LE FACCE DELLA DEMOCRAZIA NELLA FASE MULTIPOLARE DI LUIGI LONGO, tratto dal sito www.conflittiestrategie.it del 14set2016

Mi fa male qualsiasi tipo di potere, quello conosciuto, ma anche quello sconosciuto, sotterraneo, che poi è il vero potere. Mi fanno male le oscillazioni e i rovesci misteriosi dell’alta finanza. Più che male mi fanno paura, perché mi sento nel buio, non vedo le facce. Nessuno ne parla, nessuno sa niente: sono gli intoccabili. Facce misteriose che tirano le fila di un meccanismo invisibile, talmente al di sopra di noi da farci sentire legittimamente esclusi. È lì, in chissà quali magici e ovattati saloni che a voce bassa e con modi raffinati si decidono le sorti del nostro mondo: dalle guerre di liberazione, ai grandi monopoli, dalle crisi economiche, alle cadute dei muri, ai massacri più efferati.

Mi fa male quando mi portano il certificato elettorale.

Mi fa male la democrazia, questa democrazia che è l’unica che io conosco.

Mi fa male la prima repubblica, la seconda, la terza, la quarta.

Mi fanno male i partiti, più che altro… tutti.

 Mi fanno male i politici, sempre più viscidi, sempre più brutti. Mi fanno male i loro modi accomodanti, imbecilli, ruffiani. E come sono vicini a noi elettori, come ci ringraziano, come ci amano. Ma sì, io vorrei anche dei bacini, dei morsi sul collo… per capire bene che lo sto prendendo nel culo. Tutti, tutti, l’abbiamo sempre preso nel culo… da quelli di prima, da quelli di ora, da tutti quelli che fanno il mestiere della politica.

Che ogni giorno sono lì a farsi vedere. Ma certo, hanno bisogno di noi che li dobbiamo appoggiare, preferire, li dobbiamo votare, in questo ignobile carosello, in questo grande e libero mercato delle facce… facce, facce, facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente.

Facce che non sanno niente e dicono… di tutto!

Facce suadenti e cordiali, col sorriso di plastica.

Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo.

Facce compiaciute, vanitose, che si auto incensano come vecchie baldracche.

Facce da galera, che non sopportano la galera e si danno malati.

Facce che dietro le belle frasi hanno un passato vergognoso da nascondere.

Facce da bar che ti aggrediscono con un delirio di sputi e di idiozie.

Facce megalomani, da ducetti dilettanti.

Facce ciniche da scuola di partito, allenate ai sotterfugi e ai colpi bassi.

Facce che hanno sempre la risposta pronta e non trovi mai il tempo di mandarle a fare in culo!

Facce che straboccano solidarietà.

Facce da mafiosi, che combattono la mafia.

Facce da servi intellettuali, da servi gallonati, facce da servi e basta.

Facce scolpite nella pietra che con grande autorevolezza sparano cazzate!

Non c’è neanche una faccia, neanche una che abbia dentro il segno di qualsiasi ideale. Una faccia che ricordi il coraggio, il rigore, l’esilio, la galera. No, c’è solo l’egoismo incontrollato, la smania di affermarsi, il potere, il denaro, l’avidità più schifosa, dentro a queste facce impotenti e assetate di potere.

Facce che ogni giorno assaltano la mia faccia in balia di tutti questi nessuno.

E voi credete ancora che contino le idee? Ma quali idee…

La cosa che mi fa più male è vedere le nostre facce con dentro le ferite di tutte le battaglie che non abbiamo fatto.

E mi fa ancora più male vedere le facce dei nostri figli con la stanchezza anticipata di ciò che non troveranno.

Sì, abbiamo lasciato in eredità forse un normale benessere, ma non abbiamo potuto lasciare quello che abbiamo dimenticato di combattere e quello che abbiamo dimenticato di sognare.

Bisogna assolutamente trovare il coraggio di abbandonare i nostri meschini egoismi e cercare un nuovo slancio collettivo magari scaturito proprio dalle cose che ci fanno male, dai disagi quotidiani, dalle insofferenze comuni, dal nostro rifiuto! Perché un uomo solo che grida il suo no, è un pazzo. Milioni di uomini che gridano lo stesso no, avrebbero la possibilità di cambiare veramente il mondo.

Giorgio Gaber*

Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri. Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie, per poter negare l’esistenza dei mostri […]

Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi.

Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale[ ?, mio interrogativo], può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi.

 

                                                                                                                                  Karl Marx*

 

 

1.Premessa

 

Stiamo entrando con sempre maggiore decisione nella fase multipolare che delinea con più chiarezza le potenze (Russia e Cina) che mettono in discussione l’attuale egemonia mondiale degli USA. Si confrontano configurazioni di poli di potenze con visioni, culture e strategie diverse nell’intendere le relazioni mondiali. Ricordo che sto parlando di potenze mondiali come espressione di capitalismi diversi e di agenti strategici dominanti con una loro visione di potere e di dominio, sia nazionale sia mondiale, storicamente dati. Non parlo di nazioni e di relazioni tra nazioni come espressione di soggetti portatori di un’altra visione di relazioni sociali e di rapporti sociali che si confrontano in una logica multilaterale e multiculturale ( i termini vogliono semplicemente indicare un confronto tra mondi e culture diversi): in questo tempo e in questo spazio storico, i soggetti portatori non esistono; forse storicamente essi non sono mai esistiti nella polis democratica di Atene né nei populares dell’antica Roma, né nella Comune di Parigi del 1871 né nella rivoluzione russa del Novembre 1917.

Comunque va sottolineato che la Russia e la Cina sono per un mondo multilaterale, per un mondo relazionale mentre gli USA sono per un mondo unilaterale e sono ferocemente determinati ( la loro strategia del caos mondiale lo sta a dimostrare: oggi, in particolare, in Siria, in Libia, in Turchia ) a contrastare l’inizio del loro declino egemonico e a rilanciare una nuova sfida con una nuova visione delle relazioni mondiali che abbia come centro di coordinamento gli USA; così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] Il fatto è che non c’è mai stata una vera e propria potenza “dominate” globale fino alla comparsa dell’America (gli Stati Uniti, mia precisazione) sulla scena mondiale. La nuova, determinante realtà globale è stata la comparsa sulla scena mondiale dell’America come giocatore allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente. Durante l’ultima parte del 20° secolo nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata. Quell’epoca sta ormai per finire ( corsivo mio) >> (1). Robert Kagan precisa che per gli USA il << […] “multilateralismo” indica una politica volta a sollecitare attivamente e ottenere l’appoggio degli alleati. Gran parte degli americani, persino coloro che si dichiarano “multilateralisti”, considera l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sempre desiderabile ma mai essenziale (“multilaterale se possibile, unilaterale se necessario”, corsivo mio). Si tratta, insomma, di un mezzo per raggiungere il fine, cioè l’appoggio degli alleati. Per la stragrande maggioranza degli americani il multilateralismo non è un fine in se stesso >> (2). Joseph Nye afferma << Il National Intelligence Council […] ha pubblicato un rapporto in cui si prevede che nel 2030 gli Stati Uniti saranno ancora il paese più potente al mondo, ma non ci saranno paesi “egemoni”. La fase unipolare è finita, e gli Stati Uniti non saranno potenti come in passato. Tuttavia, un certo declino relativo non significa la fine dell’era americana >> (3). Costanzo Preve chiarisce << Per dirla in modo chiaro, la speranza che in un futuro non troppo lontano i rapporti fra Europa ed USA possano passare dal nesso fastidioso e diseguale Unilateralismo/Subalternità al nesso virtuoso Partnership/Eguaglianza fra i Contraenti è a mio avviso privo di fondamento, perché l’Americanismo è un Progetto Messianico, mentre l’identità culturale europea di oggi, comunque la vogliamo declinare e comunque vogliamo elencarne le cosiddette “componenti storiche”, non è un progetto messianico, ma un Progetto Relazionale. E chi non capisce la differenza qualitativa fra Progetto Messianico, strutturalmente unilaterale, ed un Progetto Relazionale, strutturalmente multilaterale, non può effettivamente cogliere il bandolo della matassa ( corsivo mio) […]>> (4).

Nella fase multipolare il ruolo dello Stato con le sue articolazioni territoriali, inteso come luogo dove gli agenti strategici dominanti esercitano la propria egemonia di potere e di dominio in una situazione di equilibrio dinamico, diventa meno flessibile e agisce in una logica di accentramento dei poteri in tutte le sfere sociali, in particolare in quella politica, istituzionale e militare, mettendo mani formalmente alle Costituzioni nazionali.

Al contrario, nella fase unipolare, la presenza di un centro di coordinamento garantisce più libertà di movimento; né è un esempio la storia occidentale ad egemonia USA che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine del secolo scorso; altra cosa è la storia orientale dell’URSS durante la guerra fredda con le sue sfere di influenza, dove la rigidità del sistema a socialismo irrealizzato ha assunto ben altre caratteristiche di potere e di dominio ( sarebbe utile approfondire e produrre un’analisi comparata sulla costruzione storicamente data dello Stato da parte degli agenti strategici dominanti delle due potenze mondiali protagoniste dell’intero Novecento fino all’implosione dell’ex URSS avvenuta formalmente nel periodo gennaio 1990 – dicembre 1991) (5).

In questa fase multipolare in Italia si sta verificando quanto segue: << […] A Pisa, dove due anni fa è stato costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito (Comfose), si sono intensificati da mesi i voli dei C-130J che partono per ignote destinazioni carichi di armi e rifornimenti. Tali operazioni sono segretamente autorizzate dal presidente Renzi scavalcando il parlamento. L’articolo 7 bis della legge n. 198/2015 sulla proroga delle missioni militari all’estero conferisce al presidente del consiglio facoltà di adottare << misure di intelligence di contrasto, in situazioni di crisi, con la cooperazione di forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa >>, col solo obbligo di riferire formalmente al << Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica >>. In altre parole, il presidente del consiglio ha in mano forze speciali e servizi di intelligence da usare in operazioni segrete, con il supporto dell’intero apparato militare. Un potere personale anticostituzionale, potenzialmente pericoloso anche sul piano interno. […] il presidente del consiglio Renzi, nel quadro della strategia USA/Nato, porta l’Italia in altre guerre e a una crescente spesa militare a scapito delle esigenze vitali del paese. Spesa a cui si aggiunge quella segreta per le operazioni militari segrete da lui ordinate.>> (6).

Per quanto riguarda la riforma costituzionale, oggetto di referendum prossimo, Alessandro Pace afferma che << […] In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea >> (7). Questi due esempi di accentramento dei poteri in atto vanno inquadrati nella questione di servitù volontaria italiana (ed europea) alla potenza mondiale degli Stati Uniti. Se non si affronterà la questione dell’autonomia nazionale, fondante e prioritaria, non si capiranno nè il progetto di ri-costruzione di una Europa come soggetto politico, intesa come federazione di Stati, che dialoga con l’Occidente e con l’Oriente; nè l’accentramento dei poteri in atto (sia nelle istituzioni nazionali sia nelle istituzioni mondiali) al servizio delle strategie statunitensi per ritardare il loro declino e ri-lanciare su basi diverse un nuovo disegno mondiale di egemonia che può prevedere, in una prima fase, un Progetto Relazionale ( il conflitto delle elezioni presidenziali statunitensi si gioca tra il progetto messianico di Hillary Rodham Clinton e il progetto relazionale di Donald Trump. Mi auguro che vinca Donald Trump.).

Niccolò Machiavelli scrive: << E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e da Dio che li uomini, con la prudenza loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì fuora di ogni umana coniettura, a che pensando io, qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nelle opinioni loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che quando si adirano allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifici, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E benchè sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessimo fare provvedimento e con ripari e con argini in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle e quivi volta e’ sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcun riparo, che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto allo opporsi alla fortuna in universali >> (8).

 

 

  1. Facce della democrazia

 

Parlerò delle facce della democrazia nella fase multipolare attraverso due esempi.

Il primo esempio riguarda la potenza mondiale USA ad egemonia declinante con le facce dei Clinton nell’esperimento del Kosovo tratto dal libro di Diana Johnstone (Hillary Clinton, regina del caos, Zambon editore, Francoforte sul Meno, 2016, pp.146-149).

Il secondo esempio concerne l’Italia, territorio geografico espressione degli USA, con le facce del tribunale di Torino che ha condannato a due mesi di carcere con la condizionale una ex studentessa del corso di Laurea Magistrale in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica (interateneo) della Università Ca’ Foscari di Venezia per aver usato il noi partecipativo nello scrivere la tesi di laurea su << Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità >>. Il fatto è tratto dall’appello di libertà di ricerca e di pensiero << Mai scrivere “noi” >> pubblicato sul sito www.effimera.org.

Quattro precisazioni a mò di chiarezza.

La prima. Intendo le facce delle persone come espressione delle relazioni sociali ( le maschere sociali) e come funzioni che svolgono nei rapporti sociali storicamente dati (le funzioni-tipo) (9).

