Banditi del tempo, tecnologia e male_di Morgoth

Banditi del tempo, tecnologia e male

11 febbraio
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Il classico fantasy del 1981 di Terry Gilliam Time Bandit s non è ufficialmente una produzione dei Monty Python , ma coinvolge la maggior parte del team e gran parte dell’umorismo è ovviamente “alla Python”. I Monty Python hanno, negli spazi online giusti, sviluppato una reputazione di baby boomer per eccellenza, che con gioia e ignoranza demoliscono le fondamenta della civiltà occidentale, accumulando inconsapevolmente e indifferentemente perdite di civiltà che avrebbero dovuto essere affrontate dalle generazioni a venire.

In film come Brazil , The Adventures of Baron Von Munchausen e Time Bandits , Gilliam ridimensiona i tratti più eclatanti e scurrili del team Python e gioca invece con la metafisica, il re-incantamento e la fantasia. Il regno banale e noioso del piano materiale è in contrasto con il potenziale stravagante, magico e sconfinato dell’immaginazione. Se i Monty Python hanno fatto esplodere completamente i simboli che davano un senso alla vita, allora Terry Gilliam sembra, negli anni ’80, chiedersi: “E ora?”

Il protagonista di Time Bandits è un ragazzino di 11 anni di nome Kevin. Vive in un’anonima periferia in Inghilterra. I suoi genitori lo ignorano e chiacchierano di prodotti di consumo e di come raggiungere uno status più elevato grazie a divani, tostapane e tagliasiepi a due velocità. Kevin trascorre il suo tempo leggendo libri di storia e ammirando antichi guerrieri e racconti di temerarietà. La “chiamata all’avventura” di Kevin emerge attraverso il suo guardaroba sotto forma di sei nani che appaiono in fuga con una mappa. Un terrificante Essere di estrema potenza emerge e insegue l’azienda attraverso un portale, e l’avventura di Kevin inizia sul serio.

Il disincanto del Reno (e dell'Europa)

Il disincanto del Reno (e dell’Europa)

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13 agosto 2022
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Si scopre che i nani erano gli assistenti e i dipendenti dell’Essere Supremo, e avevano preso in prestito la sua mappa del cosmo. Questa mappa contiene i difetti della Sua creazione, come i portali e i buchi nel tessuto dell’universo attraverso cui la compagnia cade e in cui si rifugia. Gilliam fa uno splendido lavoro di scarico dell’esposizione al volo, per così dire, e usa la natura curiosa di Kevin come mezzo attraverso cui i nani possono essere indotti a spiegare esattamente cosa sta succedendo.

Il capo dei nani, Randal, vuole usare la preziosa mappa per viaggiare nel tempo, saccheggiando e rubando mentre va ad acquisire ricchezze e tesori. Ognuna delle epoche in cui arriva la banda è degna di un commento.

Francia napoleonica

Dopo essere scappati dalla camera da letto di Kevin, Kevin e i nani atterrano nella Francia napoleonica. Napoleone (Ian Holm) è raffigurato come un tiranno e si stanno svolgendo esecuzioni di massa attorno al suo accampamento alla Battaglia di Castiglione. Napoleone è ossessionato dall’altezza di altri grandi uomini della storia e prova simpatia per la banda perché sono tutti piccoli. Durante questa era, passiamo al principale antagonista, Evil (David Warner), un’incarnazione eccessivamente drammatica e pretenziosa di Satana, di cui parleremo più avanti.

Napoleone licenzia il suo alto comando e promuove i nani per sostituirli. Ciò si traduce rapidamente in un Bonaparte sentimentale che si addormenta bevendo, e Randal ordina ai nani di derubarlo alla cieca. Quindi fuggono attraverso un portale, portando con sé il tesoro.

Foresta di Sherwood

La gang cade attraverso un portale secoli prima nella foresta di Sherwood, atterrando su Michael Palin, che si atteggia a un aristocratico ridicolmente effeminato che corteggia una donzella. John Cleese arriva come Robin Hood, che ruba con aria compiaciuta il bottino della gang e in genere adotta le arie e le grazie di un truffatore elitario che disprezza “i poveri”. Non sorprende che la sezione della foresta di Sherwood sia la più in stile Python di tutte. In questa narrazione, Robin Hood non è migliore dei banditi che cercano di rubare per il proprio tornaconto. L’Essere Supremo arriva ancora una volta, facendo andare nel panico la gang. Peggio ancora, si aprono due portali invece di uno e Kevin ne salta uno da solo.

Finora, Kevin ha incontrato due uomini famosi della storia, Napoleone e Robin Hood. Napoleone era uno sociopatico insicuro, e Robin Hood era un truffatore sorridente.

Grecia micenea

Kevin arriva da solo a Micene, in Grecia, esce dal portale giusto in tempo per salvare il re Agamennone (Sean Connery) dalla sconfitta per mano di un minotauro. Agamennone è saggio, coraggioso e nobile e accoglie Kevin nella sua casa, trasmettendogli la sua saggezza e insegnandogli lezioni di vita. Nonostante sia un re, Agamennone antepone la virtù alla ricchezza materiale e l’onestà all’inganno. Per la prima volta dall’inizio del film, Kevin ha un archetipo eroico e una figura paterna in cui investire. Dice ad Agamennone che non vuole mai più rivedere i suoi genitori e il re lo accetta come suo figlio ed erede.

Sfortunatamente per Kevin, i nani arrivano ancora una volta, rovinano tutto e derubano Agamennone prima di rapire Kevin e scomparire di nuovo nel tempo.

Il Titanic

La banda arriva sul Titanic e inizia rapidamente a godersi il bottino di Agamennone. Kevin inizia a interrogarsi sulle motivazioni di Randal nel rubare la mappa. Dopotutto, la mappa dell’Essere Supremo offre un potenziale infinito per ottenere conoscenza e infinite possibilità di avventure, ma Randal non riesce a pensare oltre la mera ricchezza e il lucro. A questo punto della narrazione, il Male ha rivelato i suoi piani e si è dato da fare, tramando per ottenere la mappa. Il Male pensa che il modo in cui l’Essere Supremo ha costruito il mondo sia una farsa, che gli uomini abbiano i capezzoli sia stupido, le lumache siano inutili e che esistano così tante specie di farfalle sia ridicolo. Invece, le forme dovrebbero esistere solo per la loro utilità, funzionalità ed efficienza: calcolatrici e computer al posto della poesia e delle trote che si contorcono nei ruscelli estivi.

Il piano di Evil è quello di ingannare la banda e convincerla a entrare nel Tempo delle Leggende per ottenere “l’oggetto più favoloso del mondo”.

A bordo del Titanic , Randal chiede a un cameriere di portargli un altro champagne con “ghiaccio extra”.

Il tempo delle leggende

Dopo l’ affondamento del Titanic , la banda entra nel mitico Tempo delle Leggende, in cui si può entrare solo “credendoci”. Vengono rapidamente tirati fuori dalla salamoia da un orco con la schiena malandata e portati a bordo della sua nave. Alla fine, dopo aver preso il comando e aver lasciato l’orco e sua moglie a galleggiare in mare, la nave si rivela essere sulla testa di un gigante che cammina sulla riva.

Dopo essere stati fatti atterrare iniettando nel gigante dei tranquillanti, la banda è pronta a trovare l’oggetto più favoloso del mondo.

L’oggetto più favoloso del mondo

La ricerca da parte della gang dell’oggetto più favoloso del mondo è, ovviamente, uno stratagemma del Male per attirarli nelle sue grinfie, dove può ottenere la mappa. O, per dirla diversamente, la ricerca di un materialismo superficiale sta conducendo la compagnia, letteralmente, al Male. All’interno della fortezza del Male, Kevin si confronta con una replica distorta dei suoi genitori e della loro devozione alla corruzione mentale di stupidi quiz show e all’offerta di cianfrusaglie consumistiche. L’ironia è che, per il Male, l’oggetto più favoloso del mondo è la mappa dell’Essere Supremo, che permetterebbe al Male di rifare il cosmo nella sua visione orribile e utilitaristica.

Nel terzo atto di Time Bandits , Gilliam riunisce e intreccia i vari sottotesti e archi narrativi in un unico arazzo. Il percorso dell’Ultimo Uomo è perdere di vista il trascendente, rincorrere sconsolatamente e ossessivamente il basso, il superficiale e il materiale. Alla fine di quella strada, la metafisica attenderà, rientrando come Male, dopo essere stata trascurata come ideale superiore. È un terreno sorprendentemente reazionario da percorrere per un ex membro dei Monty Python. È, ovviamente, soffocato dall’ironia, dalla decostruzione e dalle battute oscene, ma come notato sopra, la domanda rimane, “e ora?”

In questa storia, Kevin ha rappresentato, fin dall’inizio, l’Uomo Superiore frustrato, gettato in una postmodernità vuota, desideroso di eroi, re e nobiltà. Il mondo, come per Max Weber, è diventato disincantato. La meccanizzazione, l’industrializzazione e la razionalizzazione hanno ripulito la modernità da misticismo, magia, mito e significato. Questo è il mondo in cui Kevin è nato e a cui non appartiene veramente.

Eppure, la rappresentazione di Gilliam del Tempo delle Leggende è, oltre alle creature, un luogo straordinariamente sterile e desolato. Inoltre, il Male, come incarnazione ultima di quel regno nella sua fortezza, parla a lungo, lodando il mondo del foglio di calcolo disincantato di Weber. In effetti, la modernità, come raffigurata all’inizio di Time Bandits, appare tanto profana quanto il mondo che il Male desidera creare.

