CONTRO L’ECONOMICISMO, PER UNA ANALISI STRUTTURALE, di Gianfranco La Grassa

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/contro-leconomicismo-per-una-analisi-strutturale

Ho la sensazione che spesso si confonda la polemica (giusta) contro l’economicismo con la critica, a mio avviso ingiustificata, di ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è invece la forza di teorie del tipo di quella di Marx (ma non solo di questa).
L’economicismo prende spesso la forma che Marx definì feticismo delle merci, con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo le merci, appunto) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare di economicismo quando questi ultimi vengono nascosti, in generale, da quantità definite economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie, saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento che mi sembra francamente uno dei più banali in tal senso è, ad esempio, il seguente (assai usato dal vecchio marxismo): “Nell’anno 0 l’x % della popolazione possedeva l’y % del reddito nazionale (o invece del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno 0+t lo stesso x % ne possiede l’y+z %”. Se ne trae allora la conclusione di una evidente iniquità del tipo di società che permette tale crescente maldistribuzione della ricchezza, quindi un evidente sfruttamento dei miseri da parte dei più ricchi, con il corollario che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi. E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi spaventosa con sofferenze inenarrabili per le più grandi masse). Credo francamente che Marx sia ben poco responsabile di simili rozzezze e grossolanità. Considerazioni del genere hanno la stessa valenza e profondità delle considerazioni di un individuo, che viva sempre chiuso in una stanza e pensi che l’intero mondo sia piatto come il pavimento della stessa (è quanto è accaduto all’umanità per migliaia e migliaia d’anni, ma ce ne siamo affrancati salvo che nelle analisi degli economisti degli ultimi decenni).
Ben diverso è il caso quando lo studioso dei rapporti tra uomini non si limita a trattarli alla stregua di una cena tra amici, di una riunione di condominio, di un raduno di alpini, di un incontro d’amore, di un incidente d’auto (con testimoni annessi), del ripararsi nel medesimo androne durante un nubifragio; o anche di una conferenza, di un seminario, di una serata di discussione nella sede del partito, dell’organizzazione di una manifestazione o di un attentato, ecc. Ad esempio, il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa, di rapporti sociali a grana grossa che tende a mettere in luce alcune determinazioni decisive di date società (o, in linguaggio marxista, formazioni sociali o forme di società). Va innanzitutto ricordato che, almeno per quanto riguarda la mia interpretazione, detta intelaiatura non è la riproduzione (una sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura reale in dati periodi storici (in realtà, a rigor di logica, tutto dovrebbe modificarsi in continuazione), bensì una costruzione teorica che tende a mettere ordine nel “caos” degli innumerevoli rapporti che gli individui intrattengono tra loro, cercando in definitiva di decifrare quali sembrano essere più decisivi, più influenti ai fini delle dinamiche di quella data società; si formulano così delle ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione di quest’ultima. Si tenga sempre ben presente che si tratta solo di ipotesi, la scienza non può dare certezze; se lo fa con presunzione e arroganza, non è scienza, solo imbroglio e desiderio di dominare altri uomini ignoranti con un finto sapere (questo è oggi l’atteggiamento riprovevole, oltre che ridicolo, di troppi presunti studiosi, soprattutto in campo economico e medico).
Nessuna ipotesi che metta “ordine” può tuttavia essere indicata se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti individui componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono definiti ruoli (le “caselline” della struttura ipotizzata come la più idonea al “mettere ordine” in questione), e se non si trascelgono le funzioni ritenute principali che tali ruoli sono in grado di svolgere. Da questo punto di vista, il concetto (costrutto) di “modo di produzione” intendeva trasmettere le seguenti informazioni: a) l’esistenza, appunto, di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando i quali gli agenti avrebbero formato delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) l’esistenza di funzioni cui sarebbero adibiti tali agenti delle varie classi, di alcune delle quali si può predicare il dominio e di altre l’essere dominate (anche, eventualmente, con la costruzione di una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli assetti (economici, politici, ideologici) di quella data formazione sociale che le dinamiche di riproduzione degli stessi.
