingue radicalmente dalle altre nazioni occidentali, il cui esaltato nazionalismo, che era molto reale prima del 1914, è stato in gran parte sepolto dalle rovine delle due guerre mondiali.ar Éric Juillot

Per comprendere la natura inossidabile del nazionalismo americano, dobbiamo guardare indietro alle condizioni uniche che hanno governato la costruzione della nazione in questo Paese. La nascita e l’affermazione di una nazione presuppongono una maturazione secolare, durante la quale i suoi membri diventano gradualmente consapevoli di formare una comunità politica distinta dalle altre. Questo processo storico è, in superficie, alimentato dal lavoro e dalle azioni di generazioni di studiosi, artisti e leader che, ciascuno al proprio livello, contribuiscono a forgiare o a rivelare le caratteristiche specifiche della nazione in divenire.

Non c’è alcun eccesso teleologico in queste considerazioni generali. Al massimo, sono il riconoscimento di una tendenza importante nella storia dell’Occidente, e non solo, nella storia dell’umanità, osservabile dalla fine del Medioevo europeo; una tendenza che, inoltre, si è tradotta in un’impressionante diversità di forme, dimensioni e contenuti.

Un problema di storia e geografia
Nel caso americano, la genesi della nazione si è subito scontrata con alcuni ostacoli molto specifici, che da soli sono bastati a determinare in larga misura le direzioni prese all’inizio del processo nazionalista: per dare sostanza e consistenza all’idea nazionale, la storia e la geografia – i due pilastri delle nazioni europee – mancavano sull’altra sponda dell’Atlantico.

La storia innanzitutto: quando nel 1783 si emancipò definitivamente dalla metropoli britannica, la giovane Repubblica americana si isolò contemporaneamente da un passato immemorabile che avrebbe potuto contribuire a fondarla. I secoli di storia della venerabile Corona d’Inghilterra non potevano più essere mobilitati da un regime e da un popolo nato da una rottura bellicosa con la sua patria originaria. La Magna Carta del 1215, ad esempio, è un pezzo fondamentale della storia britannica che è stato visto come un lontano precursore del sistema parlamentare inventato dalla Gran Bretagna. I Padri fondatori della nazione americana possono averne ammirato il contenuto, ma è impossibile per loro seguirne le orme, poiché la Rivoluzione americana ha posto gli Stati Uniti in un’orbita diversa da quella della Gran Bretagna.

Inoltre, le tredici ex colonie che oggi compongono questo Paese non hanno lo spessore storico da cui attingere il materiale identitario necessario per affermare la propria nazione: le più antiche hanno poco più di un secolo e mezzo, sono caratterizzate da risultati politici modesti e da una produzione culturale scheletrica. Il ricorso all’antichità greco-romana, ai suoi grandi uomini e alle sue virtù, ha certamente mobilitato molte menti durante la guerra d’indipendenza, ma ha avuto un impatto limitato sull’identità.

La geografia, da parte sua, non è più sfruttabile della storia, a differenza dell’Europa. In questo continente, lo sviluppo delle nazioni è inestricabilmente legato alle loro radici territoriali. Esse si affermano nel tempo prendendo il controllo e dispiegandosi nel proprio spazio, in un processo secolare che giunge a maturazione nel XVIII secolo: le zone di frontiera che erano sempre state in movimento erano ora più spesso delimitate da una linea accuratamente riprodotta su mappe sempre più precise, una linea la cui fissità divenne una questione esistenziale sia per gli Stati che per i popoli.

Tuttavia, non c’è nulla di paragonabile sul suolo americano: i territori delle tredici colonie sono il risultato di un’appropriazione recente, sono scarsamente controllati, poco sviluppati e scarsamente popolati, a parte una sottile fascia costiera. Non ci sono luoghi di memoria, né venerabili monumenti ereditati da un passato prestigioso, né opere militari su larga scala che esprimano i sacrifici passati e futuri necessari per il loro controllo.

Provvidenza… provvidenziale
Per rafforzare il loro senso di identità, gli americani non possono fare affidamento sulla storia e sulla geografia. Sono quindi costretti ad affidarsi quasi esclusivamente alla Provvidenza, in una misura che nessun’altra nazione può eguagliare.

Se l’idea di un rapporto speciale con Dio ha alimentato, in varia misura, tutte le costruzioni nazionali in un momento o nell’altro della loro storia, è negli Stati Uniti che questo tema è stato sfruttato con maggiore coerenza e forza, in mancanza di una parola migliore, e con ritardo: mentre la Francia post-rivoluzionaria sostituiva nei suoi principi fondanti il tema della figlia maggiore della Chiesa con quello della sovranità del popolo, gli Stati Uniti hanno investito massicciamente nell’idea di un nuovo popolo scelto da Dio per convincersi della propria eccellenza morale e civile. C’è una dimensione premoderna in questa scelta vincolata che, ancora oggi, distingue gli Stati Uniti dalle altre nazioni occidentali.