Entra l’Essere Supremo

Lo scontro finale con il Male coinvolge Kevin e i nani che schierano varie forze militari di tutte le epoche, dai cavalieri ai cowboy, dagli arcieri ai carri armati, tutto invano. Mentre il Male si prepara a uccidere Kevin e i suoi amici, l’Essere Supremo (Ralph Richardson) calcifica il Male, che poi cade a pezzi in un ammasso di rocce simili a lava. L’Essere Supremo è un vecchio eccentrico e leggermente irascibile. Si scopre che ha orchestrato tutto ciò che è accaduto per testare i difetti della Sua creazione. Kevin chiede alla divinità perché così tante persone siano dovute morire. Lui risponde con leggerezza, “ha a che fare con il libero arbitrio o qualcosa del genere”. Il solito tratto pythoniano di sminuire le questioni esistenziali più significative è qui in mostra. Eppure, in un certo senso, la questione del libero arbitrio è stata al centro dell’intera narrazione fin dall’inizio.

Di tutti i personaggi di Time Bandits , Kevin è quello che ha meno potere. Dopotutto, non sceglie di essere mandato in camera da letto né trascinato con Randal e i nani, né decide di finire nella tana del Male. Eppure, nonostante questo, sceglie di agire eroicamente e onorevolmente a ogni svolta. La decisione che cambia la vita di Kevin è di rifiutare i suoi veri genitori e scegliere Agamennone Re come figura paterna, e anche questa gli viene strappata via.

Al contrario, Randal decide di rubare la mappa e viaggiare attraverso la storia, derubando ogni volta che è possibile. Sceglie anche di fuggire dall’Essere Supremo ogni volta che gli viene chiesto di restituire la mappa. Randal non è stato costretto a cercare avidamente l’oggetto più favoloso del mondo che si è rivelato essere il Male; lo ha fatto liberamente ed entusiasticamente.

Allo stesso modo, i genitori di Kevin scelgono una vita di consumismo senza scrupoli piuttosto che affermare la vita e la vitalità. Nella scena finale, ignorano anche gli avvertimenti di Kevin sulla roccia del Male dentro il loro microonde e vengono fatti saltare in aria. Il re Agamennone reincarnato di Connery salva Kevin dalla casa di famiglia in fiamme; i suoi genitori si preoccupavano di più degli elettrodomestici. Kevin potrebbe non avere libero arbitrio come tutti gli altri, ma ha uno scopo .

Qui, la visione del mondo tecno-ottimista e utilitaristica di Evil diventa più evidente e meno avvolta nella nebbia. Fin dalla sua introduzione e per tutto il film, le diatribe di Evil hanno argomentato contro la stravaganza, la bellezza per la bellezza e la meraviglia della vita in generale. I genitori di Kevin, come risultato della spinta disumanizzante della tecnologia e del materialismo, sono intercambiabili con gli stupidi tirapiedi di Evil. Nell’estrarre la meraviglia della vita, la tecnologia, l’efficienza e il consumismo stanno spianando la strada per l’inferno. È un assalto al progetto dell’Essere Supremo. Ed ecco il punto: le persone lo sceglieranno liberamente.

Time Bandits pone grandi domande, ma lo fa in un modo che non scatena il nostro cinismo postmoderno. Come i Baby Boomer sinonimo di accantonare con noncuranza l’eredità della civiltà occidentale, i Monty Python hanno preso in giro le grandi domande anziché affrontarle. Porre domande sul significato della vita, su Dio e sulla natura del male è diventato sinonimo di pretenziosità, eccessivamente serietà e pomposità. Siamo diventati i genitori di Kevin, occupandoci di sciocchezze per bloccare la visione della vita come qualcosa di più di un prodotto di intrattenimento. Una seria meditazione su questioni profonde deve avvenire in seconda mano, con una plausibile negazione. In questo modo, un film come Time Bandits consente al cinico postmoderno di confrontarsi con le Grandi Domande, pur essendo sempre in grado di tornare indietro e affermare che si tratta di un film fantasy per bambini sciocchi. Terry Gilliam, ovviamente, lo sapeva.

In un’epoca in cui pochi hanno letto Gibbon, ma tutti hanno visto Star Wars , la cultura pop è diventata una miniera in rapida diminuzione da cui estrarre il minerale di significato. Non possiamo rimandare all’infinito le domande esistenziali. Invece, decidiamo se diventare Kevin o i suoi genitori.

Come Terry Gilliam, bisogna chiedersi “e adesso?”

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Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila_di Roberto Buffagni

Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila

Cari amici vicini & lontani,

proviamo a tirare le fila di questo enorme pasticcio.

Premessa: lo scritto che segue è interamente congetturale. Non ho informazioni privilegiate, non ho competenze epidemiologiche o scientifiche, non ho il numero di telefono del Fato. Come tutti ho osservato gli eventi, e sulla base delle mie esperienze e riflessioni mi sono fatto un’idea di come e perché le cose sono andate così. Ho cercato di mettermi nei panni di chi ha preso le decisioni rilevanti e di chi vi reagiva, di comprenderne le motivazioni, e di individuare le principali dinamiche psicologiche e sociali che ci hanno condotti qua, a questo tragicomico casino. Quindi, tutto ciò che segue è congettura, e l’esposizione di fatti e loro cause che propongo è soltanto verisimile: verisimile secondo me, ovviamente. Vedete voi se siete d’accordo, in tutto o in parte. Benvenuta ogni critica espressa in forma cortese.

Nel marzo 2020, all’esordio dell’epidemia, ho scritto un breve articolo, I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto1, che con mio grande stupore ha avuto circa un milione (sì, avete letto bene) di letture e una miriade di citazioni sulla stampa, e persino in articoli scientifici.

In estrema sintesi, affermavo che le due polarità di approccio strategico all’epidemia erano:

Stile 1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati e si sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione, nessun sistema sanitario essendo in grado di prestare cure ospedaliere all’alto numero di malati che ne abbisognano.

Ratio stile 1: prevenire il grave danno economico che consegue alle misure di confinamento della popolazione, accrescere la propria potenza economico-politica relativa rispetto agli Stati che scelgono lo stile 2, e con un’azione rapida e violenta, cogliere un vantaggio strategico immediato sugli avversari.

Stile 2: Si contrasta anzitutto il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione.

Ratio stile 2: accettare il danno economico temporaneo, e, così proteggendo la propria popolazione, rafforzarne la coesione sociale e culturale, per infondere “uguali propositi nei superiori e negli inferiori” (Sun Tzu) e cogliere un vantaggio strategico di lungo periodo sugli avversari.

Riconducevo infine le scelte di stile strategico degli Stati alla cultura, non solo politica, in essi prevalente.

In contemporanea all’esordio dell’epidemia, accade quanto segue.

Il centro del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America all’epoca presieduti da Donald Trump, sceglie d’istinto lo stile 1 (compatibilmente al margine di autonomia decisionale degli Stati, che specie quando siano diretti dai Democrat fanno scelte diverse, più prossime allo Stile 2). Il governo federale tende a ridurre al minimo i confinamenti, senza imporli mai, e incarica i suoi consulenti medico-scientifici di approntare cure efficaci nel minor tempo possibile. Obiettivo principale: garantire il normale funzionamento del sistema economico; obiettivo secondario: ridurre al minimo l’intervento del governo federale nella vita quotidiana degli americani. La ratio culturale è liberal-darwinista: il primo bene da preservare è la libertà individuale, anzitutto la libertà economica di confliggere sul mercato, simbolicamente assimilato alla frontiera, uno dei maggiori miti di fondazione degli USA; il secondo bene da proteggere è l’autonomia degli individui e delle comunità locali dall’invasiva ingegneria sociale del governo federale, connotato tipico dell’avversario politico Democrat, e tradizionalmente odiato dagli elettori del Presidente Trump.

Ovviamente questa scelta strategica ha un costo, e offre l’immagine di uno Stato che non protegge o protegge poco la popolazione dall’epidemia: mentre la funzione primaria di ogni Stato è, appunto, proteggere la sua popolazione. Seguono le elezioni presidenziali, e Trump viene sconfitto con un lieve margine. Egli contesta il risultato, a suo dire viziato da gravi brogli. È probabile che i brogli vi siano effettivamente stati (è un fenomeno ricorrente nel sistema elettorale USA) ma è assai verisimile che l’esito elettorale consegua anche alla sua strategia di approccio all’epidemia da Coronavirus: molti americani che altrimenti avrebbero potuto appoggiare Trump hanno sentito che il Presidente non si curava di proteggerli dal morbo, e quindi non lo hanno votato.

Nel frattempo, in Italia. Nel frattempo in Italia si inaugura un monumentale, tragicomico pasticcio. Anzitutto, i decisori politici si accorgono che non esiste alcun piano nazionale operativo aggiornato, utilizzabile per reagire all’epidemia di un morbo ignoto e molto contagioso, sebbene, grazie al Cielo, esso abbia conseguenze letali molto ridotte. Si accorgono anche che la frammentazione istituzionale introdotta dalla regionalizzazione, che ha affidato alle Regioni le responsabilità sanitarie, ha seminato il caos nella gerarchia delle competenze e delle decisioni in una situazione di emergenza; condizione esiziale in quel contesto, ove il requisito primo per reagire con efficacia e urgenza sarebbe l’unità di comando. Il governo potrebbe legalmente avocarsela, ma non lo fa perché è politicamente troppo debole e teme le reazioni dei presidenti di Regione, molti dei quali appartengono all’opposizione. Preferisce, al contrario, manipolare tatticamente gli eventi e giocare, al pari degli avversari politici, al rimpallo delle responsabilità. La risposta dunque è disorganica, contraddittoria e lenta, ossia l’esatto contrario di quel che dovrebbe essere per circoscrivere e contenere il contagio. L’efficacia delle misure sanitarie dipende, in buona sostanza, dalla qualità professionale e umana dei dirigenti sanitari delle Regioni, e dall’ascolto che trovano presso il personale politico dirigente. Dove i dirigenti sanitari sono competenti e sanno farsi ascoltare, ad esempio in Veneto, le misure adottate in quella fase sono adeguate. Dove i dirigenti sanitari sono incompetenti e yesmen, ad esempio in Lombardia, si verificano veri e propri disastri.

