Funzionarismo, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA PRELIMINARE

L’articolo che segue è l’introduzione al mio saggio “Funzionarismo” pubblicato nel 2013.

Il virus ha suscitato un dibattito sui mali della burocrazia, in specie di quella italiana e sui rimedi.

Affinché il tutto non si riduca, dopo le consuete invettive a San Burocrazio e Kirieleison vari, nel solito topolino, il tutto può servire a ricordare quanto il problema sia non il roditore ma la montagna, riconosciuta come tale dai più attenti pensatori dello Stato e della politica moderni, come dai politici che hanno fondato l’uno (e l’altra). Lo Stato borghese è, per sua natura, anti-burocratico; solo che della burocrazia non può fare a meno, come qualsiasi forma moderna di Stato (e di potere). Ne deriva che all’uopo necessita di adeguati limiti e contro-poteri. Che non possono ridursi a una semplificazione amministrativa e alla eliminazione delle procedure e controlli, che nell’emergenza è opportuna, ma nella normalità può costituire un cattivo affare. Proporre misure o poco utili o troppo blande vuol dire, in definitiva, conservare la sostanza dall’esistente: proprio quello di cui non si sente alcun bisogno.

Introduzione

Nei primi decenni del secolo scorso il termine “funzionarismo” era impiegato, almeno nelle opere di tre intellettuali di spicco dell’epoca (ma non solo da questi), non riconducibili ai medesimi interessi culturali. Un giurista, Antonio Salandra; un economista, Giustino Fortunato; un pensatore politico, Antonio Gramsci. Anche se il significato del termine usato presentava delle differenze tra l’uno e l’altro.

Per Salandra funzionarismo denotava la situazione dell’ordinamento dello Stato moderno per cui s’incrementava la funzione amministrativa[1] e, correlativamente, il personale addetto; ciò era provato dai dati quantitativi costituiti dall’aumento delle spese e del numero degli impiegati per cui questi “dànno un’adeguata misura del bisogno sempre crescente di mezzi materiali e personali, che l’amministrazione risente per conseguimento dei suoi fini. La continua progressione dei bilanci e l’estensione di quello che fu detto funzionarismo non possono in alcun modo essere disconosciute”.

Funzionarismo significa così un incremento del ruolo e del potere della burocrazia perché il potere pubblico esercita le funzioni (crescenti) a mezzo di impiegati specializzati. Apparentemente il significato che ne da Salandra è il più “neutro” dei tre; ma subito dopo, da buon liberale-conservatore, aggiunge[2] una considerazione spesso ripetuta dai teorici dello Stato borghese.

Sociologico (e anche più “di valore”) il giudizio di Fortunato. Questi ricorda come vi sia un nesso indissolubile tra proletariato intellettuale e funzionarismo[3] che porta alla proliferazione d’impieghi pubblici di dubbia (o inesistente) utilità. Vede poi distintamente la contrapposizione che così è generata, tra burocrati e rappresentanza (e sovranità) popolare. Il socialismo trova presa facile tra i dipendenti pubblici. Vi aveva attecchito facilmente perché «smarrito assai presto il contenuto etico, non indugiò a coltivare l’egoismo di categoria e a favorire i particolari sfruttamenti della piccola borghesia dominante, sempre più desiderosa di accrescere i pubblici uffici. sostituendo vaste imprese pubbliche, autoritarie e gerarchiche, alla libera concorrenza dei cittadini»;[4] questa burocrazia parassitaria «non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, – la macchina per la macchina».

Prevedeva che, combinandosi nell’ordinamento degli Stati moderni, rapporto gerarchico (cioè di comando-obbedienza) e divisione del lavoro, si sarebbe concretizzato un assetto policratico dove «all’antico feudalismo “a base locale” terrebbe dietro un feudalismo “a base funzionale”, – tanto più prossimo e sicuro quanto più presto e meglio praticato dagli addetti a’ pubblici uffizi e dagli agenti delle imprese di Stato. che “la fatale evoluzione economica”, avverte il Turati, costringerà ad essere, piaccia o non, i primi cittadini della città futura».[5]

Tale tendenza si sta già realizzando, sosteneva Fortunato, perché la burocrazia è riuscita a «sottrarre alla concorrenza privata il maggior numero di intraprese, assumendone direttamente l’esercizio: ossia, la tendenza al dominio universale della burocrazia, – il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica».

