Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_2a parte, di Giuseppe Gagliano

Soggetti e tipologie della guerra economica

Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione