DEMOCRAZIE ILLIBERALI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?

1.0 Dall’ascesa del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di democrazie illiberali.

Si è scoperto che “democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne evidenziava le differenti caratteristiche[1].

  1. Per lo più tale illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale). Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale” questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana, quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Riggiero, nella sua Storia del liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.

Il tutto prefigura uno scontro di civiltà; come si legge sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo contenuto della prevalente opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che gli avversari[2].

La concezione della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi” è stata esposta da Carl Schmitt[3].

  1. Sul piano concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica” per la limitazione del potere. In questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”: monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente associato alla democrazia.

Secondo la critica di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre, che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali” (il corsivo è mio).

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è , una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura” costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].

Pertanto è evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia – e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti, garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.

L’ “illiberalismo” non consisterebbe nella mancanza  di protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi,  particolarmente incidenti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti il corpo elettorale.

Nella tipologia dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del Dizionario di politica, le democrazie illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso torinese[5].

Quindi democrazie non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.

Nel notissimo discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste avevano (da poco) autorevolmente interpretato a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso di considerare.

Il Presidente dopo aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.

Lincoln ribadiva così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del 1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”.

L’espressione di Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede, come scritto, quale aggettivo.

  1. Comunque è un fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico) e garanzie dal potere politico (distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica, o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.

E, indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale: così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa, perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].

Democrazia e liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma politicamente sinergici. La prova storica a contrario è che, laddove si sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo “ncl tecum nec sine te vivere possum”.

5.0 Tuttavia, dato che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici dell’U.E.).

Ad esaminare il testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi (art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt. 48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.

Nel complesso, e per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto, e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della Costituzione materiale). appare  che sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.

L’altro caso, che ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione del 1997.

Tuttavia le preoccupazioni dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri della polizia e sul Difensore civico.

Tale normativa – che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e giustizia”) e le opposizioni – concerneva l’accesso al Parlamento dei giornalisti e il rinnovo  della dirigenza dei media pubblici. La legge sui media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni, nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia  non sono state riesumate le disposizioni, abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.

In altre parole sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati): un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.

Situazione sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come “illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.

Vero è che altro è scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.

La stufenbau nazionale è essenzialmente cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7], emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito” della norma superiore.

Pertanto appare maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi nella Convenzione EDU – ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta per l’Italia dalla Corte EDU – la violazione negli atti concreti (sentenze, provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.

D’altra parte, se andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei confronti del potere, e sul principio di legalità.

Non c’è quindi un sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da una Corte apposita sugli atti legislativi.

Tuttavia è chiaro che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare l’espressione di “illiberali”.

Piuttosto il fatto che i leaders di Ungheria e Polonia dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto più illiberalismo di quanto ce ne sia.

Del pari quell’ “illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la garanzia dei diritti, fondamentali e non.

Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]: senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che cercano – e in gran parte riescono – a dominare.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Costant parlava di “libertà” più che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin) ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo “è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie umana nell’antichità non permetteva a un’istituzione di questo tipo di introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale tra regimi politici.

[2] Mi si consenta di rinviare al mio articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico” pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad de los  Cesares (Santiago – Chile) n. 110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..

[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und Entpolitisierungen  trad. it. di P. Schiera in C. Schmitt Le categorie del politico, pp.    Bologna 1972.

[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo Dottrina della costituzione, Milano 1983, p. 64.

[5] v. “Modelli ideali più che tipi storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro A preface to Democratic Theory (1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini (in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la libera espressione del voto, la prevalenza  delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.

[6] Per la giustizia politica ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generaleVerfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Temi e Dike nella decadenza della Repubblica in Rivoluzione liberale.

[7] Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt

[8] § 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.

Parole chiave del nuovo corso politico: sicurezza, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “sicurezza”.

Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.

Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

  1. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.

Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.

Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.

Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

“Sine cura”, senza preoccupazione.

Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).

Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.

Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.

Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.

La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.

A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.

Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.

Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.

Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.

Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.

Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.

Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.

parole chiave del nuovo corso: identità, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “sicurezza”.

Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.

Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

  1. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.

Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.

Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.

Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

“Sine cura”, senza preoccupazione.

Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).

Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.

Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.

Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.

La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.

A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.

Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.

Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.

Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.

Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.

Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.

Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.

