PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI

L’articolo, sintetico ed efficace di Riccardo Scarpa pubblicato dall’Opinione del 21 ottobre 2021, sulla “deriva oligarchica” di elezioni cui partecipa all’incirca il 40% degli elettori, induce a qualche ulteriore riflessione.

La prima: è sicuro che qualsiasi regime politico, anche non democratico, si regge (anche) sul consenso dei governati. Questo può desumersi laddove siano monarchie ed aristocrazie da vari “indici”. Il principale dei quali è l’obbedienza, il non dissenso (o il dissenso parziale e contenuto). In quelli democratici c’è un “indice” in più, peraltro numerico: le elezioni. Se il corpo elettorale è svogliato e renitente, significa quello che Scarpa ha ben espresso: che è un’oligarchia, non di diritto, ma di fatto. E che una democrazia che suscita tanta indifferenza sia in buona salute è difficile sostenerlo: anche perché fino a qualche decennio fa nella deprecata “prima repubblica” eravamo abituati a percentuali di partecipazione al voto almeno doppie.

In secondo luogo: siamo abituati a distinguere tra democrazia e liberalismo. Ci sono state nella storia democrazie poco o punto liberali e stati liberali poco (o punto) democratici. Tra cui il Regno d’Italia, almeno fino al suffragio universale maschile (1913). Ciò non toglie che democrazia e liberalismo, facili a distinguersi concettualmente, si siano per lo più accompagnati nella storia. Anche un regno del XIX secolo, in cui votava il 5% (o anche meno) dell’elettorato maschile era più democratico di una monarchia del settecento, quando non c’erano votazioni né rappresentanza (in senso moderno) dei governati.

Com’è noto uno dei pensatori liberali cui si deve la più accurata distinzione tra libertà degli antichi (a un dipresso = democrazia) e libertà dei moderni (sempre a dipresso di prova – liberalismo) è Benjamin Constant nel discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”. Constant sostiene che nelle antiche polisScopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie” mentre nella società moderna “serve a tale libertà, un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”; onde il sistema rappresentativo è essenziale alla libertà dei moderni.

Ma c’è un rischio, sostiene il pensatore svizzero “Poiché da ciò che la libertà moderna differisce rispetto all’antica deriva la minaccia di un pericolo di specie differente. Il rischio a cui sottostava la libertà antica era che, attenti ad assicurarsi solo la partecipazione al potere sociale, gli uomini cedessero a poco prezzo i diritti e i godimenti individuali. Il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico. I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a far ciò. Essi sono così ben disposti a risparmiarci ogni tipo di pena, eccetto quella di obbedire e pagare”. E ambedue, l’obbedire e il pagare gli italiani hanno sopportato nella seconda repubblica, assai più che nella prima. Ma non è solo questo l’inconveniente: più grave, perché la partecipazione è necessaria alla libertà politica: “La libertà politica, sottoponendo a tutti i cittadini, senza eccezioni, la considerazione e lo studio dei propri più sacri interessi, aumenta il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra di loro una sorta di uguaglianza intellettuale che fa la gloria e la potenza di un popolo. Osservate come una nazione si rafforza non appena un’istituzione le consente l’esercizio regolare della libertà politica”, quella libertà che in Italia è temuta come la peste dall’establishment. Tant’è che si vota il meno possibile e, quando lo si fa, si contraddice alle indicazioni dell’elettorato. Per cui dopo un elogio della partecipazione e del patriottismo, Constant afferma che “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro” perché “Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. E questa consapevolezza dello “Stato rappresentativo” come sintesi di democrazia e liberalismo è patrimonio comune dei liberali successivi, a partire da Orlando, Mosca, Croce.

Per cui opporre democrazia e liberalismo significa depotenziare complessivamente la sintesi politica; estraniare i cittadini dallo Stato e ridurli a meri sudditi (privati). Far combattere la democrazia con la libertà vuol dire indebolire lo Stato: cioè proprio quanto vogliono i poteri forti, non democratici e assai poco liberali.

Teodoro Klitsche de la Grange