Nessuna svolta a sinistra, di Aurelien

Nessuna svolta a sinistra

Operai e contadini non siamo.

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Quel sospiro che avrete sentito in tutto il continente europeo, e anche oltre, nella prima settimana di luglio, è stato un respiro collettivo della Casta Professionale e Manageriale Europea (PMC), ora che il disastro politico era stato evitato e che le cose sarebbero andate avanti più o meno come nell’ultimo quarto di secolo. In Francia, la temuta presa di potere da parte dell’estrema destra non si è verificata, le milizie in uniforme che i media erano certi fossero nascoste da qualche parte non sono apparse nelle strade, e non è stato fatto alcun tentativo di assaltare l’Assemblea Nazionale o il Palazzo dell’Eliseo. E per finire, pochi giorni prima i britannici avevano eletto un governo laburista teoricamente di sinistra, guidato da un tecnocrate incolore con il carisma di un fazzoletto di carta bagnato. Lontano dalla discesa di massa verso il fascismo che si temeva, l’Europa sembrava ora muoversi, se non altro, dolcemente verso sinistra. I posti di lavoro erano stati salvati, gli articoli di giornale potevano ancora essere commissionati, le apparizioni televisive erano state salvaguardate e il PMC poteva stappare una bottiglia di champagne e partire per le vacanze, asciugandosi il sudore dalla fronte con sollievo.

Ma non è andata proprio così, ovviamente. In questo saggio inizierò spiegando brevemente cosa è successo realmente in ciascun caso, per poi utilizzarlo come spunto per discutere l’attuale configurazione dello scollamento tra partiti politici ed elettori nella maggior parte dei Paesi occidentali, e anche come comprendere la nuova grammatica della distribuzione del potere nei sistemi politici moderni. Poiché ho un approccio ingegneristico alla politica, parlerò in termini di forze, strutture e processi, piuttosto che di ideologie e personalità, e in termini che probabilmente potreste trasformare in diagrammi, se lo voleste.

Partiamo dal caso britannico. I risultati delle elezioni del 4 luglio 2024 sembrano abbastanza spettacolari. I laburisti hanno guadagnato 209 seggi, per un totale di 411, mentre i conservatori hanno perso 244 seggi. Gli altri partiti hanno ottenuto meno di 100 seggi. Il Partito Laburista ha quindi una maggioranza inattaccabile e può effettivamente fare ciò che vuole. Inoltre, il Partito Riformista di “estrema destra” ha ottenuto solo cinque seggi. Quindi un grande spostamento a sinistra? No. La quota di voto effettiva del Partito Laburista, inferiore al 34%, è stata solo leggermente superiore alla quota di voto del 2019, ma ha ottenuto i due terzi di tutti i seggi. Come è possibile?

Beh, ha a che fare con le strutture e i processi della politica britannica. Raramente le elezioni sono combattute direttamente tra destra e sinistra. Succede che un partito rimane al potere per un po’, alcuni dei suoi sostenitori perdono interesse o pazienza e, alle elezioni successive, trovano un terzo partito per cui votare. In genere, questo ridurrà i voti del partito principale in carica in misura sufficiente a far sì che il partito principale in carica vinca molti seggi. L’esempio più straordinario che si è verificato nella politica britannica moderna è stato quello delle elezioni generali del 1983, quando il Partito Conservatore ha ottenuto una vittoria schiacciante – paragonabile ai risultati del 4 luglio – anche se la sua quota di voti è diminuita rispetto al 1979. È successo che, dopo la sconfitta alle elezioni generali di quell’anno, il Partito Laburista si è di fatto spaccato e un gruppo di deputati di destra ha disertato per formare un nuovo partito, contrapponendosi al Partito Laburista ufficiale in molti seggi e facendo causa comune con il tradizionale Terzo Partito, i Liberali. L’effetto era prevedibile: la nuova terza forza conquistò solo un piccolo numero di seggi, ma divise il voto anti-Tory, tanto che molti seggi laburisti sicuri passarono ai conservatori. Fino al 1997, la storia è stata una lenta ripresa del dominio del Partito Laburista come principale opposizione, mentre i Conservatori rimanevano al governo con maggioranze sempre più ridotte, poiché il voto contro di loro era ancora diviso. Allo stesso tempo, però, i sondaggi mostravano chiaramente che l’opinione pubblica nel suo complesso si stava spostando costantemente a sinistra.

Questa volta è successo qualcosa di simile. Come hanno detto correttamente gli opinionisti la mattina dopo, “i laburisti non hanno vinto, i conservatori hanno perso”. Gli elettori conservatori si sono rivolti ai liberaldemocratici (che hanno aumentato in modo massiccio la loro rappresentanza) e al Reform Party, che ha ottenuto quasi il 15% dei voti (più dei liberaldemocratici). I candidati del Reform Party non conquistarono quasi nessun seggio, ma, sottraendo consensi ai conservatori, permisero ai laburisti di spuntarla. Il voto nazionalista in Scozia è crollato, dopo il fallimento del referendum sull’indipendenza e una serie di scandali, e quei seggi (molti dei quali avevano comunque una piccola maggioranza) sono tornati ai laburisti.

Bene, guardiamo oltre la Manica. Qui i barbari sono stati sicuramente respinti. Le previsioni secondo cui il partito di “estrema destra” dell’Assemblea Nazionale (RN) avrebbe ottenuto più seggi di tutti, costringendo Macron a invitare il suo leader a formare un governo, sono state disattese. (Non ci ho mai creduto, e l’ho detto). Per di più, la sgangherata coalizione di sinistra del Nuovo Fronte Popolare si è ritrovata con il maggior numero di seggi, seguita dalla traballante coalizione dello stesso Macron, con il RN al terzo posto. La civiltà è stata salvata, il Thalys continuerà a correre verso Bruxelles per il pranzo, le stesse facce appariranno in TV e non ci saranno controlli sull’immigrazione, quindi le donne delle pulizie saranno facili da trovare. Quindi la Francia non ha “svoltato a destra”, e di fatto è iniziata la lunga lotta contro le forze delle tenebre in Europa.

No. Tanto per cominciare, la RN e i suoi alleati hanno ottenuto una percentuale di voti più alta del 37% rispetto a qualsiasi altro gruppo, il che avrebbe dovuto portarli a circa 210-220 seggi, rendendoli in qualche modo il gruppo più numeroso. Che cosa è successo? Tutto ha a che fare con le strutture e i processi della politica francese. Le votazioni si svolgono in due turni e solo i candidati che ottengono più del 12,5% degli elettori registrati passano al secondo turno. In passato, la maggior parte delle competizioni erano tra il partito più forte della sinistra e il partito più forte della destra, e questi due sopravvissuti cercavano di convincere i sostenitori dei partiti sconfitti a votare per loro. In questa occasione, però, il PNF e i macronisti, pur essendo acerrimi nemici, hanno negoziato la rinuncia ad alcuni dei loro candidati per dare maggiori possibilità all’altro, tenendo così fuori il RN. La cosa ha funzionato, ma solo per poco: in molte circoscrizioni il RN è arrivato a pochi punti percentuali dal vincitore. Sebbene questo sia stato definito, in modo abbastanza ridicolo, come la costruzione di un “Fronte Repubblicano”, si è trattato in realtà di un cinico tentativo di aggrapparsi al potere e allo status da parte delle forze politiche che hanno dominato negli ultimi decenni. (È stato calcolato che queste manovre sono costate al RN fino a 100 seggi, privandolo così della possibilità di formare un governo. E quando la nuova Assemblea si è riunita per la prima volta, i partiti consolidati, votando in improbabili coalizioni, sono riusciti a impedire al RN di ottenere qualsiasi posto di responsabilità.

Non mi addentrerò nei dettagli, per quanto affascinanti per gli appassionati di politica: piuttosto, voglio usare queste due elezioni per argomentare una serie di proposizioni sulla struttura della politica in Occidente oggi, e sul perché non è come pensiamo che sia. Voglio iniziare con la questione del rapporto (o della sua mancanza) tra elettori e partiti, per poi passare alla questione di come capire dove si trova il potere in un mondo politico sempre più omogeneo, in cui i partiti condividono in gran parte le stesse ideologie.

Come ogni altra cosa in una società liberale, le elezioni sono viste attraverso la lente del commercio: diritto contrattuale, domanda e offerta. In effetti, i partiti cercano di stipulare contratti con gli elettori per eseguire determinati servizi in cambio dell’elezione al potere, e gli elettori scelgono i partiti in base a quanto ritengono di beneficiare della loro elezione. A sua volta, l’esito effettivo delle elezioni è percepito come una sorta di curva di domanda e offerta. I partiti politici “forniscono” politiche, per lo più legate a questioni come le aliquote fiscali, e gli elettori “comprano” queste politiche in base alle loro “richieste” di misure di cui beneficiano. A un certo punto le due curve si intersecano, ed ecco i risultati delle elezioni e, di conseguenza, la formazione di un governo. Si presume che i partiti politici, un po’ come le aziende, abbiano una volontà limitata e agiscano in risposta ai segnali del mercato, cercando di preservare la propria base di clienti. Si presume inoltre che esista una coerenza di fondo tra i partiti e l’elettorato, in modo che i cambiamenti nella rappresentanza in parlamento riflettano fedelmente i cambiamenti nelle opinioni dell’elettorato. Così l’argomentazione secondo cui questo luglio la Gran Bretagna “ha virato a sinistra” (non è così) e che la svolta di “estrema destra” in Francia non si è verificata (è così).

Una cosa che tutti, tranne i politologi e gli opinionisti, sanno è che, in realtà, gli elettori spesso sostengono un partito o un altro per ragioni che hanno poco a che fare con il suo programma elettorale, soprattutto nei suoi dettagli. In definitiva, l’elettorato può scegliere solo tra i partiti e le politiche effettivamente esistenti e può decidere di votare a favore o contro un partito per ragioni che non hanno nulla a che fare con il suo programma. La teoria politica liberale presuppone che i partiti politici, come le aziende del settore privato, rispondano alle richieste del mercato, in modo tale che se c’è una nuova o maggiore domanda per una certa politica, nasceranno nuovi partiti o i partiti esistenti modificheranno la loro offerta.

Questo modello è fantasticamente lontano dalla realtà, ma, come molti altri modelli di questo tipo, è stato molto potente, perché è così semplice. Possiamo vedere come, con un esempio estremo tratto dalla recente politica britannica. Nel 2015, solo una manciata di elettori britannici ha sostenuto partiti fermamente decisi a uscire dall’UE. Nel 2019, quasi la metà lo ha fatto. Cosa mai era successo per far cambiare idea a così tante persone in così poco tempo? Niente, ovviamente. Nel 2015, nessuno dei due principali partiti proponeva l’uscita dall’UE. Nel 2019 era l’asse portante del manifesto del Partito Conservatore, mentre il Partito Laburista era rassegnato a che ciò avvenisse. Ma, ripeto, si può scegliere solo tra i partiti esistenti con le loro politiche esistenti.

Quindi, nella maggior parte delle elezioni in Europa, l’ipotesi di base di una congruenza tra domanda e offerta di politiche semplicemente non regge. (E naturalmente nelle scelte politiche entrano fattori diversi dalle politiche – ad esempio le personalità – ma questo è troppo complicato per gli scienziati politici). Se le preferenze politiche degli elettori e le proposte politiche dei partiti non sono organizzate in relazioni ordinate e progressive che possono essere confrontate l’una con l’altra, qualsiasi risultato del mondo reale apparirà strano a prima vista. (Forse i matematici tra voi possono pensare a un modo per esprimere graficamente questo concetto). Quindi, se prendiamo le recenti elezioni francesi, le (rare) indagini su ciò che pensano gli elettori, al contrario di quale partito potrebbero votare, hanno mostrato che le loro principali preoccupazioni erano cose come il costo della vita, l’immigrazione, l’istruzione e l’insicurezza. Poiché nessuno dei partiti dell’establishment parlava di questi argomenti, se non per agitare le mani e impartire lezioni di morale, gran parte dell’elettorato rimase a casa o votò per la RN. Sebbene alcune delle politiche della RN (tipiche dei partiti di centro-destra di una generazione fa) avessero un loro fascino, il principale incentivo a votare RN era il cambiamento: “Fuori i bastardi” è il motto informale di molti elettori scontenti d’Europa. Si tratta di un voto punitivo, che utilizza l’unica arma a disposizione del popolo per accelerare la distruzione di un sistema incapace di un vero cambiamento. C’è un’argomentazione, che condivido, secondo la quale se un sistema politico si esaurisce, è meglio che muoia in fretta, con il minor numero di danni collaterali.

Naturalmente il voto tattico è vecchio come le elezioni e gli elettori hanno spesso un approccio al voto più sofisticato di quanto gli scienziati politici possano facilmente comprendere. Allo stesso modo, come è accaduto di recente in Francia, i partiti stessi possono cospirare tra loro per produrre un risultato che gli elettori non vogliono. Possiamo quindi concludere che, ad eccezione dei sistemi politici in cui letteralmente ogni sfumatura di credo è in qualche modo rappresentata, è improbabile che i risultati delle elezioni a tutti i livelli forniscano un quadro affidabile dell’opinione del Paese nel suo complesso.

In ogni caso, cosa rappresentano i partiti politici? Da dove nascono? L’argomentazione più semplice della teoria politica liberale è che essi rappresentano gli interessi economici, o almeno la competizione per promuovere tali interessi. (Molti marxisti sembrano avere la stessa opinione). Ma qualsiasi indagine pragmatica sugli elettori dimostra che questo non è vero, o al massimo è una grossolana semplificazione. In molti Paesi, c’è un sostanziale voto della classe operaia per i partiti di destra, le cui politiche in pratica avvantaggiano in modo sproporzionato i più abbienti. E c’è un voto parallelo, ma di solito minore, per i partiti di sinistra tra la classe media istruita, i cui interessi economici potrebbero essere meglio serviti votando per la destra. Quindi, tutto ciò che è in gioco va oltre il semplice bilancio bancario. Anche negli Stati occidentali con sistemi politici consolidati, si assiste alla presenza di partiti politici che non hanno un’ideologia economica dominante. Così, l’attuale Camera dei Comuni britannica contiene non meno di quattordici partiti o rappresentanti politici (un record). Tra questi, i nazionalisti scozzesi e gallesi, un partito che vuole l’indipendenza dell’Irlanda unita, uno che non ne è sicuro e ben tre che si contendono i voti di quelli che non lo sono. Dal momento che il crollo del voto dei nazionalisti scozzesi ha avuto un ruolo importante nel portare al potere il governo laburista, è difficile ignorare questo tipo di motivazioni di voto. Anche in Occidente, quindi, le persone votano in modi particolari per tutta una serie di motivi diversi.

Al di fuori dell’Europa occidentale e del Nord America, ovviamente, le cose sono sempre andate così. I partiti politici non nascono spontaneamente: devono essere organizzati intorno a qualche principio. Di solito si basano sull’identità: religiosa, etnica, linguistica o molto spesso un misto di queste tre. I partiti nazionalisti possono guardare con nostalgia a un’epoca di indipendenza, con impazienza a un’epoca di indipendenza o con avidità a parti di altri Paesi indipendenti a cui pensano di avere diritto. Così, l’infinita ed estenuante commedia dei tentativi dell’Occidente di creare partiti politici “multietnici” in Bosnia dopo il 1995, in una società in cui l’etnia era stata il mezzo fondamentale di identificazione politica.

Che cosa significano le elezioni? L’approccio tecnocratico del PMC, che privilegia la forma e il processo rispetto al contenuto e al significato, che scambia le diapositive di Powerpoint e i piani d’azione per la realtà, ama naturalmente le elezioni, con tutte le loro opportunità di analisi statistiche dettagliate e la costruzione di regole labirintiche. Si spinge fino a equiparare le elezioni (o almeno le elezioni giudicate “libere e corrette”) alla democrazia, nonostante la constatazione di buon senso che è ovviamente possibile avere elezioni senza democrazia (e probabilmente è possibile avere democrazia senza elezioni). Ma negli ultimi anni qualcosa è andato storto con l’ingranaggio: l’elettorato scopre che i controlli non hanno più alcun effetto sulla macchina, che si limita a fare ciò che vuole.

Arriviamo, quindi, a questioni terminologiche, visto che non ho ancora provato a definire la “democrazia”. (Aggiungo che il controllo del vocabolario politico spesso equivale al controllo parziale o addirittura totale del processo politico stesso. Quanto più egemonico è il controllo del vocabolario politico, tanto più totale è il controllo sul sistema politico in generale). Non ho intenzione di perdere molto tempo a discutere le definizioni tecniche di “democrazia”. Presumo che almeno questo pubblico accetti che in praticala democrazia è un sistema in cui il governo risponde ai desideri del popolo. Questa è una condizione minima, ma aggiungerei, da buon socialista, che il sistema dovrebbe anche cercare, per quanto possibile, di garantire che gli interessi di tutti siano presi in considerazione nella definizione delle politiche. Vedrete che una tale caratterizzazione della democrazia, che riguarda i fini, non ha nulla in comune con la fissazione del PMC sulla democrazia come mezzo: solo una serie di procedure tecniche. Ma quest’ultima definizione, ovviamente, consente alla classe politica occidentale di ignorare o denigrare i risultati effettivi delle elezioni che non le piacciono, spesso su basi tecniche dubbie, e indipendentemente dal fatto che il risultato rifletta la volontà del popolo. Quindi alcuni tipi di risultati non sono ammessi, alcuni tipi di partiti politici dovrebbero essere vietati e alcuni tipi di espressione politica dovrebbero essere proibiti. Solo così la democrazia potrà essere salvaguardata.

Gran parte di questo, come ho detto, ruota intorno alla terminologia. Ad esempio, in questi giorni i media che si occupano di PMC fanno una contrapposizione (del tutto artificiale) tra governi “democratici” e “autoritari”, anche se non è chiaro come i due termini debbano essere in relazione tra loro. Allo stesso modo, i governi “autoritari” vengono spesso definiti “populisti”, per delegittimarli ulteriormente. E questo è il punto, ovviamente: il controllo del vocabolario utilizzato e del suo significato conferisce potere a chi lo controlla.

Ora cerchiamo di spacchettare alcune parole. Per cominciare, credo sia ormai chiaro che la “democrazia”, così come viene intesa dalla classe politica occidentale di oggi, è un insieme di procedure che essi controllano e utilizzano come regole per contendersi il potere e che, quasi per definizione, escludono la gente comune dall’avere molta influenza. Quindi questi altri concetti sono meglio compresi come minacce reali o potenziali a questo tentativo di controllo egemonico.  Ora “populista” deriva dalla parola latina per “popolo”, e quindi non è un cattivo sinonimo di “democrazia” nel senso in cui uso il termine. Quindi un governo populista è un governo che cerca di fare ciò che il popolo nel suo complesso vuole, e un politico populista è uno che sostiene che questo dovrebbe essere così. Allo stesso modo, un governo “autoritario” è quello che esercita l’autorità che deriva dall’agire chiaramente secondo i desideri espressi dal popolo, anche contro le strutture di potere e di influenza che cercano di impedire al governo di fare ciò che il popolo vuole.

Quindi, il contrario del “populismo” non è la democrazia. Semmai, potrebbe essere descritto come unpopulismo, o semplicemente elitismo. In realtà, è impossibile che un sistema politico liberale non sia elitario. Uno dei suoi principi di base è sempre stato che la gente comune è ignorante e persino stupida, quindi le decisioni devono essere prese dai loro superiori. (Il ruolo della gente comune è quindi semplicemente quello di scegliere a quale delle élite in competizione tra loro debba essere affidato il contratto per la gestione del Paese, dopodiché le stesse équipe dovrebbero essere autorizzate ad andare avanti. Dopo tutto, dopo aver scelto un avvocato per rappresentarvi in un caso di lesioni personali, non cercate di dire all’avvocato come farlo. Così le élite scelte per il contratto di gestione del Paese non si aspettano di essere disturbate dalla gente comune che dice loro cosa fare e come farlo.

Naturalmente l’idea del dominio delle élite ha origini molto lontane. Ma ciò che colpisce è che, mentre in passato queste élite – i Guardiani di Platone, gli studiosi cinesi, la Chiesa, il Partito Comunista, i disprezzati “esperti” del XX secolo – giustificavano il loro status attraverso lo studio, la selezione, l’esperienza e, in alcuni casi, la rivelazione, le élite moderne raggiungono il loro status solo attraverso l’ambizione e l’affermazione. In altre parole, non ci sono qualifiche effettive per far parte dell’élite al potere di oggi, se non quella di volerlo e di riuscirci. Anche le élite messe da parte dalla storia, come l’aristocrazia tradizionale, potevano almeno trovare una giustificazione razionale per il loro status. Oggi non è così. Al massimo, le élite moderne vi sventolano le credenziali.

Questo spiega, credo, il nervosismo e la difesa dei governanti di oggi. Spiega la loro solidarietà reciproca e anche il loro disprezzo per voi e per me. Si tratta di un gruppo che si ritiene adatto a governare grazie alla correttezza delle sue idee, ma che non è in grado di spiegare in modo coerente perché le sue idee siano corrette, e nemmeno da dove provengano. È quindi comune l’osservazione che la struttura della politica odierna non è più Sinistra contro Destra, ma Elite contro Popolo, o In-Gruppo contro Fuori-Gruppo. Si noti che qui sto parlando di “struttura”, non di ideologia. La distinzione sinistra-destra continuerà a essere fondamentale finché la società avrà disparità di ricchezza e di potere, ma non è ciò di cui si occupa oggi la politicanel senso delle forze esercitate nella lotta per il potere. Al massimo, sinistra e destra funzionano come etichette e insulti, perché le fazioni d’élite in guerra non si vedono in competizione per l’ideologia, ma solo per il potere, come il Partito nel 1984, su cui tornerò tra poco. Queste etichette, soprattutto se precedute dalla parola “estremo”, sono utili per de-credibilizzare le forze della società di cui le élite hanno paura. Agiscono come slogan che dicono alla gente cosa pensare: questa settimana, qualsiasi critica alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici del 26 luglio è stata liquidata come proveniente dall'”estrema destra”, e quindi automaticamente da ignorare.

In alcuni Paesi, chi ha il controllo del discorso invoca anche ideologie più specifiche. Il grande classico, naturalmente, è il “fascismo”, che aveva perso ogni significato reale nel 1936, come osservava Orwell, ma che rimane qualcosa di cui nessuno vuole essere accusato. L’ignoranza delle élite francesi, ad esempio, è tale che alcuni sembrano sinceramente pensare che il regime di Vichy del 1940-42 fosse uno Stato “fascista” a cui la RN voleva far tornare la Francia. Poiché Vichy era tradizionalista, reazionario, elitario, arretrato, aristocratico, basato sulla trinità Chiesa, Esercito e Famiglia, e poiché i partiti fascisti in Francia (che allora esistevano) erano populisti, modernisti, di massa, eccitati dalla tecnologia e sprezzanti delle gerarchie tradizionali, gli standard di istruzione delle élite francesi devono essere ancora più bassi di quanto pensassi. O forse stanno semplicemente mentendo.

Mentono certamente sul repubblicanesimo, l’altra idea che deve essere “difesa” dalla RN. Infatti, il repubblicanesimo, con il suo universalismo, la sua laicità, la sua dottrina dei diritti e della cittadinanza e la sua libertà, uguaglianza e fraternità, è stato effettivamente abbandonato dalle stesse élite francesi. L’incoerente ideologia che gli è succeduta è un’accozzaglia di regole tecnocratiche provenienti da Bruxelles, di un sogghignante disgusto per l’idea di sovranità popolare, della sostituzione dei diritti comunitari e universali con diritti comunitari e diversi per i vari gruppi, e del ritorno della religione come forza in politica. Ironia della sorte, questo ha lasciato la RN come unico difensore su larga scala dei principi repubblicani tradizionali, il che spiega parte del suo successo.

È per questo motivo che credo sia necessario analizzare la politica in Occidente oggi attraverso la grammatica del potere e non quella dell’ideologia, e guardare alle forze in gioco, non alle etichette che vengono utilizzate. Per questo motivo, qui e in alcuni commenti occasionali sul sito (indispensabile) Naked Capitalism , ho cercato di diffondere l’uso del termine “Il Partito” per descrivere la nuova élite politica occidentale, e vedo che altri hanno avuto la stessa idea. L’importanza del termine è che il Partito nel 1984 non ha un’ideologia, anche se sostiene di averla e il Partito esterno è obbligato a crederla. Il Partito Interno è interessato solo al potere (“lo scopo del potere è il potere”, dice O’Brien). Questo è più o meno l’approccio dell’élite di governo liberale in Occidente oggi: Il liberalismo, dopo tutto, non ha una vera e propria ideologia, se non la lotta organizzata per il potere e la ricchezza secondo regole complesse.

Tuttavia, è importante rendersi conto che per “Partito” qui non intendiamo solo raggruppamenti politici organizzati di politici professionisti e dei loro consiglieri, e il “partito interno” non è solo le figure politiche più importanti. Infatti, dato che al giorno d’oggi esiste un solo partito, quello delle élite, dobbiamo guardare ai modelli di Stati monopartitici per capire la direzione in cui si stanno muovendo i sistemi politici occidentali. Così, per fare un esempio attuale, l’estromissione di Biden e la sua sostituzione con Harris negli Stati Uniti non è stata solo opera delle figure più “potenti” del Partito Democratico.

Parte del problema risiede nel tradizionale concetto liberale di separazione dei poteri. In questo caso, poiché il governo è considerato una minaccia per la libertà, soprattutto quella economica, è importante indebolirlo, facendo in modo che ogni componente – esecutivo, legislativo, giudiziario – possa agire come un controllo sugli altri. Ma questa è una tipica distinzione liberale di forma, che ignora la realtà della sostanza. Tanto per cominciare, nei sistemi politici Westminster l’esecutivo è l’esecutivo perché controlla il Parlamento. E poi qualcuno deve nominare i giudici. In realtà, però, c’è molto di più. Storicamente, questi tre rami erano composti da persone molto simili, che spesso erano andate a scuola o all’università insieme, avevano legami familiari e matrimoniali, socializzavano tra loro e condividevano una visione comune del mondo. Quando in Gran Bretagna i critici parlavano di establishment, si intendeva proprio questo.

La maggior parte dei Paesi è così, almeno in una certa misura, ma la tendenza si è accentuata negli ultimi anni. Se fino alla scorsa generazione esistevano centri di potere esterni all’establishment (sindacati, partiti politici di massa, persino parti dei media), ora questi sono stati smantellati e al loro posto abbiamo un esercito clonale di politici, ONG, giornalisti, opinionisti, consulenti, operatori politici, ma anche giudici, funzionari governativi, agenzie di sviluppo e persino leader della polizia, dell’esercito e dei servizi segreti, che hanno seguito la stessa formazione, hanno studiato le stesse materie nelle stesse università, si conoscono tutti e in gran parte la pensano allo stesso modo. Hanno dispute e lottano per il potere, ma lo fanno tra di loro e uniscono le forze per resistere alle pressioni esterne. Ecco perché non è necessario ipotizzare cospirazioni. I funzionari delle agenzie di sviluppo, ad esempio, condividono la stessa visione fondamentale del mondo del personale di altri settori del governo, e simpatizzeranno e cercheranno di sostenere gli stessi individui e gruppi del ministero degli Esteri o persino delle agenzie di intelligence.