Steve Bannon in Italia

Steve Bannon, assieme a Roger Stone, è il principale protagonista del ristretto manipolo di persone che, negli ultimi cinque anni, ha fiutato la crescente fragilità dell’imponente establishment americano dominante e portato alla vittoria presidenziale Donald Trump. Il secondo è la figura pragmatica e disincantata, apparentemente leggera, in grado di muoversi nei meandri e di cogliere a tempo le dinamiche dei centri di potere. Ha iniziato la carriera giovanissimo come assistente di Richard Nixon, guarda caso in una fase analoga di scontro acuto, anche se meno cruento, tra strategie e centri di potere ferocemente contrapposti. Bannon è invece lo stratega, capace di intercettare e orientare i movimenti di opinione e di dare respiro alle tattiche e alla contingenza politica; per questo inafferrabile, almeno sino ad ora e in grado di trasformare la propria condizione di preda in quella di predatore. Il momentaneo sospiro di sollievo dei restauratori, determinato dalla sua uscita dallo staff presidenziale, si è trasformato in inquietudine angosciosa allorquando ha ricominciato a minare, con i suoi successi alle primarie delle prossime elezioni di medio termine, le basi politiche dei neoconservatori e di quei trasformisti che non tarderanno a riaffiorare sotto nuove spoglie. La stampa e il giornalismo nazionali, con alcune rare eccezioni, si sono accontentati pigramente e beatamente di ciò che passava il convento d’oltreatlantico; ce lo hanno presentato come rozzo, razzista, approssimativo, isolazionista, retrogrado. La breve intervista, tenuta in Italia ai primi di ottobre e tradotta in italiano, farà crollare parecchi di questi stereotipi e con esso assesterà un altro colpo alla credibilità del sistema di informazione. Per approfondire sarà sufficiente rovistare nella sua testata, Breibart. Dal canto suo, Bannon appare, assieme a Stone, uno dei pochi politici americani consapevoli delle implicazioni dell’affermazione di un mondo multipolare, se non multicentrico. Uno dei pochi che vorrebbe tentare una impresa ardua, improbabile: un arretramento “ordinato” del proprio paese, in grado di preservarlo da quelle catastrofi che in altre epoche storiche più o meno recenti hanno travolto gli imperi in crisi. Non a caso la caduta dell’Impero Romano è sempre stato oggetto di attento studio negli Stati Uniti. Non è importante, al momento, comprendere se si tratta di una posizione tattica, in attesa che eventuali situazioni di conflitto aperto sempre latenti tra i paesi emergenti, ricollochi gli Stati Uniti in una condizione simile a quella della seconda guerra mondiale; oppure di una visione strategica, sino ad ora minoritaria ma storicamente pur sempre presente nel dibattito politico statunitense anche se in forme diverse, in particolare nei movimenti civici locali. Le intenzioni dei soggetti politici spesso e volentieri sono travolte e stravolte dalle dinamiche conflittuali. L’aspetto rilevante è che il prevalere o il consolidarsi di tali posizioni, non fosse che temporaneo, offre nuovi spazi ed opportunità a quelle élites nazionali che avessero intenzione di riprendere in mano il destino del proprio paese. Un proposito lungi dall’essere coltivato dalle nostre classi dirigenti, beatamente assopite. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

TACCUINO FRANCESE! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?, di Roberto Buffagni

Avevo appena iniziato a scrivere questo foglio di taccuino francese quando è giunta la notizia dell’espulsione di Florian Philippot dal Front National.

Non è soltanto la conclusione prevedibile di una crisi interna al FN, che si è manifestata dopo la conclusione deludente delle elezioni presidenziali francesi, e anzi sin dalla sera stessa del catastrofico dibattito televisivo tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron (qui il mio commento/analisi a caldo: http://ilblogdilameduck.blogspot.it/2017/05/la-parola-di-catrambronne.html ).