Le forze politiche, dal canto loro, annaspano. Sulle prime, ciascuna forza politica reagisce pavlovianamente incollando i propri slogan preferiti all’emergenza epidemica. Il PD invita ad abbracciare un cinese, tirando in ballo l’antirazzismo. La Lega sbandiera Milano che non si ferma e non si deve fermare, fotocopiando i timori per l’interruzione dell’attività economica della sua base sociale ed elettorale. Eccetera, con più rovesciamenti di posizione bipartisan di 180°; un eccetera che non dettaglio perché appartiene alla storia della comicità (nera) più che alla storia d’Italia.

Quando ormai il contagio è nazionale, il governo centrale e i governi regionali prendono atto di un minimo di realtà, e si accordano per decretare il confinamento della popolazione: un confinamento severo ma non totale. È l’unica misura possibile nell’immediato per prevenire un collasso del sistema sanitario, altrimenti certo, perché il morbo è molto contagioso, i ricoveri ospedalieri specie in terapia intensiva e sub-intensiva sarebbero percentualmente troppi se il contagio dilagasse, e ovviamente manca esperienza clinica di cura del Covid19. Il disordine istituzionale si rivela endemico come il Coronavirus; l’apparato amministrativo è poco flessibile e articolato; il ceto politico, per inveterata abitudine, si limita a promulgare provvedimenti e non sa seguirne e verificarne la concreta attuazione. Non viene predisposto niente in merito alle cure domiciliari. Non viene predisposto un piano logistico per l’approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al solo Covid19, sia mediante precettazione di strutture già esistenti, sia mediante costruzione di ospedali da campo (l’esercito sa costruire in una settimana un ospedale da campo in zona di guerra). Soprattutto, non viene trovata l’unità di comando, ma il blando surrogato di una “cabina di regia”, all’interno della quale non si accomodano Stanley Kubrick, Federico Fellini o Martin Scorsese, ma mestieranti buoni per i B movies. La popolazione nel suo insieme si sottomette al confinamento volentieri, con disciplina, perché riconosce l’effettiva necessità della misura e si attende che produca il ritorno alla normalità, come ostendono dai balconi d’Italia gli striscioni casalinghi che profetizzano “Andrà tutto bene”.

Nel contempo, nel “sovranismo” italiano (e non solo italiano), una quota della popolazione significativa (v. votanti per M5* e Lega nelle ultime elezioni politiche), si diffonde un altro morbo, stavolta psichico: l’irrazionalità. Salvo eccezioni individuali, anche numerose ma non organizzate, molti “sovranisti” cortocircuitano le misure di confinamento della popolazione dettate dallo stato di emergenza sanitaria con una tendenza – beninteso reale e importantissima – della società occidentale odierna. È la tendenza verso il controllo tecno-burocratico, legittimato su basi scientiste; in due parole, la “gabbia d’acciaio” weberiana che si fa sempre più fitta e oppressiva, erode le basi reali delle Costituzioni democratiche, invade le vite personali degli individui, impone i propri ukase come uniche scelte razionali possibili. Da questo cortocircuito nascono spassose antropomorfizzazioni (Cupolone Mondialista che ti imporrà il chip sottopelle e ridurrà del 50% la popolazione mondiale) escursioni nell’escatologia (inaugurazione dell’Apocalissi, protagonisti Papa Francesco e Soros) secche negazioni della realtà effettuale (il Covid19 non esiste o al massimo è una blanda influenza o è stato diffuso intenzionalmente dai powers that be) e un ampio ventaglio di combo tra queste ed altre simbolizzazioni deliranti della situazione reale; alcune delle quali, generate da persone intelligenti e immaginose, non prive di valore come spunto per la fiction letteraria e televisiva.

In effetti, Thomas Mann prese lo spunto per scrivere La montagna magica da una sua visita a Davos, per accompagnare la moglie che si recava in sanatorio per un periodo di cura. Il direttore lo invitò a fermarsi anch’egli per un po’, che male non faceva, ma Mann si rifiutò. Rientrato, certo si chiese: “Che sarebbe accaduto se mi fossi fermato lassù?” Risultato, il celeberrimo romanzo filosofico, dove nella cornice di una casa di cura per malattia epidemica qual era la tubercolosi, si mette in scena la crisi cruciale d’un’intera civiltà. Come si vede, il cortocircuito simbolico dei “sovranisti” e il cortocircuito simbolico di Mann funzionano esattamente allo stesso modo. Il risultato però è diverso perché a) l’analisi di una realtà effettuale e la sua trasposizione letteraria rispondono a diverse categorie di verità e di senso b) Mann non perde mai il controllo razionale sul materiale simbolico incandescente che mette in forma, i “sovranisti” invece lo perdono eccome. Ne consegue che La montagna magica è molto utile per capire la realtà storica (oltre ad essere altre cose, per esempio un capolavoro della letteratura), mentre le simbolizzazioni deliranti dei “sovranisti” aumentano la confusione e basta. Le rare eccezioni individuali che non perdono la testa provano a richiamare alla realtà i girovaghi, ma non ci riescono perché quando si inizia a delirare non si riceve più la lunghezza d’onda della ragione, e per risintonizzarsi ci vuole lo scossone di un impatto frontale con la realtà.

Dopo la sconfitta di Trump, sale al centro decisionale USA il partito progressista Democrat. Grazie al confinamento, attuato in diversi Stati dell’Unione, e ad altri fattori quali la stagione calda, l’epidemia di Covid19 pare regredire. I consulenti medico-scientifici del governo statunitense, tra i quali in prima fila organizzazioni internazionali quali l’OMS, presentano ai decisori politici, in buona sostanza, un solo rimedio all’epidemia: il vaccino, ossia la specifica risposta tecnica richiesta con insistenza dalla precedente presidenza Trump. Tutte le nazioni industrializzate, occidentali e no, hanno lavorato all’approntamento di un vaccino, che, se efficace, sarebbe in effetti la soluzione più rapida e radicale del problema Covid19. Ovviamente, visti i tempi ristrettissimi, è impossibile sapere con certezza sia quanto siano efficaci i vaccini, sia quali siano i loro effetti collaterali indesiderati, gravi e meno gravi. È notevole il fatto che la principale industria produttrice di vaccini, la Merck, abbia scelto di non ricercarne uno, e di incaricare invece il proprio reparto Ricerca e Sviluppo di mettere a punto farmaci per le cure. O meglio, il fatto sarebbe notevole, ma non viene notato dai decisori politici.

Al decisore politico centrale del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America, viene dunque presentata dai consulenti una sola opzione tecnica: vaccinare. Il decisore politico, per adottare la strategia di risposta al morbo, deve rispondere alle seguenti domande:

  1. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il vaccino eradicherà il morbo? La risposta razionale è: “no”.

  2. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole sempre e per tutti? La risposta razionale è “no”. Si può avere la ragionevole certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole per le categorie di popolazione che il morbo più mette a grave rischio (es., i vecchi, o chi sia affetto da particolari patologie), non si può averla per gli altri.

Il decisore politico deve inoltre tener conto di tre obiettivi politici per lui importanti:

  1. garantire il funzionamento del sistema economico e il ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile

  2. far sentire protetti dal morbo i cittadini americani, così differenziandosi dall’avversario politico che ha scontato il proprio opposto approccio strategico all’epidemia

  3. riaffermare la primazia culturale e politica degli Stati Uniti d’America come paese-guida del mondo intero in un periodo di crisi imperiale, obiettivo che presenta il vantaggio collaterale di un’ulteriore differenziazione rispetto all’avversario politico interno Trump, e alle sue velleità isolazioniste.

Il decisore politico statunitense coglie immediatamente l’importanza dei tre obiettivi politici principali c), d), e); e, forse perché deve rispondere sotto la forte pressione dell’urgenza, non presta la dovuta attenzione alle due domande, a) e b), che dovrebbero guidare la sua scelta; o non le prende in considerazione, o le prende in considerazione senza riflettervi seriamente, rispondendosi “sì, all’incirca, più o meno”.

Questo è un fenomeno ricorrente nella formazione delle decisioni politiche difficili e urgenti, che devono sempre semplificare tanto la scelta, quanto l’enorme quantità di informazioni disponibili, e devono per di più mediare la pressione dei grandi interessi politici ed economici che si affollano intorno al decisore. La fretta poi è la peggiore delle consigliere: una delle raccomandazioni consuete ai generali responsabili di decisioni strategiche urgenti in tempo di guerra è di concedersi sempre un tempo di riflessione, per lasciar decantare le emozioni, e analizzare razionalmente la congerie di stimoli e informazioni che li assalgono.

Fatto sta che il decisore politico centrale del sistema occidentale prende una decisione sbagliata, questa:

  1. l’unica strategia di risposta all’epidemia è il vaccino (ovviamente, il nostro vaccino)

  2. il vaccino garantirà il pieno ritorno alla normalità: ossia, l’eradicazione del morbo, anche se questa non viene promessa esplicitamente; si promette per un po’ l’immunità di gregge finché non balza agli occhi che è impossibile ottenerla perché il virus continua a mutare

  3. essendo l’epidemia una pandemia mondiale, ed essendo necessario garantire le comunicazioni globali per un ritorno alla piena normalità, la strategia di risposta al morbo dovrà essere mondiale

  4. dunque, dobbiamo vaccinare tutto il mondo, e lo vaccineremo.

