SULLA DITTATURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

L’articolo è stato pubblicato su Palomar 4/2004. Dato che ha ancora
qualche attinenza con le vicende degli ultimi anni, lo si ripropone ai
lettori. TKdlG

SULLA DITTATURA

1. Il regime politico del (fu) comunismo reale aveva (tra i molti difetti) dei pregi, uno dei quali – piccolo perché fruibile essenzialmente dagli studiosi del diritto pubblico –, era di costituire un esempio di come la “costituzione materiale” (cioè quella reale) possa differire da quella “formale” (ovvero – anche – ideale); e come quella concreta ed effettiva, cioè realmente “regolatrice”, sia la prima e non la seconda. A renderlo evidente – in misura raramente raggiunta nella storia – erano le omissioni più che le disposizioni, anche se entrambe rivestivano un ruolo convergente. E che di ciò fossero consapevoli i bolscevichi lo prova – tra l’altro – un opuscolo di Stutcka, scritto per spiegare la costituzione sovietica del 1918, che si apre proprio con la distinzione tra costituzione come “reale rapporto delle forze sociali” e “foglio di carta” (cioè la costituzione scritta) riprendendo così la nota espressione di Lassalle1

Il primo connotato dei regimi del socialismo reale era d’essere delle dittature “proletarie”, concetto strettamente collegato da Stutcka a quelli di “guerra civile”, la quale “nel secolo del capitalismo… è l’unica guerra giusta”. La dittatura proletaria è così “la conquista di tutto il potere dello Stato ed uno spietato consolidamento di questo potere”2. Tutto il resto del “costituzionalismo” sono “formalità borghesi”. Anche Lenin, nello sciogliere la Costituente russa la descriveva come “un insieme di cadaveri e di mummie disseccate”, ed affermava che, oltre che “superata” dalla situazione politica, lo scioglimento dell’assemblea era una tappa della guerra civile in corso. Pertanto Stutcka individuava quale carattere fondamentale della Costituzione “lo stabilimento della dittatura proletaria e dei contadini poveri con la guerra civile”3.

La dittatura era individuata quindi come lo strumento ideale per raggiungere due scopi: condurre la guerra civile e, nel frattempo, e in prospettiva, guidare la trasformazione verso la società comunista, la “società senza classi”, meta finale del comunismo. Mentre il primo è uno scopo per così dire normale della dittatura (per lo più utilizzata in caso di guerra, esterna o civile), il cui modello storico e istituzionale è quello romano, ed è un mezzo normale per la conservazione dell’unità e dell’ordine politico e sociale (come già notava Machiavelli nel “Discorsi sulla prima deca”) il secondo fine è moderno, e, per certi tratti, peculiare al comunismo “reale”. Infatti la dittatura “classica” è uno strumento per conservare l’ordine esistente, e cioè rivolto al presente: la dittatura comunista è indirizzata alla costituzione dell’ordine futuro. È nella prospettiva della società senza classi che la dittatura modella la società futura.

In tale differenza essenziale v’era in nuce il germe della successiva decadenza ed implosione finale del “socialismo reale”. Infatti il dittatore “classico” si giustificava per la conservazione dell’ordine e il suo ufficio (di durata limitata) cessa con il ripristino di quello; mentre alla dittatura comunista compete un compito assai più impegnativo, suscitatore di aspettative enormemente più difficili a soddisfare. Che, infatti non soddisfatte per oltre settant’anni, hanno costituito la causa, probabilmente principale, dell’implosione del regime sovietico.

2. La dittatura era strettamente collegata al ruolo dirigente del Partito comunista. Da ultimo, la Costituzione sovietica del 1977 così ne descriveva il ruolo: “Il Partito comunista dell’Unione Sovietica è la forza che dirige e indirizza la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico, delle organizzazioni statali e sociali. Il PCUS esiste per il popolo ed è al servizio del popolo.

