Henry Levavasseur, L’identità come fondamento della città. Riconciliare ethnos e polis, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Henry Levavasseur, L’identità come fondamento della città. Riconciliare ethnos e polis, Passaggio al bosco edizioni, 2021, € 10,00.

Questo saggio, chiaro e sintetico, si pone il problema di come conciliare ethnos e polis, ovvero in altri termini, ma di senso vicino, comunità e istituzione (politica).

Nella decadenza della modernità, cioè l’epoca in cui viviamo, ethnos e polis sono stati progressivamente separati: nel senso che si pensa possa costituirsi un’istituzione senza una certa omogeneità tra i cittadini. E tale omogeneità non è necessario che si fondi su dati concreti e reali.

L’autore cita a tale proposito, tra le tante, le interpretazioni moderne della celebre conferenza di Renan Cos’è una nazione? Il passo in cui Renan definisce la nazione come sintesi tra passato (possesso in comune di una quantità di ricordi, cose, rapporti, usi) e il presente (la volontà di vivere insieme ed avere un destino comune) è intesa pretendendo di ridimensionare e svalutare il passato, e attribuire alla volontà arbitraria (Tönnies) dei partecipanti la capacità di costruire un futuro comune tra persone prive di ogni passato comune. Un’esegesi che annichilisce totalmente ciò che nel pensiero di Renan era collegato necessariamente.

Alla volontà (arbitraria) e al diritto, inteso anch’esso riduttivamente (come atto volontario) dei consociati è rimessa la costituzione dell’ordine sociale o almeno della magna pars di esso, cioè la costituzione dell’istituzione. Così l’atto relativo è il risultato di una decisione comune degli associati, direttamente o per rappresentanza.

Il tutto non presuppone l’esistenza di una comunità: anche un’assemblea multietnica, multirazziale e multi religiosa potrebbe agevolmente trovare un modo d’esistenza comune e scriverlo su un pezzo di carta, sulla base della sola ragione. Una costituzione diventa così la sorella maggiore di un regolamento condominiale.

Ovviamente, nella realtà, non è così; anche le costituzioni frutto di un procedimento come quello descritto (come quasi tutte quelle moderne) sono poste in essere – e vengono bene – se espressione di una volontà comunitaria e di un ordine già – almeno in parte – esistente. Se non c’è in un gruppo politico almeno un certo tasso di omogeneità tra gli associati, l’impresa è destinata al fallimento.

Anche la storia recente l’ha provato. Oltre trent’anni fa, nella crisi (terminale) dell’URSS, Gorbaciov propose di stipulare (tra le repubbliche sovietiche) un nuovo trattato dell’unione (connotato da pluralismo e democrazia). L’impresa finì come tutti sappiamo: in gran parte perché era difficile tenere insieme repubbliche con maggioranza di cittadini cattolici o protestanti (come quelle baltiche) con altre a maggioranza cristiano ortodossa, o musulmana; peraltro tutte organizzanti popoli ed etnie diverse. In altra anche perché si può cercare di farlo, e molti imperi ci sono riusciti, ma a patto che il potere “federale” o meglio unificante non fosse democratico ma assoluto come quello zarista e, poi, comunista. Voler coniugare potere, disomogeneità e democrazia è un’impresa che non risulta riuscita nella storia.

Proprio questa refrattarietà al reale e al concreto è il principale connotato della modernità decadente. Scrive Levavasseur “questa situazione ricorda quella della fine del mondo sovietico, la cui ideologia marxista sembrava imporsi a tutti i popoli che controllava… sembrava che non ci fossero altri esiti possibili, se non quello del collettivismo, fino al giorno in cui il regime è crollato come un castello di carte, poiché la sua ideologia si basava su parole e concetti che non avevano più nulla a che fare con la realtà” e “La democrazia liberale potrebbe subire un giorno la stessa sorte, con la fondamentale differenza che la sua scomparsa provocherà un caos molto più consistente”. Distruggendo poi il passato comune, cancella l’ethos, che è fondamento dell’esistenza dell’ethnos. È necessario ricostruire il rapporto tra ethnos e polis, e così tra identità e sovranità “è più che mai necessario ritornare a una concezione dell’ordine politico che riconcilia nazione etnica (l’ethnos) e nazione civica (la polis)”.

In conclusione la concezione criticata della “democrazia liberale” – che a ben vedere è poco democrazia e anche poco liberale – rischia, assai più della caduta del comunismo, di far uscire non l’umanità, ma almeno i popoli europei dalla storia.

Teodoro Klitsche de la Grange