La seconda. Non condivido le analisi e la lotta del movimento NO TAV perché stanno tutte nella logica del conflitto capitale-economia, capitale-natura, capitale-territorio e per capire il processo di infrastrutturazione del territorio nazionale ed europeo, in questa fase multipolare funzionale alle strategie degli USA-NATO, occorre mettersi nel campo del conflitto strategico (10).

La terza. Difendo la libertà di pensiero e di ricerca, per quella che ci è concessa individualmente e per quella che si riesce a conquistare socialmente, soprattutto nelle università italiane dove, dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, è stata sempre più ridotta fino ad essere eliminata. La difendo a prescindere dal fatto che oggi nelle Università italiane non si fa quasi più ricerca.

La quarta. Non credo nella separazione dei poteri come bilanciamento delle storture e degli abusi di potere e di dominio da parte degli agenti strategici. Credo nella costituzione di agenti strategici delle sfere sociali che lottano per la propria egemonia e trovano nei luoghi istituzionali ( lo stato con le sue ramificazioni territoriali) l’equilibrio dinamico atto ad affermare la propria visione sociale, la realizzazione del modello di sviluppo sociale, la gestione del proprio potere ( le singole sfere sociali) e la strategia del proprio dominio ( l’insieme delle relazioni sociali ) sia interno (nazionale) sia esterno (mondiale).

 

 

2.1 L’esperimento del Kosovo

 

Durante la presidenza Clinton, tra il 1993 e il 2000, la Jugoslavia fu utilizzata dall’establishment della politica estera come laboratorio sperimentale per il collaudo di tecniche di controllo, sovversione e “regime change” a opera degli Stati Uniti destinate a essere poi impiegate altrove. L’uso della Jugoslavia come una mini-URSS, con la Serbia nella parte della Russia, e la frantumazione della Jugoslavia e quindi della Serbia stessa ( attraverso il distacco del Kosovo) costituirono la prova generale del processo che abbiamo recentemente visto all’opera in Ucraina, con la Russia come obiettivo.

Vi si possono ravvisare le stesse tecniche:

 

Hitlerizzazione. L’aggressione inizia come guerra di propaganda, condotta da media mainstream organicamente legati a esponenti governativi e think tank di primo piano. Nella prima fase, il paese preso di mira scompare praticamente sotto l’ombra del suo leader, bollato come “dittatore” ( anche se regolarmente eletto), che viene raffigurato come l’incarnazione del male sulla terra e che “ se ne deve andare”. La parte del nuovo Hitler è stata affibbiata alle personalità più diverse quali Slobodan Milosevic’, Saddam Hussein, Muhammar Gheddafi, Bashar al-Assad e ora Vladimir Putin.

 

Sanzioni. Le sanzioni economiche contro l’Hitler di turno servono a stigmatizzare il malvagio, a destabilizzare le sue relazioni e ad arruolare gli alleati interni che esitano ancora a ricorrere alle armi ma sono disposti ad accettare questo presunto metodo “pacifico” per fargli cambiare atteggiamento. Una volta fallite le sanzioni, l’opinione pubblica è ormai stata preparata a considerare “necessario” l’uso della forza militare.

 

Clienti locali. Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di alleanze con i peggiori elementi degli Stati presi di mira, forze che non si fermano davanti a nulla. In Serbia, gli Stati Uniti fornirono sostegno politico e militare a criminali senza scrupoli. Nei paesi musulmani, gli USA hanno appoggiato e armato fanatici islamici. In Ucraina, la campagna anti-russa poggia sul controllo delle piazze da parte di miliziani nazisti impenitenti.

 

ONG dei diritti umani. Le cosiddette Organizzazioni Non-Governative, che in realtà sono strettamente legate o perfino finanziate direttamente dal governo USA ( in particolare dal National Endowment for Democracy e dalle sue filiali), svolgono una funzione centrale nel presentarsi come l’incarnazione della vera democrazia strangolata dall’”Hitler” nel mirino, quando la polizia interviene contro i disordini provocati dai “veri democratici”. Gli scenari elaborati dal politologo Gene Sharp sulla base delle esperienze di movimenti rivoluzionari o progressisti vengono utilizzati come manuale di addestramento in vista di azioni atte a suscitare simpatia provocando la repressione dello Stato, e prive di qualunque contenuto politico al di là dell’opposizione al leader in carica. Le agitazioni messe in atto in Serbia dal gruppo giovanile “Otpor”, addestrato a Budapest da specialisti USA, costituirono un modello che venne in seguito adattato alle “rivoluzioni colorate” successive.

 

Sabotaggio della diplomazia. Per preparare la guerra in Kosovo, il Segretario di Stato Madeleine Albright organizzò falsi negoziati tra il governo jugoslavo e i nazionalisti albanesi del Kosovo nel castello di Rambouillet, mantenendo segregate le due parti, sostituendo il capo della delegazione albanese professor Ibrahim Rugova con il suo cliente, il criminale Hashim Thaci, e presentando un ultimatum (totale occupazione militare della Serbia) che obbligò i serbi a rifiutare e ad assumersi così la responsabilità del “rifiuto di negoziare”. E’ ormai un’abitudine per i rappresentanti USA alle Nazioni Unite sabotare i negoziati ricorrendo a filippiche, insulti e bugie.

 

Criminalizzazione. In relazione al conflitto in Jugoslavia, l’influenza preponderante degli Stati Uniti consentì a Washington di dare inizio alla pratica dell’uso dei tribunali internazionali per trattare i nemici alla stregua di criminali comuni invece che come avversari politici. Il concetto di “impresa criminale collettiva” (“joint criminal enterprise”), utilizzato nel diritto penale statunitense contro la mafia, fu introdotto nel Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, creato ad hoc, per essere applicato ai serbi, con il presupposto implicito che la semplice difesa degli interessi serbi costituiva un crimine. In seguito, gli Stati Uniti sono riusciti a influenzare la Corte Penale Internazionale ( alla quale gli USA stessi non aderiscono) perché incriminasse nemici quali Muhammar Gheddafi sulla base di accuse prive di fondamento. Questa procedura contribuisce a escludere a priori ogni negoziato di pace, dal momento che, si sostiene, non è possibile negoziare con un criminale sotto accusa.

 

Spauracchio del “genocidio”. Ogni qual volta gli Stati Uniti prendono posizione in un conflitto etnico o politico in atto in una data regione, la procedura abituale consiste nell’accusare la parte avversa di tramare di “genocidio”. Tale accusa esclude la possibilità che entrambe le parti stiano combattendo per raggiungere specifici obiettivi territoriali o politici che, se adeguatamente compresi, potrebbero essere oggetto di mediazioni.

 

Media e propaganda. La chiave dell’intero sistema di aggressione è costituita dalla padronanza con cui gli Stati Uniti maneggiano un enorme apparato di propaganda, incentrato sui media mainstream. La colonna sonora è fornita dall’industria dello spettacolo, in particolare da Hollywood, che sforna a getto continuo prodotti che glorificano l’uso della violenza per schiacciare il nemico. I videogiochi rappresentano un potente nuovo strumento atto a rendere normale l’istinto omicida. Realtà e finzione si fondono nelle fantasie visive di innumerevoli battaglie tra il Bene e il Male, confezionate e vendute al pubblico americano.

 

Bombardamento. Questa è l’argomentazione decisiva, la spada di Damocle che pende su qualunque controversia. Per il Pentagono, la NATO, la CIA, la NED, i media mainstream e l’establishment della politica estera USA, la guerra del Kosovo costituì un’ottima esperienza didattica, un terreno di prova, un allenamento per future avventure. Fu la “guerra per fare le guerre”.

 

Per i Clinton, il Kosovo rappresentò un diversivo rispetto ai loro scandali privati e un’occasione per salire sul palcoscenico delle grandi questioni mondiali. In Kosovo, Bill Clinton è venerato come il padre fondatore di questo piccolo protettorato USA strappato alla Serbia. Una statua dorata alta tre metri del benefattore venuto dall’Arkansas saluta i passanti in viale Bill Clinton, nei pressi di una boutique chiamata “Hillary”. Mentre nel mondo gli Stati Uniti sono sempre più odiati per i loro interventi militari e il loro incessante bullismo, questo intervento ha creato un’enclave di fanatici filoamericani. Durante la sua visita a Pristina nel 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton ebbe modo di crogiolarsi nell’adulazione. Il fatto che i paesi più entusiasticamente filoamericani del pianeta siano oggi il Kosovo e l’Albania la dice lunga sul declino degli USA agli occhi del mondo. Non è qualcosa di cui andare fieri.

 

 

2.2 Mai scrivere “noi”

 

Il 15 giugno 2016, il tribunale di Torino ha condannato Roberta, ex studentessa di antropologia di Ca’ Foscari, a 2 mesi di carcere con la condizionale per i contenuti della sua testi di laurea, conseguita nel 2014. Per scrivere la tesi «Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità», Roberta ha trascorso due mesi sul campo durante l’estate del 2013, ha partecipato a varie dimostrazioni in Valsusa, intervistando attivisti e cittadini. Coinvolta insieme a lei in questo procedimento giudiziario era Franca, dottoranda dell’Università della Calabria, che come Roberta era in Valle per ragioni di ricerca, che compare con Roberta nei video e nelle foto analizzati dalla procura ma che a differenza di Roberta è stata assolta da tutti i capi d’imputazione. A differenza di Franca, Roberta è stata condannata a 2 mesi di reclusione con la condizionale. Nonostante le motivazioni della sentenza saranno rese pubbliche tra 30 giorni, la ragione della sua condanna è stata attribuita all’utilizzo, nella sua tesi di laurea, del “noi partecipativo” interpretato dall’accusa come “concorso morale” ai reati contestati. Di fatto, i video e le foto scattate durante le manifestazioni parlano chiaro: le due donne sono lì, presenti, anche se in disparte. È stato dimostrato in tribunale che nessuna delle due imputate ha preso parte a momenti di tensione. Né bisogna dire che tutti i momenti di tensione contestati dall’accusa hanno trovato riscontro nel materiale video fotografico acquisito dalla procura. Durante l’azione dimostrativa tenutasi davanti alla ditta Itinera di Salbertrand che fornisce il cemento al cantiere di Chiomonte le due ragazze partecipano ma rimangono ai margini. Di sicuro il pm Antonio Rinaudo ha chiesto 9 mesi per entrambe, ma mentre Franca è stata assolta da tutti i capi d’imputazione, Roberta è stata condannata. Roberta, infatti, avrebbe dimostrato un “concorso morale” con le condotte contestate dall’accusa, non a caso in alcuni passaggi della sua tesi raccontò l’accaduto in prima persona plurale. Quello che per la difesa era un “espediente narrativo” – nella ricerca etnografica il posizionamento del ricercatore rispetto all’oggetto della ricerca è una scelta soggettiva che fa parte di ciò che si chiama storytelling – diventa, per l’accusa, la prova di collusione rispetto ai reati contestati.

Siamo indignati: che ci risulti, è la prima volta dal 25 aprile 1945 che una tesi di laurea viene considerata oggetto di reato e subisce una condanna. Ci domandiamo, increduli, quale perversione attraversi un paese che porta nelle aule di un tribunale le parole di una tesi di laurea. Ci sconvolge che tutte le tesi di laurea siano potenzialmente oggetto delle letture inquisitorie dei magistrati e che la Procura di Torino si senta legittimata a sanzionare penalmente l’uso di un pronome personale a tutti gli effetti fondante della grammatica italiana quando usato in riferimento a un tema politico ad essa non gradito. L’accusa di “concorso morale” in riferimento all’analisi situata di un problema politico va intesa come sintomo dell’accanimento contro chiunque osi raccontare quanto avviene in Val di Susa senza criminalizzare la determinazione di una comunità a lottare contro la devastazione del suolo, della salute dell’ambiente e del territorio. Ricordiamo che all’interno dello stesso procedimento altre 45 persone, tra cui 15 minorenni, sono state rinviate a giudizio. Questa storia va intesa inoltre per ciò che è: un inaccettabile atto intimidatorio contro la libertà di pensiero e la libertà di ricerca, ancor più grave in quanto portato avanti contro giovani studenti accusati di mettere troppa passione in ciò che fanno e minacciati di essere pesantemente sanzionati se prendono posizione, “partecipano” o osano fare politica.