Il Partito comunista, armato della dottrina marxista-leninista, determina la prospettiva generale di sviluppo della società e la linea della politica interna ed estera dell’URSS, dirige la grande attività creativa del popolo sovietico, conferisce un carattere pianificato e scientificamente fondato alla sua lotta per la vittoria del comunismo” (art. 6). Tale disposizione andava letta insieme all’art. 3 (sul centralismo democratico). Il tutto spiega perché, ad esempio, nessuna delle Repubbliche federate abbia esercitato il diritto di secessione previsto dall’art. 72 (e dai corrispondenti delle precedenti costituzioni).

Tale diritto è (logicamente) esercitabile se la repubblica aspirante alla secessione ha la possibilità di darsi un indirizzo politico in contrasto con quello della federazione; ma se “il nucleo” del sistema politico “la forza che dirige ed indirizza la società” (e così via) è un’organizzazione unica e totalitaria per cui “il centralismo democratico combina la direzione unica con l’iniziativa e l’attività creativa locale, con la responsabilità di ogni organo statale e di ogni funzionario per l’incarico affidato”, la diversità d’indirizzo politico non poteva manifestarsi: l’autonomia dello Stato-membro in una federazione retta da un partito unico e totalitario, in quanto tale detentore del monopolio del potere politico, ha campi di azione assai più limitati di quelli che può trovare in uno Stato anche unitario, ma pluralista. Il problema della natura federale dello Stato e della salvaguardia dell’unità politica, nel sistema comunista era risolto con l’uovo di colombo rappresentato dal controbilanciare la pluralità degli Stati con l’unità del partito (e quindi della direzione politica).

In realtà che la vera costituzione dell’URSS (e degli altri regimi di “socialismo reale”, fosse la dittatura del Partito comunista, è provato a posteriori dal fatto che lo scioglimento del PCUS ha coinciso con quello dell’Unione sovietica, dissoltasi nelle repubbliche della C.S.I. L’architrave del sistema era quello e non le centinaia di disposizioni della Costituzione formale, alla quale in quella occasione fu dimostrato come si adattasse bene il giudizio di Stutcka: d’essere un “foglio di carta”.

3. La distinzione tra dittatura commissaria (quella “classica”) e dittatura sovrana (cioè quella bolscevica e, prima, giacobina) è stata formulata da Schmitt4; tale distinzione tuttavia è già in nuce in Bodin, nella dicotomia tra sovranità ed altri poteri pubblici. L’argomentazione di Bodin si fonda sul fatto che “così come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”; per cui “le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono esserne partecipi, esse cessano di essere tali”5.

E il concetto che discrimina la sovranità da tutti gli altri poteri pubblici è quello di limite: non è tanto il potere di dare leggi, fare pace o guerra, conferire potestà pubbliche ad altri soggetti, rendere giustizia a connotare il potere sovrano, (giacché l’uno o l’altro di questi poteri sono conferiti anche ad altri organi e soggetti pubblici), ma quello di farlo senza limiti (giuridici), di oggetto, di procedimento, di tempo. E’ questa la concezione che formula Bodin e che sarà, per così dire, raffinata dai pensatori successivi, per culminare nella definizione di Kant. Infatti anche per i magistrati straordinari, in primis il dittatore romano, sussistevano limiti all’esercizio del potere e questo era conferito per delega del sovrano: “né il dittatore dei Romani, né l’armosta a Sparta, né l’esimneta a Salonicco, né quel magistrato di Malta che veniva chiamato archus, né l’antica balìa di Firenze, magistrature tutte che avevano press’a poco le stesse funzioni, né il reggente di un regno, né alcun altro magistrato che abbia avuto per un limitato periodo di tempo potere assoluto di disporre dello Stato, ha veramente avuto la sovranità. E non significa niente che i primi dittatori avessero pieno potere”6 e ciò perché “il dittatore romano non era né principe né magistrato sovrano, come molti hanno scritto, e non disponeva che di una commissione con un fine preciso, o condurre una guerra, o reprimere una rivolta, o riformare lo Stato, o istituire nuovi magistrati; mentre la sovranità non è limitata né quanto a potere né quanto a compiti né quanto a termini di tempo”7.

