Quale razionalità? La pandemia e la filosofia, di Vincenzo Costa

Quale razionalità? La pandemia e la filosofia
La pandemia ha indotto molti filosofi, più importanti e meno importanti, a prendere posizione. Ma temo che la discussione sia divenuta l’occasione per una sorta di regolamento di conti. In questo regolamento di conti si sono sviluppate critiche che trovo mancare il bersaglio, del tutto campate in aria, in cui ci si inventa la posizione dell’altro, si operano ricostruzioni improbabili.
Io credo vi siano due posizioni da rifiutare: la prima è quella di Agamben, che non va confusa con quella di Cacciari, molto diversa. La seconda è quella del coro del “bisogna fidarsi della scienza”, un coro che oramai identifica la razionalità tout court con la fede nella scienza (da non confondere con la scienza, poiché la scienza è un’impresa razionale, mentre l’appello alla fede nella scienza è caratteristico dell’irrazionalismo di certe correnti filosofiche che si considerano custodi della razionalità).
Vorrei brevemente argomentare in tre passaggi:
1) Critica della posizione di Agamben
2) Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
3) Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
1. Critica della posizione di Agamben
Io non sono un esperto di Agamben, e su questo non sono del tutto sicuro di cogliere nel segno. Tuttavia, a me pare che, dal punto di vista filosofico, alla base dell’impostazione assunta da Agamben vi sia un concetto ben preciso, che merita di essere contestato. Alla sua base, non vi è Heidegger né tantomeno Hegel, come pure è stato detto. In Heidegger e Hegel vi sono tanti pericoli, passaggi da sorvegliare e di cui diffidare, ma questi vanno in direzione opposta a quella che si è voluta imputare a questi filosofi. Il pericolo che si annida in Heidegger e Hegel non è il libertarismo, ma la dissoluzione dell’individuo nello spirito oggettivo (nello Stato per dirla in maniera imprecisa ma chiara) o nell’epoca. Ricordo l’invito di Heidegger a decidersi per la propria generazione, per il destino. Ricordo le lezioni del 1934 sul Volk, sulla sua preminenza. Heidegger e Hegel non c’entrano niente. Poi ovviamente ci si può confrontare in maniera più specifica e questa cosa non la temo di certo. Testi alla mano.
Alla base delle posizioni di Agamben vi è invece, mi pare, il concetto foulcaultiano di “dispositivo disciplinare”, così come viene elaborato in Sorvegliare e punire e poi, secondo me con più chiarezza, ne Il potere psichiatrico:
«Nel sistema disciplinare non si è, secondo le circostanze, a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno o, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemernte osservati»,
dice Foucault. Il problema è che questo si estende a tutto: alla disciplina scolastica, sanitaria, manicomiale etc. Tutto diventa un dispositivo disciplinare. Tutto diventa “dispositivo di potere”, che mira a controllare i corpi, il tempo etc. A questo punto il potere è dappertutto, non esistono più questioni di razionalità, perché la razionalità stessa diventa un sistema disciplinare. E la mia critica è, molto semplicemente e rozzamente: che cosa NON è un dispositivo disciplinare?
Perché la formazione, l’alfabetizzazione, la crescita culturale del popolo invece di essere strumento di progresso diviene a questo punto “dispositivo disciplinare”.
Per la verità, Foucault, soprattutto l’ultimo Foucault che civetta con Habermas, è molto ironico, Chiarisce di non essere così matto da voler abolire l’istituzione scolastica. Ma semplicemente che bisogna avere coscienza del suo potenziale di “dispositivo disciplinare”.
Questo tema dilaga invece in Agamben, dove tutto è dispositivo disciplinare, e pare che Nancy abbia raccontato che Agamben gli avesse raccomandato di non farsi operare al cuore. Ovviamente Nancy sarebbe morto. Ovunque Agamben vede dispositivi disciplinari, e così si priva della possibilità di distinguere cose diverse, cioè tutela della salute da dittatura sanitaria, e chiaramente il lockdown prima e il vaccino dopo verranno visti come dispositivi disciplinari, per cosi dire a priori.
Questa dunque la radice, credo, e detto alla buona, mentre non c’entra niente Heidegger, Hegel, o Derrida, che peraltro attacca in maniera feroce Agamben ne La bestia e il sovrano. E solitamente Derrida è delicato nelle critiche.