Ora, già solo menzionare l’obiettivo di vaccinare tutto il mondo è un forte segnale di irrazionalità, perché nella pratica è impossibile. Si può vaccinare molto, moltissimo, ma non si può vaccinare tutto il mondo perché in vaste plaghe della Terra non ci sono le condizioni politiche e tecniche minime per vaccinare tutti; e se il vaccino non protegge al 100%, per riaccendere un focolaio di contagio, anche in un paese dove sia vaccinato il 100% della popolazione, basta l’ingresso di una sola persona contagiosa. Che il vaccino non protegga al 100% i vaccinati era già noto al decisore. È poi impossibile sigillare le frontiere e prevenire l’infiltrazione di singole persone.

In sintesi, e omettendo per brevità altre considerazioni: la strategia di eradicazione del morbo è irrazionale. La strategia razionale è, o meglio sarebbe, una strategia di contenimento del morbo, che si articoli su varie risposte flessibili: vaccino per le categorie di popolazione che presentano un rapporto rischi/benefici favorevole; intensificazione della ricerca e sviluppo delle cure; approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al Covid19; continuazione e intensificazione della ricerca e sviluppo sui vaccini; immunità naturale che si estende nelle categorie di popolazione a minor rischio, non vaccinate; varie ed eventuali.

La razionalità, però, è spesso fuori stanza quando entrano in ufficio obiettivi politici importanti, e riflessi condizionati culturali decisivi. Nel caso presente, il riflesso condizionato decisivo è l’asserzione della potenza culturale, tecnica, scientifica, degli Stati Uniti d’America, la riaffermazione della loro egemonia sul mondo intero, la prova della loro fiducia in se stessi e nella loro capacità di fare cose apparentemente impossibili, nella loro cultura del “can do”.

A questo punto, il dado è tratto. I consulenti del decisore centrale statunitense hanno ricevuto, forte e chiaro, il messaggio di quel che il decisore desidera sentirsi dire; e com’è naturale, quasi tutti glielo dicono. Non hanno bisogno di mentire, per dirgli quel che vuole sentire: il vaccino esiste, effettivamente funziona, ed effettivamente non risultano, nell’immediato, vistosi effetti collaterali indesiderati. Va appena rilevato, di passaggio, che incoraggiano questo atteggiamento dei consulenti i grandi interessi economici in ballo, e il coinvolgimento personale in essi di non pochi tra i consulenti di più alto livello, che sono in numero assai ristretto. Nella comunità scientifica, chi solleva dubbi viene zittito dal rumore di fondo dell’opinione dominante, o, più spesso, si zittisce da solo per non subire ripercussioni.

Quindi si procede a carrarmato nel perseguimento dell’obiettivo “vacciniamo tutto il mondo eccetera”. Fa presto capolino la realtà, e segnala i limiti – già noti o facilmente prevedibili – dei vaccini (durata limitata della copertura, possibilità che anche i vaccinati contagino, effetti collaterali indesiderabili, a volte gravi). La realtà segnala anche i limiti della politica di vaccinazione totale: già difficile nei paesi centrali, è impossibile nei paesi periferici.

I decisori non colgono le segnalazioni della realtà se non per modificare lievemente, introducendovi varianti marginali, la loro narrazione, che in sintesi dice: “Questa è l’unica via, c’è qualche ostacolo lungo il percorso ma lo supereremo insieme grazie alla scienza che è cosa nostra.” I decisori non impongono per legge l’obbligo vaccinale ma un sistema di punizioni crescenti, in buona sostanza ricatti, che chiamano Green Pass; sia per adesione irriflessa al loro economicismo (il Green Pass è mutuato dalla teoria del nudge, o spintarella, nata in ambito economico e premiata col Nobel), sia per rendere se non impossibile, almeno difficilissimo ottenere risarcimenti danni in caso di effetti collaterali gravi del vaccino: così manlevando insieme se stessi, gli Stati che dirigono, i loro consulenti tecnici e le case produttrici del vaccino.

La larga maggioranza delle popolazioni occidentali presta fiducia ai decisori politici, e si sottomette di buon grado al Green Pass, perché quando sono in gara la libertà e la sicurezza, la sicurezza inizia la corsa con un vantaggio incolmabile; e perché i decisori godono di un altro vantaggio incolmabile, il controllo dei media, che se non vengono costantemente alimentati dai decisori con le comunicazioni istituzionali non sanno più cosa raccontare 24/7.

C’è una quota, non trascurabile, di dissenzienti. All’interno di questa quota di dissenzienti, ci sono ovviamente, in prima fila, i “sovranisti” che già all’esordio della pandemia avevano cortocircuitato la realtà con la loro simbolizzazione delirante, e che ora vedono confermate tutte le loro previsioni di controllo totalitario. Essi dunque pensano di aver sempre avuto ragione, e riprendono con rinnovata lena i loro viaggi psichici nella twilight zone. Le individualità che all’esordio dell’epidemia avevano cercato di richiamarli al realismo constatano anch’essi sia gli errori della strategia di eradicazione del morbo, sia le distorsioni autoritarie nella struttura istituzionale e giuridica da essa occasionate, sia il silenziamento attivo o passivo delle voci che, nella comunità scientifica e nell’accademia in generale, avanzano obiezioni, dubbi, accuse. Protestano, cercano di farsi sentire. Vengono invitati a dibattere sui media, perché lo spettacolo vive sul conflitto e i media vivono sullo spettacolo. Qui però i loro avversari hanno gioco facile a confondere, in buona o malafede, le loro contestazioni razionali con le contestazioni deliranti degli altri dissenzienti. Risultato: anche chi abbia abbondanti qualifiche e notorietà personale e argomenti razionali fa la figura dell’imbecille e/o dell’incompetente e/o del mattoide, e non esistendo alcuna forza politica organizzata rilevante che traduca le contestazioni ragionevoli in opposizione, contano zero. Molti dunque abbandonano la contestazione, per disgusto o perché cominciano a chiedersi “Chi me lo fa fare?”

Questa situazione si diffonde, a cascata, dagli USA a tutto l’Occidente. Ragioni:

  1. i consulenti principali del decisore politico sono le organizzazioni internazionali. Fatta una scelta al centro dell’organizzazione, salvo sua strepitosa erroneità essa viene replicata nelle sedi periferiche, perinde ac cadaver. I dirigenti di grado più elevato, in contatto diretto con la sfera decisionale, sono molto pochi e hanno interesse a conservare buoni rapporti con i decisori. Dire a qualcuno “Guarda che ti sbagli” su argomento delicatissimo può avere effetti collaterali indesiderabili.

  2. Gli Stati clienti degli USA, tra i quali l’Italia, si guardano bene dal contestare le scelte strategiche del centro imperiale, perché scegliere audacemente un’altra via sarebbe una critica implicita al centro. Di fatto non ci pensano neppure, sia per inveterata abitudine, sia perché un eventuale maggiore successo di strategie alternative farebbe perdere la faccia al decisore centrale, con serie ripercussioni per l’audace innovatore.

  3. L’impostazione culturale di fondo, economicista e scientista, è la stessa al centro e in periferia.

Ciò che basta e avanza perché si proceda imperterriti per una via che – diventa ogni giorno più chiaro – è sbagliata, all’inseguimento di un obiettivo che – diventa ogni giorno più chiaro – è irraggiungibile: perché eradicare il morbo è impossibile, vaccinare il mondo è impossibile. È invece, o meglio sarebbe, possibile contenere il morbo, adottando un’opportuna strategia di contenimento, riduzione del danno e convivenza con il Covid19, flessibile e differenziata. Però non si adotterà mai, in un futuro prevedibile, perché i decisori occidentali tutti hanno investito un enorme capitale politico nella strategia di eradicazione, i dissenzienti non sono organizzati politicamente, e ci sono colossali interessi economici a favore della strategia sbagliata.

Non c’è niente di strano. È già accaduto molte volte che i consulenti tecnici abbiano dato una spintarella alla realtà per dire ai decisori quel che preferivano sentirsi dire. Nella Prima Guerra Mondiale, per esempio, il responsabile dell’intelligence militare britannica mitigava sistematicamente le spaventose perdite subite nelle sue relazioni al comandante in capo sul fronte francese, generale Haig; e si giustificava con la necessità di non scuotere i nervi del decisore. La realtà dei fatti riuscì a far capolino, e a modificare l’approccio operativo di Haig, solo dopo due anni e mezzo: quando un giovane capitano, di fresca nomina al comando dello staff dell’intelligence militare, rientrò a Londra in licenza. Il giovane capitano, un figlio naturale di re Edoardo VII che in seguito avrebbe diretto per vent’anni il Servizio Segreto, disponendo di entrature privilegiate poté far sapere alla famiglia reale e allo Stato Maggiore Imperiale come stavano le cose.

Di recentissimo c’è stato l’esempio preclaro della guerra in Afghanistan. La guerra in Afghanistan è stata decisa per ritorsione all’attacco contro le Twin Towers (i Talebani avevano dato ospitalità al presunto responsabile). Duemilacinquecento anni di storia militare suggerivano che l’occupazione dell’Afghanistan era un obiettivo irraggiungibile. Obiettivo raggiungibile sarebbe stata una spedizione punitiva: si colpisce duramente, si dichiara vittoria e si rientra, abbandonando l’Afghanistan a se stesso, come sempre è stato e sempre ha voluto restare. Però una serie complessa di fattori culturali, politici, economici, psicologici, non interamente decifrabile neppure ai decisori, ha condotto gli Stati Uniti d’America alla decisione clamorosamente sbagliata di occupare l’Afghanistan, e di impiantarvi un regime democratico totalmente alieno alla cultura di quelle lande.