Se andiamo a leggere qualcuna delle commissio conferite all’epoca dell’assolutismo, la distinzione tra sovrano e “commissario” (cioè organo straordinario) appare evidente, per quanto ampi siano i poteri conferiti dal primo al secondo. Nel diploma, ad esempio, rilasciato da Ferdinando IV di Napoli al Cardinale Ruffo (Palermo 25/1/1799) per la difesa del Regno, a questi sono conferiti vastissimi poteri: principio (e delega generale) è che “Ogni mezzo che dall’attaccamento alla Religione, dal desiderio di salvare le proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o dalle ricompense per chi si distinguesse, crederà di poter impiegare, va adoprato senza limite, ugualmente che i castighi i più severi. Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in quest’istante, e crederà capace di animare quegli abitanti ad una giusta difesa, dovrà eccitarla”.

I poteri conferiti al Cardinale erano: fare proclami; rimuovere, sospendere, arrestare e nominare ogni funzionario pubblico; adoperare ogni risorsa finanziaria delle “casse regie” (con rendiconto); amministrare la giustizia; comandare le forze militari regolari e levarne di irregolari; organizzare servizi d’informazione.

Il Re ripete “Per ottenere ciò non le prescrivo mezzi, che tutti lascio al suo zelo, tanto in modi di organizzazione, che per la distribuzione delle ricompense di ogni genere: se queste saranno in danaro, potrà accordarle subito; se saranno in onori ed impieghi che prometterà potrà istallare interinalmente quelli che giudicherà, e me ne renderà inteso per la conferma ed approvazione, come pei distintivi promessi”; e ribadisce “Non, mi estendo in dettagli maggiori per le misure di difesa, che nel massimo grado da lei aspetto; molto meno per quelle contro le mozioni interne, attruppamenti, seduzioni, emissari e mala volontà di alcuni. Lascio al discernimento di V. Eminenza il prendere le più pronte determinazioni e per la giustizia subitanea contro tali delinquenti” (i corsivi sono nostri). Per quanto ampi fossero i poteri del Cardinale, erano limitati (oltre che da qualche obbligo, soprattutto d’informazione, rendicontazione e approvazione) dalla stessa commissio finalizzata alla riconquista e pacificazione del Regno. Proprio la distinzione tra sovrano e commissario (del sovrano), la presenza e la preminenza del primo sul secondo consentiva di ricondurre quest’ultimo nell’ambito dell’istituzione, quale organo straordinario (ed eccezionale) di questa, subordinarlo all’insieme e di limitarne i poteri.

4. Caratteri della dittatura commissaria erano da un lato d’essere strumento utilizzato solo nelle situazioni eccezionali: la straordinarietà dell’organo e dei suoi poteri era il riflesso dell’eccezionalità della situazione; secondariamente di avere un mandato limitato dello scopo (condurre una guerra, reprimere una rivolta); in terzo luogo di avere dei limiti di tempo; infine di essere comunque soggetta a controlli ed approvazioni di un altro organo, cioè quello sovrano, cui doveva rispondere.

La dittatura sovrana, di converso, non conosce (altrimenti non sarebbe tale) questi limiti: non – o solo in parte – quello dell’eccezionalità della situazione. Come scriveva Jhering, nell’antica Roma, “se ci si trovava in una situazione d’emergenza, si nominava un dittatore” e questa era un’azione “di salvataggio compiuta dal potere statale”8; mentre la dittatura sovrana non è limitata e funzionalizzata dall’emergenza: piuttosto lo è dalla transizione (da un ordine ad un altro); non è un’azione del potere statale, ma nasce da un potere di fatto opposto allo Stato.

Soprattutto, non ha limiti giuridici, proprio perché sovrana. Intendendo poi “limitato” in relazione ai presupposti (elementari) di un pensiero giuridico istituzionalista9, per cui il limite è, in primo luogo, quello istituzionale, più specificamente organico.