Rivolgiamo questo appello in modo particolare al mondo universitario italiano per rompere il silenzio e denunciare la violazione della libertà di ricerca e di opinione. Nessuno dei classici difensori delle libertà democratiche si è fatto, fino a ora, sentire. Nessun esponente di rilievo del mondo accademico né del ministero dell’Università e della Ricerca ha ritenuto necessario dover rilasciare una dichiarazione. Vogliamo rivolgerci in particolare al mondo accademico per chiedere quanto a lungo intenda accettare esplicite intimidazioni e minacce di ritorsioni. Se il fine di questo processo è sigillare la colpevolezza di chi racconta le ragioni di chi lotta contro la violenza e i soprusi, siamo tutti colpevoli. “Per uno scrittore il reato di opinione è un onore” ha scritto Erri De Luca, il primo assolto per un crimine che non esiste ma che l’Italia odierna punta pericolosamente a restaurare: il reato d’opinione. Sentiamo l’esigenza di prendere parola in difesa della libertà di ricerca e di pensiero in Italia e chiediamo a tutti di moltiplicare le iniziative in questa direzione. Ribadiamo che nessuna intimidazione o minaccia di ritorsioni potrà distoglierci dalla nostra narrazione, dal nostro storytelling, dal nostro impegno di ricerca perché il nostro mestiere lo conosciamo e lo amiamo, nonostante tutto.

 

 

3.Conclusioni

 

La democrazia e la libertà sono relazioni sociali che vanno conquistate e costruite quotidianamente in tutti i luoghi del vivere sociale ( dalla famiglia allo Stato). La quotidianità non è il pragmatismo rozzo del vivere biologico dell’umanità storicamente dato, essa è la sintesi pratica e teorica di tutti i livelli della società: dal microcosmo del singolo individuo al macrocosmo dei sistemi sociali e delle visioni culturali che li sottendono. E’ un processo di democratizzazione della vita quotidiana nell’accezione lucacciana del termine. Viviamo in una società capitalistica dove la democrazia è asimmetrica e vi è un terribile scarto tra la forma e la realtà. Quando c’è lo scarto tra forma e sostanza siamo in un processo di rapporti sociali dove vengono meno, per la maggioranza della popolazione, gli elementi fondamentali del vivere sociale. Lo scarto storicamente assume forme di flessibilità a seconda delle varie fasi storiche ( unipolare, multipolare, policentrica). Mai si annulla. Per annullarlo occorre un processo di cambiamento dei rapporti sociali che ha come obiettivo reale la partecipazione della maggioranza della popolazione alle decisioni inerenti il suo vivere sociale. La democrazia non è solo partecipazione come cantava Giorgio Gaber ma è autocoscienza critica sessuata che conosce, interpreta e progetta in maniera aporetica un’altra idea di società.

La democrazia capitalistica può diventare un vettore verso vere e reali forme di libertà e di democrazia. Anche se la storia ha dimostrato che così non è mai stato qualunque sia stato il processo rivoluzionario messo in atto. E con questo non voglio negare i vantaggi per l’umanità intera che questi grandi cambiamenti hanno apportato in tutti i settori della vita sociale:<< Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E, ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinchè il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.>> (11).

Viviamo in una triste fase storica come tutte le fasi multipolari e policentriche storicamente determinate ( con questo non voglio dire che le fasi unipolari sono gioiose ma quantomeno non prospettano un orizzonte di guerre ( regionali e mondiali) che sono comunque mezzi della politica; anche se nell’era nucleare la guerra come continuazione della politica va ripensata: ahinoi!).

Né le finestre che la storia può aprire, soprattutto nelle fasi policentriche ( per esempio la rivoluzione del Novembre russo del 1917), possono far intravedere per la grande maggioranza della popolazione cose buone perché il problema centrale è come si arriva all’appuntamento delle finestre storiche.

Vladimir Ilic Lenin, intelligente uomo rivoluzionario, ebbe una intuizione significativa quando affermò che lo Stato << potrà essere diretto da una cuoca >>. L’affermazione va inquadrata nel contesto teorico di elaborazione della fase di estinzione dello Stato e di trapasso alla fase del comunismo (12). E Gianfranco La Grassa dà una corretta interpretazione della questione quando sostiene che << L’idea della “cuoca” capace di gestire gli affari di Stato è la meno felice di quelle maturate nel geniale cervello di Lenin. Certo, egli si riferiva ad uno Stato ormai quasi estinto, quasi arrivato alla fine del socialismo in quanto fase di transizione al comunismo. Poiché tuttavia tale fase non si è mai vista, né mai si sarebbe potuta riscontrare nel presunto “socialismo” dell’Urss, essa è stata sfruttata per sostenere tesi cervellotiche >> (13). Gianfranco La Grassa, però, non coglie il particolare, sfuggito anche a Vladimir Ilic Lenin, che è quello della soggettività femminile ( la donna come soggetto altro dall’uomo) restando così nel limite dell’uguaglianza e della emancipazione femminile velate ed annullate nel concetto di classe; ovviamente parlo di quando esistevano le classi non di oggi dove esiste una ammucchiata di gruppi sociali (14). Lascio parlare una delle madri del pensiero femminile << In una donna la grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente, come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma disegnato da Valentino. Occorre però che lei accetti il suo privilegio e lo coltivi, come hanno fatto i nobili in certe epoche e in certi paesi. Se lo sa portare, allora cattedra o cucina non fa una differenza sostanziale, le fiabe lo insegnano. C’era questa intuizione nella celebre immagine usata da Lenin per far intendere che cos’è il comunismo, la cuoca che diventa capo di Sato? O, al contrario, mancava proprio questa intuizione e la sua era fede nell’emancipazione? E’ naufragato per questo il movimento comunista, per non aver saputo misurare la fortuna che le donne sono per l’umanità, ossia per aver suscitato energie femminili che sono straripate dai suoi confini, e non averle seguite in quell’andare oltre?. >> (15).

Il problema resta sempre la costituzione di soggetti sessuati di cambiamento che possono deviare il flusso oggettivo della storia che è sempre sedimentazione delle relazioni umane date. Perché, come ci ricorda Gianfranco La Grassa, i cambiamenti reali non avvengono solo con le idee.

 

Le epigrafi riportate sono tratte da:

 

Giorgio Gaber, Mi fa male il mondo in Album “ E pensare che c’era il pensiero”, 1995, www.giorgiogaber.it .

Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pag.6.

 

NOTE

 

  1. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignment, Errore. Riferimento a collegamento ipertestuale non valido., 17/4/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  2. Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp.46-47. Si veda anche la parte dell’intervista a Henry Kissinger compresa nell’articolo di Umberto Pascali, La disperazione degli USA e il ritorno di Kissinger, www.controinformazione.it, 24/8/2016.
  3. Joseph Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016, pag. 99. Si segnala la lettura critica del libro perché analizza l’egemonia reale degli Stati Uniti sia nelle sfere fondanti (produzione, ricerca, tecnologia, cultura, armamenti) sia nelle istituzioni mondiali della cosiddetta governance.
  4. Costanzo Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pag.110. Sull’unilateralismo americano si veda Charles A. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventesimo secolo, Via e Pensiero, Milano, 2003, Capitolo V.
  5. Su questi temi rimando agli atti del seminario di Conflittiestrategie su “Stato, interesse nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’autonomia nazionale”, tenutosi a Bologna il 16-17 aprile 2016 e pubblicati in www.conflittiestrategie.it .
  6. Manlio Dinucci, Le macerie della democrazia, il Manifesto del 6 settembre 2016.
  7. Alessandro Pace, Le insuperabili criticità della riforma costituzionale Renzi-Boschi, Cosmopolitica del 20/2/2016 e ripresa da Micromega ( www.micromega.it, 1/3/2016) e da Megachip ( www.megachip-globalist.it, 9/9/2016). Si veda anche Alessandro Pace, La riforma Renzi-Boschi: le ragioni del no, www.rivistaaic.it, 17/6/2016.
  8. Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Diciasettesima edizione, Milano, 2011, pp.220-222.

9.Per questi temi rimando a Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975; Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, Mondadori, Milano, 1973; Luigi Russo, Personaggi dei promessi sposi, Laterza, Bari, 1965; Gyorgy Lukacs, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino, 1976.

  1. Luigi Longo, TAV, corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 23/12/2012.
  2. Gunther Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita dell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag.1.
  3. Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma, 1974, Capitolo V, pp.157-179.
  4. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica, Mimesis, Milano-Udine, pag. 87.

14.Vladimir Ilic Lenin è stato in relazione con le donne. Una relazione significativa l’ha avuta con Inessa Armand. Ha scritto sulle donne, per esempio, L’emancipazione della donna ( Editori Riuniti, Roma, 1977). Ma, come Karl Marx, non è andato oltre un ragionamento di emancipazione e di uguaglianza.

  1. Luisa Murarro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma, 2011, pag.16.

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI – Prosegue il dibattito

Prosegue il dibattito su

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Massimo Morigi

« Il cortesissimo ( ed acuto) Fabio Falchi mi cita dove affermo che “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico” e quindi conclude che “Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). ” Purtroppo questa conclusione, ovviamente solo per quanto riguarda l’interpretazione del mio pensiero, è errata. Quando io parlo di “strumento”, l’affermazione deve essere interpretata dialetticamente, vale a dire che lo strumento interpretativo del conflitto strategico è la chiave che ci permette di interpretare la realtà ma è, al tempo stesso, la struttura della realtà stessa. E che questa debba essere l ‘ “interpretazione autentica” (m viene un po’ da ridere ad impiegare questo linguaggio da leguleo ma Fabio Falchi, la cui indulgenza ed ironia immagino sia pari alla sua giustissima acribia, spero sappia sorriderne) lo si deduce bene dalle parole finali al mio commento alla sua benevola recensione: “In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. ” Unificare nella teoria e nella prassi significa che come processo astrattamente logico esistono la teoria e la prassi ma che la vera conoscenza e la vera azione si verificano quando riusciamo a superare questa ipostatizzazione logica; vera conoscenza e vera azione esistono, insomma, quando impieghiamo nella teoria come nella prassi il metodo dialettico. E la divisione fra natura e cultura è, a modestissimo giudizio dello scrivente, non altro che il frutto della predetta ipostatizzazione. Vi è, inoltre, un punto fra le intelligenti osservazioni di Fabio Falchi che dovrebbe essere molto approfondito ed è quando si afferma che “anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato”. Sinceramente sui colpi di stato della formiche non ho molto da dire ma fra gli animali che hanno raggiunto un maggior livello di evoluzione rivoluzioni e colpi di stato esistono eccome, e esistono pure linguaggi diversi, quindi diverse tradizioni culturali, fra gruppi di animali della stessa specie ma cresciuti in luoghi diversi. Non faccio esempi perché facilmente reperibili e sottolineo questo punto solo per mettere in dubbio le troppo salde certezze fra l’ontologica suddivisione fra natura e cultura e non tanto per controbattere alle pur legittime osservazioni di Falchi in merito all’uomo come animale politico e non, mi si passi il termine, “bellico” (natura bellica dell’uomo, sia detto per inciso, che io non sostengo, io sostengo che l’uomo è un animale “strategico”, e sono sicuro che Falchi, pur probabilmente non condividendola, colga pienamente questa sottile differenza). Infine, chiedo scusa se è parso che io abbia voluto accusare Falchi, siccome sviluppa una linea di pensiero in alcuni punti non conforme alla mia, di avere un atteggiamento da “tabula rasa” rispetto alla tradizione marxiana e marxista. E chiedo scusa non tanto perché tale atteggiamento sia, a mio giudizio, del tutto assente dal suo argomentare ma per il semplice motivo che anch’io mi ci posso ritrovare (tanto per essere chiari: quando, come il sottoscritto, si afferma che la la visione della classe operaia come classe intermodale in grado di originare una palingenesi del sistema capitalistico non è altro una immanentizzazione della soteriologia cristiana, direi che la compagnia di demolizione o gli sgombera cantine stanno bussando alle porte). Il punto è dove sgomberare e demolire e mi auguro che su questo si continui per molto ancora a (dialetticamente) dibattere. Massimo Morigi – 19 marzo 2017 »

 

Fabio Falchi

Io condivido in buona misura quanto sostiene Morigi nella sua ultima risposta, ma occorre fare due brevi precisazioni per capirsi meglio.
1) Il mio esempio riguardo alle formiche non deve essere frainteso. Con questo esempio ho solo voluto segnalare che le formiche sono sì animali sociali che si fanno le guerre tra di loro ma non per questo sono animali politici. Vale adire che il conflitto che davvero conta per comprendere il Politico (a mio giudizio s’intende) è la stasis, la lotta intestina , la guerra civile, piuttosto che la guerra in generale. Non è cioè qui in gioco tanto la differenza tra l’uomo e gli altri animali (ché pure l’uomo è animale, sia pure razionale, simbolico, economico, politico etc.) , ma la questione del rapporto (già evidenziato da Heidegger contro Schmitt) di quello tra l’Essere-insieme e l’Essere-contro che si verifica con la dicotomia amico vs nemico. Quindi anche per me l’uomo è animale politico ma non necessariamente un animale “bellico”. Riguardo infine agli animali più evoluti, risulta anche a me che vi possono essere (ad esempio tra i macachi) dei conflitti che portano ad un rivolgimento sociale e ad un mutamento della gerarchia all’interno del gruppo (non sono un esperto, ma non credo  che si possa parlare di rivoluzioni o di colpi di Stato, anche perché manca lo Stato; comunque sia, anche in questo caso mi pare che il Politico sia più connesso alla stasis che al polemos, che è appunto quello che mi premeva evidenziare).
2) Io non penso ad una natura da una parte e alla cultura da un’altra con il Politico in mezzo , ma fin dall’inizio come dure realtà uni-ficate ma in perpetuo divenire (un processo dialettico quindi, se si preferisce). Pertanto, è forse la nozione di natura che è diversa nel mio discorso, dato che non rimanda alla biologia bensì alla natura intesa “grosso modo” come la intende Aristotele. La natura umana, per lo Stagirita, è una (vi è identità di specie, cioè di “forma sostanziale”) ma si esprime e articola in modi diversi e perfino incompatibili tra di loro.  In base a questa prospettiva allora si può affermare che noi non siamo differenti dai Greci o dagli aborigeni australiani per natura ma per cultura. Nondimeno, non vi è una natura umana disincarnata (un universale astratto) ma sempre, per così dire, avvolta nelle differenze ( ossia è una realtà “particolare” in senso culturale, storico,  politico nonché sotto il profilo individuale/personale). In definitiva, in quest’ottica, il concreto modo di articolarsi della natura umana  non è “dato” (non si sviluppa in base ad una “legge di natura”) nel senso che è un processo  storico e politico (in quanto la natura comunitaria dell’uomo è “aperta”, si può cioè es-primere in modi diversi).
Chiaramente, anche se la mia posizione non coincide con quella difesa da Morigi, sono il primo a riconoscere l’importanza della sua riflessione sul repubblicanesimo geopolitico.

 

UNA ULTERIORE PRECISAZIONE DI FABIO FALCHI A WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, DI MASSIMO MORIGI

Due brevi precisazioni.
1) Non sarò certo io a contestare che è essenziale “com-prendere” quello che ci ha preceduto soprattutto nell’ambito del pensiero. Del resto, chi ha letto qualche mio scritto sa che per me decisivo è “com-prendere” non solo il pensiero dei Greci ma, in generale, il linguaggio (e il mondo) del mito (e del simbolo). Quindi nessuna “tabula rasa”. Ci mancherebbe! D’altronde, Marx è certo un Autore importante. La mia osservazione mirava solo ad evidenziare la prospettiva, per così dire, politico-intellettuale di Morigi (certo diversa  dalla mia) anche se mi sembra che, come del resto lo stesso GLG, anche Morigi tenda a portarsi, muovendo da Marx, “oltre” Marx (benché non “contro” Marx).
2) Io non sono affatto dualista, bensì non dualista (che non è sinonimo di monista). Natura e cultura non credo siano opposti irrelati, ma non sono  realtà “identiche” ( per capirsi: si deve mangiare per vivere, ma non necessariamente si deve mangiare l’aragosta per vivere). I rapporti di potere variano comunque nella storia, sia nella stessa epoca e perfino nella stessa “regione” (in Grecia erano diversi da quelli che vi erano in Persia, ma a Sparta non vi erano quelli che vi erano ad Atene), sia nel tempo (quelli della Francia rivoluzionaria non erano certo identici a quelli della Francia sotto Luigi XV e quelli in Unione Sovietica non erano quelli della Russia degli zar o di Putin etc.). Variano insomma pure gli ordinamenti politici e le classi dominanti (quella capitalistica – se si accetta la ricostruzione storica di Braudel – salì al potere non prima del XV-XVI sec.:  Milano, Firenze, Venezia, Genova; poi l’alleanza dei banchieri genovesi con la Spagna seguita dalla breve egemonia olandese, poi da quella inglese; infine a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale quella americana, attualmente in crisi). Ma è ovvio che Morigi non dubiti che vi siano queste (e altre) “differenze”. Il punto allora qual è? Morigi afferma: “lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico”. Quindi natura e cultura non sono realtà identiche , dato che devono essere unificate (sono cioè realtà distinte non irrelate/separate). L’unificazione è appunto un processo storico (inevitabile a mio avviso). Faccio un esempio.
Il Politico è un “destino” dell’uomo, che è sì per “natura” un animale comunitario ( di questo ne sono convinto) ma anche colui il cui agire non è determinato dalla “natura” (a differenza, come i Greci ben sapevano, del moto degli astri e dell’agire degli stessi animali). Peraltro, ritengo che non sia la guerra (polemos) all’origine del Politico, ma da un lato la nostra “natura” comunitaria (con il linguaggio di Heidegger, il Mitsein cioè l’essere insieme e essere nel mondo insieme) e dall’altro il fatto che il nostro agire può portare ( e di fatto lo porta sempre!) lo scompiglio nella stessa “polis” (anche le formiche si fanno la guerra ma non fanno rivoluzioni o colpi di Stato!). Dunque, è il  Politico che unifica (e “deve” unificare) natura e cultura facendo valere misure , ordini e proporzioni che non si trovano in “natura” ma devono essere “generati” (e si generano appunto attraverso la dialettica individuo/comunità, le lotte sociali, un orizzonte di senso condiviso etc.) ma tenendo conto di quella forma umana e comunitaria dell’esperienza  senza la quale il conflitto degenera in lotta intestina o in guerra civile (anche la questione della guerra/polemos mi pare connessa quindi con questo “intreccio” tra natura e cultura).
Certo, so bene che la questione è molto più complessa e che molte altre riflessioni e considerazioni sarebbero necessarie. Qui mi premeva solo fare qualche precisazione per evitare equivoci, anche perché seguo con interesse la riflessione di Morigi, che comunque ringrazio, anche per la cortese risposta al mio primo commento.
Di seguito il commento precedente di Massimo Morigi: “Innannzitutto, ringrazio Fabio Falchi per la valutazione complessivamente positiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA, poi veniamo a due velocissime puntualizzazioni. Fabio Falchi osserva che la prospettiva di WALTER BENJAMIN, IPERDECISiONISMO etc “pare ancora marxista” e ciò, mi sembra di capire, non viene valutato con altrettanta indulgenza. Ora senza voler discettare in questo luogo quali e quanti siano i miei debiti col pensatore di Treviri, una cosa tengo a sottolineare e questo non vale solo per Marx. Il problema riguarda il rapporto che si vuole tenere con la tradizione filosofica e, per farla breve, il malvezzo psicologico della stragrande maggioranza dei pensatori passati e presenti può essere riassunto con la sindrome della “tabula rasa”, vale a dire che tutto quello che mi ha preceduto non ha alcun valore e sono con me si è iniziato a scrivere le tavole della legge. Questo non è il mio approccio e quindi, operando il sottoscritto con questo stato d’animo (e, spero) modus agendi, mi trovo completamente a mio agio anche con una prospettiva marxiana (non marxista e non devo certo spiegare a Fabio Falchi e agli altri 24 lettori la non sottile differenza). Seconda puntualizzazione. Falchi afferma che ” i rapporti di potere non sono “dati” ma “generati” , ossia non sono naturali ma storici (appunto politici!)”. Oltre a tutta la tradizione filofosica occidentale di stampo, diciamo, immanentistico, la pensava così anche Marx ma, in tutta la mia modestia, è proprio quanto io contrasto nell’ambito della dottrina politico-filofosofica del Repubblicanesimo Geopolitico. In altre parole per il Repubblicanesimo Geopolitico la suddivisione fra natura e storia o fra natura e cultura è totalmente artificiosa e lo strumento che permette di unificare nella teoria e nella prassi questi due campi apparentemente distinti è il conflitto dialettico-strategico. Ho già affrontato la problematica del conflitto dialettico-strategico nel DIALECTICVS NNCIVS e l’argomento verrà ripreso con GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di prossima pubblicazione. Nel frattempo, anche nonostante queste mie non brillanti precisazioni, spero ancora di godere dell’ attenzione dell’intelligente Fabio Falchi e degli altri indulgenti 24 lettori. Massimo Morigi – 5 marzo 2017”

Repubblicanesimo Geopolitico. 3a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Se però l’analisi del potere di Hannah Arendt risulta essere assolutamente realistica (il potere non è il male ma è la benzina della società), la filosofa politica ebrea tedesca naturalizzata statunitense non fu altrettanto puntuale nell’analizzare le problematiche del potere relative alla moderne democrazie rappresentative, in quanto il suo punto di riferimento della polis greca se assolutamente illuminante per quanto riguarda l’analisi fenomenologica del potere, non è assolutamente proponibile come modello per le moderne società industriali (e la Arendt ne era assolutamente consapevole) e la sua mitizzazione della rivoluzione americana – con l’idea di una riproposizione come futuro soggetto politico, mutatis mutantis, delle piccole comunità americane di origine che erano state alla base della voglia di libertà e laboratorio politico della rivoluzione e delle prime forme di democrazia del nuovo continente –, se ancora fondamentale per capire le dinamiche dominio-potere-libertà risulta ancora una volta improponibile come reale modello alternativo alla democrazia rappresentativa. Arrivo quindi rapidamente alla conclusione intorno alla domanda di cosa sia il Repubblicanesimo Geopolitico. Il Repubblicanesimo Geopolitico intende riempire questa lacuna nella consapevolezza molto elementare ma fondamentale che la partita della libertà non si gioca né in astratti enunciati (libertà come non interferenza di matrice liberale o libertà come non dominio del (neo)repubblicanesimo) ma nei concreti rapporti di forza (e quindi nei concreti spazi di libertà) che si sviluppano all’interno della società. Con questa enfasi sui rapporti di forza fra le classi, sembrerebbe però essere dalle parti di una riedizione del
marxismo vecchia maniera. Errore e per due semplici motivi. Primo perché nel Repubblicanesimo Geopolitico l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marximo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marximo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà. Dove Mazzini parlava di una missione dell’Italia una volta che fosse stata riunificata geograficamente e spiritualmente, sarebbe assai singolare non vedere in queste parole la consapevolezza che una nazione non può vivere – e quindi essere libera – senza che abbia un’idea della sua collocazione fra le altre comunità politiche del mondo, senza che possa disporre di un suo Lebensraum, non solo geografico e materiale ma anche culturale e spirituale (quello di Lebensraum, cioè spazio vitale, è un concetto che venne coniato da Friedrich Ratzel e sviluppato dalla geopolitica tedesca e per questo ha subito una sorta di damnatio memoriae. Ora il fatto che il nazismo abbia sviluppato una sua
versione criminale del Lebensraum non significa che questo concetto non sia fondamentale per la geopolitica e quindi per il Repubblicanesimo Geopolitico, tanto che il Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe anche essere chiamato Lebensraum repubblicanesimo se non fosse per il fatto che il concetto di Lebensraum è ancor oggi appaiato all’imperialismo guglielmino e al male assoluto del nazismo e – per ironia della storia, se pur rifiutato dalle accademie politologiche e filosofico-politiche del secondo dopoguerra – impiegato come strumento di analisi fondamentale per dirigere l’azione geopolitica delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il Repubblicanesimo Geopolitico, invece, intende impiegarlo per i suoi scopi di libertà). Quando Mazzini criticava Marx questo non avveniva per una sorta di cecità nei confronti delle condizioni della classe operaia ma avveniva nella consapevolezza che la dinamica dello scontro delle classi sociali – e quindi della libertà – non poteva essere compressa nelle formulette che si riassumevano nella credenza parareligiosa della classe operaia come “classe intermodale” e quindi come unico agente per la trasformazione rivoluzionaria della società. Mazzini fu sempre accusato di misticismo. In realtà non era affatto un mistico ma, piuttosto, un dialettico che era consapevole che la partita della libertà poteva essere vinta solo con una generale crescita culturale (e quindi politica) di tutta la società. Quando Mazzini preconizzava l’edificazione per la sua nuova Italia di “scuole, scuole, scuole”, non designava per sé il ruolo di futuro ministro della pubblica istruzione ma era semplicemente consapevole che la libertà italiana doveva passare attraverso l’innalzamento culturale del popolo. Oggi questa dimensione culturale è entrata a pieno vigore nel lessico della geopolitica e si chiama noopolitik, quella noopolitik che presa molto sul serio dal Celeste Impero, rischia di qui a pochi anni, assieme ai suoi fattori di eccellenza economica, di rendere la Cina la prima superpotenza a dispetto degli standard terribilmente mediocri, almeno se comparati a quelli delle cosiddette
democrazie rappresentative occidentali, nel campo dei diritti politici. Ora, senza voler ripercorrere tutti quegli autori e personaggi storici in cui il momento geopolitico fu fondamentale (Garibaldi fu un geopolitico “pratico”, il nazionalismo italiano ebbe una sua versione di destra tipicamente autoritaria mentre la matrice democratica del nazionalismo è impensabile senza considerare il Maestro di Genova, l’interventismo democratico era mazzinianamente animato da una profonda, anche se rudimentale, consapevolezza repubblicana e geopolitica che la libertà del nuovo Stato – e quindi dei suoi cittadini – non era al sicuro senza la demolizione degli Imperi centrali, l’impresa fiumana ben lungi dall’essere stata uno stolto rigurgito del peggior nazionalismo come da certa stereotipata storiografia, diede voce – ed azione – alla consapevolezza geopolitica di matrice mazziniana diffusa fra gli strati più umili della popolazione – ma non per questo non certo politicamente meno avvertiti –, che l’astratto wilsonismo era un attentato non solo contro la potenza di una nazione, l’Italia, che aveva vinto la guerra ma anche contro la sua libertà nel consesso delle nazioni e, quindi, al suo interno, anche contro il suo sviluppo in una società sempre più libera. E quanto fossero avanzate le concezioni politiche e sociali dei “fiumani” guidati da D’Annunzio, volentieri si rimanda alla misconosciuta Carta del Carnaro), la tragedia dell’Italia attuale è che la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, assieme alla giusta ridicolizzazione del fascismo, trascinò nel disastro anche quel Repubblicanesimo Geopolitico che era stato una delle componenti fondamenti del suo Risorgimento e della sua riunificazione e che aveva ben compreso che la libertà non poteva essere scissa dalla sua componente spaziale-geografica (2). Rimane da rispondere al quesito posto da Roberto Stefanini sulla rappresentazione della situazione che si fa il Repubblicanesimo Geopolitico. Se per rappresentazione della situazione s’intende il quadro delle relazioni internazionali, il Repubblicanesimo Geopolitico sente una profonda affinità, e prende robusti spunti oltre che dai già
citati padri della geopolitica, dalla dottrina delle relazioni internazionali che oggigiorno va sotto il nome di costruttivismo e che ha per caposcuola Alexander Wendt. Famoso il titolo del saggio di Alexander Wendt Anarchy is What States make of it, e cioè che l’anarchia del sistema internazionale non è una meccanica legge di natura ma dipende dalle scelte, a loro volta influenzate dalla storia e dalla cultura, che le singole nazioni compiono di volta in volta. Il costruttivismo, insomma, sottolinea l’importanza dei cosiddetti dati “sovrastrutturali” e volitivi nel determinare la dinamica del sistema internazionale. Da questo punto di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico è completamente d’accordo col costruttivismo ma con una piccola rivendicazione, non per sé stesso – ci mancherebbe – ma per chi prima ancora del costruttivismo e con feroce volontà attuativa pensò in questi termini: il solito Giuseppe Mazzini. Se per rappresentazione della situazione si intende, invece, il giudizio sullo stato di salute della democrazia in Italia e nelle altre cosiddette democrazie rappresentative, il giudizio è già stato espresso in altri interventi sul “Corriere della Collera” ma, in estrema sintesi, si riassume nella conclusione che quello che i media – ed anche un pensiero politico asservito a necessità che con la ricerca della verità e dell’espansione della libertà hanno poco a che spartire – oggi chiamano democrazia non è altro che un regime ove le oligarchie finanziarie sostengono e foraggiano un teatrino dove ancora si consente di scegliere attraverso formalmente libere elezioni la rappresentanza politica ma in cui questa rappresentanza politica è totalmente irresponsabile rispetto al suo elettorato ed è spogliata, de facto, di qualsiasi potere decisionale (questo teatrino del potere e della falsa libertà politica è comune a tutte le cosiddette democrazie rappresentative occidentali. Proseguendo con l’immagine, possiamo dire che, allo stato attuale, la democrazia è una recita fatta dai politici su un palco gentilmente fornito dalle oligarchie finanziarie. In Italia poi, per non farci mancare niente, gli attori sono pure degli scadenti
guitti). Questo giudizio, peraltro, non è proprio un’esclusività del Repubblicanesimo Geopolitico ma è condiviso anche dalla parte meno corrotta dell’attuale mainstream della scienza politica (Colin Crouch, Robert Dahl tanto per citare qualche autore). Al contrario però di coloro che vedono la postdemocrazia e/o la poliarchia come un destino inevitabile per le democrazie rappresentative occidentali, il Repubblicanesimo Geopolitico non si rassegna all’avvizzimento della democrazia per il semplice motivo che se gli uomini per pigrizia possono essere sordi sulla loro libertà, la storia è un’ottima sveglia e che, se inascoltata, può portare a traumatici e tragici risvegli. È la storia del nostro paese che è tutto un susseguirsi di momenti alti e di altri di tragica miseria. È persino inutile dire in quale momento il Repubblicanesimo Geopolitico ambisca a collocarsi. Sembrerebbe, è vero, una missione impossibile, per non dire connotata da un’assoluta ed insopportabile hubris. Se il Repubblicanesimo Geopolitico fosse una semplice nuova elaborazione di scuola sui temi (neo)repubblicani ciò sarebbe assolutamente vero. Ma ovviamente la pretesa – o meglio la speranza – del Repubblicanesimo Geopolitico non è di essere la solita accademica variazione sul tema (neo)repubblicano ma modestamente, anche se con molto orgoglio, è di non essere altro che l’ennesima espressione di quel moto profondo che nasce dal cuore della nostra storia e civiltà e che si riassume nella ricerca di una sempre maggiore espansione della libertà. Ora e sempre.
Ravenna-Coimbra, 26 novembre 2013

NOTE
(1) In questa risposta [sul “Corriere della Collera”] sul Repubblicanesimo Geopolitico ho originariamente omesso qualsiasi citazione dei vari Nozik, Friedrich von Hayek, Dworkin
e Rothbard come autori di riferimento in merito al canone liberale. La ragione è molto semplice. Tutti questi autori, chi più da “sinistra” chi più da “destra”, ci restituiscono un’immagine talmente caricaturale del liberalismo – e talmente priva di qualsiasi riferimento alla nozione di “conflitto strategico” (concetto coniato da Gianfranco La Grassa nell’ambito del suo fondamentale rinnovamento del marxismo e dell’interpretazione del filosofo di Treviri ma il cui campo semantico rimanda direttamente a Machiavelli) – che da parte di un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, che intende seriamente e radicalmente superare il pensiero liberale è consigliabile, almeno in sede divulgativa come può essere quella di un blog, piuttosto che lasciarsi andare a facili, scontate – seppur giustificate – ironie, lasciar perdere ed ignorarli del tutto. Insomma, i lettori dei blog politici (o, meglio, tutti coloro che vogliono costruirsi una vera cultura politica e comprendere quindi anche la grandezza, seppur da superare, del liberalismo) se vogliono “perdere” tempo, affrontino Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Adam Smith, Ricardo, Carl von Clausewitz, Hegel, Marx, Mazzini, Mosca, Pareto, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carl Schmitt, Sorel, Lenin, Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Friedrich List, Schumpeter, John Maynard Keynes, per finire con i padri della geopolitica Alfred Thayer Mahan, Halford John Mackinder e Friedrich Ratzel piuttosto che i moderni pedestri, feticistici ed irrealistici propagandisti nominati sopra di un liberalismo visto come una sorta di sistema eterno, immutabile e al di sopra della storia (e di un individuo come una sorta di onnipotente Robinson sociale), servi sciocchi di quegli agenti strategici, che coperti dalle enunciazioni ideologiche (un tempo socialiste e liberali oggi solo liberali) ad usum della manipolazione del consenso hanno inteso le varie organizzazioni socioeconomiche in cui venivano ad operare (socialiste e liberaldemocratiche e oggi solo liberaldemocratiche) come il campo di battaglia sul quale scontrarsi per ottenere la supremazia. Agenti strategici che,
insomma, da veri propri leviatani hobbessiani hanno fatto sempre un sol boccone, strumentalizzandoli e trattandoli come carne da cannone, dei vari Robison sociali del liberalismo e dei vari Stakanov del socialismo reale. È inutile aggiungere che il Repubblicanesimo Geopolitico sia dal punta di vista conoscitivo che da quello politico è unicamente inteso a far uscire dal loro “stato di minorità” questi illusi Robinson liberali e i tuttora persistenti – e perdenti – cultori del fu Stakanov del defunto socialismo reale.
(2) Fondamentale per comprendere sul piano teorico questa dialettica spazio/libertà, Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction, London, 1919 di Halford Mackinder, il fondatore accanto a Thayer Mahan della geopolitica, e al quale si deve la comprensione che la democrazia è nata e si sviluppata grazie all’insularità della Gran Bretagna e che quindi il wilsonismo – oggi si direbbe l’esportazione della democrazia – era un assoluto non senso,

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Repubblicanesimo Geopolitico. 2a parte  Alcune Delucidazioni Preliminari Di Massimo Morigi

Rispondo molto volentieri, ringraziandolo per l’interesse mostrato, alle assai opportune domande di Roberto Stefanini sul Repubblicanesimo Geopolitico e ringrazio pure “Il Corriere della Collera” per dare spazio ed ospitalità alle seguenti opinioni ed analisi, ovviamente ascrivibili unicamente allo scrivente e non interpretabili come una sorta di sua linea editoriale ma che si ha fiducia che, almeno nello spirito, possano essere condivise dal blog e dai suoi cortesi ed attenti lettori. Senza scendere troppo nel dettaglio sugli autori e le fonti, attualmente, in contrapposizione ad una visione liberale della democrazia, che intravvede la libertà come non interferenza (e cioè che si sarebbe tanto più liberi quanto più la legge positiva non vieta di fare questo o quello), si contrappone, fra le altre, una corrente di pensiero che viene definita repubblicana o neorepubblicana (fra le altre, perché il repubblicanesimo o neorepubblicanesimo, nell’ambito delle dottrine che ambiscono a sostituire il liberalismo come ideologia guida, non è l’unica possibilità messa in campo dalla filosofia politica: abbiamo, per esempio, il pensiero comunitario (1) – cfr. Michael Sandel, Alasdair MacIntyre –, che indica come soluzione al deficit democratico un maggiore legame dell’individuo con la sua comunità di riferimento e che, da alcuni, per la sua critica alla versione liberaldemocratica della democrazia, viene avvicinato al repubblicanesimo, per non parlare dei vari marxismi più o meno neo che siano). Ora il (neo)repubblicanesimo, in contrapposizione ad una interpretazione liberale della libertà intesa come non interferenza, avanza un’idea della libertà intesa come non dominio (cfr., in particolare, Philip Pettit e Quentin Skinner), e cioè si è veramente liberi non solo quando la legge positiva interferisce il meno possibile con le scelte dell’individuo ma anche – e soprattutto – quando il contesto politico ed economico della società non consente che fra individuo ed individuo s’instaurino relazioni di dominio. L’esempio classico per illustrare la situazione di dominio è il rapporto servo/padrone di Hegel, dove il servo è sì legalmente libero di prendere decisioni in contrasto col suo padrone ma dove questo comportamento è, de facto, reso impossibile dalla disparità di forze fra questi due attori (per Hegel il rapporto servo/padrone aveva poi una sua evoluzione sempre più indispensabile al padrone, alla fine “padroneggiava” il padrone stesso; il (neo)repubblicanesimo meno dialettico e più “politically correct” vorrebbe, non si sa bene come, l’abolizione, ex abrupto – e bypassando del tutto la dinamica sociale delle scontro fra classi e della nascita da questa dialettica di nuove ed inedite classi – di questo rapporto). Quindi fra servo e padrone si instaura un rapporto di dominio e, giustamente secondo il (neo)repubblicanesimo, questo rapporto è una metafora di quanto avviene oggi nelle nostre moderne società rette politicamente da varie forme di democrazia rappresentativa. Per il (neo)repubblicanesimo è necessario, allora, per la costruzione di una società più democratica, affiancare alla non interferenza di matrice liberale anche una visione della libertà intesa come non dominio, una situazione quindi dove il comportamento del servo non sia condizionato dal maggior potere del padrone. Da ciò emerge un (neo)repubblicanesimo totalmente condivisibile a livello di etica pubblica ma, però, totalmente embrionale e a livello di elaborazione teorica e a livello di proposte di politiche pubbliche. Veniamo prima alle politiche pubbliche avanzate dal (neo)repubblicanesimo. Per quanto riguarda questo aspetto del (neo)repubblicanesimo, ci troviamo di fronte alla assoluta fumosità dei suggerimenti, fumosità il cui autentico “crampo del pensiero” è rappresentato dal fatto che l’analisi dei problemi politico-istituzionali delle società liberaldemocratiche non è mai affiancata ad una analisi delle classi socio-economiche che in queste società operano, dimodoché il (neo)repubblicanesimo stenta moltissimo ad individuare i reali rapporti di forza e/o di potere che operano all’interno di queste società, una dimenticanza di non piccolo momento per una dottrina che vorrebbe instaurare rapporti di non dominio all’interno delle democrazie rappresentative. Se questo è un problema del (neo)repubblicanesimo per quanta riguarda le politiche pubbliche (un problema che, comunque, potrebbe apparentemente essere risolto nella prassi con versioni più a “sinistra” e più redistributive della dottrina), è a livello teorico che troviamo il grande problema del (neo)repubblicanesimo, grande problema che sta proprio nella visione della libertà come non dominio, una visione, cioè, dove il potere (dominio) è visto come una cosa in sé cattiva e da contrastare il più possibile, una specie di pulsione da reprimere e da cacciare il più possibile nell’inconscio della vita politica, mentre il problema del potere non è tanto quello di rimuoverlo o di esorcizzarlo come una specie di peccato originale (una società ispirata al principio del non dominio altro non è che la realizzazione di questa rimozione) ma bensì un suo incremento e sempre maggiore condivisione di quote crescenti dello stesso fra tutti i membri della società. Se quindi la bandiera del (neo)repubblicanesimo è il non dominio, il Repubblicanesimo Geopolitico esprimendosi in termini simmetricamente contrari parla di dominio diffuso e/o diffusivo come condizione indispensabile per lo sviluppo della libertà. Per esprimersi ancora con maggior sintesi e ad uso di un facile promemoria: l’obiettivo del Repubblicanesimo Geopolitico è il Dominio Repubblicano Diffusivo, in inglese Republican Diffusive Domination (RDD se si preferisce l’impiego dell’acronimo o la Republican Increased Common Domination, RICD, Aumentato dominio comune repubblicano, usando un’altra locuzione semanticamente equivalente ed il suo rispettivo acronimo). Questa analisi sul potere come cosa in sé tutt’altro che malvagia, non proviene da autori autoritari, antidemocratici e/o fascisti ma discende direttamente dal pensiero di Hannah Arendt, per la quale, appunto, il potere non andava esorcizzato ma era lo strumento principale attraverso il quale sia la comunità politica che il singolo individuo potevano tendere alla realizzazione di una Vita Activa, quella Vita Activa la cui entelechia era la realizzazione di una immortale gloria terrena attraverso l’incremento della libertà/potere di ogni singolo individuo che, proprio in virtù di questa sua sempre più espansiva ed accresciuta capacità esistenziale, avrebbe potuto aspirare per sé e per la sua comunità ad obiettivi di tale esemplarità e bellezza da risultare immortali (tali da “vincere di mille secoli il silenzio”, cfr. in La guerra del Peloponneso di Tucidide il discorso funebre di Pericle agli Ateniesi).