È così che dobbiamo intendere il concetto di Partito Interno. Piuttosto che un partito parlamentare che si espande per impadronirsi di altre organizzazioni, il Partito è un sistema totale, e la rappresentanza in parlamento è solo una delle sue manifestazioni. (Sebbene il dominio del Partito interno non sarà mai totale, esso riesce a esercitare una grande influenza sul processo politico, ma anche sui media, sulla comunità delle ONG e su tutti i settori in cui il patrocinio del governo conta, dalle gallerie d’arte alle inchieste pubbliche. I suoi membri si spostano da un settore all’altro, come in qualsiasi Stato a partito unico. Non è, come si ripete, tenuto insieme da una vera e propria ideologia, ma condivide piuttosto una serie di presupposti liberali sulla politica, la società e l’economia che ha assorbito durante la sua formazione e che sono rafforzati e applicati dalle sue interazioni sociali e professionali. Il Partito Interno considera se stesso e le sue idee come virtuose e i suoi avversari non solo come sbagliati, ma anche come moralmente malvagi, e trova l’espressione dei suoi assunti condivisi utile per camuffare la nuda lotta per il potere e fornire una motivazione accettabile per le epurazioni interne. Ma il vero problema è il potere.

Questo spiega due cose. In primo luogo, il semplice potere e la ricchezza manifesti non qualificano necessariamente l’appartenenza al Partito Interno. Il proprietario milionario di una società di gestione di eventi con incarichi per l’organizzazione di eventi politici è ancora un appaltatore, che prende ordini piuttosto che darli. Il giovane e ambizioso consigliere ministeriale a cui è stata promessa la possibilità di un seggio parlamentare è ancora nel partito esterno (che si può approssimativamente identificare con la PMC), ma è in via di promozione. Ma un importante donatore, proprietario di media o finanziatore vicino a un partito politico può essere un membro del partito interno in regola, perché ha effettivamente potere e influenza.

In secondo luogo, la domanda essenziale è se si vuole essere dentro o fuori. Il solo fatto di voler entrare non è sufficiente, ovviamente, ma è un prerequisito. Nonostante le sue differenze, il partito interno serra i ranghi contro gli esterni, perché alla fine la destra e la sinistra fittizie hanno più cose in comune che cose che le separano. È per questo che è stato molto chiarificatore osservare il tentativo dei partiti politici consolidati in Francia di difendersi dalla possibilità che il RN acquisisca una reale influenza. Hanno sfacciatamente stretto accordi e votato insieme per tenere fuori gli intrusi.

Quello che vediamo in Francia (e credo che la stessa cosa stia iniziando altrove) è un’ammissione esplicita da parte dei partiti dell’establishment che il sistema politico è stato trasformato. Si è trasformato in un’oligarchia d’élite mentre nessuno ci faceva caso, e chi non lo gradisce può andare a quel paese. La maggioranza delle persone deve solo fare quello che gli viene detto. La dichiarazione più schietta di questa nuova arroganza è arrivata, curiosamente, da Jean-Luc (“dov’è la mia bocca, così posso metterci il piede”) Mélenchon, adorato leader di La France Insoumise in un’intervista con giornalisti stranieri. Ha rinunciato, dice, al tipo di persone che vivono nelle aree che hanno votato per il RN. LFI ha offerto loro un salario minimo più alto e loro hanno votato per la RN, perché ovviamente tutte queste persone che vivono nelle campagne e nelle piccole città sono ossessionate dall’odio razziale. Devono solo essere cancellati. In futuro, LFI si concentrerà sulla “nuova Francia” delle comunità di immigrati e della giovane classe media liberale e benpensante. I luogotenenti di Mélenchon hanno bombardato i social media con post sprezzanti sul tipo di persone che potrebbero votare per il RN. (Naturalmente le comunità di immigrati non sono la passiva carne da macello elettorale che LFI presume: hanno la loro ideologia e i loro leader, e a tempo debito mangeranno vivi Mélenchon e il suo partito, come hanno fatto in altri Paesi. Le tensioni su Gaza stanno già diventando critiche.

Alla fine, però, la gente comune non vuole essere messa da parte, né è pronta a farsi insultare per votare come vogliono le élite. Sono perfettamente consapevoli che il potere è ora detenuto in modo sproporzionato da un’élite liberale urbana compiaciuta e autocompiaciuta che non finge più di preoccuparsi degli interessi della gente comune. E se non possono ottenere soddisfazione dai partiti politici convenzionali, la otterranno altrove, indipendentemente dal fatto che i giornalisti della PMC decidano di caratterizzare questo fatto, con toni sommessi e minacciosi, come un “passaggio a destra”.

Non è passato molto tempo da quando metà del sistema politico francese, come molti altri partiti politici europei, cantava l’Internationale: quel grande e commovente inno laico che risale alla Comune di Parigi. “Ouvriers et paysans nous sommes” iniziava una delle strofe di “Operai e contadini siamo noi”. Non li troverete più a cantarlo. Operai e contadini, le vostre élite non hanno bisogno di voi. Andatevene e non fate storie.

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Marx, l’Europa e il globalismo, di Gennaro Scala

Marx, l’Europa e il globalismo

Marx, l'Europa e il globalismo
di Gennaro Scala
tratto da https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-marx_leuropa_e_il_globalismo/11_26268/?fbclid=IwAR2sRjjxWOCjYrwK3lm98F4QgB2yhcrKDj9uAYUXLuShEuyBjf814y-Rp3IIl 17 ottobre 1845, Karl scrive al borgomastro di Treviri per chiedere il passaporto prussiano, necessario per emigrare oltre Atlantico. Se lo vede rifiutare, ancora una volta incorrendo in un mandato di cattura. Con una lettera del 10 novembre 1845 rinuncia quindi alla propria nazionalità. D’ora in avanti sarà apolide. Marx decide dunque di non lasciare Bruxelles. La sua vita resterà ancorata all’Europa.

(Jacques Attali, Marx ovvero lo spirito del mondo)

Ti vorresti svegliare per liberarti dell’immagine dell’Europa. Ma non è possibile.

(dal film di Lars von Trier, Europa)

In un mio precedente intervento su Marx, Lenin e l’immigrazione accennavo al rapporto tra Marx e il “globalismo”, vorrei ora approfondire tale specifica questione. Esiste oggi, dopo che Edward Said sollevò il problema nel suo Orientalism, un’ampia letteratura complessivamente concorde sul fatto che Marx fu partecipe dell’eurocentrismo dominante nella cultura europea del suo tempo, dibattito di cui però non è giunta notizia agli ultimi sparuti difensori del sacro testo marxiano. Rimando in merito a quello che ho trovato uno dei testi migliori Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies, lavoro alquanto obiettivo, in cui Kevin B. Anderson, pur definendosi marxista, prende in esame i testi più “scabrosi” per la mentalità politicamente corretta “di sinistra”. Qui non ci occuperemo tanto dell’eurocentrismo di Marx, che daremo per stabilito, quanto della sua origine e significato, e del suo rapporto con il comunismo marxiano. Però, sia ben chiaro, non intendo fare un esercizio di “politicamente corretto”, la condivisione della pervasiva mentalità eurocentrica ottocentesca (e non facile per ognuno sfuggire ai pregiudizi più radicati del proprio tempo) non toglie nulla alla validità della sua analisi della formazione e dinamica de Il capitale. Inoltre, l’eurocentrismo è il risvolto negativo di ciò che lo rende una personalità per noi ancora significativa, l’essere stato un “segnalatore di incendio” che aveva avvertito profondamente quella crisi della civiltà europea che si concluderà con due guerre mondiali, per la quale prospettò una soluzione “radicale” ma utopica: il comunismo, in cui l’Europa si estendeva fino ad abbracciare l’umanità intera. In Marx l’adesione ai valori della civiltà europea e la preoccupazione per la sua sorte, il che è giusto e sacrosanto, si confonde con l’eurocentrismo, il che è sbagliato.

Per inciso, un certo economicismo entrato a far parte del senso comune, ritiene che con il passaggio all’egemonia statunitense si sia passati semplicemente da una forma di capitalismo ad un’altra (c’è da dire che Marx mai usò il termine capitalismo). In realtà, noi viviamo in un universo culturale che è diverso da quello di Dante, di Machiavelli, di Goethe, di Foscolo, di Verdi e persino di Gramsci. Con il passaggio alla “società di massa” siamo entrati in una diversa forma di civiltà, che seppur generata della civiltà europea, e di questa conserva geneticamente alcune forme, è però da questa diversa, come pochissimi intellettuali hanno visto, tra cui Pasolini che parlò di “genocidio culturale”.

La definizione sintetica più adeguata per la visione dei rapporti inter-nazionali di Marx sarebbe eurocentrismo globalista, ma useremo, per semplicità, il termine globalismo. Inoltre, in ambito accademico anglo-sassone la critica dell’“eurocentrismo” è diffusa (esiste anche una corrente di studi accademica, i post-colonial studies, che ruota intorno a questo tema) presentandolo però come qualcosa del passato, come già dice la definizione di questa disciplina, più difficilmente viene messa in luce la continuità tra l’eurocentrismo e il globalismo odierno, anzi spesso la critica dell’etnocentrismo viene effettuata secondo l’ottica del globalismo, il quale si presenta apparentemente in termini opposti, non come eurocentrismo che talvolta sfocia nel razzismo, ma universalismo che predica “accoglienza” verso i popoli sfortunati della Terra, i quali tutti hanno diritto a venire a lavorare per paghe da fame, o come manovalanza per la criminalità, nel paradiso occidentale. Per una istruttiva e incisiva descrizione di come sciovinismo e universalismo finiscano per identificarsi consiglio la lettura del classico testo di Nikolaj Trubeckoj, L’ Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo. Il globalismo è il nazionalismo della nazione dominante. Tutte le guerre post-89 sono state giustificate su una base universalistica, in difesa dei “diritti umani”, con cui venivano giustificati i “bombardamenti umanitari”. Tale globalismo si presenta come l’imposizione di un unico modello valido, la “democrazia occidentale” a cui tutti gli altri popoli della Terra si devono adeguare.