Inoltre, sul suolo americano, il ricorso alla Provvidenza come elemento fondante della nazione si inserisce in un contesto culturale eminentemente favorevole. La religiosità popolare ha sviluppato forme specifiche a partire dal XVIII secolo, portando a una vera e propria americanizzazione del protestantesimo nel contesto dei “Grandi Risvegli”, ovvero le grandi esplosioni di fervore ed effervescenza religiosa che hanno segnato la nascita e il rapido trionfo dei movimenti evangelici. Il primo è apparso a metà degli anni Trenta del XVII secolo, il secondo all’inizio del XIX secolo.

L’evangelicalismo è unico in quanto rifiuta l’idea calvinista della predestinazione. Al contrario, insiste sul carattere universale della grazia salvifica, concessa da Dio a tutte le sue creature, purché ne siano consapevoli e riconoscenti. Il rifiuto della predestinazione ebbe conseguenze di vasta portata, in quanto portò alla generalizzazione del sentimento di elezione, vissuto con forza dai milioni di fedeli che si riunirono alle nuove correnti evangeliche, fino a provocare il declino delle altre fedi: nel 1850, negli Stati Uniti c’era un numero di templi metodisti e battisti tre volte superiore ai luoghi di culto delle vecchie comunità congregazionaliste, presbiteriane ed episcopaliane. L’evangelicalismo divenne così la forma più diffusa e nazionale del protestantesimo americano.

Dal sentimento di elezione sperimentato da ogni singolo credente allo stesso sentimento sperimentato collettivamente da una nazione convinta del suo legame privilegiato con Dio, c’era solo un passo da compiere nei primi decenni del XIX secolo, quando la coscienza nazionale americana si stava affermando.

La certezza dell’eccellenza religiosa era già consolidata da tempo. Innumerevoli esempi si possono trovare negli scritti dei secoli precedenti: “Scrivo delle meraviglie della Religione Cristiana che dalle depravazioni dell’Europa è fuggita sulle coste dell’America […] con cui la Sua Divina Provvidenza ha irradiato un deserto indiano”, scriveva Cotton Maher a metà del XVII secolo mentre scriveva la sua storia dei coloni del New England. Più di un secolo prima, all’inizio dell’era coloniale, Francis Higginson scriveva nel suo New England’s Plantation:

“Il nostro più grande conforto e protezione è vedere insegnata, qui in mezzo a noi, la vera religione e i santi comandamenti di Dio Onnipotente […], così non abbiamo dubbi che Dio sia con noi, e se Dio è con noi, chi può essere contro di noi?”.

Due secoli dopo, la convinzione fondamentale dell’elezione da parte di Dio di una nuova nazione moralmente superiore – se non perfetta – divenne il fondamento del nascente nazionalismo americano, portato dai cuori e dalle menti di milioni di fedeli la cui vita religiosa irrigava e modellava la vita civile, il cui legame individuale e verticale con Dio si espandeva in un legame orizzontale con tutti i compatrioti di una nuova nazione.

Il destino manifesto
È in questo contesto che negli anni Quaranta del XIX secolo emerse il tema del “destino manifesto”, un tema che avrebbe plasmato il nazionalismo americano nel lungo periodo. L’espressione apparve per la prima volta nel 1844, in un articolo di John O’Sullivan, editore della Democratic Review: “Il nostro destino manifesto [consiste] nell’estenderci sull’intero continente assegnatoci dalla Provvidenza per il libero sviluppo dei nostri milioni di abitanti che si moltiplicano ogni anno“.


Il corso dell’impero si dirige verso ovest, Emanuel Leutz (1862) – US Capitol – @WikiCommons

Con il suo irresistibile potere evocativo, il destino manifesto servirà sia all’interno, come cemento civico, sia all’esterno, come bussola che indica la rotta di ciò che l'”America” deve e può fare nel mondo e per esso.

Nell’immediato, sta portando nella nascente coscienza nazionale ciò che fermenta in modo latente da decenni. La giovane nazione americana ha il miglior motivo per credere in se stessa e per affermarsi, poiché il legame privilegiato che ha con la Provvidenza la pone chiaramente al di sopra degli altri sul piano morale, in attesa di superarli su tutti gli altri piani, quando gli americani, ormai certi del loro valore, daranno al loro lavoro collettivo tutto il respiro che merita.

Su questa base, è allora possibile procedere alla mitizzazione del materiale storico disponibile, la cui dimensione provvidenziale compenserà la sua scarsità. Fu allora che i Puritani del New England divennero figure chiave nella memoria nazionale americana. I Pellegrini che attraversarono l’Atlantico nel 1620 per sfuggire alle persecuzioni religiose e alla corruzione morale della vecchia Europa rappresentarono, due secoli dopo, un ideale politico e morale da cui la nascente coscienza nazionale americana trasse la forza necessaria per crescere.