Una chiosa di Massimo Morigi a “NATURA MORTA”

Nella “Natura morta (Prima parte)” di Giuseppe Germinario assieme alla esemplare definizione – se mai ce ne fosse ancora bisogno – della natura di parvenu della politica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e alla descrizione dello spappolamento dello scenario politico italiano che ha consentito che un tal personaggio, unicamente dotato di prontezza ferina di riflessi ma senza alcun spessore umano e politico, abbia potuto arrivare così lontano, emerge anche un dato di fondo che consente anche riflessioni sulla attuale involuzione dei sistemi politici retti dalle cosiddette democrazie rappresentative. E questo dato di fondo è che non solo in Italia, ma in tutti i paesi del perimetro di queste democrazie, quello che è sempre più solarmente evidente – e si cerca di nascondere con tutti i mezzi della propaganda per le masse e della dottrina politica per le classi meno indòtte della popolazione – é che il concetto di politica visto come rappresentanza/rappresentazione dei vari strati e diversificati strati della popolazione non sta letteralmente più in piedi. Non sta in piedi in primo luogo perché si è visto bene che le democrazie non riescono de facto a dare rappresentanza/rappresentazione armonica della società ma solo di coloro che in virtù della loro posizione privilegiata potrebbero benissimo fare a meno di delegare un ceto politico per avere una rappresentanza/rappresentazione parlamentare-teatrale dei loro desiderata e se lo fanno lo fanno solo perché così la realtà vera dei rapporti di forza viene meglio mascherata e, in secondo luogo, non sta nemmeno in piedi dal punto di vista scientifico perché ormai dopo un più che secolare rimbambimento ingenerato dalla scienza politica liberal-liberista dovrebbe, anche al più stolto cultore di scienze politiche e/o filosofico-politiche, risultare del tutto evidente che la politica non è rappresentanza/rappresentazione di qualcos’altro ma non è altro che un episodio del morfogenetico conflitto espressivo della società. Che poi la politica dei paesi nel perimetro liberaldemocratico possa assumere la Gestalt della rappresentanza/rappresentazione politico-teatrale, non contraddice la natura intimamente conflittuale della politica ma non è altro che una sua “astuzia” per coprire questa natura e rendere perciò lo scontro ancora più efficace. Frank Ankersmit con il suo “Political Represention” è il massimo esponente di questa farlocca visione teatrale della politica e Matteo Renzi, pur probabilmente non conoscendone nemmeno l’esistenza, è con la sua postmoderna “narrazione”, senza possibilità di smentita, il massimo interprete della dottrina di questo professore olandese. Ma ciò, come ben sappiamo, non è il problema: il problema non è cioè Renzi ma una politica in Italia e all’estero e, ugualmente, le relative conoscenze teoriche sulla stessa, che sono tutte da rifondare buttando a mare il concetto che la politica sia una specie di rappresentazione di marionette (in effetti, sotto un certo punto di vista lo è, lo è, cioè, per coloro che credono nella visione teatrale della politica), dove quello che conta, in ultima istanza, sono le leggi eterne dell’economia, indiscusse ed indiscutibili (e, in effetti, l’economia riveste un grandissimo ruolo ma non perché questa sia l’espressione di leggi eterne ma perché l’economia non è altro che un episodio, come la politica del resto, dello scontro all’interno fra le classi egemoni e di queste classi egemoni contro le classi sottomesse). Nell’articolo di Germinario viene riferito di un Orlando in cerca anche di nuove categorie di pensiero. Se sia coloro che rimangono dentro il PD in posizione falsamente critica che coloro che ne escono cercheranno, come è sicuro, con un tardo e poco creativo ricalco della visione Ankersmitiana rappresentativo-parlamentar-teatrale, queste categorie in un stupido ed irriflessivo rifiuto delle “narrazioni” renziane (rifiutino, cioè, il postmodernismo narrativo di Renzi per un “sano” ritorno alle vecchie retoriche della sinistra), costoro avrebbero potuto darsi anche meno pena. Se, come invece di tutta evidenza, il loro scopo è stato quello di meglio rappresentare il loro guicciardiniano “particolare” (ottenere una parte più o meno da comprimari nel futuro parlamento-teatro), lo sforzo sarà valso lo sputtanamento di aver combattuto il segretario del partito senza alcun apparentemente valido motivo di fondo. E a questo punto dobbiamo veramente rivalutare Ankersmit e le sue (apparentemente ma anche realmente) svianti elucubrazioni teatrali.
Massimo Morigi – 27 febbraio 2017

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Angelus Novus di Paul Klee

WALTER   BENJAMIN,     IPERDECISIONISMO   E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È  LA  REGOLA*

 C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (IX tesi)

 L’Angelus Novus di Paul Klee, che divenne il messianico protagonista della  IX tesi   di Tesi di filosofia della storia, era stato acquistato nel 1921 da Walter Benjamin e da allora lo accompagnò quasi sempre nelle sue peregrinazioni in Europa. Forse in un nessun altro luogo della produzione benjaminiana come nella tesi IX è espresso il disprezzo benjaminiano per l’ideologia del progresso,  un progresso che secondo l’ingenua mentalità positivistica – esemplata poi anche dal totalitaristico diamattino marxismo orientale e dall’ingenua visione  della stragrande maggioranza dei  dirigenti e dei militanti di base otto-novecenteschi dei movimenti rivoluzionari  – si doveva sviluppare all’infinito e lungo un vettore assolutamente lineare. Del tutto realisticamente Benjamin rifiutava questa ottimistica e consolatoria visione ma, apparentemente del tutto irrealisticamente, per Benjamin quello che il futuro negava e non ci poteva garantire era riservato al passato: per Benjamin la rivoluzione doveva, in primo luogo, compiere un’azione di salvezza verso tutti coloro che dai dominatori della storia erano stati sottomessi ed eliminati sia a livello individuale che come gruppi sociali e/o etnici.  Apparentemente,  dal punto di vista personale ed anche dell’elaborazione dottrinale del repubblicanesimo geopolitico,  nulla ci potrebbe di essere più distante – fatta eccezione per il  rifiuto dell’ideologia del progresso – dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi  e  dalla  struggente immagine  dell’Angelus Novus  Benjaminiano,  nulla ci potrebbe di essere più distante  dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi e dalla straziante immagine dell’Angelus Novus Benjaminiano che passivamente trasportato dal vento che gli spira fra le ali ha “il viso rivolto verso il passato” ma la grandissima attualità di Benjamin insiste sul fatto che in quest’autore convivono due aspetti che a prima vista sembrano assolutamente antitetici. Del misticismo soteriologico rivolto a resuscitare gli sconfitti abbiamo già accennato, vediamo ora di focalizzarci sul suo realismo politico. Scrive Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia:

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Cogliamo qui un Benjamin iperdecisionista ben oltre il decisionismo di Carl Schmitt, un iperdecisionismo benjaminano che aveva ben capito, sempre oltre Schmitt, che la decisione non era tanto quell’elemento che stava fuori dalla norma pur costituendone la base logica ma, molto più semplicemente (e fondamentale) era (ed è) sempre stata l’unica elementare norma di comportamento (e giudizio) degli agenti strategici, di quelle classi, cioè, dominanti che da sempre fanno la storia. E concordando a questo punto interamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo.

Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana del paolino katechon,  ultima mitica risorsa  per arrestare la rivoluzione per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg, cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo ‘iperdecisionismo’  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, é vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma (che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che, anche se disvelati con prudente linguaggio dagli iniziati alle scienze politiche, si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo, si diceva nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica delle liberaldemocrazie hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società basate sulla democrazia elettoralistica a suffragio universale. A chiunque sia onesto e non voglia stancamente ripetere le illogiche assurdità sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è – per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina –  per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. Se i nonsense ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali – che è meglio definire per la loro intima insipienza ceti semicolti –  la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura radicalmente violenta dei rapporti di dominio ma, nel loro caso, per celare la presenza stessa di questi rapporti. E senza dilungarci ulteriormente su questo punto, la “società dello spettacolo”, una società dello spettacolo che con quiz, informazione guidata e di livello cavernicolo, terroristi di cui l’Occidente non ha mai alcuna responsabilità e farlocche invasioni aliene che, oltre ad instillare il bisogno di un’autorità protettrice, non sono altro che la ridicola copertura di esperimenti militari, svolge egregiamente questo ruolo di “distrazione di massa”.

Concordando quindi pienamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo. Se il timido decisionismo di Schmitt era in funzione conservatrice e in perenne attesa – ed evocazione –  del mitico Katechon, il frenatore che avrebbe arrestato la rivoluzione sempre incombente, l’ ‘iperdecisionismo’ benjaminiano è invece il miglior farmaco mai messo punto per la diffusione della consapevolezza presso i dominati che la norma non è altro che la cristallizzazione di una decisione originaria. E se per comprendere che “Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta è necessario il passaggio attraverso una soteriologia rivolta al passato, ben venga allora anche il misticismo di Benjamin: un realismo giunto alla sua massima maturazione ha ben compreso la lezione della I tesi di Tesi di filosofia della storia dove si parla di un automa infallibile nel gioco degli scacchi, il materialismo storico, che è imbattibile al gioco degli scacchi ma al quale questa imbattibilità gli è fornita da un nano gobbo nascosto sotto il tavolo (la teologia) che abilissimo nel gioco manovra l’automa. Per Benjamin è il nano teologico che comanda la partita e lo deve fare di nascosto (perché è piccolo e brutto e quindi la sua presenza, oltre ad essere un barare sulle regole del gioco, non sarebbe stata apprezzata da un pensiero, benché progressista, solidamente realista, come pretendeva di essere la vulgata marxista del tempo infestata, come del resto l’odierno pensiero liberaldemocratico, dalla mala pianta del positivismo). Per noi, meno mistici ma forse consapevolmente più dialettici di Benjamin – e come lui integralmente antipositivisti,  massimamente contro, anche se non solo!, la sua ridicola versione neo à la Popper, tanto per essere chiari – , è alla fine difficile distinguere ciò che è veramente realista da ciò che è mistico e forse, a questo punto, ci  siamo ricongiunti in toto con la IX tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

 

LA DEMOCRAZIA CHE SOGNÒ LE FATE (STATO DI ECCEZIONE, TEORIA DELL’ALIENO E DEL TERRORISTA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO)*, di Massimo Morigi

 

*A pagina 8,  Miracolo della neve di Masolino da Panicale

 

Triste l’uomo che vide in sogno le fate!

Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.