L’espulsione di Florian Philippot dal FN segna l’apertura di una crisi strategica delle opposizioni alla UE e al mondialismo, europee e non solo europee. A mio avviso, la ragione fondamentale di questa crisi strategica è culturale e metapolitica. Volendo fare un’analogia storica, le opposizioni alla UE e al mondialismo si trovano nella situazione delle opposizioni francesi, di destra e di sinistra, alla borghesia liberale rappresentata da Luigi Filippo d’Orléans, “re dei francesi”, negli anni tra il 1830 e il 1848. L’analogia è calzante anche per l’avversario: il governo Macron e il settore di classe dirigente che lo sostiene somigliano davvero tanto, con i dovuti aggiornamenti, ai borghesi che elevarono al trono il “roi poire” di Honoré Daumier (https://www.histoire-image.org/etudes/louis-philippe-daumier ), anche se Macron è giovane e bello e Luigi Filippo no. Tipicamente louis-philippard (haute banque, mandarinato amministrativo, accademia) il curriculum di Macron e di molti suoi collaboratori: i due primi governi di Luigi Filippo furono diretti da grandi banchieri, Laffite e Casimir-Perier; un altro suo primo ministro, Guizot, pronunciò la celeberrima frase “Enrichissez-vous par le travail et par l’épargne et vous deviendrez électeurs”; Thiers, grande storico della Rivoluzione, da ministro fece sparare sul popolo parigino senza pensarci due volte (https://www.histoire-image.org/etudes/rue-transnonain-15-avril-1834 ); e il suffragio censitario della Monarchia di Luglio è il sogno neanche tanto inconfessato di Macron e dei suoi.

Le opposizioni alla Monarchia di Luglio si dividono, come le attuali, tra opposizioni di destra (legittimista e bonapartista) e opposizioni di sinistra (repubblicana e socialista). C’è un’altra analogia interessante: che le opposizioni di destra si informano a due correnti ideologiche, una delle quali è coerente, radicale e filosoficamente ben fondata ma politicamente inservibile e impraticabile (la reazione maistriana, controrivoluzionaria, antilluminista dei legittimisti); e l’altra filosoficamente incoerente, eclettica, giacobino-romantica ma politicamente vitale e praticabile (il bonapartismo). Le opposizioni di sinistra si ispirano anch’esse a due ideologie: la repubblicana di ascendenza diretta giacobina, e la socialista non “scientifica”, pre-marxiana. Nonostante i molti tentativi coevi e successivi, le opposizioni di destra e di sinistra non riusciranno mai a unificarsi in un fronte comune contro un comune avversario che, invece, come oggi il governo Macron, governa e detiene l’egemonia politico-culturale grazie di un’alleanza-convergenza al centro politico fra ceti dirigenti provenienti da opposte sponde. Dopo il 1848, riusciranno invece ad allearsi intorno al nome del Principe-Presidente Luigi Bonaparte le opposizioni di destra bonapartista e di sinistra repubblicana, mentre le destre legittimiste e le sinistre socialiste vengono sospinte verso le estreme, dove resteranno confinate e impotenti per decenni.

Ma ritorniamo all’oggi, e a quel che ci insegna la vicenda del Front National. Naturalmente, dopo la delusione elettorale si è aperto il dibattito sul perché: perché siamo giunti a un passo da un’affermazione storica delle opposizioni alla UE e al mondialismo, e a un passo dalla meta abbiamo perso; perso, anzitutto, la fiducia in noi stessi e la capacità di ispirare fiducia ai cittadini e al popolo che vogliamo rappresentare.

Le letture della sconfitta che vengono dall’interno del campo antimondialista sono fondamentalmente due, una di sinistra e una di destra. Ne riassumo i punti essenziali.

1) Lettura di sinistra. La espone molto bene Jacques Sapir in questa intervista in due parti: https://cerclepatriotesdisparus.wordpress.com/2017/09/16/jacques-sapir-1/ https://cerclepatriotesdisparus.wordpress.com/2017/09/19/2/

In sintesi estrema: la linea vincente per il FN, e in generale per le opposizioni antimondialiste, era e continua ad essere quella, incarnata da Florian Philippot, di dédiabolisation e di apertura a sinistra sui temi sociali, che ha portato all’incremento di consensi non solo elettorali degli ultimi anni, e ha trasformato il FN nel primo partito operaio di Francia. La ragione della sconfitta è duplice: incertezza e presentazione confusa dei temi economici, anzitutto del tema dell’euro, risultante sia dall’alleanza all’ultimo minuto con Dupont-Aignan che su questo tema ha posizioni più sfumate, sia da incapacità personale di Marine, che nel dibattito è dunque parsa meno convincente di Macron; una Marine che, al secondo turno, ha rivolto agli elettori di Mélenchon (ai quali il loro leader non aveva proibito di votare FN, pur rifiutandosi di appoggiarlo apertamente) un appello poco persuaso e psicologicamente maldestro.

Senza dirlo apertamente, Sapir implica (salvo mio errore) che il FN dovrebbe insistere nella ricerca di un’alleanza con le forze sociali e politiche oggi rappresentate da Mélenchon, e a privilegiare il tema economico e sociale, integrandovi, ma in secondo piano e senza fare appello all’identità culturale, il tema dell’immigrazione.