In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto marxiano di “modo di produzione” sperava di ottenerne uno di particolare successo – tutti i discorsi si fanno generici, confusi, rinviano a erratici flussi di potere o ad una sorta di psicologia sociale degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale di incerta derivazione senza “base” alcuna; il tutto preparato, non a caso, da una presunta “critica dei fondamenti”, che apre la strada ad una serie di considerazioni di tipo sociologistico e/o politicistico, per nulla affatto ininteressanti o superflue, ma che certamente risentono in modo troppo forte delle preferenze e predisposizioni degli autori delle stesse. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un pregio, non un orpello fastidioso da buttare dietro le spalle; a patto, come già rilevato, di non presumere certezze definitive poiché tutto è sempre ridiscutibile. E credo non ci sia niente di male ad invitare almeno alcuni fra i giovani, con cui si dibattono i temi della (miserabile) situazione odierna della nostra società, a dedicarsi alla fatica della scienza. So che è molto impegnativo e difficile, e bisogna perderci tanto tempo, ma è l’unico modo di arrivare “più a fondo” nella critica – l’arma della critica e non la critica delle armi, ben consapevoli che talvolta quest’ultima è inevitabile – ai gruppi sociali, di vario ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti tra dominanti e dominati; anche la lotta CULTURALE contro tali gruppi verrebbe rafforzata da una rigorosa analisi delle loro funzioni. E d’altronde la stessa critica delle armi va adeguatamente preparata e valutata con tale tipo di analisi, mai in modo solo irruento e “viscerale”, che può essere soltanto la facciata per infiammare e condurre allo scontro masse d’uomini, ben sapendo che, sotto l’apparente disordine, deve sempre esserci una STRATEGIA (basata sul calcolo dei probabili rapporti di forza) molto lucida e fredda, pena il disastro e la sconfitta assicurati.
Quando, scrivendo e parlando, manifesto idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso, prendendolo per umorale; se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive dell’odierno ordine sociale, ci si renderebbe conto di quanto questa idiosincrasia – manifestata con assai maggior virulenza a parole – sia tributaria di una analisi del tutto “realistica” del “servizio” che detta “sinistra” rende alle frazioni peggiori dei dominanti in questione. Alla fine degli anni ’60 – nel mio periodo prealthusseriano e prebettelheimiano – scrissi un articolo (pubblicato solo nel ’73 nel Che fare?, rivista diretta da Francesco Leonetti) in cui delineavo la progressione futura della politica del PCI in quanto organizzazione che si sarebbe infine messa alle dipendenze di date frazioni di quella che designavo allora ancora come “borghesia monopolistica” (termine invecchiato). Al di là di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta di quasi mezzo secolo fa), mi si concederà che feci una previsione molto in anticipo sui tempi; ma potei farla solo in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non esito a definire come fondamentalmente scientifica, pur se certo con i termini e l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi “di superficie”, culturalistica e quasi psicologistica, conduceva la stragrande maggioranza dei critici (sessantottini) di allora a parlare, al massimo, di ideologia piccolo-borghese del PCI e cose del genere, rivelatesi del tutto errate.
Non intendo tediare oltre il lettore. Ma invito tutti – naturalmente quelli che leggeranno queste poche righe; molte solo per i lettori di questo luogo un po’ “insano” che è FB – a meditare attentamente sull’uso a volte pretestuoso che si fa di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Se qualcuno non si assume la fatica e il tedio della “fredda” scienza, non faremo molti passi in avanti. E quando dico qualcuno, intendo riferirmi non al sottoscritto, che ha ormai fatto la sua parte (o almeno il 95% di essa), bensì ai giovani (pochi invero) che mantengono, quasi miracolosamente, un atteggiamento critico ma non soltanto viscerale e “istintivo”. Si abbia il coraggio di mettere il culo sulla sedia per qualche ora al giorno, e si legga e rifletta, imparando a formulare delle ipotesi teoriche da sottoporre poi ad ulteriori letture e riflessioni, dato che nel campo delle scienze sociali non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particelle o telescopi giganti, ecc.; e lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni (nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza le strutture e dinamiche. Per difendere una certa causa, non c’è sempre bisogno di mettere bombe e nemmeno di affrettarsi a immaginare ribellioni “popolari” abbellite (e ingigantite) dalla nostra capacità di fantasticare; si può anche far funzionare il cervello che ha questa specifica capacità di “costruire” strutture architettoniche in grado di mappare, di ordinare semplificando, il territorio (sociale non meno di quello naturale) in cui ci si deve muovere, cercando di accrescere l’efficacia delle nostre analisi e interpretazioni. Sempre ipotetiche e soggette alla prova, sia chiaro!