Gramsci avverte la contraddizione dello Stato liberale che da un lato costruisce uno Stato “rappresentativo” che trova il proprio punto centrale nell’ “autonomia” della società civile garantita dalla divisione dei poteri (in primo luogo) e nella sovranità popolare; all’opposto nell’espansione dei poteri burocratici.[6]

Dall’altro l’espressione funzionarismo connota in Gramsci – nella scia, sul punto, di Michels – la prevalenza all’interno del sindacato e del partito socialista del potere dei funzionari e della conseguente weltanschauung riformistica e burocratica, in antitesi con lo spirito rivoluzionario. Al posto della dedizione e dello slancio del militante, teso a realizzare, attraverso la fase della dittatura del proletariato, la società senza classi e l’uomo nuovo , subentra il calcolo e la trattativa, la “pratica quotidiana” del funzionario. Contraria, di conseguenza, allo “spirito” rivoluzionario, onde il termine acquista un significato negativo, ovviamente (in larga parte) diverso da quello che ha in Giustino Fortunato. In parte (grande), ma non in tutto. Infatti: nello spirito liberale, non solo in quello rivoluzionario-giacobino, c’è una forte connotazione anti-burocratica. Tocqueville, ad esempio, scrive in più passi contro la “garanzia amministrativa” dei funzionari.[7]

E la famosa descrizione che fa del “dispotismo”, del potere paternalistico ha quali presupposti, da un canto la presenza crescente del potere burocratico, dall’altro l’assenza (il venir meno) dello spirito civico dei cittadini.[8]

Le previsioni e le valutazioni di Tocqueville hanno molti punti di contatto con quelle di Max Weber: «dove domina il moderno funzionario specializzato con istruzione specifica, il suo potere è senz’altro indistruttibile, poiché l’intera organizzazione dal più elementare approvvigionamento della vita riposa sulla sua prestazione»; ma il pericolo è evidente[9]; l’organizzazione burocratica è “spirito rappreso”[10] «In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari.»[11]

  1. La percezione del burocrate e della burocrazia era, nel pensiero dei politici “costruttori” dello Stato borghese, negativa.

Ciò perché il perseguimento dell’interesse generale, cioè la ragione d’essere dell’istituzione politica (e “generale”), era visto come negativamente condizionato dagli interessi particolari, sia dei governanti che dei governati. Onde il problema della giusta costituzione e delle rette leggi, consisteva, sotto il profilo organizzativo, in misura non secondaria sul come modellare l’una e gli altri di guisa che gli interessi privati e settoriali, di cui sono portatori  sia i governanti che i governati, non prevalgano sull’interesse pubblico. Nel The federalist il problema è posto chiaramente. Il saggio n. 10 si interroga su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse generale su quelli particolari. Essendo impossibile rimuover la causa di ciò (individuata nel pluralismo e nella disuguaglianza di proprietà e condizioni) si poteva solo, con opportune disposizioni e accorgimenti costituzionali, controllarne almeno gli effetti, di guisa da non consentire o rendere difficile agli interessi di parte (anche ed anzi soprattutto quelli espressi dai governanti) prevalere su quello generale. Non vi si legge un richiamo esplicito alla burocrazia; ma dato il sistema pubblico americano all’epoca verosimilmente solo per lo scarso sviluppo della stessa.

Che invece si trova nei rivoluzionari francesi, che avevano a che fare con la monarchia “burocratica” dell’ancien régime.

