POTERE, di Pierluigi Fagan

Abbiamo già pubblicato una recensione ragionata del libro “Sovranità” di Carlo Galli, frutto delle considerazioni di Teodoro Klitsche de la Grange http://italiaeilmondo.com/2019/05/15/carlo-galli-sovranita-recensione-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/. Pierluigi Fagan trae spunto dalle stesso libro per alcune interessanti considerazioni_Giuseppe Germinario

POTERE. [o “Dall’egemonia all’influencer”] Nel suo condensato “Sovranità” (Il Mulino, 2019), Carlo Galli individua la struttura del potere negli Stati (occidentali) contemporanei, definendola triadica (p.117). C’è il potere politico, il quale non è sempre o tutto parlamentare, c’è il potere economico il quale da ultimo è più finanziario che produttivo e c’è il potere mediatico-narrativo, “culturale” si potrebbe sintetizzare, che detta lo sviluppo del discorso pubblico e la legittimità argomentativa. Quale scaturisce da quale?

L’intero edificio dei poteri sociali si erge sulla distribuzione asimmetrica di conoscenza. E’ così dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa. Lungo tutta la storia delle società umane, le élite in cui si condensa il potere, almeno nelle società stanziali, sono quelle dotate di formazione e conoscenza. L’intero comparto sacerdotale si è sempre qualificato per il possesso di conoscenza, a partire dalla scrittura e rabbini, preti e sacerdoti, imam e sapienti confuciani, nelle loro rispettive società, sono a lungo stati i monopolisti della cultura alta e dell’insegnamento. In Occidente, solo a partire dal XIX – XX secolo si è pervenuti a prime forme di istruzione di massa, sebbene élite economico-sociali e religiose abbiano continuato a mantenere loro centri di pensiero, autonomia di pubblicazione e reti di educazione e formazione autonome. Tutt’oggi, i livelli più alti di istruzione universitaria e post universitaria nel mondo anglosassone e spesso europeo, sono garantiti da istituzioni non del tutto aperte e non del tutto pubbliche.

Così per l’editoria che a certi livelli non può che interfacciarsi con quelle istituzioni, quindi corrispondervi. Così per l’informazione dove sappiamo che da Murdoch a gli Agnelli, dal Washington Post di Jeff Bezos a Berlusconi, dal Financial Times posseduto dalle oligarchie finanziarie giapponesi al Sole24Ore confindustriale e tutti gli altri, il potere economico o più spesso finanziario è direttamente proprietario di emittente informazione, inclusi i nuovi media on line. Così per i mezzi di comunicazione allargata che pur non facendo direttamente informazione, fanno “formazione” culturale. Dal monopolio hollywoodiano cinematografico, ad Instagram e Facebook, Linkedin (Microsoft), YouTube (Google), tutte -invariabilmente- americane.

Il triedo di Galli quindi è una piramide che si basa sul tasso medio di ignoranza o presunta conoscenza definito, per lo più, dalle élite economiche e finanziarie. Queste non solo controllano quel livello di base ma vi fanno poi corrispondere la propria offerta di conoscenza emessa che sia quella del titolo di studio di quella università top-100, o quel giornale che detta l’agenda e le categorie del dibattito pubblico, o quel modo di intrattenersi on line spendendo un certo tempo e impegno per fotografarsi i glutei da pubblicare poi con vivido orgoglio, stante che in secondo piano si vede che ci si trova in qualche posto esclusivo che muova l’invidia sociale. O anche scambiare la presa del Palazzo d’Inverno con il rifiuto militante a mettersi le mascherine sanitarie. Questa risonanza tra livello e distribuzione di conoscenza e fruizione del contenuto info-culturale fa poi fa da base alla partecipazione politica distratta che ogni quattro anni, chiama tra il 50%-60% della popolazione ad esprimere un voto semplificato per chi “sembra” a noi più conforme. Possedendo direttamente partiti come nel caso italiano di Forza Italia o esponendo leader miliardari come Trump e la famiglia Bush o indirettamente influendo su partiti come i vari partiti liberali europei, En Marche e collegati minori spagnoli ed italiani, i Tories, il corpo principale delle varie democrazie cristiane o social-democratici definiti tali per tradizioni ormai scomparse o condizionando gli altri con i bombardieri culturali ed informativi, quando non con i “mercati” che danno giudizi silenziosi, impersonali ed inappellabili, la “conformità” è quindi assicurata come armonia prestabilita.

Una popolazione educata o maleducata dal potere economico e finanziario, trova magicamente corrispondenza nell’offerta politica condizionata e pre-formata dallo stesso originario potere cultural-formativo-informativo che ha educato o maleducato quella popolazione.

Cose note si dirà. Già, ma allora non si capisce perché le sfrangiate e minimali energie di resistenza politica a questo edificio di potere contemporaneo si ostinino a pensare che fare “politica” sia solo una faccenda di partiti, parole d’ordine, mosse tattiche, proposte politiche, quando l’essenza dell’edificio è prettamente culturale. Quantomeno ci si aspetterebbe una mobilitazione anche su quel campo. In effetti, qualche editore ostinato sull’orlo del fallimento, qualche professore non conformista, qualche blogger, qualche pensatore on line resiste ostinatamente. Manca però un quadro e discorso condiviso a monte. Manca soprattutto la condivisione del fatto elementare che la battaglia politica si fa nella testa della gente, a partire dai tuoi contatti facebook, da quello o quelle o quelli che ti stanno accanto. Immediatamente, tutti pensano “ok sono d’accordo con quello che dici, ma che fare? come far diventare questo discorso un discorso che porta nostri rappresentanti al “potere”? Ma come li porti al potere se non c’è una base di larga condivisione nella società occupata militar-cognitivamente dai poteri in atto? Il campo di battaglia non è il parlamento o le sedi di potere in cui cercar di addensare un contropotere, non almeno fino a quando si diffonderà una certa egemonia nel livello di base della distribuzione di conoscenza ed ignoranza generale.

L’Italia è tra i paese OCSE messi peggio quanto ad istruzione. Certo, “questa” istruzione non è di per sé garanzia di capacità emancipativa, ma l’istruzione è a sua volta un edificio fatto a fondamenta e piani ed alcuni presupposti logico-linguistici-razionali, nonché qualche nozione di base, vanno comunque presupposti per l’emancipazione. Rispetto ad una media UE del 20% tra ignoranti totali, elementari e medi, l’Italia segna un poco glorioso quasi 40%, il doppio.

Molti decenni fa, c’erano forze politiche e sociali, in genere di “sinistra” che, sulla scorta della flessione gramsciana della tradizione marxista-leninista, avevano in gran conto l’aspetto cultural-formativo-informativo. C’erano centri studi, scuole di formazione politica, decine di riviste ed anche quotidiani faticosamente tenuti in piedi dall’impegno militante di giornalisti e lettori, case editrici, registi, scrittori, poeti e pittori, musicisti. C’era una vera e propria “politica” di presenza nelle istituzioni pubbliche e private, un impegno politico forte ad allargare la penetrazione della formazione in tutti i ceti sociali. La visione generale era che al “popolo” dovevano esser dati strumenti per l’emancipazione e questi strumenti erano culturali. Questa non era la ricetta completa ma era la pre-condizione necessaria. Nessuno comunque si sognava di rivendicar con orgoglio una presunta saggezza dell’ignoranza. Questa era “l’egemonia” che oggi ha varie versioni, tutte di destra, dalla liberale alla fascio-sociale.

Nelle moderne c.d. “democrazie liberali”, questo è l’unico vero terreno di scontro, non può essercene altro poiché qualunque istanza, anche la meglio intenzionata, non potrà mai giungere a pubblica e corretta visibilità chiedendo supporto di consenso, ad una base popolare tenuta nell’ignoranza e nella mis-informazione.

Oggi si presentano numerosi attacchi alla partecipazione popolare al voto democratico da parte di coloro che notano che vasti livelli di ignoranza non dovrebbero avere il potere di determinare le scelte politiche. Alcuni rispondono difendendo il diritto inalienabile al voto per tutti come fondamento della stessa c.d. democrazia e fanno bene. Ma questa difesa è debole. La miglior difesa, si sa, è l’attacco ma molti non sono in grado di neanche ragionare in attacco, a parte la mancanza di forze obiettive. Le stesse forze però mancano nella misura in cui manca l’impegno a formarle e questa formazione di forza, dovrebbe passare proprio dalla spinta a coltivare conoscenza ed informazione senza la quale la democrazia rimane “così-detta”.

Un paese col 40% di corpo elettorale che oscilla tra l’istruzione elementare o media, non può andare da nessuna altra parte che non sia il finire sistematicamente nelle attraenti trappole disseminate a iosa dal potere economico-finanziario-informativo-culturale che domina il potere politico, quindi giuridico, che domina la società intera.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221911265346351

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO, di Pierluigi Fagan

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO. Più o meno a metà di settembre, gli Stati Uniti dovrebbero registrare lo stesso numero di morti SARS per milione di abitanti dell’Italia. Ai primi di novembre, quando si andrà a votare per il rinnovo della carica presidenziale, gli Stati Uniti dovrebbero esser su una media morti per milione di abitanti pari a quella della Gran Bretagna che, subito dopo quella del Belgio, è la peggiore d’Europa ed una delle peggiori del mondo. Ma molto diverso è il modo con cui questi paesi sono arrivati o arriveranno a quei tristi risultati. Quando l’Italia ha terminato il suo lockdown, il 4 maggio quindi tre mesi fa e circa due/tre mesi anche dall’inizio dell’epidemia, i morti per milione di abitanti erano più del doppio di quelli americani, erano quindi per lo più concentrati nel primo trimestre. Gli Stati Uniti invece, hanno continuato a registrare decessi in forma continuata. Così oggi sono a circa l’80% del risultato italiano che pareggeranno a metà settembre e da allora supereranno progressivamente.

Discutere dei risultati sanitari dell’epidemia-pandemia è molto delicato, a partire dal fatto che ancora dopo mesi molti non hanno ancora capito che il problema principale non sono tanto i morti ma la gestione sanitaria dei contagiati. Da una parte abbiamo visto come la composizione dei dati sia molto difforme, dall’altra per giungere ad un dato ci sono talmente tante variabili che indicare correlazioni semplici (a due variabili) risulta per lo più improprio. Sopra a ciò si aggiunge una doppia distorsione ideologica. La prima è quella politica tipo coloro per i quali Trump è bravissimo o coloro per i quali è un disastro, ma vale anche per il governo italiano. La seconda è sociologica poiché molti si sono fatti modelli in testa su cosa l’epidemia-pandemia è o non è, alcuni anche molto fantasiosi ed eterodossi. Ci sono quindi molti motivi per piegare il dato ad una certa interpretazione.

Tutto ciò premesso avanziamo comunque il dato comparato perché a grana grossa, tutte le eccezioni si piegano al ferro da stiro del dato all’ingrosso. I morti da epidemia sappiamo esser contati secondo diversi modi ma sono anche il dato più al riparo da troppe variabili differenzianti. I morti per milione di abitanti sono l’unico dato comparabile davvero tra paesi diversi se si dà credito alla realtà del dato che, per Stati Uniti ed Italia, è abbastanza solido.

P. Krugman prima e il corrispondente dall’Europa del Sud per New York Times, hanno di recente fatto presente come il caso Italia che all’inizio si riteneva esser il più disastroso in accordo all’immagine tipo di un paese tanto bello quanto disorganizzato e poco razionale, si stia rivelando nel medio tempo addirittura migliore di quello americano. Come molti hanno notato, il sospetto che NYT nella sue due firme “usi” l’Italia per render ancorpiù evidente il disastro della gestione Trump dell’epidemia, è quasi certezza. Ma il dato però è inconfutabile. E cosa ci dice questo dato? Tre cose.

La prima è che le epidemie vanno soffocate sul nascere. Come tutti i fenomeni esponenziali, se non intervieni quando l’esponente è basso, dopo non le riacchiappi più. Puoi intervenire in maniera mirata ed articolata come hanno fatto alcuni paesi dell’Estremo Oriente o la Germania se ne hai facoltà (una struttura sanitaria “preparata” e particolarmente efficiente) o brutale (Cina ed in parte Italia), ma tagliare presto i fili della rete di contagio è l’unica strada percorribile. Il caso Svezia, che comunque ha registrato una media morti per milione di abitanti simile all’Italia, fa poca letteratura in quanto troppe variabili sono difformi (l’età media svedese è la più bassa in Europa dopo Islanda,Cipro ed Irlanda, quella italiana è la più alta assieme alla tedesca. Dati Eurostat).

La seconda è che, soprattutto all’inizio, abbiamo fatto furiose discussioni ed in alcuni casi vere e proprie litigate a suon di dati contingenti, quando gli effetti di una epidemia si valutano sul medio-lungo tempo. Molte volte, anche qui, abbiamo terminato una discussione con un “vedremo …” che rimandava al poi, il giusto tempo per valutare gli effetti di ciò che stava succedendo. Non è ancora arrivato questo “poi”, occorrerà aspettare almeno fine anno. Una cosa però sembra potersi confermare tra quelle in discussione. Nel dibattito pubblico ha avuto molto successo il tema “libertà-salute” (con gran mischione di libertari, libertariani e liberali vs “creduloni” scientizzanti e totalitari), ma il vero e decisivo bivio era quello tra salute ed economia e molte delle diverse decisioni che sono state prese, hanno valutato diversamente questo rischio. Tali differenze non vanno lette come diversi atteggiamenti di valore tra stati col primato sanitario e stati col primato economico. Essendo salute e ricchezza due prerogative della popolazione, le due istanze non possono esser in contrapposizione, va trovato l’equilibrio. Il concetto di “equilibrio” è il segreto della gestione di fenomeni complessi, ma il concetto di “equilibrio” per le nostre immagini di mondo è poco appassionante. Appassiona molto di più la singola verità, la singola variabile, la singola soluzione che magicamente trasforma l’andamento dell’intero sistema in discussione. Ci piacciono le cose semplici, anche quando il mondo reale ci presenta fenomeni che semplici non sono.

La terza considerazione è che gli Stati Uniti d’America ovvero il loro attuale presidente, hanno registrato un fallimento adattivo di proporzioni clamorose. Hanno cioè sbagliato strategia il che, per un paese viziato da condizioni di possibilità lungo gli ultimi due secoli per lo più eccezionali ed al di là dei meriti intrinseci di quel popolo, non sorprende. Gli americani che pure hanno molte qualità, in genere, non si conoscono come fini strateghi. Pur avendo diversi primati scientifici, pur avendo enormi e sofisticate capacità di calcolo, risorse più di ogni altro, non hanno avuto l’intelligenza di capire i due punti prima espressi: hanno scelto di non intervenire drasticamente ed hanno valutato il rischio economico non collegandolo a quello sanitario.

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L’altro giorno leggevo un bell’articolo di Adam Tooze su FP che ripescava una concetto di Ulrich Beck condensato nel suo famoso “La società del rischio” del 1986, l’anno di Cernobyl. Sulla faccenda della pandemia, il primo e generalizzato fallimento, è stato quello di non aver previsto il rischio per altro noto. Non noto a coloro che cascati dal pero della loro sostanziale ignoranza (uso “ignoranza” come giudizio oggettivo, senza rimprovero, nel senso di “inconsapevolezza” o “incompetenza”), hanno cominciato a cercare spiegazioni fantasiose per eventi clamorosi. L’altro giorno, ad esempio, Elon Musk ha fatto capire di ritenere le piramidi egiziane opera di alieni il che ci sta se non sai nulla di archeologia e storia del tempo profondo. E’ normale che un tizio di un paese che ha trecento anni convinto della meccanica nozione di “progresso”, non si dia spiegazione di come abbiano fatto gli umani di quattromilacinquecento anni fa a fare quelle cose imponenti, se non ipotizzando interventi di mani invisibili esterne. Per millenni siamo ricorsi a dei, spiriti, fate e folletti per spiegarci quello che non altrimenti sapevamo spiegarci.

Chi quindi non sapeva nulla di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, si è sbellicato dalle risate sulla faccenda dei pipistrelli e pangolini, è normale. Però qualcuno sapeva di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, da decenni visto i documenti pubblicati da WHO sin nei primi anni duemila assieme a tutta la letteratura scientifica correlata. Così per i rischi Three Mile Island-Cernobyl-Fukushima, piuttosto che quelli climatico-ambientali, quelli tecnologici, piuttosto che quelli della bomba demografia africana che genera migrazioni ovviamente, non da sola), piuttosto che quelli correlati all’epidemia di debito mondiale o quelli legati alla transizione dei poteri sullo scacchiere geopolitico . Ho pubblicato diverse volte qui i Global Risk Report che le élite mondiali discutono a Davos ogni anno, con almeno una quindicina di rischi caldi dal prevedibile devastante impatto globale.

Ma questi temi non sono per le popolazioni, le popolazioni debbono pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili, altrimenti sale l’ansia e tutto si disordina, cambiano le priorità, saltano le logiche. Poi se succede qualcosa si interviene con le distrazioni di massa, dagli alieni al virus geneticamente modificato da qualche Spectre. Si fa poco riflessione sul fatto che un concetto largamente usato in certi ambienti alternativi come “Matrix” (e molti altri modelli distopici), usi il concetto di un prodotto di Hollywood ovvero la prima industria dell’immaginario con cui la prima potenza mondiale colonizza le nostre menti. C’è una sorta di “critica omeopatica” che usa i modelli mentali del nemico (quasi tutti “cinematografici”) pensando con questi di contrastarlo. La cosa farebbe più ridere della faccenda dei pipistrelli e pangolini ma non è così che va il mondo.

Fallita quindi la previsione del rischio, dovremo poi riflettere su i diversi tipi di gestione perché una cosa è certa: nel mondo complesso i rischi aumenteranno geometricamente. E se non si capisce cosa sta accadendo, si andrà di disastro in disastro, il che non è per niente adattativo, comunque la pensiate.

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Libro – Il Medio Oriente in fase di ristrutturazione (5/5) Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde_ di Eugène Berg

Sappiamo che il Medio Oriente, in uno spazio relativamente piccolo, concentra un massimo di domande di natura geopolitica, antagonismi multipli, nonché questioni politiche, religiose, economiche, sociali e culturali. Nessuno spazio al mondo come quello tra il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso e il Mar Arabico ha così tante guerre, conflitti, scontri e sconvolgimenti. Da qui il grande interesse che si lega all’opera monumentale di Gérard Fellous dedicata alla regione del Medio Oriente, a differenza di qualsiasi altra.

A giudicare da cinque volumi, in oltre 2.500 pagine ampie e ben documentate che coprono tutti i paesi, tutte le domande relative a questa vitale area geopolitica alla confluenza di tre continenti.

Gérard Fellous ha seguito nella sua carriera giornalistica le evoluzioni geopolitiche dei paesi del Medio e del Medio Oriente, alla guida di un’agenzia di stampa internazionale. Esperto per le Nazioni Unite, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa per i diritti umani e l’Organizzazione internazionale della Francofonia, è stato consultato da numerosi paesi arabo-musulmani. Il segretario generale della Commissione consultiva nazionale per i diritti umani (CNCDH) a nove primi ministri francesi, tra il 1986 e il 2007, ha trattato, in simbiosi con la società civile, le questioni della società sottoposte alla Repubblica.

Senza essere in grado di darne una spiegazione nella sua totalità, prendiamo in considerazione gli elementi essenziali, esaminando i cinque volumi, che costituiscono altrettanti punti di riferimento essenziali.

Volume 5: dall’Iraq alla Libia, l’instabilità si diffonde

Qualsiasi analisi geopolitica del Medio Oriente negli anni 2000 dovrebbe essere preceduta da un interrogatorio sulle cause del fallimento dell’ondata della “Primavera araba” che si è conclusa nel caos politico generalizzato. Divenne presto chiaro che la democrazia la cui nascita o rinascita si riteneva spontanea, vale a dire immediata sulle ceneri di dittature vacillanti, non poteva sociologicamente mettere radici in questa regione che non aveva basi politiche. ricezione. Già nel 1962, lo storico Ernest Renan vide nell’Oriente musulmano un “islamismo (che) si sta lentamente abbattendo; al giorno d’oggi si sgretola con un crollo (…) perché l’islamismo può esistere solo come religione ufficiale; quando si riduce allo stato di una religione libera e individuale, perirà. L’islamismo non è solo una religione di stato …) è la religione che esclude lo stato. “Proiettandosi nella visione di uno scienziato sul futuro del mondo arabo-musulmano, scrisse:” L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo sanguinario e senza compensi. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale. “L’Oriente … non ha mai conosciuto una via di mezzo tra l’anarchia completa degli arabi nomadi e il dispotismo assetato di sangue e senza compenso. L’idea del bene pubblico, del bene pubblico, è totalmente carente. All’alba del 21 ° secolo, in campo economico, c’era confusione tra democrazia e selvaggio liberalismo, alla maniera dei ragazzi di Chicago, in un momento di crisi durante il quale il Medio Oriente iniziò a impoverirsi dopo aver perso il suo status esclusivo di riserva energetica globale.

Leggi anche:  La penisola arabica, cuore geopolitico del Medio Oriente, di Frank Têtart

Le “Rivoluzioni arabe” furono effimere, anche tra le popolazioni più impegnate, come in Tunisia. Il “Nuovo Medio Oriente”, che era già stato progettato da George Bush, Jr. durante il suo intervento in Iraq (aprile 2003), ancora una volta tanto atteso è diventato un immenso caos violento e l’intera regione è entrò in un periodo geopolitico di “barbarie”. La distruzione dell’Iraq non è senza ragione. In Occidente, leggere l’evolversi del Medio Oriente nella continuità dei modelli di decolonizzazione è stato un errore di prospettiva secondo l’autore. Non solo il Medio Oriente musulmano è stato impermeabile alla democrazia che l’Occidente postcoloniale credeva di poter stabilire sulla scia dell’indipendenza nazionale, ma in realtà questa regione è oggi segnata da un ritorno al tribalismo, al clanismo e ad una “guerra” di essenza religiosa. Il futuro di molti paesi della regione era difficile da prevedere entro il 2018.

La “primavera araba”, tutt’altro che un’ondata di democrazia

L’Occidente avrebbe fatto un malinteso interpretando l’avvento della “primavera araba” come un’onda democratica che avrebbe attraversato il mondo orientale. Non è bastato abbattere i despoti siriani iracheni, libici, tunisini o egiziani in modo che, in modo schiacciante, come i fiori di primavera, la democrazia attecchisca trionfalmente sul terreno del “diritto all’autodeterminazione”. “. Le fenditure sociali e confessionali separano gli oppositori dai sostenitori del regime e, man mano che i conflitti insorgono, con la loro violenza conseguente, le solidarietà comunitarie hanno avuto la precedenza sulle questioni sociali e politiche. “

Il mese di settembre 2012 segna un cambio di stagione, passando bruscamente da una “primavera araba” a un “inverno islamico” in Tunisia, Egitto, Libia e altrove nel mondo arabo-musulmano. Questa glaciazione comportava un triplo pericolo. Legittimare i rami più estremisti dell’Islam, come il salafismo wahhabita. La violenza della strada araba, con l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, la distruzione di premesse diplomatiche in diverse capitali e fino alla comparsa, il 15 settembre 2012, nel cuore di Parigi, di alcune donne interamente velati di nero e con una preghiera di strada, erano opera dei salafiti.

Accreditare l’idea di un “complotto” occidentale contro l’Islam. La regione trovò difficile ammettere che le difficoltà economiche e finanziarie in cui erano precipitate le “rivoluzioni” e le popolazioni liberate erano le uniche responsabili delle dittature da cui si erano liberate. Gli oppositori di questa “primavera araba”, vale a dire le vecchie classi dirigenti, immediatamente designarono come capro espiatorio il potere americano, accusato di essere all’origine di tutti i mali di un mondo profondamente arabo. Diviso. Da parte sua, Hassan Nasrallah, capo dell’alleato sunnita di Hezbollah dell’Iran sciita, ha sollevato la tensione nella via libanese, il giorno dopo la massiccia mobilitazione popolare cristiana durante la visita ufficiale di Papa Benedetto XVI a Beirut.. Avanzamento dell’opinione pubblica nella regione e oltre nel mondo occidentale, il concetto di “blasfemia”, con l’obiettivo di frenare la libertà di espressione e di opinione.

Il peso delle maggiori potenze

Tuttavia, il peso delle maggiori potenze nella regione: Iran, Arabia Saudita, Turchia si farà sentire a lungo su tutta la regione. Il regime teocratico di Teheran continuerà a sostenere i suoi sostenitori in Siria e Iraq, e utilizzerà le sue “armi armate”, tra cui gli Hezbollah libanesi, per espandere la sua influenza regionale. Così il suo leader Nasrallah, aveva annunciato ufficialmente il coinvolgimento militare dei suoi combattenti nei quattro angoli della regione mentre ritirava le sue armi pesanti nelle sue roccaforti in Libano, al fine, al momento opportuno, di integrarsi nella vita politica regionale e di riattivare le diversioni in altre aree di conflitto, come contro Israele, al fine di riunire il mondo arabo musulmano, attorno al nucleo duro delle comunità sciite. Ex presidente Barak Obama, dopo aver sperato di ottenere una sospensione dell’opzione militare nucleare iraniana e aver promesso che la pressione diplomatica ed economica su Teheran potesse essere allentata, fece una scommessa rischiosa che il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con il sunnita Umma guidato da MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa sul fatto che il suo successore Donald Trump non volesse correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea. stava facendo una scommessa rischiosa di cui il suo successore Donald Trump non voleva correre il rischio, quando si è allineato con la Sunni Umma guidata dall’Arabia Saudita di MBS. La Turchia è diventata un elemento destabilizzante rivendicando una posizione di leader sunnita regionale. Siamo sempre più riluttanti a fidarci di un regime islamico conservatore diviso tra impegni nei confronti della NATO, cooperazione “con il Cremlino o piani falliti di accoppiamento con l’Unione europea.

Leggi anche:  70 anni di NATO, ma non molto di più?

Molti altri paesi stanno attraversando momenti difficili. Il Libano trattiene il fiato, evitando qualsiasi provocazione, mentre si è dotato di un presidente cristiano e di un governo sotto il dominio degli sciiti e sotto il peso politico di Hezbollah più che mai all’avvio del Iran. Infine, va in “bancarotta” finanziaria sotto le pressioni del suo sistema bancario egemonico.

All’inizio del 21 ° secolo, i paesi del Mashreq e del Maghreb possono essere classificati in cinque categorie: – quelli in cui Iran e Arabia Saudita si confrontano direttamente, come in Iraq e Yemen; Territori profondamente squilibrati, come il Libano e la Palestina ; – I paesi sunniti che entrano nel nuovo secolo, come quelli del Golfo, dell’Egitto o della Giordania. – i paesi del Maghreb che, per la prima volta, si trovano ad affrontare tensioni frontali in Medio Oriente, in particolare in Libia, ma anche in Tunisia e Algeria, dove gli islamisti pesano ogni giorno di più; – Con un nuovo caso, quello di Israele, che allo stesso tempo sta stringendo legami sempre più stretti con i paesi sunniti e affrontando gli attacchi multipli e diversificati dall’Iran.

Quali istituti di mediazione o di pacificazione possono essere mobilitati in queste circostanze? Il Gulf Cooperation Council – GCC, creato nel 1981, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è bloccato a causa della disputa tra Arabia Saudita e Qatar scoppiata nel giugno 2017 Non possiamo dire che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che abbia designato l’Iran e Daesh come il nuovo “asse del male”. “E ha insistito su” l’importanza di fermare il finanziamento del terrorismo “, un obiettivo” primordiale “, necessario per” screditare l’ideologia estremista “. Ha elaborato un piano generale per sollevare la regione dal caos. Sottovalutando la profondità dello shock sunnita-sciita e sottostimando gli sviluppi nella regione, il presidente americano ha risvegliato antagonismi regionali ancestrali e virulenti. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Aveva contribuito allo scoppio della crisi diplomatica che ha destabilizzato i paesi del Golfo. QATAR in panchina. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Riyadh ha immediatamente proclamato che “il Qatar accoglie favorevolmente vari gruppi terroristici a destabilizzare la regione, come la Fratellanza dei Fratelli Musulmani, lo Stato Islamico (Daesh) e Al Qaeda. Il 5 giugno 2017, l’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo il Qatar in panchina nell’Umma sunnita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita. Questi paesi hanno espresso una linea particolarmente ostile all’Iran, accusato di approfittare delle crisi in Siria e Yemen per interferire nei paesi arabi sunniti. Ma il Qatar, il Kuwait e l’Oman hanno assunto posizioni più sfumate, cercando di non tagliare tutti i legami con il mondo sciita.

E il coronavirus in tutto questo?

Alla fine del suo quinto volume, Gérard Fellous, studia in profondità il modo in cui il coronavirus colpisce i paesi della regione in cui le carte vengono rimescolate. La regione non era preparata ad affrontare questa “bomba a orologeria” costituita dall’impatto economico che ha colpito, in modo molto diseguale, tutti i paesi del pianeta. Le forti tensioni politiche e militari hanno complicato, più che altrove, le prospettive di cooperazione tra Stati per sopravvivere alla destabilizzazione della salute. Le conseguenze economiche della pandemia si sono aggiunte alle altre tensioni per mettere in pericolo la sopravvivenza di alcuni Stati o almeno la stabilità già scossa del tutto. La situazione è stata aggravata dai continui handicap che sono stati, per decenni, le carenze e l’incompetenza degli Stati che non hanno riserve finanziarie per alcuni, né dirigenti formati, organizzazioni amministrative o ricercatori scientifici per affrontare questa nuova sfida sanitaria. .

Leggi anche:  Geopolitica della primavera araba, di Frédéric Encel

Le economie di molti paesi della regione sono o “economie di guerra” come in Siria o Yemen, o alla fine della loro corda, come in Iraq, Giordania o Egitto, o fallite come in Libano o Iran. Rimasero le petromonarchie del Golfo le cui risorse finanziarie e riserve di petrolio le proteggevano dal collasso ma che, nella maggior parte dei casi, potevano perdere la fiducia dei loro partner economici internazionali e quella delle popolazioni di origine straniera. molti che non supportano la gestione opaca di questi paesi. La credibilità economica e finanziaria di tutti i leader della regione era di nuovo caduta di livello dopo le smentite e i travestimenti delle realtà della pandemia. Un’altra conseguenza del deterioramento delle economie dei paesi arabi della regione,

Il debito estero della maggior parte di questi paesi è fissato in dollari e le valute nazionali perdono valore, i rimborsi di questi governi sono aumentati in modo esponenziale, causando drastici tagli ai bilanci nazionali. L’accesso limitato e condizionato di questi paesi ai mercati finanziari ha solo peggiorato la situazione dei loro disavanzi. Questi paesi non sono in grado di ridurre i loro debiti, diverse centinaia di milioni di persone si uniranno ai ranghi dei più poveri del pianeta, secondo la Banca mondiale. Ha quindi chiesto una moratoria sul debito, in modo che questi paesi possano liberare le proprie risorse per affrontare le loro difficoltà economiche. L’influenza del Coronavirus potrebbe ristagnare più a lungo nei paesi più poveri, quindi migrare tra gli emisferi meridionali e settentrionali

https://www.revueconflits.com/livre-moyen-orient-restructuration-irak-libye-instabilite-printemps-arabe-eugene-berg/

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI, di Pierluigi Fagan

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI. Nel 1486, il filosofo autodidatta Pico della Mirandola, scrive l’Oratio de homini dignitate, ritenuto da molti il “manifesto” di quel Umanesimo fiorentino che prelude al Rinascimento. Nell’Oratio, Pico sostiene che mentre ogni altro ente di natura è stato creato da Dio in forma determinata, l’uomo è condensato di potenzialità di potersi liberamente dare definizione da sé: “Tu determinerai la tua natura secondo il tuo arbitrio al cui potere io ti ho consegnato. […] …affinché tu stesso quasi come un libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avevi prescelto”. L’Umanesimo faceva perno su questa nuova antropologia in cui lo scarto dalla precedente convinzione stava tutta in questa sottrazione dalla determinazione che dava all’uomo libertà e responsabilità. L’operazione intellettuale era quella di sottrarre l’Uomo dalle rigide determinazioni del Dio artefice di ogni cosa, sostenendo che proprio Dio aveva donato all’Uomo la libertà dalla determinazioni donandogli la sovranità su se stesso. Ma allora, cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione?

In questo scorcio di seconda metà del XV secolo in Italia, si combatte la riforma del pensiero che vuole emanciparsi dal totalitarismo della Chiesa recuperando gli Antichi, testimoni di un “pensiero altro”e per altro, molto più esteso e sofisticato di quello tipicamente medioevale. Il XV col XVI e XVII secolo sono il periodo di lunga dissolvenza incrociata nel quale il Medioevo lentamente dissolve mentre assolve il Moderno, sia nel mondo dei fatti che in quello dei pensieri.