Fu subito chiaro a chiunque ne sapesse qualcosa, persino a me che non sono von Clausewitz, che proponendosi quell’obiettivo strategico ci si condannava a combattere una guerra persa in partenza: ma ormai la decisione era stata presa, con tutta la zavorra di immenso capitale politico speso e formidabili interessi economici che essa trascinava con sé.

Tutti i comandanti in capo della coalizione a guida americana che si sono succeduti nel corso di vent’anni hanno avuto chiaro, appena messo piede colaggiù (e anche prima di partire, secondo me) che vincere con quella strategia era impossibile. Nessuno lo ha detto chiaramente ai decisori politici. Nessuno, se ci ha provato ed è rimasto inascoltato, si è dimesso. Uno solo, il generale McChrystal, ha dato voce a serie obiezioni ed è stato rimosso. La guerra è andata avanti per vent’anni, con un costo terrificante di vite perdute, e immani danni materiali e politici; fino a quando la realtà, con l’ausilio del tempo che è galantuomo ma non ha fretta, è riuscita a farsi valere, e gli USA hanno deciso il ritiro (eseguendolo male).

Quanto ci vorrà per correggere la rotta sbagliata, nel caso della pandemia da Covid19? Non lo so. Direi un bel po’. Dice il nostro Presidente del Consiglio che difenderemo la nostra normalità “con le unghie e con i denti”. Le unghie e i denti però non servono a niente contro il Covid19. Servirebbe la ragione, e magari anche l’indipendenza di pensiero. Chissà se le troveremo sotto l’albero di Natale.

Noterella a margine, di Roberto Buffagni

Noterella a margine del post pubblicato stamani da Andrea Zhok, intitolato “LA COERCIZIONE LIBERALE”, con il quale concordo.
Ho l’impressione che stiamo assistendo all’istituzione di una vera e propria teologia civile legittimante l’ordine sociale, fondata sullo scientismo positivista, in una stupefacente fotocopia del programma di Auguste Comte: «L’Amour pour principe et l’Ordre pour base; le Progrès pour but» (“Systéme de politique positive”, 1853). Da questa teologia civile legittimante su base scientista discendono le relative inclusioni ed esclusioni culturali e politiche, che parzialmente riassorbono e integrano le precedenti, fascismo/antifascismo, fondate su una interpretazione storica (secondo me errata) che designa i fascismi come antimoderni e reazionari, “René Guénon + le Panzerdivisionen”. La definizione dei fascismi come fenomeno antimoderno facilita, ovviamente, l’integrazione del vecchio sistema di esclusioni ed inclusioni nel nuovo, che si autodefinisce identificandosi tout court con la Modernità e il Progresso (niente è più moderno e progressista dello scientismo).
Ovviamente una società che si fondi su una teologia civile scientista non può essere democratica, perché non esiste né può esistere una popolazione in grado di accedere, in massa, alle conoscenze, per es. matematiche, e ai metodi che consentono anche solo di farsi un’idea delle pratiche delle scienze dei fenomeni. La vitalità di un regime democratico nell’effettualità storica ha bisogno di tante precondizioni, culturali e sociali, ma sul piano dei principi, la democrazia moderna ha assoluto bisogno di un accordo in merito alle seguenti asserzioni: a) tutti gli uomini sono eguali, nel senso che tutti possono, almeno virtualmente, partecipare a una discussione razionale in merito ai fini che la comunità deve perseguire, sebbene la discussione in merito ai mezzi da impiegare, e la loro implementazione, possa e debba essere riservata a una minoranza tecnicamente capace b) corollario di a: gli uomini sono, almeno virtualmente, persuadibili per via razionale, ossia, tutti gli uomini partecipano, almeno virtualmente, a una medesima Ragione che scrivo con la maiuscola perché NON coincide con il solo intelletto astratto, e alla quale si può accedere per via filosofica, artistica, religiosa, sapienziale. Questo è il minimo comun denominatore umanistico sul quale hanno trovato accordo politico culture assai diverse come la cristiana, la liberale classica, la socialista.
Ora, la scienza dei fenomeni NON è in grado di fornire la minima indicazione in merito ai fini (perché viviamo, come dobbiamo vivere, che dobbiamo farne dei ritrovati della scienza, etc.). Di questo fatto nudo e crudo Comte si rese conto in un momento molto difficile della sua vita personale, ed è per questo che si inventò di sana pianta (con un po’ di copiancolla da Condorcet e Turgot) il suo demenziale progetto di “Religione dell’Umanità”, con tanto di Chiesa e Catechismo positivista, Consiglio degli Scienziati, etc. invitando per lettera il Padre Generale dei Gesuiti a collaborarvi (allora non ebbe risposta, ai suoi imitatori odierni andrà molto meglio). Non so se gli attuali powers that be si siano accorti di stare copiando il progetto di Comte, fatto sta che lo copiano perché sono andati a sbattere contro il problema che indusse il vecchio Comte a inventarselo, e che all’epoca non esisteva (ancora).
Ossia, il problema di governare una società composta da persone che, in larghissima maggioranza, hanno introiettato il senso comune relativista che logicamente discende dallo scientismo e dal liberalismo. Il senso comune relativista, in parole povere ma chiare, dice che la mia opinione vale la tua, e che è impossibile giungere, per mezzo della discussione razionale, a stabilire che una affermazione sia vera e un’altra falsa: “vera” o “falsa” non solo sul piano empirico, ossia corretta o errata (per es. perché i dati su cui basiamo l’argomento sono corretti o no) ma anche, per es., sul piano etico e metafisico, i piani più rilevanti per la determinazione dei fini; perché tutto dipende dal sistema valoriale che si adotta, e lo si adotta sempre arbitrariamente ( = vige il sistema valoriale affermato dalla forza sociale maggiore, e non ha senso interrogarsi se sia giusto o sbagliato, buono o cattivo) .
Siccome qualsiasi società ha bisogno, per non implodere nell’anarchia, che a fare il 90% del lavoro di controllo sociale sia la norma interiore, e solo il 10% la norma esteriore (polizia, tribunali, etc.), è chiaro quanto sia altamente instabile una società dove il 90% della popolazione condivide un senso comune relativista, ciascuno pensa di aver diritto alla sua opinione che vale quanto qualsiasi altra, e tendenzialmente rifiuta il principio di autorità (“Chi sono io per giudicare?” ha detto il Vicario di Cristo). L’unico salvagente a cui aggrapparsi per non annegare nell’anarchia e nell’anomia, e controllare bene o male una società molto complicata e delicata come l’industriale, pare essere la scienza, che tutti rispettano perché a) garantisce la vita quotidiana b) rende disponibile una potenza immane, ossia rimpiazza le due tradizionali sorgenti della norma interiore, il costume (vita quotidiana) e la religione (onnipotenza divina). Purtroppo però la scienza dei fenomeni sa inventare cose pazzesche, ma NON ci dice assolutamente niente in merito a come vivere, a come usare le cose pazzesche che inventa, etc.; e dunque ritorniamo alla casella di partenza, il relativismo dei valori e i suoi (enormi) problemi.
A questo punto, la mossa obbligata per i powers that be è la riedizione del programma comtiano, ossia l’invenzione di sana pianta di una religione scientista che sa di essere falsa, perché ha uno scopo puramente strumentale: non si tratta della vecchia politica dell’uso della religione come instrumentum regni, ma della fondazione di una nuova religione in perfetta, totale malafede, o, in altri termini, l’adozione affatto arbitraria -ma non esistono di altro tipo – di un sistema valoriale ufficiale che si autoconfeziona come religione laica. Naturalmente, lo si fa “per amore dell’umanità”. Come dice il don Giovanni di Moliére al mendicante che gli chiede l’elemosina “per amor di Dio”: “Te la do per amore dell’umanità”.
Al tempo di Comte, i suoi colleghi, scienziati e filosofi positivisti, attribuirono l’invenzione della religione positivista a un ottenebramento delle sue facoltà, perché a metà XIX secolo l’ambiente sociale era ancora alimentato e stabilizzato dal costume e dalla religione premoderni; e non solo non c’era alcun bisogno di ufficializzare la “Religione dell’Umanità”, ma tutti, positivisti compresi, avrebbero avuto una reazione almeno di imbarazzo, se non di rigetto, dinanzi a questa assurda, ridicola e preoccupante parodia del cristianesimo. Be’, adesso il bisogno c’è e la reazione di rigetto non ce l’ha neanche il papa, e quindi via col Progetto Comte 2, la Vendetta.
Nel Progetto Comte 2, la Vendetta, prende un rilievo enorme la manipolazione psicologica di massa, perché a) “la scienza” non ci dice nulla in merito alla persuadibilità degli uomini in quanto partecipi a una comune Ragione (metèxis, un concetto metafisico o religioso) b) “la scienza” ci dice invece un botto di cose in merito alla manipolabilità psicologica degli uomini. Regola base del positivismo è «non si può aver scienza se non di fatti». Poiché l’osservatore e l’organo osservato coincidono, non è possibile avere osservazione dei fenomeni intellettuali in atto, per cui, ritenendo impossibile la descrizione dei processi mentali e della psiche come indipendenti dai fatti fisiologici o da quelli sociali, Comte riconduce la psicologia alla biologia e alla sociologia: e qui si ritrova l’origine del Green Pass e dei metodi behaviouristici con i quali viene introdotto.
Faccio rilevare en passant che in merito all’umanità della quale si sta fondando la religione, la scienza dei fenomeni – in questo caso, la genetica – può dirci una cosa sola: che tutti gli uomini, a qualunque razza appartengano, condividono, con minime varianti, il medesimo corredo genetico, ossia che sono tutti appartenenti alla specie umana. La scienza dei fenomeni, però, NON ci dice come vada trattata, questa specie tra le specie che è la specie umana. Se si volesse massimizzare il suo rendimento, ad esempio, anche in conformità a un criterio positivista classico quale l’utilitarismo, “il maggior bene per il maggior numero”, sarebbe certamente opportuno potarne i rami secchi, ossia provvedere con i metodi adeguati a una vasta politica eugenetica, che incoraggi le caratteristiche genetiche più favorevoli e scoraggi le meno favorevoli, inserendosi – come è la norma per tutte le scienze dei fenomeni – nelle catene di causazione (non tutte individuate) del fenomeno “specie umana”. In un progettino come questo ci sta di tutto, e in questo tutto ci sono cose che oggi nessuno è in grado di immaginare, ed è anche meglio perché immaginandole potrebbero venire i capelli bianchi.
Andrea Zhok
SULLA COERCIZIONE LIBERALE
Gli stati, sotto certe condizioni di emergenza o urgenza, possono esercitare atti di imperio e coercizione sulla propria popolazione.
La coercizione classica, ad esempio la chiamata alle armi a difesa della patria, era esercitata ad un tempo come chiamata etica ad uno sforzo di protezione dell’intera collettività e come assunzione di responsabilità del governante, che si faceva garante della giustezza (e della buona gestione) dell’iniziativa.
Quest’assunzione di responsabilità, automaticamente implicita nell’atto di pubblica coercizione, non era priva di conseguenze: di fronte ad esiti nefasti di quell’iniziativa coatta i governanti erano chiamati a risponderne. Non a risponderne legalmente, con qualche forma di “responsabilità limitata”, ma fisicamente, in prima persona. L’esito tipico delle sconfitte militari era, ed è, l’abbattimento dei vertici che hanno promosso l’azione, e spesso la loro fine ingloriosa o violenta.
Questa premessa ci permette di focalizzare su cosa c’è di indecente nella forma di “coercizione soft” connessa ad iniziative come il Green Pass.
Se i nostri governanti fossero assolutamente sicuri di quello che stanno facendo, se fosse vero che l’unica strada per affrontare la pandemia in questa fase è la vaccinazione a tappeto, se fossero davvero certi – come dicono di essere – che l’operazione è del tutto sicura sul piano delle conseguenze per la salute dei cittadini, allora non ci sarebbe nessun problema a prendere la strada dell’obbligo universale.
Questo creerebbe, come è giusto che sia, due gruppi ben definiti: quelli che si assumono la responsabilità delle decisioni e quelli che le decisioni le subiscono. Tutta la cittadinanza starebbe dalla stessa parte, sarebbe accomunata da un destino comune, ed eventualmente si potrebbe mobilitare in comune nel momento in cui qualcosa nella strada presa si mostrasse erroneo o esiziale.
Ma – nonostante tutti i proclami – questa non è affatto la situazione reale. Ed è per questo che viene adottata la forma tipica della coercizione liberale: la coercizione dissimulata, recitata come se si trattasse di libera scelta.
E’ importante vedere che si tratta di un modello classico, non di una recente escogitazione in occasione del Covid. Il modello liberale è quello che ti dice che se non vuoi lavorare per un tozzo pane sei liberissimo di crepare di fame: è una tua libera scelta e nessuno ti ha costretto. Il modello liberale è quello che spacca sistematicamente la società in brandelli perché mette tutti in competizione con tutti gli altri, insegnando a vedere nel tuo vicino un avversario.
Così, il modello della coercizione liberale applicato all’emergenza Covid è quello che ti dice che nessuno ti obbliga a vaccinarti, è una tua libera scelta.
Certo, se non lo fai, o se non lo fai fare ai tuoi figli, beh, vi scordate il cinema, la palestra, il ristorante, il teatro, il bar, la piscina, il treno, l’aereo, l’università e spesso anche il lavoro.
Però è una tua scelta e nessuno ti obbliga.
Poi, è vero, a parte questo, se non lo fai vieni additato anche come un traditore, un nemico della patria, un cretino, un paranoico, un egoista, un ignorante e un perdente, alimentando l’odio o il disprezzo altrui.
Però sia ben chiaro, puoi esercitare una libera scelta.
E nel caso tu voglia esercitare la tua libera scelta, prenderti il tuo appuntamento, firmare una liberatoria, mostrando il tuo consenso (dis)informato, bene così.
Ricorda che l’hai voluto tu.
Questa procedura consente al governante di trattare con la massima serenità qualunque azzardo.
Chi se la sentirebbe di obbligare ad assumere un farmaco sperimentale un ragazzino o una donna in stato di gravidanza in mancanza di una schiacciante evidenza che le alternative sono peggiori?
Ma con la forma di coercizione liberale il problema non si pone. L’obbligo a tutti gli effetti concreti sussiste, ma assume le vesti della scelta personale, di cui si fa carico chi sceglie.
Se – Dio non voglia – tra un paio d’anni dovessimo scoprire che l’azzardo è andato male, che sussistono conseguenze rilevanti, chi pensate che sarà possibile chiamare a rispondere?
Tra un paio d’anni gli stessi che oggi imperversano con disposizioni normative e certezze apodittiche saranno irreperibili.
Chi sarà a curarsi dei suoi quattro alani nella tenuta in campagna, chi si godrà una pensione dorata, chi sarà stato promosso ad altro prestigioso incarico.
Le eventuali lamentele, gli eventuali danni saranno risolti con un’alzata di spalle da nuovi “responsabili” e con qualche mancia di indennizzo estratta dall’erario pubblico.
In ogni caso, anche se l’azzardo andasse a buon fine, o con danni collaterali non massivi, ne saremo usciti peggiori: il paese una volta di più spaccato, con un senso di impotenza diffusa e di irresponsabilità generale.