Ad esempio nel progetto di dichiarazione dei diritti proposto da Robespierre alla Convenzione è interessante, ai nostri fini, soprattutto l’art. 25 in cui si proclama: «In ogni Stato la legge deve soprattutto difendere la libertà pubblica ed individuale contro l’abuso dell’autorità di coloro che governano. Ogni istituzione che non consideri il popolo come buono e “il magistrato come corruttibile è difettosa”» (com’è noto, tale espressione non fu inserita nella dichiarazione del 1793). Funzione della legge è quindi difendere la libertà dell’abuso di governanti e funzionari i quali si presumono corruttibili addirittura per esplicita disposizione costituzionale (peraltro mai andata in vigore).

Anche se, come noto, proprio con la rivoluzione francese, e a motivo anche della diffidenza verso il potere giudiziario, ed in omaggio al principio di distinzione dei poteri (o meglio ad una delle di esso “interpretazioni”) furono posti gravi limiti all’attività giudiziaria nei confronti di quella amministrativa e dei funzionari pubblici.[12]

E nel discorso pronunziato alla Convenzione il 10 maggio 1793, Robespierre disse: «Mai i mali della società provengono dal popolo, bensì dal governo. E non può essere che così. L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo.»[13]

Anche Saint-just nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II (10 ottobre 1973) scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; chiunque abbia una carica non fa niente personalmente e prende dei collaboratori subordinati; il primo collaboratore ha a sua volta aiutanti, e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano. Dovete diminuire dovunque il numero degli impiegati, affinché i capi lavorino e pensino. Il ministero è un mondo di carta… Gli uffici  hanno preso il posto della monarchia; il demone dello scrivere ci intralcia, e non si governa per niente. Ci sono pochi uomini alla testa delle nostre amministrazioni che siano di larghe vedute e in buona fede: il servizio pubblico, come è esercitato, non è virtù, è mestiere»; e nel successivo rapporto del 23 ventoso dell’anno II (13 marzo 1794) rincara «C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari… Tutti vogliono governare, nessuno vuole essere cittadino. Dov’è dunque la comunità politica? Essa è quasi usurpata dai funzionari.»[14]

É inutile ripetere qui le considerazioni di tutti coloro che, politici, scienziati della politica, giuristi, economisti, sociologi sono ritornati sull’opposizione tra interesse generale e interesse del funzionario, dopo le rivoluzioni francese e americana.

  1. Tuttavia un’eccezione occorre farla per Marx. Il quale contestava quanto sosteneva Hegel nei paragrafi 287-297 dei Grundlinien, dove questi (tra l’altro) scrive: «Mantenere stabili l’interesse generale dello Stato e la legalità in tutti questi diritti particolari, e ricondurre questi ultimi a quell’interesse generale, comporta una cura da parte di delegati del potere governativo, di funzionari statuali esecutivi e le più alte magistrature deliberanti costituite collegialmente, le quali convergono nei vertici supremi che sono a contatto col monarca.»[15]

E questo perché, secondo Marx, nella prassi burocratica avveniva  proprio l’opposto. Infatti notava che in Hegel «Poiché l’universale come tale è fatto per sé sussistente esso  è immediatamente confuso con l’empirica esistenza, e il limitato è immantinente preso, in guisa acritica, per l’espressione dell’idea.»[16] Cioè Hegel pensa, secondo Marx, che dato che i burocrati dovrebbero agire così (secondo la razionalità dello Stato), allora avrebbero agito così. Di fatto è il contrario: la burocrazia, scrive Marx, confonde gli scopi dello Stato con quelli burocratici «Poiché la burocrazia è, secondo la sua essenza, lo “Stato come formalismo”, essa lo è anche secondo il suo scopo. Il reale scopo dello Stato appare dunque alla burocrazia come uno scopo contro lo Stato. Lo spirito della burocrazia è lo  “spirito formale dello Stato”. Essa fa, dunque, dello “spirito formale dello Stato”, o reale aspiritualità dello Stato, un imperativo categorico. La burocrazia si pretende ultimo scopo dello Stato. Poiché la burocrazia fa dei suoi scopi “formali” il suo contenuto, essa viene ovunque a conflitto con gli scopi “reali”. Essa è dunque costretta a spacciare il formale per il contenuto e il contenuto per il formale. Gli scopi dello Stato si mutano in scopi burocratici e gli scopi burocratici in scopi statali.»[17]