Ovvero il limite che incontra la dittatura “classica” è di essere inserita in una forma istituzionale, in cui c’è un organo (ordinario) che ha funzioni di controllo, autorizzazione, sorveglianza, approvazione riguardo all’organo straordinario (e ai di esso atti). Il primo è comunque un organo costituito, oltre che, talvolta, costituente. L’essere organo di un’istituzione, composta di una pluralità di organi, uffici e relative subordinazioni, coordinazioni, sfere di attribuzioni limita doppiamente l’istituto della dittatura: per l’inserimento in una forma istituzionale e per la presenza, conseguente, di tali organi, almeno uno dei quali detiene una posizione di preminenza (superiorità) rispetto all’organo commissario.

Nella dittatura sovrana tale – principale – limite viene meno: il dittatore risponde non a un organo costituito, ma semmai ad un potere costituente, che ha il connotato precipuo di non essere neppure costituibile. In se non vi è una possibilità giuridica (cioè, in primis, istituzionale) di controllo, ma solo politica, almeno finchè viene ammesso un pouvoir constituant.

Più che nell’eccezione la dittatura sovrana trova, come cennato, il proprio presupposto e la propria “giustificazione” nel diverso (concetto di) transizione: dal vecchio al nuovo ordine, da quello ingiusto al giusto. Ordinamento futuro che richiede una nuova costituzione, e/o addirittura la (previa) trasformazione di tutto l’ordine sociale.

Nella dottrina comunista questo è già previsto da Marx ed Engels; resta il fatto, comunque, che anche senza una costituzione (in senso formale) una costituzione sussiste comunque (e non potrebbe non esserlo almeno finchè esiste l’unità politica). Costituzione che può coincidere con l’autorizzazione (presunta o meno) all’esercizio del potere in capo ad un soggetto (collettivo o individuale): e questa non può mancare almeno finchè si ha un’esistenza politica. Vale per la dittatura sovrana quello che Santi Romano scriveva in relazione allo Stato assoluto “Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica”10. Così del pari, anche se non delineato in “dottrina” come nel marxismo, la transizione (da una vecchia alla nuova costituzione, dal vecchio al nuovo ordinamento) appare anche nella prassi della Convenzione francese del 1792-1795: in particolare con la redazione della nuova Costituzione (direttoriale), la cui entrata in vigore coincise con lo scioglimento dell’assemblea e la formazione degli organi (pouvoirs) ordinari.

Altri caratteri della dittatura sovrana non differiscono da quelli della dittatura commissaria: così l’idea (più che l’atto) della commissio (inserita nel concetto di trasformazione dell’ordinamento) così il presupposto del “nemico”. Anche se l’attivazione di organi (e/o misure) straordinari non è limitata ai casi di guerra esterna o interna, giacchè spesso sono impiegati per fronteggiare situazioni d’emergenza provocate da calamità naturali, di solito si ricorre alla dittatura in questi casi.

Nella dittatura sovrana della Convenzione la necessità di combattere il nemico esterno (la prima coalizione) ed interno (classi privilegiate, clero refrattario, insorti realisti) giustificava la dittatura (e anche la sospensione della prima costituzione approvata) in forza del nemico (e la guerra) esterna ed interna. Anzi, in entrambi i casi, proprio il compito assegnato alla dittatura moltiplicava il numero dei nemici: se infatti questo consiste nell’instaurazione di un nuovo ordine, chiunque si opponga a ciò diventa un nemico, anzi nell’immediato, il nemico. Man mano che procede l’edificazione dell’ordine nuovo i nemici si susseguono.

Così nella Rivoluzione francese alle classi già privilegiate seguirono gli insorti realisti, con l’intermezzo dei girondini e degli arrabbiati, e l’accompagnamento di Danton; in quella sovietica ai bianchi ed ai socialrivoluzionari seguirono i trozkisti, poi i kulaki, infine la vecchia guardia bolscevica. All’esterno polacchi, forze dell’Intesa; a metà tra interno ed esterno ucraini ed altre nazionalità. Le dittature sovrane sono, sotto tale aspetto, i moltiplicatori più efficaci del numero dei nemici.