Nel mondo dei fatti, è questo il periodo in cui dissolve un certo tipo di società ed assolve un’altra. Questa seconda sarà poi quella che oggi sta finendo ponendo di nuovo la domanda: … cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione? In breve, l’Uomo occidentale, si è liberato da una gabbia mentale riflessa poi in una precisa struttura del sociale in cui gli intermediari della credenza in Dio usavano tale diffusa e profondamente introiettata credenza per garantirsi il ruolo di primi tra pari. Nel farlo, ha liberato la sua potenza intenzionale e produttrice facendo del lavoro e del suo profitto, il senso del suo stare al mondo. La nuova struttura del potere sociale perdeva il concetto di “primi tra pari” in quanto eclissando Dio come vertice della piramide dell’Essere si perdeva la parità umana, si perdeva quindi il ruolo e la funzione di intermediario, si apriva ad una nuova credenza in cui il mondo umano era fatto dall’uomo stesso. Questo “uomo produttore di mondo” s’ingaggiava sempre più a “risolvere problemi”, che lo facesse col lavoro, col commercio, con la tecnica, con le prime esplorazioni scientifiche o nautiche. Prima di giudicare idealmente il senso di questa svolta, il giudicante dovrebbe esser ben consapevole dell’aspettativa di vita, del tasso di mortalità per fame o malattie, del tasso medio di ingiustizia di allora comparati a quelli di oggi.

Il grande studioso dell’economia antica Moses Finley, raccontava di un signore dell’antica Atene che finanziava diverse navi commerciali del Pireo che riempiva di merci e beni. Le navi, periodicamente, andavano sulle coste libiche e lasciavano merci e beni sulla spiaggia al limitare della foresta. Poi tornavano un po’ al largo, aspettavano ed infine riattraccavano. Il “popolo della foresta” aveva preso merci e beni ed aveva lasciato in controvalore schiavi secondo proprio giudizio di equivalenza. Gli schiavi venivano portati al signore di Atene finanziatore della spedizione. Il signore aveva così accumulato circa duecento schiavi che però non vendeva, affittava. Li affittava ai possessori miniere o di campi da coltivare fuori Atene, piuttosto che come servi casalinghi o addirittura affittandoli alla città come opliti. Il signore possedeva quindi i mezzi di produzione essendo questi, al tempo, lavoro umano ed aveva realizzato il ciclo marxiano del denaro (per finanziare la spedizione) che serviva a comprare merce (gli schiavi) che producevano più denaro (profitto) di quanto erano costati (investimento), il fatidico D-M-D1. Il signore era quindi un “capitalista”.

Se questa è la formula di un fare economico capitalista, sarà bene sapere che di questo fare economico, la storia ne è piena e da molti più secoli che non quelli che chiamiamo propriamente “capitalistici”. Ma con due differenze tra gli esempi reperibili nella storia lunga ed il sistema imperante nei secoli propriamente detti moderni o “capitalistici”. La prima differenza è che questi modi -in passato- erano frammisti a molti altri, non erano l’unico modo. La seconda è che nessuna società si ordinava esclusivamente col fare economico che a sua volta si ordinava con solo questo modo. L’epoca in cui inizia la transizione ad una “società capitalistica” è proprio il XV secolo dove precedenti modi economici già lungamente basati sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto” sin dal XII secolo diventano sempre più diffusi e perfezionati, per poi dalla fine del XVII secolo, diventare l’unico modo del fare economico e con la Gloriosa rivoluzione inglese, il modo stesso in cui si ordina l’intera società nonché quello che esprime il potere politico riunito nel “parlamento dei produttori e dei dotati di capitale”.

Cosa intendiamo quindi con “capitalismo”? Un modo economico tra gli altri, passibile quindi di diversa forma o il sistema sociale in cui la società è ordinata dal fare economico e questo dall’unica versione basata sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto”? Nel primo caso c’è chi ipotizzò che imponendo una diversa forma economica previa conquista del potere politico e giuridico (come?) si giungerà ad una nuova forma sociale. Nel secondo caso si nota che non è tanto la forma del ciclo “I-T-P” che è antica quanto l’uomo, ma la sua presunta unicità e soprattutto la sua pretesa di ordinare l’intera società ed il suo potere ultimo che è sempre politico-giuridico.

Eccovi quindi gli “accelerazionisti”. Costoro sono convinti che piuttosto che resistere alle dinamiche evolutive (o involutive) del capitalismo contemporaneo, tanto vale accelerarle fino alle estreme conseguenze di una società liberata dal mito del lavoro. Non del lavoro in quanto tale che sarà sempre necessario entro certi limiti, ma del suo mito come essenza della società umana e realizzazione stessa dell’uomo. La chiave di volta è il progresso tecnologico che tende a sostituire lavoro umano con lavoro macchina o algoritmo. Alle sue estreme conseguenze, se il lavoro non sarà più il perno del fare umano e sociale, la società si cercherà un nuovo ordinatore. E potrà liberamente farlo laddove s’imporrà (come?) il principio di dare sussistenza minima garantita a tutti, liberando tempo ed energie intellettuali e sociali, infine politiche, per discutere e decidere assieme quale altro ordinatore darsi. Tornare cioè alla domanda di Pico su cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione e provare a dare un’altra risposta da quella che poi venne storicamente data. Non solo provare a dare un’altra risposta rispetto a quella data, ma anche rispetto alla contro-risposta data da coloro che volevano superare nel XIX secolo questo stato di cose e che poi, purtroppo, non sono riusciti ad alimentare un vero e sostanziale cambiamento.

E’ un argomento complesso da discutere quindi ve lo sottopongo a libera discussione.

nb tratto da facebook

La malattia del mondo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Francesco Borgonovo, La malattia del mondo, Milano 2020, pp. 207, € 15,00

Questo libro è una riflessione sulla pandemia da coronavirus, che dall’evento risale alle condizioni ideali e materiali da cui è stato incentivato, in un’epoca in cui eventi del genere, che hanno funestato l’umanità per millenni, sembravano chiusi nell’archivio della storia. Archivio che a dispetto dei progressisti – e purtroppo non solo loro – si è riaperto.

La pandemia è stata frutto di due fattori fondamentali, ambo ideali: il primo è la ybris, il secondo è (la pretesa/aspirata) assenza di limiti (non solo fisici) che caratterizzano il pensiero della globalizzazione (e dei globalizzatori). Quanto alla prima scrive l’autore, la ybris è “prima di tutto superamento del limite, del confine. E se ci pensate, l’intera storia dell’epidemia di Covid-19 (esattamente come la storia della globalizzazione) è una faccenda di confini varcati e limiti infranti”. Il limite infranto è quello della natura “Della natura noi uomini siamo, al massimo, i custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro ruolo, o quando tentiamo di farci creatori sostituendoci al Creatore, allora scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica”. Secondo gli scienziati il Coronavirus è nato – come altri agenti patogeni – da uno spillover da un “salto” tra specie (da animali selvatici all’uomo). Varcato il limite della specie è stato assai più agevole, dato il progresso tecnico e la permeabilità delle frontiere, diffondersi nel pianeta a velocità impressionante “Prigionieri come siamo dell’ideologia della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente i confini, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: la malattia, dalla Cina, è approdata in Germania, e da lì è giunta in Italia. Poi, il disastro. Quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i nostri limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza economica… Il confine, il limite, le barriere salvifiche che avrebbero potuto arginare l’avanzata del nemico occulto sono stati sbriciolati dal capitalismo selvaggio e dall’ideologia che impone: nessuna frontiera”.

Ricordando quanto scriveva Schmitt della contrapposizione tra terra e mare e le conseguenze che comporta sull’ordine, sul diritto e sull’economia, Borgonovo sostiene che non erra Zigmunt Bauman quando definisce la società post-moderna “società liquida” contrapposta alla solida terra che fonda società basate sul limite (confine delle proprietà, dei territori delle sintesi politiche, almeno di quelle stanziali, ossia, nella modernità, tutte). Per espandersi la “società liquida” necessita di superare se non di abolire i limiti.

Hegel lo aveva notato per l’industria nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: “come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il fondo e il terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il mare.

Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio…”; il mare pertanto era l’ “ambiente” più favorevole al commercio e all’industria. Ancor più quando, venuta meno la scoperta di nuove terre (e mercati) l’espansione deve basarsi sull’abolizione dei residui confini.