Anzi il perseguimento da parte dei burocrati del proprio tornaconto fa si che «Nella burocrazia l’identità dell’interesse statale e del privato scopo particolare è posta in modo che l’interesse statale diventa un particolare scopo privato di fronte agli altri scopi privati, mentre il superamento della burocrazia è possibile solo a patto che l’interesse generale diventi realmente, e non come in Hegel meramente nel pensiero, nell’astrazione, interesse particolare, il che è possibile soltanto se il particolare interesse diventa realmente l’interesse generale. Hegel parte da un’opposizione irreale e giunge perciò soltanto a una identità immaginaria, essa medesima per verità contraddittoria. Una siffatta identità è la burocrazia.»[18] La burocrazia non è pertanto idonea a far superare l’opposizione tra Stato e società civile[19]; ciò perché «La “polizia” e i “tribunali” e l’ “amministrazione” non sono deputati della stessa società civile, che in essi e per essi amministra il suo proprio generale interesse, bensì delegati dello Stato per amministrare lo Stato contro la società civile.»[20] Non risolve l’opposizione, ma serve a gestirla: senza quella non avrebbe scopo (né senso).

L’opposizione tra Hegel e Marx si spiega da un lato col fatto che Hegel giustifica la razionalità dello Stato (assoluto) secondo quel che dovrebb’essere (ma non è detto che all’organizzazione migliore corrispondano comportamenti corrispondenti) mentre Marx la contesta facendo leva sulla “patologia fattuale” dei comportamenti burocratici.

Passando all’epoca contemporanea occorre, sul tema, ricordare i contributi della c.d. scuola di “public choice”,[21] su cui torniamo in seguito.

Anche gli studiosi di public choice partono dallo stesso assunto, più volte condiviso: contestano cioè che l’Amministrazione operi per il bene comune, più o meno oggettivato nella norma. Di questo asserto, sostengono, non può dirsi se sia vero o non vero, senza procedere a un controllo dei presupposti di validità e degli effetti reali: esso va verificato nei fatti.

Pretendere invece che quanto si deve (o dovrebbe) fare corrisponda a quanto poi si fa è invece assurdo ed illogico, perché consiste (analizzandolo logicamente) essenzialmente nel trasformare un asserto deontico in un’asserzione fattuale e nel sostituire aspirazioni a realtà.

Analizzando i comportamenti degli operatori pubblici (tra cui la burocrazia), questa si comporta di guisa da massimizzare l’interesse proprio e non quello generale; il perché della crescita inesorabile degli organici, degli uffici e delle spese pubbliche, al di là delle effettive necessità da soddisfare è dovuto, secondo gli studiosi di “public choice”, all’aumento di potere che questo rappresenta per i pubblici funzionari. Il burocrate, al pari del politico, misura la propria capacità d’incidenza e la propria rilevanza sociale attraverso il potere che esercita.

Questa breve sintesi storica – che potrebb’essere (enormemente) accresciuta con tutto ciò che è stato (fatto e) scritto sulla falsariga degli autori (e dei documenti) citati – prova che:

  1. a) l’ideologia borghese dello Stato è (anche) contrapposta al potere amministrativo, e soprattutto a quello burocratico;
  2. b) che nella burocrazia è stato visto un corpo estraneo o comunque non omogeneo allo Stato borghese, e il relativo atteggiamento è stato ispirato da avversione e diffidenza;
  3. c) che comunque della burocrazia qualunque Stato non può fare a meno; onde il (principale) modo di difendersi (dal potere burocratico – e dal suo abuso) è di sottoporla a rappresentanti politici e di creare dei contropoteri e dei limiti;
  4. d) dall’altro lato che la burocrazia ha prodotto una propria Weltanchauung, un proprio modo di vedere lo Stato e il potere;
  5. e) che il potere burocratico non è in grado di creare una propria legittimità ma solo di rafforzare (o indebolire) quella esistente;
  6. f) che la burocrazia è reclutata prevalentemente in uno strato sociale, spesso non corrispondente (o corrispondente solo in parte) con quello da cui è tratta la classe politica (in senso stretto).