 

Po-Chu-i, L’uomo che sognò le fate (da Liriche cinesi, Einuadi, p.170)

 

Scrive Walter Benjamin nella tesi n.8 di Tesi di filosofia della storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”  (1)  Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione (2) pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana di katechon ultimo cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo iperdecisionismo  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, è vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state  basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma ( che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che anche se disvelati si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica democratiche hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società liberaldemocratiche. A chiunque sia onesto e non voglia ragliare le scemenze sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è, per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina, per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. (3) Se i ragli ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali, che è meglio definire per la loro intima somaraggine ceti semicolti, la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura dei rapporti di dominio ma nel loro caso per celare la presenza stessa di questi rapporti. Tralasciando in questa sede i risaputi discorsi sul Panem et circenses (per la verità, man mano che le democrazie elettoralistiche tradiscono le loro promesse, sempre meno panem e sempre più circenses), è un su un particolare aspetto della società dello spettacolo che vogliamo focalizzare la nostra attenzione, un aspetto che come vedremo è intimamente legato, per quanto in maniera deviata e degradata, con la percezione benjaminiana che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola. In breve: riservata fino a non molto tempo fa ai racconti e ai film di fantascienza, è ora in corso attraverso documentari televisivi che trattano l’argomento con un taglio apparentemente scientifico, una imponente invasione di alieni. E se alcuni di questi prodotti televisivi riescono, nonostante tutto, a non sbragare completamente e a trattare la questione quasi unicamente dal punto di vista della esobiologia, la maggior parte di questi dà l’invasione come un fatto già avvenuto e ancora non universalmente riconosciuto come vero perché le autorità, quelle militari in primis, avrebbero compiuto una costante opera di insabbiamento della verità. E, in effetti, quello della manipolazione della verità da parte delle autorità è la pura e semplice verità, solo che, per somma ironia, in senso diametralmente opposto rispetto a quello che credono gli ingenui ufologi. In altre parole, oltre che dall’esame delle fonti in merito, è di tutta evidenza che le apparizioni ufologiche sono legate allo svolgimento di esperimenti nel campo delle nuove armi e che lo smentire, da parte delle autorità militari, l’esistenza degli UFO non è altro che una loro astuta mossa per far credere in un insabbiamento dell’esistenza dell’extraterrestre   mentre quello che in realtà si vuole celare è l’esperimento militare. E dal punto di vista dei detentori del potere (siano essi militari o civili) un altro non disprezzato frutto della credenza dell’invasione aliena è che, comunque, di un potere c’è un dannato bisogno per proteggere l’umanità da una tale terribile minaccia (quello che vogliono gli ufologi non è tanto mettere in discussione le autorità ma metterle di fronte alle loro responsabilità dichiarando che siamo in presenza di una minaccia aliena e chiedendo espressamente al popolo il suo aiuto per fronteggiarla). (4) Perché, al di là di questa funzione di soggiogamento delle masse indòtte, questi prodotti intratterrebbero allora un rapporto, per quanto malato, con lo stato di eccezione benjaminiano? Molto semplicemente perché se c’è una verità che essi ci consentono di cogliere, è che, a causa della invasione degli alieni,  noi viviamo in un stato di eccezione permanente. Ovviamente per gli ingenui tremebondi dell’omino verde che si diverte a compiere esperimenti su poveretti rapiti e portati allo scopo  sull’astronave aliena, lo stato di eccezione è scatenato da una forza esterna ma noi si sarebbe altrettanto ingenui se ci si limitasse a giudicare questa psicosi unicamente o come indotta da documentari spazzatura o, se si vuole andare più a fondo, come una sorta di despiritualizzazione delle forme della religione tradizionale dove il diavolo viene sostituito dall’omino verde. Al fondo c’è anche la percezione che i cosiddetti doni della liberaldemocrazia non sono per sempre e che il baratro è lì che ci aspetta ad un solo passo. Se almeno a livello di coscienza degli strati meno acculturati delle popolazioni appartenenti alle democrazie elettoralistiche occidentali esiste effettivamente la percezione di un disastro incombente ( i bassi livello di reddito se non generano una consapevolezza sui rapporti di forza che vigono nelle democrazie, sono comunque ben propedeutici a profondi stati d’ansia),  a livello di scienza e di filosofia politica questa percezione è stata definitivamente rimossa. Per farla breve. Il pensiero marxista, nonostante negli ultimi anni si dica che assistiamo ad una sua rinascita, non è riuscito nemmeno  a sviluppare una coerente analisi perché l’esperienza del socialismo realizzato sia miseramente franata. Alcune frange lunatiche che pretendono essere gli eredi del grande pensatore di Treviri continuano a farfugliare di imminenti e terrificanti crisi del sistema capitalistico, ignorando i poverini che, come insegna Schumpeter,  la crisi è il motore stesso del sistema capitalistico (distruzione creatrice et similia). Sul cosiddetto pensiero liberaldemocratico meglio stendere un velo pietoso, perché se storicamente dopo il secondo dopoguerra è servito nella sfera geopolitica di influenza statunitense a svolgere il ruolo di occultamento dei rapporti di dominio, oggi è totalmente incapace di svolgere addirittura questa funzione. È un fenomeno riservato al dibattito accademico, per promuovere più o meno qualche carrieruzza in quest’ambito o, tuttalpiù per essere preso di rimbalzo da qualche giornalista trombone che diffondendo questa menzogna si vuole cucire qualche spallina da intellettuale per vantarsi di fronte ai colleghi che trattano la cronaca nera, ma per tenere dominate le masse, molto meglio una informazione di livello cavernicolo e totalmente etero guidata , (5) qualche quiz, qualche film, pornografia internettiana a volontà e per i più ansiosi e percettivi dello stato di eccezione permanente con le sue potenzialità catastrofiche, molto meglio le invasioni aliene. Peccheremmo però di falso per omissione se considerassimo il pensiero politico di questo inizio di terzo millennio come un immenso campo di macerie. In primo luogo – primo solo perché la responsabilità di questo indirizzo è direttamente e unicamente a noi ascrivibile – il ‘repubblicanesimo geopolitico’ (6) pur riconoscendo al neorepubblicanesimo alla Philip Pettit o alla Quentin Skinner il merito storico di aver iniziato un’operazione di progressivo distacco dal mainstream liberaldemocratico, da questo si allontana nettamente per aver messo l’accento sul problema del potere, dei conseguenti rapporti di dominio e su come democrazia non significhi, come nel neorepubblicanesimo, una difesa dal potere ma la suddivisione molecolare – e felicemente conflittuale – del potere stesso. Nel campo del pensiero marxista, fondamentale, per mettere in evidenza lo stato di eccezione permanente che informa tutta la vita politica e sociale, è il lavoro teorico svolto da Gianfranco la Grassa e le sue illuminanti riflessioni sulla razionalità strategica versus razionalità strumentale, sugli agenti strategici e sugli strateghi del capitale . (7) Sia il repubblicanesimo geopolitico sia il lavoro teorico di La Grassa sono quindi basati sul tentativo di svolgere un’analisi puntuale del potere, sia che questo si manifesti nei rapporti sociali sia nelle sue espressioni istituzionali, e dalla consapevolezza che ogni pratica politica volta ad aumentare il tasso di libertà all’interno della società non sia un fatto di enunciazione di eterni principi (enunciazioni che invece sono dissimulazioni di pratiche di dominio) ma di continui e pratici tentativi per effettuare una effettiva diffusione e parcellizzazione di questo potere. Inoltre sia in  La Grassa che nel  ‘repubblicanesimo geopolitico’, è centrale la consapevolezza, tratta dall’evidenza storica, che il capitale è solo un strumento attraverso il quale si svolgono le lotte di potere (il ‘repubblicanesimo geopolitico’ sostiene che la libertà, sia individuale che dei gruppi sociali, per essere esercitata necessita di un suo spazio vitale di esercizio ed espansione conflittuale e quindi, il repubblicanesimo geopolitico, ispirandosi alla terminologia della geopolitica tedesca, può essere definito, ‘Lebensraum repubblicanesimo’; (8) mentre in La Grassa fondamentale è il ruolo svolto dagli agenti strategici che lottano continuamente per espandere la loro sfera di influenza servendosi anche, ma non solo, degli strumenti finanziari e della produzione capitalistica). Detto sinteticamente: se con La Grassa il marxismo esce definitivamente, per individuare gli strumenti di riproduzione del potere, dalla mitologia marxiana dei rapporti di produzione capitalistici, il ‘repubblicanesimo geopolitico’ fa piazza pulita della mitologia liberaldemocratica che la libertà sia una questione di norme e di regole del gioco. In entrambi centrale è la benjaminiana consapevolezza che la vera norma che regola il gioco sociale e politico è lo stato di eccezione. L’uomo che sognò le fate era stato condotto da uno svolazzare di fate davanti all’imperatore di giada  che gli aveva assicurato che dopo quindici anni di sacrifici sarebbe stato ammesso al regno degli immortali. Ma gli anni passarano e tutto quello che accadde fu che quest’uomo, come tutti, invecchiò e poi morì (non aveva capito, in altri termini, che ogni esistenza, sia sociale che individuale, è intessuta in uno stato di eccezione che non ammette utopiche attese). La poesia di Po-Chu-i si conclude con “Triste l’uomo che vide in sogno le fate!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” Parafrasando possiamo concludere con “Triste l’uomo che vide in sogno la democrazia!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” A meno che la consapevolezza dello stato di eccezione non sia lasciata solo agli agenti strategici continuamente lottanti per un loro lebensraum e la sua oscura percezione ai credenti della nuova demonologia aliena e/o terroristica, c’est tout.

 

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Note

 

1)  W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, introduzione a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einuadi, 1995, p. 79.

 

2) Nella precedente citazione dell’ottava tesi di Benjamin la locuzione impiegata è “stato di emergenza”. Tuttavia la traduzione più corretta è “stato di eccezione”, locuzione che da adesso in poi manterremo nel corso della presente comunicazione.

 

3) Su cosa sia realmente la democrazia nessuno meglio di Gianfranco La Grassa ha saputo cogliere nel segno: “In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella  in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non un “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi di differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale.” (Gianfranco  La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Nardò, Besa Editrice, 2011, p.169).

 

4) Lo stile retorico e comunicativo  dei documentari televisivi sugli UFO segue, nella maggior parte dei casi, schemi pesantamente paratattici che più a trasmissioni vagamente informative li fa assomigliare a  comunicazioni di tipo religioso – preghiere e funzioni religiose –   con iterazioni ad nauseam degli stessi concetti, immagini e suggestioni senza che fra questi elementi vengano mai stabiliti legami logici significativi. Ma qui non ci vogliamo soffermare sul fenomeno UFO inteso come una sorta di religione sostitutiva (dove gli alieni, a seconda dei gusti, possono assumere il ruolo degli angeli o dei demoni) ma sul fatto che questo fenomeno è arrivato ad interessare, e fin qui nulla di strano, anche il massimo esponente vivente della teoria delle relazioni internazionali, il costruttivista  Alexander Wendt. In Sovereignty and the UFO,  agli URL http://ptx.sagepub.com/content/36/4/607.full.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dt6pJRsx e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fptx.sagepub.com%2Fcontent%2F36%2F4%2F607.full.pdf&date=2015-12-19), Alexander Wendt afferma che il fenomeno UFO, si creda o no nell’esistenza effettiva degli extraterrestri, ha l’effetto di provocare una diminutio di sovranità delle vecchie autorità terrestri a favore di quelle ipotetiche provenienti da altri mondi. In linea di principio potremmo anche concordare su questa fenomenologia dei rapporti di dominio di fronte al fenomeno UFO ma Wendt ignora completamente che, all’atto pratico, la gran massa degli ufologi e dei credenti negli omini verdi, sono dei patrioti fedeli alle autorità costituite che chiedono una sola cosa: che le autorità prendano il toro per le corna stabilendo un contatto con queste entità e all’occorrenza, dove queste dovessero risultare ostili, per combatterle più efficacemente denunciando pubblicamente il pericolo  e chiedendo l’aiuto e la collaborazione del popolo precedentemente tenuto avventatamente all’oscuro. In pratica, quindi, contrariamente a quanto sostiene Wendt, il fenomeno UFO consolida le autorità costituite e la translatio della sovranità verso gli extraterrestri rimane un fatto più virtuale che reale. Questo sul piano delle istituzioni diciamo secolari. Per non parlare poi del fenomeno UFO come una sorta di religione sostitutiva. In questo caso vale il caso di ripristinare la marxiana religione oppio dei popoli … e quando l’oppio viene percepito di scarsa qualità (crisi delle religioni tradizionali), ci si rivolge ad altri fornitori, con massima soddisfazione dei consumatori e degli agenti strategici che non chiedono nulla di meglio di dominati tranquilli (anche se un po’ troppo allucinati).