Il libro è colmo di idee. Per restare nei limiti di una recensione, la sintesi – purtroppo limitata come tutte le sintesi – è che la post-modernità si fonda sulla ybris, ossia la superbia di superare i limiti della natura. Borgonovo ricorda come i greci notassero ciò: Erodoto ed Omero, cui occorre aggiungere Sofocle, in particolare nell’Antigone e nell’Edipo re. Come condanna della ybris come distruttrice dell’ordine terreno e divino è particolarmente significativo il canto del coro nell’Edipo rePossa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni”. O nella profezia di Tiresia a Creonte nell’Antigone, nella quale l’indovino prevede la rovina del re per aver violato le leggi di natura “questo non è un potere tuo, né degli dei supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”. Indubbiamente una civiltà come quella greco-romana che Spengler riteneva basarsi sul senso del finito, cioè del limite è particolarmente utile per capire la degenerazione faustiana della post-modernità.

La quale trova la propria caratteristica fondamentale nel ritenere superabili realtà e leggi naturali. Lo stesso comunismo reale, rapidamente espanso e conclusosi, si fondava sull’illusione del giovane Marx di cambiare la natura umana, mutando i rapporti di produzione; alla fine della dittatura si sarebbe costruita la società comunista, senza comando né obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. Cioè senza i presupposti del politico – le costanti che connotano ogni comunità politica umana. Risultato smentito dalla breve storia del comunismo. Il quale si è retto solo perché ha mantenuto anzi potenziato le costanti del politico nella dittatura sovrana del partito. Cessata la fede nella quale è imploso. Nella post-modernità questa ybris ha preso altre forme, immaginato altri idola: tutti accomunati dalla credenza di poter oltrepassare leggi e limiti naturali. Illusione sempre smentita e fondante, come cantava Sofocle, nuove tirannie.

Teodoro Klitsche de la Grange

RESPONSABILITÁ E POTERE, di Teodoro Klitsche de la Grange

RESPONSABILITÁ E POTERE

Si dice che nel decreto-legge sulla “semplificazione” amministrativa di cui (al momento in cui scrivo) si è in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, vi sia una modifica (per un anno) del regime di responsabilità amministrativa dei funzionari, che escluderebbe quella per “colpa grave”, limitandola al dolo; per lo più, pare, inteso in senso penalistico.

Questa norma era, per così dire, “nell’aria”, perché confermativa della tendenza a ridurre la responsabilità dei funzionari che connota la prassi legislativa della repubblica: anche se, bisogna dire, altre norme annunciate – tese a limitare gli atteggiamenti omissivi e lentezze procedurali, sono condivisibili e semmai tardive perché avrebbero dovuto essere poste in essere da decenni.

Già agli albori dello “Stato di diritto” nel continente europeo la responsabilità dei funzionari (sia verso i cittadini per i loro atti che dello Stato) era oggetto di dibattito tra posizioni contrastanti. Così ne discutevano già Constant (oltre due secoli orsono) e Tocqueville (a metà dell’ottocento) con argomenti tuttora illuminanti.

Scriveva Constant nei Principes de politique (del 1815) che “Non basta aver stabilito la responsabilità dei ministri; se questa responsabilità non comincia nell’esecutore immediato dell’atto che ne è oggetto, essa non esiste: deve pesare su tutti i gradi della gerarchia costituzionale. Quando non è tracciata una via legale per sottoporre tutti gli agenti all’accusa che essi tutti possono meritare, la vana apparenza della responsabilità non è che una insidia funesta per coloro che saranno tentati di credervi. Se punite soltanto il ministro che dà un ordine illegale e non lo strumento che l’esegue, collocate la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire”, all’obiezione che “se gli agenti inferiori possono essere puniti in una circostanza qualsiasi per la loro obbedienza, li si autorizza a giudicare le misure del governo prima di parteciparvi. Per ciò stesso ogni sua azione è impedita. Dove troverà il governo degli agenti se l’obbedienza è pericolosa? in quale impotenza mettete tutti coloro che sono investiti del comando! in quale incertezza gettate tutti coloro che sono incaricati dell’esecuzione!”, il pensatore di Losanna replicava che “Questa obbedienza, quale ci viene esaltata e raccomandata, è, grazie al cielo, del tutto impossibile. Persino nella disciplina militare l’obbedienza passiva ha dei limiti tracciati dalla stessa natura delle cose a dispetto di tutti i sofismi… Un soldato dovrebbe forse, dietro ordine del suo caporale ubriaco, sparare al suo capitano? Egli deve dunque distinguere se il suo caporale è ubriaco o no; deve riflettere che il capitano è un’autorità superiore al caporale. Ecco che al soldato si richiede intelligenza e discernimento”. Per cui “Mai però si potrà far sì che l’uomo possa divenire totalmente estraneo all’esame e fare a meno dell’intelligenza che la natura gli ha dato per guidarsi e di cui nessuna professione può dispensarlo dal fare uso”.

Dato che proponeva, come giudice delle responsabilità, collegi di giurati, sosteneva che ciò non avrebbe incentivato troppo la disobbedienza perché la tendenza naturale dei funzionari “favorita altresì dal loro interesse e dal loro amor proprio, è sempre l’obbedienza. I favori dell’autorità hanno questo prezzo. Essa dispone di tanti mezzi segreti per compensarli degli inconvenienti del loro zelo!”.

Quanto a Tocqueville scriveva che le costituzioni francesi succedutesi dal 1789 avevano tutte confermato di sottrarre l’attività dei funzionari al controllo giudiziario, confermando così quello che, nell’ancien régime era una prassi consolidata “l’articolo parve così ben concepito che abolendo la costituzione di cui faceva parte si ebbe cura di estrarlo dalle rovine e dopo lo si è sempre conservato accuratamente al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori lo considerano ancora una delle grandi conquiste del 1789, ma in ciò sbagliano ancora, perché sotto la vecchia monarchia, il governo non aveva meno cura nell’evitare ai funzionari il disagio di rispondere al giudice come capita ai semplici cittadini”.

Sono quindi due secoli che lungo la “linea di faglia” che congiunge i principi di forma politica a quelli dello Stato borghese – e che comprende (anche) le garanzie del corretto esercizio della funzione pubblica – si riproduce il dibattito nelle medesime posizioni e quasi sempre, argomenti.

E la ragione è chiara: in ogni forma statale insistono due regolarità potenzialmente confliggenti: il rapporto tra governanti e governati (comando/obbedienza) e quella della classe politica, che Miglio estensivamente denominava aiutantato. In ogni regime politico le due regolarità devono essere tenute in equilibrio: perché nessuna classe dirigente può rinunciare a una certa misura di consenso dei governati e neanche ad un certo tasso d’obbedienza dell’aiutantato.

Sicuramente però eliminare la colpa grave come causa di responsabilità – anche se temporaneamente, ma in Italia spesso il contingente diventa duraturo – appare improponibile. Significa assicurare l’irresponsabilità per ogni errore provocato da negligenza, imperizia, imprudenza grave.

Se fosse applicato nei rapporti privati, renderebbe non sanzionabili le inadempienze più evidenti, compresa l’inadeguatezza a esercitare il ruolo per cui si è retribuiti.

Anche l’obbedienza dell’aiutantato ha un prezzo per l’autorità: ma, l’irresponsabilità per colpa grave è un costo troppo alto da pagare.

Teodoro Klitsche de la Grange

NON INDURRE IN TENTAZIONE…, di Teodoro Klitsche de la Grange

NON INDURRE IN TENTAZIONE…

Al fine di giudicare la complessa vicenda – o almeno la parte di essa più rilevante –Palamara – CSM non è inutile quell’invocazione del paternoster all’Onnipotente: non c’indurre in tentazione. Nei due fatti di “deviazione” della giustizia ai fini politici che occupano le prime pagine dei giornali: la sentenza contro Berlusconi di anni fa e la recente richiesta di processare Salvini, un ruolo di grande rilievo hanno le innovazioni legislative e costituzionali successive a Tangentopoli, in particolare, da ultimo, la legge “Severino” del non rimpianto governo Monti.

Presupposto delle quali è la pretesa lesione del diritto di uguaglianza, che avrebbe provocato o comunque incentivato il malaffare dei politici. Questo è difficilmente perseguibile perché la giustizia “politica” – cioè con oggetto e/o soggetto politico – è (per sua natura) derogatoria sia delle competenze che delle procedure ordinarie, onde le deroghe apparivano (e sono viste) come vulnera del principio d’uguaglianza dei cittadini. I quali così, anche ai fini penali, sono distinti in governati e governanti: i primi soggetti alla legge, i secondi alle di essa “eccezioni”. A cui si aggiunge anche la lesione dei principi dello “Stato di diritto”.