C’è stato un breve periodo, se commisurato ai tempi storici, ormai concluso, di rinascita del globalismo, dopo il crollo del mondo “bipolare” del dopoguerra seguito al “crollo dell’Unione Sovietica” e la possibilità di un analogo crollo in Cina, in cui è apparso possibile che l’Occidente a guida statunitense, potesse diventare l’unica potenza globale. Questo periodo è già concluso, con il ritorno in scena della Russia, e con la stabilizzazione della Cina quale grande potenza mondiale. Il globalismo di ritorno, se così possiamo chiamarlo, ha trovato varie forme di rappresentazione ideologica, tra cui Impero di Negri e Hardt svolse una particolare funzione ideologica tra le aree di sinistra post-sessantottine e post-marxiste: scomparso il Soggetto, la “classe operaia” sostituita da un soggetto non soggetto (se mi passate il gioco di parole), da una somma di singolarità (la moltitudine), veniva però ripreso lo schema che si può derivare dal Manifesto del partito comunista, che prevedeva una progressiva concentrazione del potere estesa a tutto il globo e relativa “scomparsa degli stati nazionali” a cui si opponeva una Moltitudine che veniva a sostituire la ormai mitica classe operaia. Significativamente veniva salutato da Slavoj Žižek come “il manifesto del XXI secolo”.

Non rendiamo però giustizia a Marx se oscuriamo la differenza tra il globalismo “post-moderno” di un Toni Negri, che è per la maggior parte affabulazione ideologica al servizio dei più pericolosi settori della classe dominante statunitense (quei settori globalisti che ultimamente con la Clinton non escludevano un attacco alla Russia), e il globalismo di Marx che è il tentativo utopico ma genuino di uscire da una situazione senza via uscita della civiltà europea. Rispetto all’immaginaria scomparsa dello stato-nazione decretata da Negri e Hardt, l’anti-nazionalismo marxiano ha ben più fondate ragioni, se visto in un’ottica europea (come vedremo), il problema è che vorrebbe risolversi nella soluzione utopica del comunismo. Scomparsa la “classe operaia”, sostituita da “diversi” di varia natura, fissati nella loro diversità secondo una forma di razzismo al contrario, le residuali forze di sinistra di derivazione comunista in occidente sono diventate un puro e semplice strumento del globalismo.

Come scrivevo precedentemente, l’opera maggiormente segnata dall’approccio globalista e che maggiormente ha influito negativamente sul movimento operaio del secolo scorso è stata, a mio parere, il Manifesto del partito comunista. Chi scrive non è stato indifferente a suo tempo al fascino esercitato da questo pamphlet, dopo la cui lettura la Storia (con la maiuscola) sembra acquisire un senso e una direzione. Ma una volta superata l’illusione di possedere la chiave per la comprensione dei fattori storici, lo schema dell’evoluzione storica non regge neanche ad un superficiale esame, cominciando dal famoso incipit “la storia è lotta di classe, schiavi e liberi, patrizi e plebei”, visto che non è ci è giunta notizia di lotte di classe tra schiavi e liberi nell’antica Grecia, tutt’al più potrebbe essere parzialmente valido per Roma antica (Spartaco e altri, anche se non furono certo lotte determinanti per l’assetto sociale romano), ma la palla già passa a “patrizi e plebei”. Dell’incipit del Manifesto si potrebbe conservare solo questa parte parte “la storia è lotta” (ritornando al detto di Eraclito secondo cui il conflitto è padre di tutte le cose), il conflitto è il motore della storia, ma non solo tra classi sociali, vi sono conflitti all’interno delle classi dominanti, conflitti tra le classi dominanti di diverse nazioni, conflitti tra i dominati, senza considerare le classi medie (visto che la polarizzazione tra “borghesi” e “proletari” prevista da Marx non si è verificata), insomma un reticolo di conflitti attraversa le società, al loro interno e verso l’esterno, e dà vita alla dinamica sociale, e in genere i conflitti che hanno l’effetto sociale più dirompente sono i conflitti tra eserciti quali concentrazione della forza, perché i conflitti si vincono in ultima analisi con la forza. Nonostante che Marx avesse il culto della Storia (“conosciamo una sola scienza: la storia”), il suo riduzionismo non è sostenibile proprio dal punto di vista storico. Uno storico di professione come Eric Hobsbawm in una prefazione a Forme precapitalistiche di produzione, sottolineava come Marx si concentrò sullo studio dei rapporti capitalistici di produzione, ma dal punto di vista dell’analisi propriamente storica sia lui che Engels erano dei “dilettanti ben informati”.

Sono convinto che oggi sia più di ieri necessaria la riscoperta di una prospettiva socialista, ovvero una forma di regolazione collettiva del sistema produttivo (senza però soffocare l’iniziativa individuale senza la quale ogni sistema diventa per forza di cose stagnante), data la irrazionalità di questo sistema, con le sue mostruose diseguaglianze, la sua tendenza a tagliare fuori dal “sistema” masse crescenti di popolazione, i rischi enormi per l’ambiente che esso comporta, il degrado dell’alimentazione, dell’istruzione, della formazione, delle attività del tempo libero. Tuttavia non è possibile ricostruire una prospettiva socialista senza fare i conti con lo scacco subito dal comunismo storico. Per la rinascita di un pensiero socialista oggi sono convinto sia necessario liberarsi dell’utopia universalista/globalista che ebbe il nome di comunismo, nata in un contesto particolare di crisi della civiltà europea. Essa è stata già di fatto accantonata dalla storia, ma il rischio oggi è quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, come suol dirsi. Coloro che non hanno fatto i conti con tale necessità non possono che diventare che gli utili idioti delle peggiori tendenze delle peggiori classi dominanti odierni (idiozia che talvolta fa il paio con il piccolissimo opportunismo di meschini mestieranti della politica). Come nel caso delle politiche a favore dell’immigrazione, sostenute dai principali partiti di sinistra europei, uno degli strumenti (certo, uno dei tanti) con cui le classi dominanti nei paesi occidentali hanno abolito gli “eccessivi diritti” di classi popolari che nei paesi occidentali avevano “alzato troppo la testa”. Non è un caso che questa sia una tara soprattutto dei partiti comunisti “occidentali” (secondo la distinzione tra “marxismo occidentale” e “marxismo orientale” effettuata da Losurdo), i quali taccerebbero di “fascismo” la posizione sull’immigrazione ad del Partito Comunista della Federazione Russa o quella del Partito Comunista Francese, che, quand’era ancora un partito di massa si oppose, con Marchais all’immigrazione, individuando in essa un tentativo delle classi dominanti di minare le condizioni di vita delle classi popolari.

Se vogliamo fare i conti con la parte peggiore dell’eredità lasciataci dal defunto “comunismo storico” dobbiamo partire, a mio parere, dal globalismo del Manifesto. L’elogio ivi contenuto del ruolo rivoluzionario della “borghesia” che “trascina nella civiltà le nazioni più barbare” si trasformerà 5 anni più tardi in aperto sostegno all’espansionismo globale britannico: trasfigurato, in termini para-religiosi, come uno strumento con cui si compie il “destino dell’uomo” (in un articolo del 1853 dal significativo titolo La dominazione britannica in India [o l’Inghilterra rivoluzionaria malgrado se stessa].

Certo, Marx denunciò a più riprese la “barbarie e intrinseca ipocrisia della civiltà borghese” che si presentava senza veli nelle colonie (I risultati futuri della dominazione britannica in India), e per questo chi ha voluto fare di Marx un “anticolonialista” ha sempre trovato singole affermazioni nei suoi testi a sostegno di questa tesi, tuttavia, se consideriamo la posizione complessiva di Marx, l’espansionismo coloniale venne da lui giustificato come una forma di diffusione del modello europeo che apportava il progresso, seppur tra lacrime e sangue, con mezzi barbarici. Una difesa retoricamente più efficace rispetto ai puri e semplici cantori della missione civilizzatrice europea. Il “marxista” Anderson, citato all’inizio, parla per quanto riguarda gli articoli di Marx sull’India di “supporto qualificato per il colonialismo”. Supporto tanto più efficace perché Marx era sicuramente convinto di quello che scriveva e non fu mai un volgare propagandista. Ma se poteva apparire plausibile ai tempi di Marx la convinzione che alla fine l’espansionismo globale della borghesia potesse risultare in un salto in avanti complessivo dell’umanità, seppur bisognasse fare delle acrobazie logiche e mettere in campo degli artifizi dialettici per difenderlo, non lo è per chi oggi, alla luce dei fatti storici, continua a propagandare tale nozione di “progresso”, considerata la “esplosiva” eredità che questo espansionismo ci lascia. In tale “dialettica” dell’espansione coloniale la dialettica quale disciplina filosofica ritrova i suoi antichi legami con la sofistica. Marx ritenne complessivamente positivo il dominio inglese in India, condannò la rivolta dei Taiping (in un articolo Chinesisches per Die Presse del 7 luglio 1862, uno dei più testi più eurocentrici di Marx), una delle più imponenti rivolte anti-coloniali del 19° secolo, che le potenze europee contribuirono in modo decisivo a sedare, e se si aggiunge il suo odio antirusso, ne risulta un marcato eurocentricismo.

