La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange
Agostino Carrino, La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti., Mimesis 2019, pp. 419, € 28,00.
Si apre con questo saggio interessante ed originale di Carrino una nuova collana di testi, che dal primo, si rivela stimolante e anticonformista.
Oggetto ne è la progressiva moralizzazione del diritto costituzionale, ad opera di giuristi “progressisti” che, attraverso un’interpretazione costituzionale per “principi” o per “tavole di valori” più che per norme hanno smarrito il senso e la funzione della costituzione.
Vediamo come. Scrive l’autore che “I problemi connessi con la crisi attuale del costituzionalismo e della forma classica dello Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri, il principio di legalità ecc., nascono in buona parte, specialmente per quanto riguarda esiti discutibili per la democrazia quali l’avvento dello Stato dei giudici sulla base di una ideologia giuridica ‘principialista’, dall’aver ridotto la costituzione a forma o norma (Sollen), tralasciando la sua dimensione storico-esistenziale, da un lato, e quella di decisione politica, dall’altro”. Tale concezione ha aperto la trasformazione dello Stato di diritto “classico” in Stato dei giudici (Justizstaat). In effetti aver “ridotto la costituzione esclusivamente a norma – di contro alla posizione che la riduce a mera decisione – significa non solo aver reso fragile la costituzione, ma anche aver sottratto la decisione fondamentale al soggetto sovrano, il popolo, col rischio sempre più concreto di fare della carta fondamentale il terreno esclusivo di giudizio di un ceto elitario e sottratto ad ogni controllo, la casta dei giudici, in particolare delle giurisdizioni superiori e specificamente le corti costituzionali”.
Peraltro così rifiutando il primato della politica “La volontà politica viene delegittimata in nome della autorità della sentenza giudiziaria, che si basa su un elemento ‘superiore’, non più la volontà divina, la legge naturale di Tommaso o la ragione illuminista, ma la capacità del giudice di ‘giudicare’ sulla base comunque di una legge”. Inoltre, essendo un’interpretazione fondata su “principi” e non su norme “si è trasformata in un’attività che si è gradualmente scissa dalla ‘law of the land’, per un verso, e dalla decisione politica, dall’altro, per scivolare in un potere che si auto-legittima in un presunto obbligo di controllo delle leggi sulla base di principi che a nostro avviso sono di fatto più funzionali ad una ideologia che ad una concezione giuridica”. Il potere delle Corti con l’interpretazione per principi diviene “uno strumento formidabile di trasferimento di potere dalla politica e dalle sue forme classiche (gruppi, sindacati, partiti, ideologie) verso la finanza e le corti”; con ciò è il mezzo della globalizzazione “non solo a livello nazionale, ma soprattutto a livello sovra-e internazionale, dove le reti delle corti sono diventare l’altra faccia delle reti finanziarie e degli intrecci bancari”.
Ma chi sono i “giusmoralisti” artefici di tale trasformazione? Scrive Carrino sulla decadenza dello Stato (e del pensiero) moderno “Non penso certo di attribuire la responsabilità di questa decadenza, che è una decadenza di civiltà, ad un piccolo ceto di persone, più o meno sconosciute al grande pubblico quali sono i giuristi…ma i cosiddetti ‘teorici’ del pluralismo sociale, che fingono di descrivere un dato di disgregazione, sono in realtà agenti del processo di disgregazione, in nome, non a caso, di un cosiddetto ‘pluralismo normativo’, che poi altro non sarebbe che costringere un popolo ad essere quanto più possibile ‘plurale’ (ovviamente secondo i principi scoperti da qualcuno che ritiene di conoscerli meglio di altri)”. Data la facilità che un’interpretazione per “principi” dia luogo a decisioni contrastanti “Non si capisce se è l’accettazione rassegnata della mancanza generalizzata di una capacità di decisione della politica o l’elogio compiaciuto della confusione e del tot capita tot sententiae”.
Il che realizza un “imponente moralismo travestito per astuzia nella forma del diritto”. Il libro si conclude con una speranza nel ritorno alla centralità dello Stato “Siamo in un’epoca di crisi, di decadenza e di transizione, nonostante i progressi tecnologici e scientifici…credo però che dalla transizione si potrà uscire, ma di fatto si sarà già usciti quando se ne parlerà con il ritorno alla centralità dello Stato… penso tuttavia che la civiltà europea meriti ancora e anzi abbia ancora bisogno del Kulturstaat, dello Stato di cultura, quale si evince dal pensiero – a mio avviso ancora vivo – del vecchio Hegel”.
Il saggio è così ricco di spunti, osservazioni, critiche che è impossibile al recensore sintetizzare tale dovizia di argomenti. Il neo-costituzionalismo, già efficacemente criticato da un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, ne esce demolito.
Una considerazione finale del recensore che pare quella che meglio sintetizza la differenza tra concezione “classica” della costituzione e quella dei “giusmoralisti”.
Per i primi la costituzione è un essere prima che un dover essere. L’esistenza prevale sulla normatività. L’essenziale della Costituzione è di assicurare l’esistenza e la capacità l’azione politica dell’istituzione – Stato e della comunità che si da forma.
Principi, tavole di valori, e norme sono comunque secondari all’esistenza politicamente indipendente. Come dicevano i romani salus rei publicae suprema lex; ogni diritto cede di fronte alla necessità dell’esistenza politica di un popolo.
Tra i tanti e tra i primi l’aveva scritto Bonald due secoli orsono “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere…dobbiamo a questa così solida costituzione della monarchia la forza di resistenza e d’espansione della Francia… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”.
Il criterio per capire se una costituzione, secondo il pensatore controrivoluzionario, è buona è che “Un’istituzione non è buona perché è remota: ma essa è durevole, o piuttosto perpetua (perché cos’è che gli uomini – che vivono un giorno – chiamano durevole?) quando è buona o in conseguenza dell’esser buona”. Non è la conformità a principi, norme ecc. ecc., il criterio di validità, ma quello di durare nella storia.
Bisogna leggere questo libro, colmo di spunti, contenuti, tutti sorretti da una dottrina ricca e politicamente scorretta. Anche perché tale, non aspettatevi che l’autore sia inviato nei talk-show e nelle altre liturgie del conformismo culturale, riservati ai giuristi di regime: l’unico modo per conoscerlo è leggere il saggio, peraltro scritto in un modo scorrevole e non “specialistico”, malgrado gli argomenti trattati.
Teodoro Klitsche de la Grange