Il punto di svolta, di Carlo Lancellotti

Negli ultimi anni, numerosi libri si sono cimentati con la percezione che stiamo vivendo un periodo di declino sociale e culturale. Possiamo annoverare in questa categoria The Benedict Option di Rod Dreher , Why Liberalism Failed di Patrick Deneen e The Decadent Society di Ross Douthat . Una nuova aggiunta a questo genere, che tuttavia riguarda anche l ‘”ascesa” che ha preceduto il “declino” e le lezioni che possiamo trarne per andare avanti, è The Upswingdi Robert D. Putnam e Shaylyn Romney Garrett. In un impressionante tour de force della ricerca sociologica, gli autori analizzano una vasta gamma di dati statistici riguardanti quattro aree della vita americana tra il 1895 e il 2020 (economia, politica, società e cultura) e rilevano un modello “macro-storico” comune . In tutte e quattro le aree, durante la prima metà del periodo la società americana è passata da “I” (che è usato come abbreviazione per disuguaglianza economica, polarizzazione politica, isolamento sociale e individualismo culturale) a “Noi” (che significa un sistema, un grado significativo di cortesia politica, più solidarietà sociale e una cultura più comunitaria). Ma poi, intorno al 1960 “accadde qualcosa” e il pendolo iniziò a oscillare nella direzione opposta. Organizzando adeguatamente i dati,Putnam e Romney Garret sono in grado di tracciare un grafico generale (a forma di U capovolta) che riassume questa traiettoria “I-We-I”. La parte ascendente del grafico parte dall’età dell’oro, attraversa l’era progressista e il New Deal e culmina nel consenso culturale e politico degli anni ’50. Profondamente imperfetto, che rimpiazzava i neri americani e le donne, questo accordo era ancora uno di più ampia solidarietà sociale e minore disuguaglianza di quanto non fosse stato nell’Età dell’Oro. La tappa discendente comprende i turbolenti anni ’60 e ’70, la rivoluzione Reagan e gli ultimi decenni, portando all’attuale situazione di minore solidarietà e cortesia, e aumento dell’isolamento e della disuguaglianza superando l’era progressista e il New Deal culminata nel consenso culturale e politico degli anni ’50. 

Oltre ad essere un libro interessante a sé stante, The Upswing ha attirato la mia attenzione nella mia qualità di traduttore inglese delle opere del filosofo politico italiano Augusto Del Noce (1910–1989). Del Noce era un perspicace critico sociale e storico della cultura, il quale già negli anni Sessanta sosteneva che gli anni immediatamente prima e dopo il 1960 avevano segnato un grande cambiamento epocale, quello che Putnam e Romney Garret chiamano appropriatamente un “punto di svolta”. La prospettiva di Del Noce era strettamente filosofica e culturale, ma penso che integri l’analisi di The Upswing sotto due aspetti.

In primo luogo, Del Noce scrive da una prospettiva europea e guarda all’evoluzione della cultura occidentale nel suo insieme, mentre Putnam e Romney Garret si concentrano strettamente sugli Stati Uniti. Mentre questo è abbastanza giustificato per quanto riguarda l’economia e la politica, lo è meno quando dobbiamo cercare di comprendere la cultura e la società; molte delle trasformazioni culturali e sociali che descrivono (ad esempio, la rivoluzione sessuale, il consumismo, l’espansione di istruzione) si sono svolte quasi contemporaneamente in molti paesi diversi e probabilmente sono meglio comprese da un punto di vista più internazionale.