La prospettiva globalista di Marx è riassunta in una lettera ad Engels (8 ottobre 1858):

 

Non possiamo negare che la società borghese ha vissuto, per la seconda volta, il suo XVI secolo – un XVI secolo che spero suonerà a morte per lei come il primo che l’adulò in vita. Il vero compito della società borghese è la creazione del mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggia sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, mi sembra che, con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone, questo compito sia stato portato a termine.

Il globalismo del comunismo deriva dal rapporto oppositivo ma allo stesso tempo mimetico con l’espansione globale capitalistica. Il comunismo vuole essere rivoluzione globale così come globale è il capitalismo, da Marx fino a Lenin, il quale vide al rivoluzione russa come un preludio ad uno sconvolgimento mondiale. La storia sarebbe andata diversamente: è stata proprio la resistenza alla “unificazione del mondo” da parte delle identità culturali delle grandi civiltà storiche è stato il fattore principale di resistenza. La rivoluzione russa era il modo in cui la civiltà russa (come vide con grande lungimiranza Toynbee) faceva fronte alla minaccia costituita per lei dall’espansionismo europeo, una forma di modernizzazione imposta dal conflitto tra gli stati, come fu la rivoluzione francese (vedi in merito il mio Ripensare la rivoluzione francese).

In Marx il globalismo deriva dalla convinzione che alla portata globale del dominio del capitale bisognasse contrapporre una strategia altrettanto globale del movimento comunista rivoluzionario, in base alla realistica valutazione che un movimento comunista limitato ad un determinato paese sarebbe stato schiacciato dalla potenza del capitalismo dominante a livello globale, convinzione che viene conservata anche da Lenin nonostante con lui si faccia strada nel movimento comunista una posizione radicalmente diversa sulla questione della nazionalità. Il globalismo di Marx è diverso dall’inter-nazionalismo che si affermerà successivamente nel movimento comunista, seppur è la risposta ad un medesimo problema: il globalismo prevede una progressiva scomparsa degli stati mentre l’inter-nazionalismo, come dice la parola, è un’alleanza tra le nazioni soggette all’imperialismo.

Questo mio scritto non mira alla liquidazione dell’eredità del pensiero marxiano, ma, esattamente al contrario mira, a quell’esercizio critico che andrebbe fatto con ogni autore da cui ormai i secoli ci separano, valutando quanto il tempo ha mostrato valido nelle loro opere e quanto invece va abbandonato. Soltanto effettuando il necessario esercizio critico sul pensiero di Marx (il quale fu un deciso sostenitore dell’approccio critico, si ricordi il sottotitolo de Il Capitale) è possibile sottrarlo a chi lo considera un “cane morto”, oppure lo vorrebbe confinare all’ineffettualità del marxismo accademico, oppure peggio ancora vorrebbe farne solo un araldo delle meraviglie della globalizzazione (come nella biografia di Jacques Attali), e non una delle espressioni più acute della crisi della civiltà europea.

L’analisi di Marx della merce e della formazione del capitale è ancora fondamentale per comprendere la società odierna, ma se vogliamo recuperare la parte migliore del pensiero di Marx dobbiamo liberarla da quella che invece risulta più legata all’ideologia del suo tempo, in particolare al dominante globalismo dell’Inghilterra quale nazione uscita vincitrice dal secolare scontro interno delle nazioni europee che si avviava a diventare nazione dominante a livello globale. Consapevoli che tale impostazione si riflette in quella che è l’opera più importante e attuale di Marx, Il capitale, nell’idea secondo cui studiando la particolare formazione del capitalismo inglese si studiasse “il punto più alto dello sviluppo” che mostrava la strada a tutte le formazioni sociali. Prospettiva unilineare che lo stesso Marx mise in discussione alla fine della sua vita in favore di un approccio “multilineare” (un tema su cui si è molto discusso nel marxismo degli anni 60-70). Tuttavia se è sicuramente interessante il radicale ripensamento di Marx negli ultimi anni della sua vita (a questo è dedicato il lavoro di Anderson citato all’inizio), bisogna tenere conto però dell’influenza avuta dalle sue opere su generazioni di militanti in cui l’approccio unilineare risulta dominante. Se ci sarà nel prossimo futuro un ordine stabile sarà un ordine multipolare, per cui va superata ogni mentalità globalista.

Ancora oggi esistono sparuti gruppi o individui che giocano a chi è “il più marxista”, quello che voglio invece promuovere è un’analisi critica del pensiero di Marx, che non è “l’orizzonte insuperabile del nostro tempo” (come scrisse Sartre) perché fu, come ogni scrittore significativo, profondamente legato al suo tempo. Da Marx ci separa un arco di tempo in cui molti processi che alla sua epoca erano in fase di svolgimento si sono conclusi. Certo può sembrare facile, e anche in un certo senso ingiusto, giudicare con “il senno di poi”, tuttavia questo è esercizio è inevitabile di generazione in generazione.

Uno dei motivi per cui non si è indagata a fondo la visione che Marx aveva dei rapporti inter-nazionali è perché questi sono animati da un deciso odio contro la Russia. Le Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo, una delle poche opere pubblicate in vita, non fu neppure inclusa nell’edizione sovietica delle opere complete di Marx. In essa, scriveva che la storia aveva fatto della Russia una potenza reazionaria perché segnata dal secolare servaggio imposto dalla dominazione mongola, da cui aveva per giunta ereditato l’aspirazione al “dominio mondiale”. Ma siccome, per la consueta ironia della storia, proprio la Russia è diventata la prima potenza comunista si è preferito lasciare in secondo piano questi aspetti del pensiero di Marx. Non è un caso tuttavia che proprio il comunismo di Marx abbia fatto presa sulla Russia, perché esso è il prodotto finale del movimento rivoluzionario innescato in Europa dalla rivoluzione francese, l’ultimo prodotto di un movimento rivoluzionario che in Europa andava spegnendosi. È Marx stesso a descriverci come le élites intellettuali russe fossero in realtà le uniche realmente interessate al suo pensiero:

 

Qualche giorno fa un libraio di Pietroburgo mi ha sorpreso comunicandomi che “Il Capitale” sta per esser stampato in traduzione russa. Ha voluto una mia fotografia per l’illustrazione di copertina, ed io non ho potuto negare questa piccolezza “ai miei buoni amici” (i russi). È un’ironia della sorte che i russi, contro i quali ho combattuto per 25 anni ininterrottamente, e non solo in tedesco, ma anche in francese e in inglese, siano sempre stati i miei «protettori». Nel 1843-44 a Parigi gli aristocratici russi mi portavano in palma di mano. Il mio libro contro Proudhon (1847) [La miseria della filosofia], come anche quello edito da Duncker (1859) [Per la critica dell’economia politica], in nessun altro paese hanno trovato uno smercio maggiore che in Russia. E la prima nazione straniera che traduce “Il Capitale” è la Russia. Ma tutto ciò non dev’esser sopravvalutato. Gli aristocratici russi da giovani vengono istruiti nelle università tedesche e a Parigi. Essi vanno a caccia di quanto di più radicale viene prodotto in occidente. È un’autentica Gourmandise [leccornia], come quella che attirava una parte dell’aristocrazia francese nel XVIII secolo. Ce n’est pas pour les tailleurs et les bottiers [Non è per sarti e calzolai], diceva allora Voltaire delle sue idee illuministiche. Ciò non impedisce a questi stessi russi di diventare farabutti non appena entrano al servizio dello Stato.

(cit. in Ettore Cinnella, L’altro Marx)

 

Ho voluto riportare per intero questo passo perché è alquanto indicativo della diffidenza di Marx dovuta alla sua effettiva russofobia, che si traduceva in diffidenza personale verso i rivoluzionari russi, superata, secondo Cinnella, soltanto verso la fine della sua vita (che in questo concorda con Anderson), quando Marx sviluppò un intenso rapporto con i populismo russo attraverso cui effettuò una radicale revisione della sua visione stadiale e unilineare, insieme ad un superamento del suo eurocentrismo “Marx formulava adesso, sulla storia della dominazione inglese in India, un’interpretazione opposta a quella che ne aveva dato negli anni ’50 sulle pagine della New York Daily Tribune. Inappellabile era la condanna del rapace colonialismo britannico, reo di aver saccheggiato e distrutto un mondo economico-sociale ancora vitale. La nuova visione della storia dell’India, e dei rapporti tra il subcontinente indiano e la Gran Bretagna, era il frutto della lettura non solo del libro di Kovalevskij, ma di molte altre opere, studiate da Marx con passione a partire dalla fine degli anni ’70.” (Ettore Cinnella, L’altro Marx). In questi anni ipotizzò, in una famosa lettera a Vera Zasulic (8 marzo 1881), la possibilità per la Russia di “saltare” insieme alle delizie della “accumulazione primitiva” la fase dello sviluppo capitalismo per passare direttamente al socialismo.