Non è così: sin dai primi teorici (e dalle disposizioni delle costituzioni) degli Stati borghesi – risulta che la giustizia politica non può che essere derogatoria di quella ordinaria.

Scriveva Constant circa due secoli orsono per sostenere, nelle accuse ai ministri, la deroga della competenza dei Tribunali ordinari a favore della pairie che “La messa sotto accusa dei ministri è, di fatto, un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo. Occorre dunque, per condurlo a termine, ricorrere a un Tribunale che abbia un interesse parimenti distinto da quello del popolo e da quello del governo e che tuttavia sia unito da un altro interesse sia a quello del governo sia a quello del popolo” che individuava nella camera dei pari; ciò perché “La Camera dei pari è dunque, per l’indipendenza e la neutralità che la caratterizzano, il giudice adatto dei Ministri”, e così a decidere della pubblica accusa (cioè di iniziare l’azione penale) i più adatti sono i rappresentanti della Nazione (altra deroga); mentre i “tribunali ordinari, possono e debbono giudicare i ministri colpevoli di attentati contro gli individui; ma i loro membri sono poco adatti a pronunciare su cause che sono piuttosto politiche che giudiziarie; sono più o meno estranei alle conoscenze diplomatiche,, alle combinazioni militari, alle operazioni finanziarie: conoscono solo imperfettamente la situazione dell’Europa, hanno studiato soltanto i codici delle leggi positive, sono costretti dai loro doveri abituali a consultare soltanto la lettera morta e a chiederne soltanto la stretta applicazione”. Non aveva pensato Constant, al fatto che anche i tribunali ordinari possono essere sedotti dallo spirito partigiano, e giudicare secondo il medesimo, come rimproverato anche da alcuni magistrati nelle conversazioni intercettate. E se si considerano le opinioni dei giuristi negli ultimi due secoli, divergono poco o punto da quella di Constant.

Il carattere derogatorio è giustificato dai quei pensatori, sia dalla possibilità di sottrarre i ministri a vendette politiche, sia ad applicazioni di norme senza tener conto dell’interesse generale, sia all’indipendenza superiore di organi speciali rispetto ai tribunali ordinari. Non s’immaginava che gli organi giudiziari (ordinari) si trasformassero in soggetti politici, interloquenti e contrattanti con altri soggetti, politici a tutto tondo, come parlamentari, leaders, componenti del governo. E non solo per l’attività amministrativa del CSM, come la nomina dei dirigenti degli uffici o la giustizia disciplinare. Ma per la condanna o l’accusa giudiziaria di uomini di governo, cioè per la perversione del fine della giustizia, strumentalizzato ai fini della lotta politica.

Ma per riuscire compiutamente a ciò occorre che l’esito dell’azione giudiziaria intrapresa si traduca in risultato istituzionale: cioè nell’allontanamento/perdita delle cariche rivestite del politico condannato.

E questa è la prima tentazione alla perversione della giustizia e del pari il punto di frizione tra principi dello Stato borghese e principi di forma politica. Perché se da una parte trattare diversamente chi è giudicato è lesivo dell’isonomia, rimuovere dall’incarico chi è stato nominato dal potere politico – in una democrazia dal popolo – è lesivo sia della distinzione dei poteri (cioè di uno dei principi dello Stato borghese) che dell’essenza e supremazia del “politico”. Come scrive Schmitt “la democrazia è una forma essenzialmente politica, mentre la giurisdizione invece è essenzialmente non politica, poiché dipende dalla legge generale… in uno Stato democratico il giudice è indipendente, se deve essere un giudice e non uno strumento politico. Ma l’indipendenza dei giudici non può mai essere qualcosa di diverso dall’altro aspetto della loro dipendenza dalla legge”.

Proprio il carattere derogatorio della giustizia politica serve a garantire sia la distinzione dei poteri che la superiorità del politico e l’indipendenza del giudice. Ma per far questo occorre che sentenze e altri provvedimenti del giudice non incidano sulle decisioni politiche (e democratiche), in particolare sulle cariche elettive, e soprattutto degli organi rappresentativi. Se l’organo competente a mantenere (o esautorare) un eletto è un ufficio giurisdizionale (come nelle conseguenze alla legge Severino) questo diventa (quanto agli effetti) un organo di direzione politica. Come mi è capitato di scrivere tempo fa “Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.

Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.

A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, «in una cella della prigione della Santé»?

E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità  con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente)” (v. Giudici e governo, Italia e il mondo 19/02/2019).

Per questo incolpare solo i giudici o solo il dr. Palamara della “perversione” è parziale e…ingeneroso. La realtà è che, proprio a quel fine distorto, sono stati predisposti da tempo gli strumenti adatti. E i peccati di oggi sono le conseguenze di quelle tentazioni, predisposte proprio al fine di farli commettere. In nome dell’uguaglianza e dello Stato di diritto, per di più.

Teodoro Klitsche de la Grange

La trappola di Tucidide e l’ascesa e la caduta di grandi potenze, di Jacek Bartosiak

La trappola di Tucidide e l’ascesa e la caduta di grandi potenze

Una teoria usata per spiegare la guerra del Peloponneso può essere applicata anche alle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina.

Di: Jacek Bartosiak

Circa 2.400 anni fa, Tucidide, uno storico greco e autore di “Storia della guerra del Peloponneso”, ha espresso una visione che risuona nel pensiero strategico fino ad oggi. Sosteneva che la vera causa della guerra del Peloponneso era il rapido aumento del potere di Atene e la paura che questo suscitava a Sparta, che finora aveva dominato la Grecia. L’autore Graham Allison ha usato questo concetto nel suo libro “Destined for War”, in cui ha descritto il rapporto tra Stati Uniti e Cina come un esempio di “trappola di Tucidide” – l’idea che il declino di un potere dominante e l’ascesa di un il potere in competizione rende inevitabile la guerra tra i due.

Tucidide focalizzò i suoi scritti e le sue analisi sulle tensioni strutturali causate da un netto cambiamento nell’equilibrio di potere tra rivali. Ha sottolineato due fattori principali che contribuiscono a questo cambiamento: il crescente bisogno di convalida del potere aspirante e la sua richiesta, implicita o esplicita, di una voce più ampia e un posto strategico nelle relazioni multilaterali; e la paura e la determinazione del potere attuale di difendere lo status quo.

Nel V secolo a.C., Atene emerse come una forza potente che in pochi decenni era diventata una potenza marittima mercantile, possedendo risorse finanziarie e ricchezza ma raggiungendo anche il primato nel mondo greco nei campi della filosofia, della storia, della letteratura, dell’arte, dell’architettura e al di là. Ciò irritò gli spartani, il cui stato era fondato sul potere terriero dominante in Grecia durante il secolo precedente.

Come sosteneva Tucidide, il comportamento di Atene era comprensibile. Con il suo potere crescente, anche la sua fiducia aumentò, così come la consapevolezza delle ingiustizie passate e la determinazione a correggere i torti commessi contro di essa. Altrettanto naturale, secondo Tucidide, era il comportamento di Sparta, che interpretava il comportamento di Atene come ingrato e una minaccia al sistema che Sparta aveva creato e sotto il quale Atene era in grado di emergere come una grande potenza. Questa combinazione di fattori ha provocato tensioni strutturali e, successivamente, una guerra che ha devastato la Grecia.

Oltre allo spostamento obiettivo nell’equilibrio del potere, Tucidide ha attirato l’attenzione sulla percezione della situazione da parte dei leader spartani e ateniesi, che ha portato a un tentativo di aumentare il proprio potere attraverso alleanze con altri paesi nella speranza di ottenere un vantaggio strategico rispetto al loro rivale.

La lezione che ci ha dato Tucidide, tuttavia, è che le alleanze sono un’arma a doppio taglio. Quando scoppiò un conflitto locale tra Kerkyra (Corfù) e Corinto, Sparta sentì che, per mantenere l’equilibrio, doveva aiutare il suo vassallo, Corinto. La guerra del Peloponneso iniziò quando Atene venne in difesa di Kerkyra dopo che i leader di Kerkyra convinsero gli Ateniesi che una guerra di fatto con Sparta era già in corso. Corinto convinse anche gli spartani che, se non avessero attaccato l’Attica, sarebbero stati attaccati dagli stessi Ateniesi. Corinto accusò gli spartani di aver frainteso la gravità della minaccia di mantenere un favorevole equilibrio di potere in Grecia. Sebbene Sparta alla fine vinse la guerra del Peloponneso, sia Atene che Sparta uscirono dal conflitto trentennale in rovina.