In secondo luogo Del Noce, come filosofo, può concentrarsi sulla logica interna della vita culturale e intellettuale in una misura che non è possibile in uno studio sociologico. Una delle scoperte più interessanti di Putnam e Romney Garret è che nel dopoguerra i cambiamenti economici e sociali sembrano essere leggermente ritardati rispetto ai cambiamenti culturali. La cultura è cambiata prima; seguirono cambiamenti economici e sociali più ampi. Come spiegano, questo non ci consente di concludere che le dinamiche culturali da sole abbiano guidato il “punto di svolta”, perché gli interessi materiali e politici hanno certamente esercitato anche la causalità in una complessa rete di circuiti di feedback. Tuttavia, le idee hanno sicuramente giocato un ruolo significativo. Putnam e Romney Garret illustrano questa interconnessione di causalità citando un passaggio sorprendente di Max Weber: “Non le idee, ma gli interessi materiali e ideali governano direttamente la condotta degli uomini. Eppure, molto spesso le “immagini del mondo” [ Weltanschauungen , visioni del mondo] che sono state create dalle “idee” hanno, come i commutatori, determinato i binari lungo i quali l’azione è stata spinta dalla dinamica di interesse “.

Weber qui fa la distinzione tra “idee” e “interessi ideali”. Ciò che intende è che gruppi di persone possono avere un interesse a preservare un insieme di idee, o promuoverne uno nuovo, tale da andare ben oltre il fatto che quelle idee siano o meno vere. Ad esempio, i sociologi accademici hanno interesse a preservare l’idea che la sociologia accademica è un campo coerente ma difficile da capire, degna di un’impresa di alto livello con una grande sicurezza del lavoro. Gli inserzionisti hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che le decisioni di acquisto possono essere modellate dalla pubblicità. Le attiviste femministe hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che il patriarcato è potente e sinistro e che le attiviste femministe hanno molto lavoro importante da fare. Coloro che vogliono fare molto sesso senza impegno hanno un interesse ideale nel promuovere il postulato che la monogamia e il matrimonio sono istituzioni oppressive e che, per estensione, agire sul desiderio sessuale è una sorta di sana espressione di sé. Sono idee come queste che vengono costruite in “visioni del mondo”. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Gruppi di persone possono avere interesse a preservare una serie di idee, o promuoverne una nuova, che va ben oltre il fatto che quelle idee siano vere o meno…. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Del Noce era uno specialista nello studio di tali “visioni del mondo” come si trovano nelle opere di filosofi, artisti e intellettuali, ma anche nei media e nella cultura popolare, e delle loro logiche interconnessioni e sviluppi. In particolare, era convinto che la storia del Novecento fosse in misura insolita “storia filosofica” per quanto influenzata da idee e ideologie ereditate dal secolo precedente. Quindi, penso che le sue intuizioni contribuiscano alla discussione sulla “cultura” nel capitolo 5 di The Upswing .

In termini molto generali, Del Noce ha osservato che la cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti (due guerre mondiali, il totalitarismo sovietico e nazista, l’Olocausto, la bomba atomica) riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo .Questa mentalità era emersa per la prima volta nel diciottesimo secolo, ma poi era stata contrastata e parzialmente neutralizzata dalla cosiddetta reazione romantica, che caratterizzò il diciannovesimo secolo e la prima parte del ventesimo. Mentre il romanticismo enfatizzava un senso di continuità storica, persino un amore per il passato, l’atteggiamento dell’Illuminismo fu segnato dalla decisione di rompere con il passato e “ricominciare da capo”. E infatti dopo il 1945 studiosi, giornalisti e artisti riscoprirono gradualmente l’Illuminismo “come disposizione a dichiarare una rottura con le strutture tradizionali e criticarle inesorabilmente da un punto di vista etico, politico e sociale”. Mentre ai tempi di Voltaire il passato era il “periodo oscuro” della superstizione religiosa, negli anni Cinquanta era “fascismo”.”Ma il” fascismo “immaginato dagli uomini e dalle donne degli anni ’50 era visto, per la maggior parte, non come un fenomeno politico contingente (e moderno!), ma come l’espressione della” vecchia Europa “; una cultura immaginata essere indelebilmente oscura come Voltaire aveva immaginato la Chiesa cattolica, segnata dal nazionalismo, dall’irrazionalismo, dal tribalismo, dal razzismo, dal sessismo e così via. La percezione era che il fascismo avesse segnato il fallimento della tradizione europea; in un certo senso ne fosse il suo vero volto. Ecco perché, secondo Del Noce, i pensatori e gli scrittori degli anni Cinquanta hanno riscoperto l’Illuminismo nella sua versione più antitradizionale, perché il loro recupero ha assunto un sapore decisamente anti-autoritario (“antifascista”). Questo antiautoritarismo si è espresso come un’enfasi sull’autonomia personale e l’indipendenza dalle restrizioni sociali e nel linguaggio dell ‘”autorealizzazione” che divenne onnipresente nella cultura popolare. Opporsi a ciò era per necessità, pensavano, essere a favore della vecchia Europa che, secondo loro, ci aveva regalato l’Olocausto.

La cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo…. L’atteggiamento dell’Illuminismo è stato segnato dalla decisione di rompere con il passato e di “ricominciare da capo”.

Questa disposizione neo-illuminista si manifestava anche in una chiave diversa, in tensione con la prima: un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico andava di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo. Il principale tra i valori universali a cui guardava il bien-pensant degli anni ’50 era quello della razionalità scientifica, che presumibilmente fornisce l’unica via possibile per allontanarsi dagli orrori del passato e consente all’umanità di entrare nell’età adulta. Di conseguenza, un atteggiamento divenuto comune negli anni precedenti al 1960 era lo scientismo, con cui Del Noce non intende la scienza in sé, ma piuttosto la visione filosofica secondo cui la scienza è l’unica vera razionalità e l’unico sano principio organizzativo della società. La controparte politica dello scientismo è la tecnocrazia, l’idea che la società debba essere diretta da “esperti”: scienziati, tecnici, manager, uomini d’affari. Questa idea era stata notoriamente avanzata alla fine del “vecchio” Illuminismo dal conte di Saint-Simon e puntualmente riemerse negli anni ’50, l’era della “rivoluzione manageriale”. Non a caso, questa fu anche l’età d’oro delle scienze sociali – sociologia, antropologia, psicologia, sessuologia, pedagogia – che raggiunsero una grande importanza non solo nel mondo accademico ma anche nella politica pubblica e persino nella cultura popolare. Allo stesso tempo la filosofia perse gran parte del suo precedente prestigio culturale, poiché molti professionisti si allontanarono dai suoi tradizionali campi di indagine (metafisica, filosofia morale) a favore di campi che ne facevano una sorta di ancilla scientiae.(filosofia analitica, filosofia della scienza). La scienza naturale, dopotutto, era la vera fonte di conoscenza. Tutto il resto era speculazione.

Un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico è andato di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo.

Per alcune interessanti illustrazioni americane di ciò che descrive Del Noce, rimando il lettore ai capitoli 3 e 4 di The Twilight of the American Enlightenmentda George Marsden, l’illustre storico evangelico. Quello che Marsden chiama l’Illuminismo “americano” è in realtà il difficile “matrimonio” che aveva segnato così tanto della storia degli Stati Uniti: il matrimonio tra l’Illuminismo e il protestantesimo. Quindi l’affermazione di Del Noce deve essere adattata al contesto americano dicendo che mentre in Europa la mentalità dell’Illuminismo è stata riscoperta, negli Stati Uniti (dove era già forte) si sentiva abbastanza forte da allontanarsi dalla sua difficile alleanza con il cristianesimo protestante. Con questa qualifica, Marsden concorda con Del Noce sul punto essenziale: “A tutti questi livelli della vita americana tradizionale, dai più alti forum intellettuali alle colonne di consigli quotidiani più pratici, due di queste autorità sono state quasi universalmente celebrate: l’autorità del metodo scientifico e l’autorità dell’individuo autonomo “.

Secondo Del Noce, alla grande svolta culturale alla fine degli anni Cinquanta contribuì un’altra riscoperta: quella del marxismo. Nella cultura europea il marxismo era già tornato alla ribalta dopo la seconda guerra mondiale, diventando egemonico, ad esempio, tra gli intellettuali francesi e italiani. Negli Stati Uniti, ovviamente, durante la Guerra Fredda, la cultura dominante era decisamente anticomunista. Tuttavia, secondo Del Noce, le idee marxiste avevano una portata molto più ampia del comunismo come movimento politico. Se si riconosce come nucleo del marxismo l’affermazione della priorità causale dei fattori economici-materiali, la tendenza a “spiegare ciò che è superiore attraverso ciò che è inferiore” e la teoria della “falsa coscienza” (che sostiene che si appella all’etica universale e i valori religiosi sono generalmente travestimenti per interessi economici egoistici), allora bisogna ammettere che il marxismo ha avuto una grande influenza, ad esempio, sulle scienze sociali. Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx (l’aspettativa della rivoluzione, il ruolo messianico del proletariato e così via), molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”; tutti i valori sono i riflessi di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale; non hanno validità permanente. È in questo senso, scriveva Del Noce, che “la rinascita della mentalità illuminista e la riscoperta del marxismo si sono incontrate e si sono compenetrate”.

Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx, molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”: tutti i valori sono il riflesso di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale, e non hanno validità permanente.

Già nel 1963 Del Noce ha diagnosticato che questa confluenza di temi illuministici e idee marxiste caratterizzava una “nuova” cultura, che ha variamente descritto come la società “tecnologica” o “ricca”, o come “progressismo”. Ha anche predetto che quando questa mentalità è penetrata dalle élite intellettuali nella società più ampia (attraverso l ‘”industria della cultura”, i mass media, l’istruzione pubblica, ecc.), Avrebbe prodotto precisamente alcuni degli effetti descritti in The Upswing : crescente individualismo, frammentazione sociale , diminuzione della religiosità, crescente disuguaglianza economica. Ha basato la sua previsione sul fatto che la nuova cultura era radicalmente positivistica, e quindi destinata a “demitizzare” e infine a distruggere le narrazioni simboliche e religiose che legavano insieme la società.