Tuttavia prima di questo cambiamento che avvenne negli ultimi anni della sua vita, il contraltare del globalismo di Marx fu specialmente la russofobia, mentre si sostiene il predominio mondiale dell’Inghilterra, allo stesso tempo, secondo i meccanismi della proiezione, si attribuisce questa aspirazione alla Russia che in quel periodo attraversava una profonda crisi interna e non poteva certo aspirare al “dominio mondiale”. È un meccanismo caratteristico della propaganda del tempo, tuttavia in Marx acquisice un significato particolare. Non so se è vero che Marx sia stato “l’inventore della russofobia di sinistra” come scrive Guy Mettan in Russofobia. Mille anni di diffidenza, certo è che all’inizio sposa appieno la russofobia dominante in Inghilterra in quegli anni (e condivisa in tutti gli ambienti politici, dalla destra alla sinistra, per questo non credo che la progenitura sia da attribuire a Marx). La russofobia svolge una funzione particolare nel sistema di pensiero di Marx, e siccome essa è irrazionale, mentre di solito l’irrazionalità è assente dal pensiero marxiano (le Rivelazioni per la palese superficialità e per giudizi tagliati con l’accetta non sembrano neanche scritte da Marx), credo sia legittima una interpretazione di carattere psicologico.

Poco analizzata dai “marxologi” è stata la colloborazione con David Urquhart, un deputato politico conservatore russofobo e filoturco, che durò quasi dieci anni e si concretizzò in articoli scritti per i giornali degli “urquhartiti” e partecipazioni a incontri organizzati dagli stessi, tra cui le Rivelazioni e una raccolta di articoli su Palmerston pubblicati a puntate sulla Free Press di Urquhart (v. Lettera di Marx a Lassalle, 2 giugno 1860). David Urquhart aveva chiesto a Marx un incontro dopo aver letto alcuni suoi articoli per il New York Tribune (allora uno dei quotidiani con maggior lettori al mondo) , che denunciavano una presunta ambiguità di Palmerston nei confronti della Russia. Lo stesso Marx riconobbe, dopo averlo incontrato, che Urquhart era un “almost maniacal Russophobe” (Die Reform, 19 Decembre1853), e quindi bisognerebbe capire perché anch’egli cadde in questa stessa mania e scrisse un testo come Rivelazioni che oggi noi definiremmo “complottista”. La mia spiegazione, ipotetica come ogni spiegazione psicologica, sarebbe, la seguente. Marx aveva indicato nell’Inghilterra il nemico principale della Rivoluzione durante gli ultimi anni prima dell’esilio, ma cambiò parere (come vedremo) con il suo trasferimento in Inghilterra, la quale con il suo colonialismo diventa “rivoluzionaria suo malgrado” e quindi il carattere reazionario anti-rivoluzionario lo raccoglie la sola Russia, d’altra parte c’è un tentativo da parte di Marx di mutare la natura dell’Inghilterra, denunciando la politica “nascosta” di uno dei suoi principali esponenti politici, Palmerston, denunciandone gli accordi “segreti” con la Russia.

Il globalismo eurocentrico non è una tara del solo Marx e del solo comunismo. Che si tratti del liberalismo anglosassone che costruì un abnorme impero globale, che si tratti del comunismo, che intendeva sostituire al capitalismo globale la rivoluzione comunista mondiale, che si tratti del nazionalsocialismo che intendeva sostituirsi all’Inghilterra in declino quale potenza dominante globale, il problema principale della cultura politica europea è stato il globalismo, in merito al quale andrebbero concentrati gli sforzi per una diversa cultura politica oggi in cui l’Europa non è più al centro del mondo. Questo deriva dal fatto che per primo in Europa si è verificato quel pauroso balzo in avanti dal punto di tecnico e organizzativo delle società umane che chiamiamo modernità. Per lunghi secoli (a partire dal XV secolo fino al secolo scorso) l’Europa ha goduto di un vantaggio sia nell’organizzazione sociale (stato ed esercito moderni) sia sul piano tecnico che le ha garantito un vantaggio sulle altre società umane consentendole un espansionismo globale. Per tutti questi secoli l’Europa si è sentita al “centro del mondo”.

Marx, conformemente ai pregiudizi del suo tempo, vedeva l’Europa come il “mondo civile” per eccellenza, al di fuori si incontravano prevalentemente “popoli barbari” come scrive nel Manifesto.

“Popoli senza storia” che vegetavano come l’India (la filosofia della storia hegeliana influenzò pesantemente la visione che Marx aveva dei popoli extraeuropei) e attendevano l’Europa per essere “risvegliati”, mentre la Cina, della cui ricchissima civiltà già al tempo di Marx si sapeva abbastanza, è affetta da “stupidità ereditaria”. I prezzi bassi delle merci abbattevano le muraglie cinesi e costringevano “alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari” (sarà per questo che oggi la Cina ha adottato a sua volta le politica dei prezzi bassi per penetrare le economie occidentali? L’avranno imparato dal Manifesto?). La Storia era incarnata essenzialmente dall’Europa, essa “trascinava” nella civiltà gli altri popoli (secondo le parole del Manifesto) seppur mossa dai “più vili interessi” (come scriveva qualche anno più tardi nella New York Tribune).
Vista con il “senno di poi” l’espansione globale dell’Europa appare come un periodo particolare della storia già concluso, in cui l’Europa prende il volo, un’accellerazione dello sviluppo interno, ma a cui le altre maggiori civiltà si sono adeguate.

Decisivo è vedere il contesto in cui nacque l’utopia mondialista/universalista di Marx. Marx è un rivoluzionario tedesco, formatosi all’interno dei movimenti rivoluzionari sorti in seguito alla rivoluzione francese in tutti i paesi europei. Com’è noto la rivoluzione francese ebbe una forte componente nazionalistica (“amour sacrè de la patrie”), che fu compresente con l’universalismo dell’Illuminismo che fu uno dei fattori dell’egemonia ideologica della Francia nelle altri nazioni europee. Questi due elementi contraddittori non giunsero mai ad armonizzarsi, restarono separati, come ad esempio in Rousseau la “religione dell’umanità” e la “religione della patria” non riusciranno mai a darsi la mano. In Marx, il nazionalismo scompare fino a diventare “anti-nazionalismo” e viene sempre più in primo piano l’universalismo.

Per comprendere questo passaggio è necessario far riferimento al contesto storico. Tra Marx e la rivoluzione francese vi fu la sconfitta di Napoleone, dopo la quale la secolare disputa tra Inghilterra e Francia si trasformò in un alleanza (con ruolo subordinato della Francia), e, successivamente, il colonialismo francese si svilupperà in modo collaterale e subordinato a quello inglese, occupando gli spazi vuoti lasciati da questi (vedi in merito Boris Kagarliski, From Empires to Imperialism: The State and the Rise of Bourgeois Civilisation). La “borghesia” ovvero le classi dominanti francesi , aveva promosso quelle trasformazioni rivoluzionarie dell’esercito, dello stato e dell’organizzazione complessiva della società dirette ad un accrescimento di potenza, in breve tutte quelle trasformazioni interne anche radicali, spinta dal conflitto con l’Inghilterra (una dinamica messa in luce da una delle correnti di ricerca storiche più interessanti del dopoguerra, vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Con la sconfitta storica di Napoleone le classi dominanti francesi (anzi, complessivamente l’intera società francese) perdono la “spinta rivoluzionaria” e mirano allo status quo al fine di un’entente con l’Inghilterra. Questo comporta una frattura con le classi popolari che le classi dominanti si erano tirate dietro nel tentativo di vincere il conflitto con l’Inghilterra. Inizia così la frattura tra nazionalismo rivoluzionario e socialismo rivoluzionario messa in luce da James H. Billington. Negli stessi anni il movimento rivoluzionario democratico tedesco, sulla scia dei movimenti rivoluzionari innescati in tutta Europa dalla Rivoluzione francese, che era la spinta ad adeguarsi al modello dello stato francese, e che aveva prodotto, con Kant, Fichte, Hegel, una versione tedesca dell’Illuminismo, spinge per la modernizzazione della Germania, ma è troppo debole per conseguire degli obiettivi senza l’appoggio dei movimenti rivoluzionari francesi, questo già basta per far capire che il movimento tedesco non poteva essere solo “nazionale”.