5. La seconda metà del XX secolo ha visto cadere molti regimi dittatoriali, anche se, da un certo momento, il termine dittatura è stato adoperato di preferenza per quelle di “destra”, mentre i regimi comunisti venivano qualificati, per lo più, in modo diverso a seconda delle preferenze politiche del qualificatore (da “Stato totalitario” a “regimi del socialismo reale” e così via). Sta di fatto che, in Europa, (e spesso anche altrove) queste dittature (di destra o di sinistra), a partire dalla seconda metà del secolo, sono cadute senza spargimento di sangue, o, quanto meno, senza guerre civili. Non ha fatto eccezione neppure quella sovietica. In fondo a questa si può estendere quanto fu detto riguardo al franchismo: d’essere morto di vecchiaia (per la Spagna, fisica, essendo un regime “personale” di Franco; per l’Unione Sovietica, ideale, come si conviene da un’ideocrazia utopistica).

A chiedersi perché, al contrario di quelle cadute nella prima metà del secolo, queste siano finite in maniera incruenta (o quasi) la risposta più probabile è dato proprio dal nemico (reale). Una dittatura, infatti, come ad esempio quella dei colonnelli greci o quella franchista spagnola, erano prive di reali nemici interni (perché debellati o posti in condizione di non nuocere) ed anche esterni. Infatti, almeno nell’ambito del mondo occidentale gli USA e gli altri Stati democratici non percepivano quelle dittature come nemici reali, sia perché tale era il comunismo, sia perché queste rappresentavano un’eccezione, forte ma relativa, rispetto all’ordine democratico-liberale (e perciò assai meno pericolosa); d’altra parte la stessa rappresentazione, all’inverso valeva per i regimi greco e spagnolo. Quindi né gli Stati democratici erano nemici reali per tali dittature, né queste per quelli.

Per l’Unione Sovietica (e i paesi satelliti) la situazione creatasi, anche se differente, si fondava sempre sull’inimicizia. Infatti, a differenza che nel comunismo statu nascenti, per cui il nemico contro cui condurre la guerra giusta era il capitalista, in quello senescente la percezione del capitalismo come nemico si era sbiadita tra i governanti e, probabilmente, svanita del tutto o quasi tra le masse dei governati.

La dittatura del partito comunista era così erosa in ambedue i pilastri fondamentali: la percezione-convinzione che il capitalismo fosse il nemico assoluto, e la dittatura necessaria per lottarvi contro. Parimenti si era ridotta la fede che il comunismo fosse la “fine della storia” e la dittatura il mezzo necessario per attingerlo. Venivano così meno entrambe le condizioni che giustificavano la dittatura. Da ciò la sua caduta tra tanti sbadigli e nessuna convulsione.

T.K.

1 Über verfassungswesen (conferenza del 16 aprile 1862), trad. it. in Behemoth n. 20

2 P. Stutcka La costituzione della R.S.F.S.R. in domande e risposte, Milano 1920, p. 12-13

3 Op. cit., p. 13

4 v. Die Diktatur trad it. Bari 1975

5 Six livres de la République, lib. I, cap. X, trad. it., Torino 1964

6 Op. cit., lib. I, cap. VIII.

7 Op. loc. cit.

8 R. von Jhering Der Zweck im recht, trad. it., Torino 1972, p. 185

9 v. Santi Romano L’ordinamento giuridico, p. 15, quando definisce l’ordinamento giuridico “in tal senso, si parla, per esempio, del diritto italiano o del diritto francese, non è vero che si pensi soltanto ad una serie di regole o che si presenti l’immagine di quelle fila di volumi che sono le raccolte ufficiali delle leggi e decreti. Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, dai non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è, in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse. In altri termini, l’ordinamento giuridico, così comprensivamente espresso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso”.

10 V. Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 3.

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