Posizione del tutto diversa quella di Cacciari, autore con altra base culturale, più preoccupato del funzionamento della legge, di quello che può succedere quando questa viene meno e si sviluppa l’eccesso, la tracotanza. Tema che non trascurerei, poiché di tracotanza (e spocchia) se ne vede molta in giro.
Ecco, di questa idea di dispositivo disciplinare bisogna liberarsi, perché effettivamente impedisce di confrontarsi con la scienza, che ovviamente viene immediatamente ricondotta a dispositivo di manipolazione e controllo, mentre la scienza è anche e soprattutto uno strumento adattivo per sovravvivere in un ambiente che cambia.
2. Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
La pandemia poteva essere una grande occasione per sviluppare la divulgazione scientifica e la crescita culturale del paese. Ci si poteva immaginare programmi televisivi che spiegassero la differenza tra un virus e un batterio, un virus a dna e a rna, che cosa è un rna, come funziona un dna, quali parti codificano e quali no. Ci si poteva aspettare che fosse un’occasione per avvicinare a scuola gli studenti alla scienza, a partire da un’urgenza. Niente di tutto questo. Tutto si è risolto in una sfilata di cialtroni che hanno sbagliato tutto dall’inizio alla fine: il virus è una semplice influenza, poi lo stesso competente: “non uscite di casa che morite”. Poi: la comunità scientifica assicura, con evidenze assolute, che il virus è naturale, lo mostra la sequenziazione. Ora, la stessa comunità scientifica ci dice: “certamente uscito da un laboratorio”. Come ci si può fidare? Chiaro che emergono problemi di legittimazione del sapere.
Ora il complottismo è una brutta bestia, ma bisogna farne di strada per diventare così coglioni da considerare la scienza del tutto priva di rapporto con il potere e con il profitto. Bisogna seppellire almeno un secolo di ricerca scientifica sociologica, mandare in soffitta Habermas, la sociologica dalla conoscenza, il nesso tra conoscenza e interesse. Tutte analisi fallibili, per carità, ma che ci hanno insegnato uno spirito critico verso la scienza. Spirito critico che non rifiuta la scienza, ma anzi la protegge e ne tutela la legittimazione.
Poi, si continua a dire: bisogna fidarsi dei competenti, solo loro devono parlare. Dunque, solo i medici (e quali medici) decidono per il mio corpo e la mia salute, mentre io sono espropriato da ogni decisione che riguarda proprio il mio corpo e la mia salute. Solo i competenti decidono le scelte di politica economica, perché la ggggente non capisce niente. Che poi alla fine il competente è tal Marattin, che manco due lire gli affiderei.
Ma allora, se tutto deve essere deciso dai competenti, la democrazia a che cosa serve? Che cosa rimane della democrazia? Oltre che di calcio, c’è qualcosa di cui l’opinione pubblica può discutere? Che senso ha per voi la sfera pubblica e l’opinione pubblica, che si vede espropriata di ogni terreno di discussione?
Peraltro, esiste un’ampia letteratura, a partire da Max Weber sino allo Habermas della teoria dell’agire comunicativo, che ha ipotizzato che la scienza può indicarci quali mezzi usare per raggiungere un certo scopo. MA NON Può INDICARE QUALI SCOPI SIA DESIDERABILE PERSEGUIRE. Questo significa che accanto alla razionalità scientifica (strumentale, usando un vecchio linguaggio) vi è una razionalità comunicativa, che ha strutture e risorse razionali differenti.
Tutto questo viene spazzato via con un colpo di spugna dal detto: “fidati dei competenti”, “come osi parlare, lurido parvenu”? Viene spazzata via una discussione di secoli, che temo oramai si conosca poco, e con essa il concetto stesso di democrazia. Si passa, è stato opportunamente notato da un caro amico, alla tecnocrazia.
E tutto ciò indica anche una regressione del concetto stesso di liberalismo. Per un liberale come John Stuart Mill l’appello alla fede nella scienza sarebbe suonato come una bestemmia, e lo stesso per un’intera tradizione filosofica che pure ha costruito i pilastri della filosofia della scienza contemporanea. Mi chiedo che ne avrebbe detto Schlick, ucciso da un nazista se la mia memoria non mi tradisce. Emerge invece ora un liberalismo solidale con il totalitarismo, che niente ha a che fare con la tradizione liberale classica.