2) Lettura di destra. Compendiata con chiarezza da Bruno Mégret, protagonista di una passata scissione del FN: https://www.polemia.com/lechec-dune-strategie/ e da questi altri interventi: https://www.polemia.com/marine-le-pen-pas-au-niveau/ , https://www.polemia.com/quelques-remarques-sur-le-front-national-apres-la-presidentielle-de-2017/

Sintetizzando al massimo: la linea “sociale” ed “economica” di Marine Le Pen/Philippot si è dimostrata perdente, numeri alla mano (v. qui: https://www.polemia.com/la-performance-electorale-du-fn-a-lepreuve-des-chiffres/ ). Sperare di sfondare a sinistra, tra gli elettori reali o potenziali di Mélenchon, è pura utopia: il tetto massimo di elettorato proveniente dalla cultura politica di sinistra è già stato raggiunto, insistervi significa soltanto allontanare, oltre ai simpatizzanti tradizionali del FN, artigiani, partite IVA, PMI e tutti i ceti che avversano lo statalismo tassatore. Il FN deve concentrare la sua azione e la sua propaganda su due temi essenziali: l’immigrazione, e dunque, la difesa e la riaffermazione dell’identità culturale francese ed europea, con la battaglia contro i diritti “sociétales”, o “cosmetici”, come si usa dire in Italia; e il recupero della sovranità intesa nel suo significato politico di “legittimità e potenza”, con quel che ne discende: recupero di una politica realistica, basata su interesse nazionale e riaffermazione dei poteri “régaliens” dello Stato (anzitutto difesa dall’esterno e sicurezza all’interno). Il tema dell’euro viene giudicato secondario (“dipende da come lo si usa”) oppure – ma di rado – se ne riconosce la decisività anche politica ma si sottolinea che è divisivo in termini di consenso elettorale (“anche i piccoli risparmiatori culturalmente affini al FN, ad es. gli elettori che al primo turno votarono Fillon, temono l’uscita dall’euro”) e tecnicamente complicato, non spendibile sul piano della propaganda (“troppo facile per gli esperti alzare un polverone in cui l’elettore medio non si raccapezza più”).

Sul piano direttamente politico-elettorale, la prospettiva caldeggiata è la seguente: sostituzione di Marine Le Pen con sua nipote Marion, o in caso di sua indisponibilità con un altro personaggio politico, e alleanza tra il FN (eventualmente sciolto e ribattezzato), la dissidenza dei Républicains, Début la France! di Nicolas Dupont-Aignan e altre formazioni minori della destra. In altre parole, la replica a destra della manovra politica (geniale) del florentin Francois Mitterrand: allearsi con l’estrema sinistra – allora il Partito Comunista Francese – andare al potere, restarci e vampirizzare l’alleato.

Semplificando al massimo, le due letture della crisi si possono commentare così:

1) Il punto debole della lettura di sinistra è questo: sorvola, sia a cagione del suo tradizionale economicismo, sia in omaggio a un wishful thinking, su quanto sia tuttora profonda la frattura culturale e metapolitica che divide destra e sinistra, anche all’interno del campo antimondialista. Sul piano direttamente politico, e usando il caso francese come caso di scuola: i militanti e gli elettori di Mélenchon (o di un politico a lui analogo) non si alleeranno mai con una forza politica che nasce da una cultura politica di destra identitaria e nazionalista, anche se il suo programma sociale rispecchia i loro interessi materiali e propone una riedizione dello Stato sociale keynesiano. Potranno verificarsi adesioni individuali o di piccoli gruppi, non un’alleanza politica vera e propria tra formazioni autonome. Non si tratta soltanto dell’effetto inerziale della contrapposizione fascismo/antifascismo, anche se sul piano degli slogan e dei riflessi condizionati emotivi verrà usata questa etichetta. La frattura metapolitica è profondissima, perché è sul concetto di eguaglianza tra gli uomini, e dunque sull’universalismo, culturale e soprattutto politico.