Per spiegare meglio questo punto cruciale, lasciatemi fare riferimento al classico cliché “Dio, famiglia e paese”. Questo slogan è stato sfruttato da molti politici senza scrupoli e ridicolizzato da altrettanti intellettuali sofisticati, ma indica una verità importante. Le persone si sentono unite ad altre persone se condividono quella che Del Noce chiamava una “dimensione ideale” che inevitabilmente si riferisce a ciò che chiamava “l’invisibile” o “il sacro”. Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata. La religione, la famiglia e la nazionalità sono tre di queste fonti fondamentali di “sacralità”. Ora, secondo Del Noce, la società benestante tende a “dissacrarli” e di conseguenza diventa lentamente una “non società” formata da individui “atomizzati”.

Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata.

Per quanto riguarda “Dio”, Del Noce sostiene che il dopoguerra ha visto nascere una nuova forma di “irreligione” ben diversa dall’ateismo tradizionale. Piuttosto che negare direttamente l’esistenza di Dio, i pensatori neo-illuministi professavano una forma di agnosticismo scientistico. Questo pretendeva di essere religiosamente “neutro” ma in realtà minò la religione a un livello più profondo, negando il valore intellettuale e pratico delle questioni religiose . Da una prospettiva scientista “queste domande irrisolvibili sono anche quelle che non ci interessano; nel senso che non interessano coloro che vogliono agire nel mondo per migliorarlo in alcun senso. ” Le questioni religiose sono irrilevanti per la vita sociale, economica e culturale, tranne che come potenziale fonte di conflitto civile, che deve essere evitato accettando che “la politica democratica può essere solo una politica de-mitologizzata”. Questo atteggiamento relega la religiosità a una sfera strettamente privata e alla fine porta a una secolarizzazione radicale, “perché erode la dimensione religiosa fino a cancellare dalla coscienza ogni traccia della questione di Dio”.

Passando alla “famiglia”, Del Noce vede uno stretto legame tra scientismo e rivoluzione sessuale, il cui quadro concettuale è stato fornito dalla rinascita della sessuologia scientifica e della psicoanalisi negli anni ’50 e ’60. L’esperienza della sessualità in quasi tutte le culture è stata una via di trascendenza, così potente che deve essere ordinata con cura. Al contrario, la “scienza” non conosce la trascendenza. La sessualità scientifica e la psicoanalisi considerano la sessualità umana come un fenomeno puramente naturale, privo non solo di significato trascendente, ma anche di finalità intrinseche (ad esempio, la procreazione). Da una prospettiva scientista, gli impulsi sessuali sono semplicemente fenomeni naturali da studiare con metodi biologici o psicologici, ma non hanno uno scopo superiore e non hanno valore simbolico oggettivo (per non parlare di sacramentale). Di conseguenza, agli uomini e alle donne della società benestante viene insegnato a non trovare nel sesso nulla che punti al di là di loro stessi.

In questo senso, la filosofia della rivoluzione sessuale è “positivismo per le masse”. Ritiene che anche le relazioni umane più intime siano essenzialmente “prive di significato” tranne che per il significato “diamo loro”. Il sesso diventa una transazione romantica (nella migliore delle ipotesi) tra individui autonomi e fondamentalmente isolati, e il matrimonio diventa molto simile a quello che nel diciannovesimo secolo era chiamato “amore libero”, cioè una libera associazione che dura finché dura l ‘”amore”. e può essere sciolto quasi a piacimento. Chiaramente, questa concezione del matrimonio “centrata sulla coppia” implica una sorta di “de-sacralizzazione” dell’idea di “famiglia”.

Un tipo simile di desacralizzazione si applica all’idea di “nazione”. Ho già accennato al carattere universalista e cosmopolita della cultura neo-illuminista emersa all’epoca della “svolta”. Aggiungo che anche in questo caso Del Noce pensa che ci sia una necessità filosofica. Le nazioni erano tradizionalmente basate su identità religiose o culturali, articolate in storie di fondazione, in “miti” ed “eroi” nazionali, che incarnavano uno scopo collettivo. Nessuno di questi ha senso da una prospettiva scientista-positivistica. Una nazione è solo una forma di organizzazione politica ed economica, completamente sostituibile da forme più efficienti. L’amore per la patria è nel migliore dei casi una reliquia romantica, nel peggiore una forma di fanatismo e fonte di una passione pericolosa. Se qualcosa, un abitante della società benestante sentirà una maggiore fedeltà alla comunità globale di manager illuminati, tecnologi, filantropi e uomini d’affari che alla sua nazione d’origine.

 

Chiaramente, a lungo termine questo è destinato a creare una frattura politica (all’interno dei paesi sviluppati) tra l’élite tecnocratica (tipicamente concentrata attorno a poche grandi “città del mondo”) e coloro che condividono il vecchio senso di identità basato sulla nazione (tipicamente che vivono in aree periferiche). Questo è solo un aspetto di un fenomeno generale che Del Noce descrive come segue: nelle società prive di un terreno comune “ideale” (religioso, filosofico) “la separazione tra la classe dirigente e le masse diventa estrema perché i membri della prima sanno che ogni argomento in termini di valori è semplicemente l’ideologia come strumento di potere “. Tutto, per loro, è già smascherato, e quelli per i quali non è smascherato lo sono. . . beh, non sono illuminati.

In sintesi, Del Noce sosteneva che in una cultura radicalmente scientista-positivistica come quella che divenne dominante in Occidente intorno al 1960 tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Questa rozza sintesi, ovviamente, non rende giustizia alla sua analisi. Ad esempio, non posso discutere qui le sue opinioni sui critici interni della società benestante, in particolare i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta. Mi limiterò a menzionare che, a suo parere, quei movimenti (che in un certo senso possono essere visti come i paralleli della reazione romantica al primo Illuminismo) per lo più non sono riusciti ad affrontare i fondamenti filosofici della nuova società, e in realtà spesso hanno finito per giocare nella sua mani, criticando le istituzioni “tradizionali” che in realtà ostacolavano il processo “We-to-I” (la chiesa, la famiglia,educazione liberale, ecc.).

Ma basta con l’analisi del “declino”. Del Noce ha qualcosa da dirci sulla questione sollevata in The Upswing ? Cioè, cosa ci vorrà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

In una cultura radicalmente scientista-positivistica tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Cosa servirà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

Chiaramente, ritenendo che la cultura abbia giocato un ruolo di primo piano nella svolta, Del Noce era propenso a privilegiare una sorta di “revisione culturale” per invertire la tendenza. Ciò implica, tra le altre cose, che la politica può svolgere solo un ruolo di supporto, mentre l’istruzione deve essere al centro dell’attenzione. Non a caso, l’istruzione è uno dei campi che ha sofferto di più nella società ricca-tecnologica. Privata di narrazioni e ideali, l’educazione è stata impoverita dall’utilitarismo, che si manifesta come un’enfasi sulla tecnologia nelle scienze. La politicizzazione nelle discipline umanistiche sembra essere un tentativo di recuperare un qualche senso narrativo o ideale, ma a scapito di un dibattito umano e aperto, di una curiosità rigorosa e di una connessione con idee precedenti e forse più ricche di giustizia e natura umana. (O, ovviamente, può semplicemente accadere che, poiché le facoltà umanistiche perdono la convinzione che la bellezza artistica e la verità filosofica siano oggetti di studio e contemplazione intrinsecamente meritevoli, devono giustificare la loro esistenza affermando che i loro soggetti hanno rilevanza politica, e quindi pratica).

Innumerevoli tentativi di “aggiustare” l’istruzione primaria e secondaria come se fosse un problema “tecnico” sono falliti, perché non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la cultura secolare moderna non ne ha una, o il uno che ha è inadeguato al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la moderna cultura secolare non ne ha una, o quella che ha è inadeguata al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Un approccio semplice è guardare alle idee che hanno guidato la svolta precedente (quella intorno al 1960) e metterle in discussione. Invece di vivere in una relazione perennemente antagonista con il nostro passato collettivo, dobbiamo fare pace con esso, il che richiede essere in grado sia di rifiutare i suoi errori che di valutare ciò che era prezioso. Invece di ribellarci ai vincoli della religione, della famiglia e del paese, dobbiamo riconoscere ciò che Simone Weil chiamava “il bisogno di radici”. Dobbiamo capire che i valori universali possono essere realizzati solo in forme locali e contingenti. Dobbiamo imparare ad accettare i limiti, e venire a patti con il fatto che gli esseri umani non possono avere un sano rapporto con il visibile (come direbbe Del Noce) senza fare i conti in qualche modo con l’invisibile . Quest’ultima osservazione ci porta al punto critico: una nuova ripresa sarà impossibile senza adeguate risorse religiose. La buona volontà, o politiche migliori, o strumenti tecnici più avanzati semplicemente non affronteranno gli aspetti culturali della crisi. Ma la vera religione non può essere fabbricata a volontà. È necessaria una conversione. Come dice Del Noce, serve un risveglio religioso, perché religione, patria e famiglia sono ideali supremi e non strumenti pratici. Ed è certamente un punto valido che la formula corruzione optimi pessima si applichi al deterioramento che colpisce questi ideali quando sono visti, almeno in primo luogo, come strumenti pragmatici del benessere sociale. Per essere socialmente utili devono essere pensati all’interno delle categorie del vero e del bene; il contrario è impossibile. Certamente, un tale risveglio non può essere un’opera meramente umana. Ma ciò nondimeno richiede, per realizzarsi, che i cuori degli uomini siano attenti.

Allora partecipiamo.

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