 

[1] «Quelle funzioni degli Stati moderni, che, perseguendo particolarmente il fine di benessere e di coltura, hanno più rigorosamente il nome di amministrative, vanno d’anno in anno crescendo di numero, di intensità e di diffusione […]» v. La giustizia amministrativa nei governi liberi, Utet, Torino 1904, pp. 8 ss.

[2] «L’autorità, se anche preordinata a difesa e integrazione della libertà, non si esercita senza diminuzione della libertà stessa. E quanto più essa si divulga, quanto maggiore cioè è il numero e di conseguenza inferiore la qualità degli individui che la esercitano, tanto più grave e frequente è il pericolo ch’essa ecceda, e che non sia raffrenata la naturale tendenza di coloro che ne dispongono ad abusarne e a disviarla a fini personali», op. loc. cit.

[3] «Proporzionalmente così alla popolazione come ai pubblici servizi, lo Stato italiano annovera il maggior numero d’impiegati, specialmente di quelli che hanno mansioni esecutive, triste espressione del nesso indissolubile  che è in Italia fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, due escrescenze parassitarie di un organismo debole e malato». I servizi pubblici e la XXII legislatura ne Il mezzogiorno e lo Stato italiano Laterza,  Bari 1911 p. 417.

[4] Op. cit.  p. 423.

[5] Op. cit. p. 424 e prosegue «Vassalli un tempo de’ baroni, cui il re aveva delegato i suoi poteri, domani saremmo sudditi di tutte le organizzazioni, le quali esercitino attribuzioni di Stato, e come una volta il re trattava con i baroni, così è facile il Parlamento scenda a patti con i rappresentanti di quelle, nominati, se occorre, con mandato imperativo. Si avvererebbe, in conclusione, l’arguto detto del Tocqueville, che la storia umana rassomigli ad una grande pinacoteca, in cui pochi sono i quadri originali e molte le copie».

[6] «Tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri, e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente, che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso della sua dissoluzione». Note sul Machiavelli Editori Riuniti, Roma 1971 p. 119 v. anche p. 408.

[7] «Tra le nove o dieci costituzioni che sono state emanate in perpetuo in Francia da sessant’anni in poi, se ne trova una nella quale è detto espressamente che nessun agente amministrativo può essere citato davanti ai tribunali ordinari senza autorizzazione. L’articolo parve tanto bene immaginato che, pur abbattendo la costituzione di cui faceva parte, si ebbe cura di tirarlo fuori dalle rovine, e da allora è sempre stato tenuto con cura al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori usano ancora chiamare il privilegio loro accordato da questo articolo una delle grandi conquiste dell’’89; ma in ciò sbagliano, perché, sotto l’antica monarchia, il Governo non aveva meno cura che ai nostri giorni di evitare ai funzionari il fastidio di doversi confessare alla giustizia come semplici cittadini. La sola differenza fondamentale fra le due epoche è questa: prima della Rivoluzione, il governo poteva coprire i propri agenti solo ricorrendo a mezzi illegali e arbitrari, mentre in seguito ha potuto legalmente lasciare che violassero la legge» v. L’ancien régime et la revolution, L’antico regime e la rivoluzione, trad. di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1981, p. 94.

[8] «Quando penso alle modeste passioni degli uomini di adesso, alla mitezza dei loro costumi, alla loro apertura mentale, alla purezza della loro religione, all’umanità della loro morale, alle loro abitudini laboriose e sistematiche, al ritegno che dimostrano quasi tutti nel vizio come nella virtù, non ho tanto paura che incontrino nei loro capi dei tiranni quanto dei tutori… Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. É assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite… Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole essere l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?» De la démocratie en Amerique, La democrazia in America trad. it. a cura di N. Matteucci, Utet,  Torino 1968, p. 811-812.