2) Il punto debole della lettura di destra è che a) sottovaluta, a cagione della sua tradizionale cultura antieconomicista, il valore e l’efficacia politica dell’euro e del liberismo b) sottovaluta la corrispondenza non congiunturale ma strutturale tra liberismo, “diritti cosmetici”, erosione della famiglia e dei valori tradizionali, immigrazione incontrollata e le parole d’ordine della rivoluzione francese: “libertà, eguaglianza e fraternità”, cioè a dire con la cultura illuminista e progressista, della quale la cultura politica di destra antimondialista non sa elaborare una critica coerente, che non si limiti alla pura negazione o al biasimo dei suoi effetti peggiori e più visibili, e che sia insomma propositiva e praticabile, capace di informare anche l’azione politica, costruendo un nuovo senso comune.

Sul piano direttamente politico, la lettura di destra è oggi (sottolineo oggi) l’unica che dà luogo a un progetto praticabile: fallito lo sfondamento a sinistra, diventa una scelta obbligata tentare lo sfondamento a destra. Impossibile prevederne le probabilità di successo: le variabili da cui dipende sono troppe.

E’ invece possibile cominciare a ragionare e a dibattere sul punto metapolitico della questione, perché si ripresenterà costantemente, nei prossimi anni, a prescindere dalle sorti politiche ed elettorali delle opposizioni antimondialiste e dei loro avversari. Si ripresenterà costantemente, perché c’è un tema ineludibile e durevole del dibattito e del conflitto politico che lo imporrà a tutti: l’immigrazione straniera in Europa.

Il punto metapolitico della questione è definibile, in sintesi estrema, come segue:

  1. Il mondialismo è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo e del progressismo, e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna.
  2. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo.
  3. L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo.
  4. Questa opposizione può diventare, e in parte già è, opposizione “antitetico-polare” all’illuminismo e all’universalismo non solo politico ma filosofico e culturale, nella forma di una negazione anzitutto dell’eguaglianza tra gli uomini (e dunque di un’opposizione frontale a tutta la cultura europea, nelle sue profonde radici cristiane).
  5. Oppure, questa opposizione può diventare (ma ancora non è) una “critica-superamento” dell’illuminismo e dell’universalismo, che ritrovi nella cultura europea, e nelle sue radici cristiane, le ragioni di un universalismo filosofico e culturale, ma non politico, capace di riaffermare e giustificare, insieme all’eguaglianza tra gli uomini, la dimensione permanente della diversità di individui, popoli, culture; una diversità che legittima il perdurare di popoli, nazioni, culture diverse, che storicamente possono, di volta in volta, collaborare o confliggere.

Può sembrare che questi temi di riflessione siano lontanissimi dalle gravi e pressanti preoccupazioni politiche del campo antimondialista. Non è così. Un grande studioso contemporaneo dell’arte militare, il col. John Boyd, USAF, ci ricorda che in guerra i piani del conflitto sono tre, in ordine decrescente d’importanza: morale, mentale e fisico1. Se il campo antimondialista vuole conquistare il centro della scacchiera politica (e chi conquista il centro della scacchiera è a un passo dalla vittoria) deve costruire una cultura politica persuasiva, il più possibile inclusiva e capace di egemonia, e capace di scalzare la superiorità morale dell’avversario.

La “superiorità morale” (cioè la capacità di persuadere ed egemonizzare il senso comune) dell’avversario mondialista deriva tutta intera dal fatto che rappresenta la manifestazione storica odierna e vincente dell’universalismo, cioè a dire dell’affermazione anche politica e istituzionale dell’eguaglianza tra gli uomini. Se il campo antimondialista vuole conquistare la superiorità morale, è su questo punto che deve criticare e attaccare l’avversario. Il modo in cui lo farà deciderà senz’altro la forma, e probabilmente anche l’ esito del conflitto.

1 • Guerra morale: distruggere la volontà di vincere del nemico, con disarticolazione delle sue alleanze (o allontanamento di potenziali alleati), e induzione della frammentazione al suo interno. Idealmente, risulta nella “dissoluzione dei vincoli morali che consentono a un’organizzazione di esistere come insieme organico.”

Guerra mentale: distorcere la percezione della realtà da parte del nemico, a mezzo disinformazione, atteggiamento ambiguo, e/o interruzione dell’infrastruttura di comunicazione/informazione.

Guerra fisica: la capacità di utilizzare risorse fisiche quali armi, persone, e strumenti della logistica.

Naturalmente, a questi metodi per indebolire il campo avverso, corrispondono simmetricamente i metodi per rafforzare il proprio: rinvigorire la volontà di vincere allargando le alleanze e accrescendo la coesione interna, correggere e mettere a fuoco la propria percezione della realtà, etc.

Vedi: https://en.wikipedia.org/wiki/John_Boyd_(military_strategist)#Foundation_of_theories

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