Alleati di guerra del Peloponneso
(clicca per ingrandire)

La trappola di Tucidide, che molti chiamano ora un “dilemma di sicurezza”, può essere vista anche nel contesto delle relazioni USA-Cina.

Gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescente potenza economica e le capacità militari della Cina, ritenendo che potrebbe sfidare il primato degli Stati Uniti e l’architettura di sicurezza esistente nel Pacifico occidentale e nell’Asia orientale. La Cina, nel frattempo, teme che, finché gli americani saranno presenti in questa parte del mondo, limiteranno la legittima crescita del potere e dell’influenza cinese.

Lo scienziato politico Joseph Nye ritiene che il grilletto chiave nella trappola di Tucidide sia una reazione eccessiva alla paura di perdere il proprio status di potere e le prospettive di sviluppo futuro. Nel caso di Washington e Pechino, il relativo declino del potere americano e il rapido aumento del potere cinese destabilizzano le loro relazioni e ne rendono difficile la gestione. Il generale Martin Dempsey, allora presidente del Joint Chiefs of Staff of the US Armed Forces, ha anche ammesso nel maggio 2012 che il suo compito principale era quello di garantire che gli Stati Uniti non cadessero nella trappola di Tucidide.

A seguito della lenta ma evidente erosione della posizione degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale, è altamente ipotizzabile che possa emergere uno scenario in cui l’attuale egemon è tentato di condurre una controffensiva strategica in risposta a un incidente, anche banale, nel Mar Cinese Meridionale o nel Mar Cinese Orientale, credendo falsamente di avere un vantaggio rispetto al suo rivale inferiore. Ciò innescherebbe una moderna trappola di Tucidide.

Una lettura approfondita del lavoro di Tucidide rivela una seconda trappola, ancora più complessa e pericolosa della prima. Tucidide avvertì chiaramente che né Sparta né Atene volevano la guerra. Ma i loro alleati e stati vassalli riuscirono a convincerli che la guerra era inevitabile comunque, il che significava che entrambe le città-stato avrebbero dovuto ottenere un vantaggio decisivo in una fase iniziale del confronto crescente. Pertanto, decisero di entrare in guerra dopo essere stati invitati a farlo dai loro stati vassalli.

Secondo una ricerca condotta nel 2015 da un team guidato da Graham Allison presso il Belfer Center for Science and International Affairs di Harvard, 12 casi storici su 16 risalenti agli ultimi 500 anni e con somiglianze con quelli descritti sopra da Tucidide si sono conclusi in una guerra di dominio. Rilasciare la tensione competitiva, se possibile, ha sempre richiesto enormi e spesso dolorosi aggiustamenti alle aspettative, allo status e alla posizione internazionale.

Come ricorda Allison, otto anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale, il re britannico Edoardo VII chiese al primo ministro britannico perché non vi fosse disaccordo con suo nipote, l’imperatore tedesco Guglielmo II, quando la vera minaccia per l’impero britannico erano gli Stati Uniti. Il primo ministro ha chiesto una risposta adeguata sotto forma di un memorandum dal capo del Ministero degli Esteri, Eyre Crowe.

Il memorandum, consegnato al re il giorno di Capodanno del 1907, era, come scrive Allison, “un diamante negli annali della diplomazia”. La logica al suo interno era veramente coerente con quella di Tucidide: la chiave per comprendere la minaccia tedesca era capire la capacità della Germania, nel tempo, di schierare non solo l’esercito più forte del Continente ma anche la flotta più forte, data la crescente forza del tedesco economia e vicinanza della Germania alla Gran Bretagna. Pertanto, indipendentemente dalle intenzioni tedesche, la Germania rappresenterebbe una minaccia esistenziale per la Gran Bretagna, il suo potere marittimo e la sicurezza delle rotte di comunicazione che collegano la metropoli con le colonie che rappresentavano la spina dorsale dell’impero.

Tre anni dopo, sia il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt sia l’imperatore tedesco parteciparono al funerale di Edward. Roosevelt, egli stesso un appassionato sostenitore dell’espansione della flotta americana, chiese all’imperatore se la Germania avrebbe rinunciato a costruire una grande flotta. L’imperatore disse che la Germania era determinata a possedere una potente flotta e aggiunse che era cresciuto in Inghilterra, si sentiva in parte inglese e credeva che la guerra fosse impensabile.

A quel tempo, nel 1910, la guerra mondiale sembrava impossibile come adesso. Ma risulta che i legami culturali, spirituali, ideologici e persino familiari, nonché l’interdipendenza economica e il sistema commerciale globale, non sono sufficienti per prevenire i conflitti. Sia allora che ora.

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?_ di Teodoro Klitsche de la Grange

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?

L’autunno scorso un ex Presidente del Consiglio – e un mese fa l’attuale – si sono rallegrati per l’apertura dei Romani ai “provinciali”; onde già Claudio era stato fatto imperatore, malgrado nato a Lione. Da tale esempio ne hanno ricavato conforto per le politiche d’accoglienza, d’integrazione e, verosimilmente, forse anche per lo jus soli (?), maccheronicamente inteso.

A chi conosce la storia e i costumi di Roma la vicenda non sta così: Claudio era romano, anzi di una delle più antiche gentes. Svetonio riporta che i Claudii immigrarono in Roma ai tempi di Romolo, ad avviso di alcuni; secondo altri, subito dopo la caduta della monarchia. Alla Repubblica la gens Claudia dette centinaia di magistrati, tra cui ben ventotto consoli. Il fatto che Claudio fosse nato a Lione non vuol dire che fosse gallo. Era nato in Gallia perché il padre guidava le legioni romane nelle guerre contro le tribù germaniche. La circostanza della nascita lontano da Roma non significa per nulla che non fosse romano: lo era per jus sanguinis. Ancor più il rilevante ruolo della gens Claudia nella storia romana rende un po’ comica la tesi del Claudio gallico o non-romano.

È interessante chiedersi perché sia stato diffuso da persone di buona cultura. Sembra di escludere che i due credano che Claudio non era civis romanus perché nato in Gallia.

Piuttosto, nella propaganda diretta ad elettori i quali neppure sanno chi era Claudio (e forse cos’era l’impero romano) devono propinarsi argomenti semplici e comprensibili da parte dei meno acculturati. E quale argomento migliore del luogo di nascita, accompagnato dalla completa de-contestualizzazione, onde la Gallia provincia romana appare “uguale” alla attuale Francia, stato sovrano?

In altre parole dire che Claudio è nato a Lione (che allora i romani chiamavano Lugdunum) significa quindi che era gallo, quasi francese. Il fatto che la Gallia fosse una provincia di Roma, che erano – specie nel primo secolo dell’Impero – i magistrati romani a governarla, questo è probabilmente ignorato da tanti onde cede di fronte all’argomento tele-anagrafico, alla portata di tutti.

Certo sarebbe stato sicuramente più in linea con la tesi cara ai due leaders politici, ricordare, di Claudio, lo splendido discorso fatto per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche, riportato da Tacito, che è, a un tempo, spiegazione della capacità di Roma di integrazione di popoli diversi, e della stessa integrazione quale mezzo della politica. Disse Claudio che i romani, da Romolo in poi, non avevano mai considerato gli altri popoli, anche se un tempo nemici (e vinti) come alienigeni (cioè diversi da loro); per cui con chi si era fatta la guerra era possibile costruire insieme e vivere in pace.

L’inconveniente di quel discorso è che non è immediatamente comprensibile (soprattutto) e che comunque l’integrazione richiede tempo (i Galli ammessi l’avevano aspettata circa un secolo) e non verificata da un esame d’italiano (o giù di lì).

A proposito di altri esami (e d’istruzione): non vorremmo che, anche complice l’emergenza da Coronavirus, il distanziamento scolastico e così via, non si desse un ulteriore “taglio” allo studio della storia, che, a quanto si legge, ne ha già subiti. In particolare di quella antica giudicata – a torto – di scarsa utilità.

Il che non è vero: a leggere il libro italiano che sarebbe il più conosciuto al mondo, cioè il Principe, Machiavelli lo scrive prendendo gran parte del materiale dalla storia antica.

Perché, dopo certe lezioni, c’è da aspettarsi che gli studenti, disabituati a conoscenza e valutazione storica, rispondano agli esaminatori che l’imperatore Claudio era il nonno di Macron.

Teodoro Klitsche de la Grange

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