Al posto di una teoria critica, che sorvegli il discorso del potere (questo è Amartya Sen e Rawls, non Foucault), emerge ora una teoria critica del tutto solidale con i discorsi di potere. La nuova “teoria critica” (o critical Thinking) non mira a mettere in luce le contraddizione del sistema, i meccanismi di oppressione (e ce ne sono tanti), non sviluppa un discorso che smaschera il potere: sviluppa un discorso contro la ggggente, contro la loro ignoranza, per mostrare che chi si oppone, chi protesta, è a priori uno scemo, uno spostato, un terrapiattista, uno che a malapena sa dire sgrunt sgrunt. E a questo punto, davvero, contraddicendo me stesso (ma mica tanto), davvero questa teoria critica che mira a produrre la spirale del silenzio, la colpa, l’ammutolire del dissenso, è un dispositivo disciplinare. E’ il totalitarismo, e deve arretrare, perché gli italiani sono ancora capaci di difendere la loro libertà.
3. Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
Ma su questo basta. Passiamo a una parte positiva, che trarrei non dai filosofi, ma da Ulrich Beck, in particolare dalla sua distinzione tra rischio e catastrofe. Qui voglio essere davvero breve, limitarmi a indicare un punto soltanto, ma sperando che Beck venga letto un poco di più:
“Rischio non è sinonimo di catastrofe. Rischio significa l’anticipazione della catastrofe. I rischi riguardano la possibilità di eventi e sviluppi futuri, rendono presente una condizione del mondo che non c’è ancora….. I rischi sono sempre eventi futuri che forse ci attendono, che ci minacciano”
L’anticipazione della catastrofe, nota Beck, “stimola a reinventare il politico”.
Beck pensa a molte cose. Qui potremmo piegare il suo ragionamento in maniera molto semplice: occorre un principio responsabilità, precauzione, un’anticipazione della catastrofe.
Nessuno può dire che cosa i vaccini produrranno tra 10 o 30 anni. Mettiamo che siano vaccinati 54 milioni di abitanti. Mettiamo che, con tutta probabilità, i vaccini siano innocui, non producano danni futuri. Tuttavia, può accadere che li producano. Anticipazione del rischio significa:
se (dico “se”) il 10% della popolazione sviluppasse problemi (cardiaci, tumori), quale sistema sanitario al mondo potrebbe essere in grado di gestire una cosa simile?
Che cosa significherebbe? Questa è l’anticipazione della catastrofe, questo è il principio responsabilità.
Chi si salverebbe? Chi verrebbe curato? E chi non lo sarebbe? Emerge un problema di classe, di differenze di ricchezza.
Mettiamo che il danno tocchi il 5% degli attuali adolescenti, con una malattia invalidante. Quale sistema sanitario e previdenziale potrebbe sostenere un costo simile? In che mondo ci troveremmo a vivere? Chi vivrebbe e chi morirebbe?
Abbiamo, nel caso questi problemi si presentassero, gli strumenti per gestire questa situazione?
Certo, ora vogliamo rischiare, perché il PIL deve salire, e questo ci serve per avere i finanziamenti europei, che sto iniziando a maledire. Si corre un rischio, va bene, corriamolo. Ma vogliamo almeno porci il problema di anticipare la catastrofe, anche se qualcuno è certo (nella sua razionalità) che non si verificherà?
E riempire di soldi (si vedano gli aumenti del costo dei vaccini) le case produttrici dei vaccini, che così saranno le uniche a poter fare ricerca, ci mette in condizioni di indipendenza o è un altro limite alla sovranità degli stati, e alle istituzioni democratiche. Che cosa prepara per il futuro questo spostamento di denaro pubblico?
Ecco, io penso che abbiamo bisogno di un altro tipo di razionalità rispetto a quella che si sta facendo strada. Quella che si sta facendo strada è solo un metodo di dissuasione, di emarginazione, per silenziare, ma che non ci aiuta minimamente a comprendere che cosa sta accadendo e come affrontarlo.
A questo punto credo di essermi inimicato provax e novax, continentali e analitici. Pazienza, a volte bisogna andare da soli, e può non essere spiacevole.