[9] «Le forme di vita degli impiegati e dei lavoratori dell’amministrazione statale delle miniere e delle ferrovie prussiane non sono in alcun modo sensibilmente diverse da quelle delle grandi imprese capitalistiche private. Esse sono tuttavia meno libere, perché ogni lotta di potere contro una burocrazia statale è senza speranze, e poiché non può essere invocata alcuna istanza che abbia in linea di principio interessi contrari ad essa e alla sua potenza – come invece è possibile fare nei confronti dell’economia privata. Tutta la differenza si ridurrebbe a questo: se il capitalismo privato venisse eliminato, la burocrazia statale dominerebbe da sola. La burocrazia privata e la burocrazia pubblica, che attualmente operano l’una accanto all’altra e, per quanto è possibile, l’una di fronte all’altra – tenendosi quindi pur sempre in certa misura sotto un controllo reciproco – si troverebbero fuse in un’unica gerarchia, ma in forma senza confronto più razionale e perciò più ineluttabile» v. Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it.  di F. Casabianca e G. Giordano, Vol. V, Comunità, Milano 1980, p. 501.

[10] Op. cit., p. 501.

[11] Op. loc. cit.

[12] V. art. 13, Titolo I, L. 16-24 agosto 1790, cit. da G. Colzi in Commentario sistematico alla Costituzione italiana (diretto da P. Calamandrei e A. Levi) G. Barbera ed., Firenze 1950, p. 251.

[13] E proseguiva: «Il governo è istituito per far rispettare la volontà generale; ma gli uomini che governano hanno una volontà individuale, e questa cerca sempre di dominare. Se essi impiegano in questo senso la forza pubblica, il governo non è che il flagello della libertà. Dovete concludere, quindi, che principale obiettivo di ogni Costituzione deve essere difendere la libertà pubblica e quella individuale contro lo stesso governo… Hanno proclamato con grande solennità la sovranità del popolo e intanto l’hanno incatenato; e mentre riconoscevano che i magistrati sono i suoi mandatari, li hanno trattati come i suoi dominatori e i suoi idoli. Tutti sono stati d’accordo nel presupporre il popolo insensato e ribelle, e i funzionari pubblici essenzialmente saggi e virtuosi», I Giacobini, Einaudi-Mondadori, Firenze 1978, p. 40.

[14] v. I Giacobini, Einaudi-Mondadori, Firenze 1978, pp. 81 e 87.

[15] Grundlinien das Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Rusconi, Roma (rist. 1980).

[16] v. K. Marx Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 63-64.

[17] E prosegue: «In quanto al burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti un far carriera, in primo luogo egli considera la vita reale come materiale, ché lo spirito di questa vita ha la sua separata esistenza nella burocrazia. Questa deve dunque pervenire a render la vita quanto possibile materiale. In secondo luogo, la vita è per lui, cioè in quanto essa diventa oggetto dell’attività burocratica, vita materiale, ché il suo spirito gli è imposto, il suo scopo è fuori di lui, la sua esistenza è l’esistenza del bureau. Lo Stato esiste ormai solo come vari immobili spiriti burocratici, il cui rapporto è subordinazione e passiva obbedienza», op. cit., pp. 68-69 (i corsivi sono  nostri).

[18] Op. cit., p. 70.

[19] Con una terminologia – e una connotazione – diversa, ma con punti di contatto tale opposizione viene ripresa da Hauriou nella distinzione tra istituzione e società (comunità) e diritti che da queste sono espressi.

[20] Op. cit., p. 72.

[21] Sulla Scuola di public choice, v. «Quaderni della fondazione Einaudi», 4, 1979, Roma, 1979; H. Lepage, Domani il capitalismo, trad. it. di S. Bencini e S. Carruba, Editrice L’Opinione, Roma, 1979; v. anche l’interessante rivista diretta da D. Da Empoli «Journal of public finance and public choice» (Gangemi ed.), Roma.