L’epopea del Mayflower divenne il primo capitolo della narrazione nazionale che stava prendendo forma, con i suoi riferimenti e passaggi obbligati, tra cui spicca il famoso sermone del 1630 di John Winthorp, il futuro leader del Massachusetts:

“Se saremo sleali verso il nostro Dio nel compito che abbiamo intrapreso, e Dio sarà così indotto a ritirare da noi l’aiuto che ora ci sta dando, allora saremo la favola e lo zimbello del mondo intero”.

Etnocentrismo, sostegno della Provvidenza subordinato a elevati standard morali da parte di tutti: questo discorso aveva tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento comune e per promuovere i Puritani dell’inizio del XVII secolo al rango di fondatori della nazione, più di altre comunità pionieristiche come i Quaccheri della Pennsylvania o i Filantropi della Georgia. L’intolleranza religiosa e il fanatismo che li animarono per diversi decenni furono prontamente nascosti sotto il tappeto come parte di questo processo di mitizzazione.

Decenni dopo, i Puritani furono associati ai “Padri fondatori” della nazione. L’espressione, nella sua accezione ristretta, si riferisce al piccolo gruppo di figure principali dell’epoca rivoluzionaria: Washington, Adams, Hamilton, Madison, Jefferson, ecc. Fu teorizzata e utilizzata in diverse occasioni da Warren Harding, il futuro Presidente degli Stati Uniti, negli anni Dieci del Novecento, e di nuovo nel 1921 sui gradini del Campidoglio, in termini che vale la pena citare: “Devo affermare la mia fede nell’ispirazione divina dei Padri Fondatori. Ci deve essere stata certamente l’intenzione di Dio nella creazione di questa repubblica del nuovo mondo”.

Un secolo dopo la sua creazione, la Repubblica americana procede così a mitizzare coloro che vi hanno partecipato più da vicino, per bocca di un Presidente imbevuto di cultura biblica, come la maggior parte dei suoi compatrioti, e come loro impegnato nell’idea dell’eccezionalità americana sotto l’egida di Dio. Il fatto che la maggior parte dei Padri fondatori fossero uomini dell’Illuminismo molto distanti dalle questioni religiose non impedisce di arruolarli sotto la bandiera del nazionalismo provvidenzialista.

Per alcuni di loro il processo di mitizzazione dei grandi uomini della Rivoluzione era iniziato addirittura prima: Jefferson, ad esempio, era venerato negli ambienti evangelici qualche decennio dopo la sua morte per la sua legge del 1786 in Virginia che, stabilendo la libertà religiosa, li aveva protetti in quella colonia dagli attacchi delle chiese costituite.

L’ultimo elemento centrale nella costruzione di una narrazione nazionale mitizzata è stata la Costituzione del 1787. Essa ha subito un processo di sacralizzazione che la rende di fatto intoccabile ancora oggi: emendata 27 volte da dichiarazioni sussidiarie, il testo originale non è mai stato modificato, e questo illustra e rafforza una caratteristica molto singolare del nazionalismo americano.

La sua durata deriva in primo luogo dalla certezza dell’elezione divina, una garanzia di eccellenza indiscutibile che nessuna smentita inflitta dalla realtà può seriamente intaccare. Ma questa straordinaria resistenza al tempo dipende anche dal rapporto che gli americani hanno con la loro Rivoluzione e con la Costituzione che ne è il prodotto: quest’ultima deve essere sacra e intoccabile, deve essere oggetto di uno speciale culto civico per convincere tutti della solidità delle fondamenta dell’edificio sociale e politico americano, e questa solidità presuppone una forma di perfezione originaria davanti alla quale è opportuno inchinarsi.

Ma questo tipo di atteggiamento implica un rapporto particolare con il tempo: mentre tutte le altre nazioni occidentali sono concentrate su un futuro che sperano sia superiore al presente e al passato – fino a prendere la forma radicale dell’ambizione di un uomo nuovo nella Germania totalitaria e nell’URSS – il popolo americano si distingue per la mancanza di orientamento verso il futuro: ciò che è essenziale non deve essere raggiunto, perché è già stato raggiunto al momento della Rivoluzione. Nel futuro non c’è un “Grand Soir” a cui guardare, e ogni generazione deve accontentarsi di portare avanti fedelmente un sistema e dei valori che sono sempre stati superiori a quelli che altri popoli hanno saputo sviluppare.

La perfezione ereditata dall’epoca della fondazione si aggiunge così alla certezza dell’eccellenza divina per forgiare il nazionalismo americano in un metallo particolarmente resistente. Mentre altrove in Occidente il nazionalismo sembra essere fatto di ghisa che viene inesorabilmente erosa dalla ruggine del tempo, sul suolo americano un acciaio temperato di natura quasi inalterabile racchiude nel suo guscio protettivo tutte le convinzioni e le certezze che danno vigore al sentimento nazionale.

Sostenuti da questa corazza politico-culturale, gli americani hanno sviluppato un rapporto speciale con il mondo, perseguito con costanza, in forme spesso ripetute, per quasi due secoli.

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