 

5) Vedi il caso di come viene trattato il fenomeno del cosiddetto terrorismo, prescindendo dal fondamentale aspetto geopolitico della questione. A questo proposito rimandiamo ai nostri interventi svolti sul blog “Il Corriere della Collera”, dove a titolo di esempio, trattando all’URL  http://corrieredellacollera.com/2015/01/19/antiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini/#comment-51015 (WebCite: http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F19%2Fantiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini%2F%23comment-51015&date=2015-04-19 e http://www.webcitation.org/6Xuok31dj) della recente isteria antiterroristica, il terrorista svolge il ruolo che in passato era affidato al diavolo (ed oggi, in gran parte, al suo valido compagno di merende, l’alieno: “Ad un livello immensamente più degradato di come l’intendeva Carl Schmitt, verrebbe voglia di citare, in relazione all’odierna isteria antiterroristica, la Politische Theologie, quando il giuspubblicista di Plettenberg affermava che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”: tradotto, per comprendere il ruolo dell’odierna disinformatia, quando il terrorista prende, nell’immaginario secolarizzato, il ruolo del diavolo. [Concludiamo] con un ulteriore rinvio a Carl Schmitt e al suo Theorie des Partisanen, dove il ‘partigiano’ è portatore di un’inimicizia assoluta ma un’inimicizia assoluta, di tipo veramente demoniaco, che ha la sua origine nella moderna guerra totale che ha distrutto la vecchia concezione di justus hostis. E così torniamo ai tagliagole mediorientali, figli non solo di una caotica strategia del caos statunitense che ha foraggiato per i suoi interessi geostrategici i demoni più distruttori presenti nell’area ma anche della nostra modernità politica che non può ammettere, pena la perdita totale della sua legittimità, l’esistenza di un justus hostis, ma solo l’esistenza, appunto, del nemico totale dell’umanità, il terrorista.”

 

6) Sul repubblicanesimo geopolitico, oltre a quanto apparso sul blog “Il Corriere della Collera”, vista la sua consolidata presenza nel Web, si rimanda  genericamente all’aiuto dei benemeriti ed efficienti browser – Google in primis, ça va sans dire, con un’unica ulteriore precisazione: consigliamo caldamente di visitare il sito di file sharing Internet Archive (all’URL https://archive.org/index.php).

 

 

 

7) Sugli strateghi del capitale si rimanda alla  esaustiva trattazione fattane in G. La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Roma, Manifestolibri, 2005. A dimostrazione di quanto, pur non nominandolo espressamente, il concetto di stato di eccezione svolga un ruolo fondamentale in La Grassa possiamo leggere: “Inoltre, la razionalità strumentale  del minimo mezzo è subordinata a quella strategica. La prima consente la generalizzazione di alcune “leggi” dell’efficienza e la minuta analisi delle condizioni che rendono possibile il conseguimento di quest’ultima. La seconda non ha leggi,  forse qualche principio, ma sempre da adattare poi alla situazione concreta, che è appunto quella che ho indicato quale singolarità. La ricchezza di mezzi è certo importante per l’attuazione delle categorie vincenti; e nel sistema capitalistico, in cui tutti i prodotti sono merci, i mezzi sono essenzialmente quelli monetari (nelle diverse forme). Tuttavia, la potenza non è solo questione di disponibilità  di mezzi, né bastano – per il loro impiego – le semplici regole dell’efficienza.” (G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, 2008,  p. 150).

 

8) Il concetto di Lebensraum fu coniato da  Friedrich Ratzel  e, soprattutto attraverso l’altro geopolitico tedesco Karl Haushofer entrò a far parte a pieno titolo dell’ideologia nazista (Karl Haushofer, tramite Rudolf Hess, si recò più volte nella prigione di Landsberg am Lech dove era detenuto Hitler in seguito al fallito putsch di Monaco per dare lezioni di geopolitica al futuro Führer). Quindi damnatio memoriae per tutta la geopolitica e per il termine Lebensraum centrale nella geopolitica stessa. È giunto il momento di rimuovere questa damnatio. Senza tanto dilungarci sull’ammissibilità di rispolverare concetti che il politically correct vorrebbe morti e sepolti, in queste sede diciamo una sola cosa. Al netto dell’uso scopertamente criminale ed ideologico che il nazismo ha fatto della geopolitica e dei suoi ammaestramenti, basti sapere che gli agenti strategici del capitale e i loro centri studi agiscono e programmano la loro azione alla luce del concetto di spazio vitale. E per essere fino in fondo politicamente scorretti, ricordiamo che l’economista austriaco Kurt W. Rothschild affermò che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith o i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege. Speriamo che per questo di non essere tacciati di guerrafondismo e/o criptico neonazismo.

 

T-REX IL MASTINO DI TRUMP, di Gianfranco Campa

T-REX IL MASTINO DI TRUMP

Il sole sorge sull’amministrazione Trump, un sole per il momento pallido ma con cumuli di pesanti nuvole all’orizzonte. Forze eternamente potenti cercano di influenzare, sia dall’interno che dall’esterno, la composizione e le decisioni della nuova amministrazione, mentre tutto intorno i centri di potere usano le intelligence deviate per mandare messaggi minacciosi a Trump cercando di far deragliare la presa della Bastiglia. Da fuori si percepiscono solo minimamente i giochi che si stanno svolgendo nel panorama della politica americana. Sin dalle primarie la guerra è divampata e la vittoria inaspettata di Trump ha solo intensificato questo scontro a tutto campo in cui un gruppo tradizionale molto potente, l’establishment al comando, sta facendo terra bruciata intorno a Trump usando metodi più o meno convenzionali. E` in quest’ottica che va visto l’inasprimento e il deterioramento dei rapporti con la Russia di Putin. La Russia come strumento per screditare Trump, sbandierando le presunte collusioni tra i due e portando la tensione di questa nuova guerra fredda a un livello che non si vedeva dai tempi dei missili sovietici a Cuba. Tenendo conto di questa situazione, le nomine di Trump nel suo gabinetto di governo assumono una importanza determinante. Queste nomine sono ora completate, manca solo qualche portaborse di poco conto.

Tra tutte la più importante è senza dubbio quella del Segretario di Stato.
Il Segretario di Stato, anche se sulla carta risulta una figura minore rispetto al vice presidente, in realtà è l’incarico secondo solo allo stesso Presidente. I tentacoli e il potere geopolitico degli Stati Uniti elevano lo status del Segretario all’equivalente di un vero e proprio primo ministro. A dimostrazione di questo il mondo si ricorderà più dell’impatto avuto da Hillary Clinton nei quattro anni di Segretario di Stato che di Joe Biden come vice-presidente per otto. Se qualcuno non è convinto basta chiedere a Gheddafi; se fosse ancora vivo potrebbe spiegarne la differenza…

La scelta di Trump è caduta su Rex Tillerson; non un politico, ma un uomo di business, ex-amministratore delegato della ExxonMobil (ha lasciato la sua posizione dopo la nomina). Il primo Segretario di Stato che non proviene dalla politica, ma dal mondo degli affari dai tempi di George Schultz. Da molti Schultz è considerato uno dei migliori Segretari di Stato degli ultimi decenni. Per chi se lo ricorda ancora, Schultz servì sotto l’amministrazione Reagan dal 1982 al 1989. Schultz fu il vero artefice di quella distensione tra USA e URSS che portò alla caduta del muro di Berlino. So che non tutti reputano la dissoluzione dell’Unione Sovietica come una cosa positiva, ma questa è un altra storia…
Torniamo a Tillerson . Quando fu nominato da Trump come possibile Segretario di Stato, il New York Times e il Washington Post suonarono immediatamente il campanello di allarme, mettendo in discussione i rapporti “amichevoli” tra Tillerson e Putin. Da allora si sono susseguite manovre e contromanovre per delegittimare sia Tillerson che Trump usando lo spauracchio della Russia. Dopo la sua nomina anche gli attacchi alla Russia di Putin si sono moltiplicati, con il fine di manipolare la decisione di nominare Tillerson e spingere Trump a ritirarla. Il terrore per l’establishement, fautore di questa nuova guerra fredda, riguarda la possibilità che il neo Segretario riesca a ricreare lo stesso rapporto di successo con la Russia avuto durante il suo regno alla ExxonMobil. Naturalmente ci sono differenze fondamentali fra allacciare una alleanza strettamente commerciale e una che abbia implicazioni geopolitiche.
Chi è realmente Tillerson? Per chi lo conosce bene, Tillerson è descritto come una persona molto pacata, senza picchi emotivi, di temperamento mite, ma allo stesso tempo una persona che incute timore e rispetto. Tillerson proietta una presenza forte ma spogliata di qualsiasi spirito di cattiveria e ostilità.
Tillerson, un uomo che si è fatto da solo. La sua carriera è legata quasi esclusivamente alla ExxonMobil dove cominciò a lavorare come giovane laureato nel lontano 1975, per seguire tutta la trafila e diventarne Amministratore Delegato nel 2006.
La ExxonMobil è la prima compagnia petrolifera al mondo, con uffici e rapporti commerciali con più di sessanta nazioni. Questo apparato implica una struttura simile a quella del governo americano; la ExxonMobil ha infatti il proprio servizio di intelligence e di sicurezza, oltre ad avere rappresentanti dell’azienda sparsi per i paesi del mondo a fare da “ambasciatori” a beneficio della azienda stessa. Le capacità “diplomatiche” di Tillerson, anche se non vengono da un estrazione puramente politica, non si discutono; non sarà quindi sull’esperienza di Tillerson che vengono e verranno condotti gli attacchi, bensì come detto prima, sui suoi rapporti con la Russia.
Negli anni ’90, dopo la fine dell’Unione Sovietica, Tillerson è stato uno degli artefici della privatizzazione dei pozzi petroliferi Russi. Tra il 1998 e il 2004 Tillerson ha manovrato per garantire alla propria azienda una posizione privilegiata con i Russi al punto tale che quando si è verificata la parziale restatalizzazione dell’industria petrolifera russa, Tillerson è riuscito a mantenere inalterata la posizione acquisita dalla ExxonMobil nel contesto dell’industria petrolifera Russa. Un rapporto quindi che e` andato avanti fino al 2014 quando le sanzioni imposte da Obama hanno posto il freno alle attività russe di ExxonMobil.
L’alter ego principale di Tillerson in Russia è Igor Sechin. I due sono amici intimi, strettamente legati da anni di rapporti commerciali. Sechin, amministratore delegato della Rosneft, un uomo difficile da gestire al punto tale di essere soprannominato Darth Vader, ha sempre espresso ammirazione per Tillerson con cui condividono ottimi rapporti, inclusa la passione per le moto. Le sanzioni alla Russia hanno colpito non solo l’aspetto finanziario della ExxonMobil ma anche i rapporti umani creati nell’arco degli anni. In questo contesto è chiaro che l’arruolamento di Tillerson da parte di Trump, rappresenta, nonostante le critiche, un tentativo di sbloccare i rapporti con la Russia e ricreare una nuova distensione. Il fatto che le critiche e le accuse a Trump non sono state sufficienti a farlo desistere dal nominare Tillerson ci offre la speranza che il sistema fin ad ora adottato nei giochi politici internazionali nei confronti della Russia sia in crisi e che Trump possa scardinarlo una volta per tutte. Naturalmente è una battaglia immane e i pericoli molteplici. Potenti forze sono opposte al piano di Trump e le possibilità di un deragliamento sono concrete. Molto dipenderà dalla capacità di aggirare queste forze. Una distensione delle relazioni tra USA e Russia è auspicabile per la sicurezza mondiale.
C`è un altro aspetto importante nella nomina di Tillerson che va tenuto in considerazione: Tillerson ha il carattere e la personalità giuste per raggiungere un altro obbiettivo importante; il repulisti del Dipartimento di Stato, da troppo tempo estremamente politicizzato, sotto il controllo di forze a volte estranee agli interessi del governo stesso e spesso piattaforma privilegiata di agenti e operazioni deviate, mirate a minare il terreno ogni volta che si intravede un timido tentativo di far ordine nella strategia geopolitica del caos tanto cara agli ultimi quattro presidenti americani. Basta vedere come elementi all’interno del Dipartimento di Stato hanno deragliato il tentativo di raggiungere un accordo tra John Kerry e Sergey Lavrov sulla Siria e prima di allora sulla Libia. Naturalmente la statura caratteriale tra Kerry e Tillerson è abissale; Kerry manca della personalità sufficiente a gestire e imporsi nelle stanze del Dipartimento.
La mancanza di curriculum politico tradizionale avvantaggia Tillerson; il compito però resta arduo e pericoloso. Il Dipartimento di Stato è diventato una complessa macchina burocratica, vittima di un sistema disfunzionale che vede il Dipartimento stesso usato come veicolo di vari interessi sia governativi che privati. Soprattutto, il dipartimento è diventato, non ufficialmente, base operativa occulta dei servizi di Intelligence americani dispiegati per il globo. Per comprendere la dimensione della gravità del problema basta fare riferimento allo scandalo delle email segretate di Clinton.
Cosi T-Rex diventa il mastino di Trump, quello incaricato di sostenere una guerra su due fronti; da un lato la ricomposizione degli obbiettivi geopolitici degli Stati Uniti, dall’altro la presa d’assalto al covo delle vipere le quali da come si sono viste agitarsi, sono piene di veleno e pronte a colpire ogni volta che si presenterà l’occasione. Potrebbe non bastare un T-Rex ad addomesticarle.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

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