Ecco come Marx riassumeva il contesto politico nel 1849 quando si era già consumata la sconfitta del movimento rivoluzionario sia in Francia che in Germania:

 

Il paese che trasforma intere nazioni in suoi proletari, che tiene stretto tra le sue braccia gigantesche tutto il mondo, che col suo denaro ha già una volta fatto fronte alle spese della restaurazione europea, in seno al quale gli antagonismi di classe si sono spinti alla forma più marcata e più sfrontata, l’Inghilterra insomma, sembra lo scoglio contro cui s’infrangono le onde della rivoluzione, fa morir di fame la nuova società già nel grembo materno. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un sovvertimento della situazione politico-economica in ogni paese del continente europeo, su tutto il continente euro­peo, senza l’Inghilterra, è una tempesta in un bicchier d’acqua. La situazione dell’industria e del commercio all’interno di ogni nazione sono dominate dal commercio con le altre nazioni, sono condizionate dal loro rapporto col mercato mondiale Ma l’Inghilterra domina il mercato mondiale, e la borghesia domina l’Inghilterra

E la vecchia Inghilterra verrà abbattuta solo da una guerra mondiale, l’unico evento che può offrire al movimento inglese organizzato dei lavoratori l’occasione per riuscire a ribellarsi vittoriosamente contro suoi giganteschi oppressori…Ogni guerra europea in cui si trova ad essere coinvolta l’Inghilterra, è una guerra mondiale…La guerra europea è la prima conseguenza della vittoriosa rivoluzione operaia in Francia. Come ai tempi di Napoleone, l’Inghilterra sarà alla testa delle armate controrivoluzionarie, ma la stessa guerra la spingerà alla guida del movimento rivoluzionario, e così pagherà le sue colpe contro la rivoluzione del XVIII secolo. Insurrezione rivoluzionaria della classe lavoratrice francese, guerra mondiale: questa è la dichiarazione dell’anno 1849. (K. Marx, Il movimento rivoluzionario, Neue Rheinische Zeitung, 31 dicembre 1848)

Questo passo è assolutamente cruciale per comprendere la nascita del comunismo marxiano. Con la sconfitta di Napoleone che segna la vittoria definitiva dell’Inghilterra nel secolare conflitto con la Francia, diventa impossibile la vittoria di ogni movimento rivoluzionario in Europa che non sia in grado di affrontare la sfida della potenza globale inglese. Quale poteva essere la soluzione? In realtà, ad una sconfitta epocale come quella della Francia napoleonica non c’è soluzione che possa invertire il significato della sconfitta storica. Oppure la soluzione può essere utopica, come il comunismo marxiano che riteneva di aver individuato nel movimento operaio la soluzione al cul-de-sac in cui era finita l’Europa. Il movimento operaio avrebbe ridato slancio al movimento rivoluzionario e avrebbe risolto “dall’interno”, grazie al cartismo (che si rivelerà agli occhi di Marx già dopo qualche anno ben poco rivoluzionario), il problema costituito dallo stra-potere dell’Inghilterra. Il movimento operaio avrebbe messo fine a quei conflitti nazionali che oramai avevano assunto una forma regressiva. Il comunismo, in analogia con il cristianesimo, è stato un’ideologia universalistica di fine impero, soltanto che, a differenza dell’impero romano, di un impero che non c’è mai stato che è morto sul nascere, finito prima di cominciare.

Per comprendere l’avversione ai conflitti nazionali di Marx, che nasceva da un contesto in di una già avvertita decadenza della civiltà europea che cominciava a mostare le prime vistose crepe, prima di andare in frantumi un secolo dopo, leggiamo questo famosi versi iniziali di una poesia di Goethe del 1827 dedicata “Agli Stati Uniti”:

 

America, tu hai una sorte migliore di questo nostro vecchio continente. Tu non hai rovine di castelli né basalti, tu non sei turbata nell’intimo, quando è il momento di vivere da inutili ricordi e futili contese

 

È già presente in Goethe la consapevolezza che la civiltà europea dopo il fallimento del progetto imperiale napoleonico era entrata in crisi ed era in pericolo. (vedi in merito Dominic Eggel, A civilisation at peril: Goethe’s representation of Europe during the Sattelzeit). Le futili contese sono i conflitti tra gli stati europei che non riescono più a stabilire un ordine, ma invece configurano un disordine crescente. Marx ritiene di aver scorto nel conflitto di classe, generato da motivazioni economiche, lo strumento con cui superare questi conflitti, una volta eliminate le motivazioni economiche. È questa una parte del pensiero marxista che è entrata nel senso comune: la guerra è dovuta a motivi economici. In realtà, si potrebbe dire altrettanto unilateralmente che “l’economia è dovuta motivi guerreschi”, oppure che l’economia sia la “continuazione della guerra con altri mezzi” e che l’acquisizione di ricchezza, potenza industriale e finanziaria, sia funzionale e allo stesso prodotto del conflitto tra gli stati. La penetrazione finanziaria e commerciale è uno dei modi con cui sottomettono le nazioni, tuttavia la penetrazione economica non potrà mai andare da sola. “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15.” (Thomas Friedman)

Una studiosa americana, nativa di Hong Kong, Victoria Tinbor Hui ha scritto un interessantissimo libro, War and state formation in ancient China and early modern Europe, basato sulla comparazione tra la Cina antica e l’Europa moderna, in particolare per quanto riguarda il processo (IV-II secolo a.C,) che dagli “stati combattenti” porta alla nascita della prima dinastia dell’Impero cinese. La comparazione, per quanta possa sembrare ardita, si basa sul fatto che lo stato moderno che oggi noi consideriamo la normalità, prima della storia moderna è stato presente solo in Europa e in Cina, la storia ha visto la prevalenza di imperi e città-stato. Naturalmente, il paragone è da prendere cum grano salis, non necessariamente il “sistema di stati europei (Charles Tilly) avrebbe dovuto sfociare in qualcosa di simile all’Impero cinese o all’Impero romano. Senza attribuire un telos interno alla storia europea, certo è che la conflittualità interna richiedeva una qualche forma di soluzione, che conferisse una maggiore unità alla civiltà europea, ad es. una qualche forma di federazione tra gli stati europei, più adeguata al radicamento che avevano le identità nazionali. La mancata soluzione della conflittualità interna ha avuto come risultato due guerre mondiali e il crollo della civiltà europea.

Su un punto non sono d’accordo con Victoria Tin-bor Hui, tra i motivi per cui Napoleone fallì nel suo obiettivo di creare un “Impero europeo” non vi fu la riluttanza ad utilizzare gli spietati stratagemmi suggeriti da Machiavelli, a somiglianza di Sun Tzu, a causa degli ostacoli morali posti dalla sentita appartenenza ad una comune umanità europea (Sun Tzu sottolinea l’autrice non è il Machiavelli cinese, piuttosto Machiavelli è il Sun Tzu europeo, data la precedenza temporale di quest’ultimo). Napoleone, ricorda l’autrice, affermava di portare sempre con sé Il principe di Machiavelli, tuttavia avrebbe dovuto leggere ugualmente e con attenzione i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (in particolare il capitolo Le repubbliche hanno tenuto tre modi circa lo ampliare), dove è descritta l’astuta politica di alleanze dei Romani in Italia, grazie al quale gli alleati italiani di Roma si trovano intrappolati quando Roma iniziò ad espandere il suo “Imperio”. Questo fu il principale “stratagemma” dei romani dettato dalla loro astuzia e sagacia politica, supportata ovviamente dalla potenza militare, piuttosto che la sola spietatezza. L’impero romano si sviluppò in modo territoriale, nei territori conquistati venivano costruite città e strade, le popolazioni soggiogate venivano incluse, seppur in forma subordinata nella civiltà romana. Il cosiddetto Impero britannico si sviluppò in modo opposti agli imperi classici, in modo non territoriale, nelle terre conquistate in tutto il mondo l’obiettivo non era quelle di includerle in un ordine, quanto piuttosto sfruttarne le risorse. L’imperialismo inglese fu diverso, anzi opposto agli imperi classici. Questa differenza è colta, in una certa misura, anche da Marx, quando osserva che in India, gli inglesi ereditarono dai loro predecessori [invasori] i dipartimenti delle finanze e della guerra, ma trascurarono completamente i lavori pubblici” (La dominazione britannica in India), quei lavori idraulici necessari per un’agricoltura che dipendeva dall’irrigazione.

Napoleone fu un grande stratega militare, ma non uno stratega politico, incline a cercare, e in sintonia anche con “l’accelerazione dei tempi”, la soluzione rapida attraverso il colpo di mano militare, piuttosto che con un’abile e paziente politica di alleanze volta a creare uno stabile blocco politico europeo contro l’Inghilterra, alienandosi in questo modo la simpatia che inizialmente aveva suscitato in tutta Europa il suo tentativo di trasformare l’Europa stessa.

Ecco perché la sconfitta di Napoleone è un turning point nella storia europea, colto, a suo modo, dallo stesso Marx. Nel nuovo contesto i movimenti nazionali cominciano a divergere, da quella che all’inizio voleva essere una comune liberazione dei popoli europei, allo stesso tempo, mentre in un rivoluzionario come Filippo Buonarroti “questione nazionale” e “questione sociale” restano strettamente intrecciate, in seguito il nazionalismo perde il riferimento universalistico verso l’esterno, diventando riferimento esclusivo alla propria nazione, e all’interno diventa sempre più inegualitario perdendo il rapporto con la questione dell’eguaglianza sociale, diventando ciò che intendiamo oggi in termini negativi: il nazionalismo. Fino a quella forma di aberrazione costituita dalla teoria razziale, una forma di degenerazione del nazionalismo, in cui il riferimento esclusivo alla propria nazione viene fissato in termini biologici. Tant’è che si è voluta fare una distinzione tra nazionalismo e patriottismo, nonostante che semanticamente i due termini indichino la stessa cosa, anzi patriottismo conserva un riferimento ai legami di sangue che invece il termine “nazionalismo” non ha.

L’anti-nazionalismo di Marx è da situare e valutare in tale contesto. Marx ritiene di aver individuato nel conflitto di classe la chiave che permetteva di oltrepassare i conflitti nazionali, in quanto “con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse” (Il Manifesto). Qual è la relazione tra conflitto di classe e conflitto inter-nazionale non è chiarito. Anche nell’ipotesi di società senza classi, cosa impedirebbe a due diversi raggruppamenti umani “senza classi” di essere antagonisti riguardo al possesso di determinati territori con un clima migliore, più fertili, più ricchi di risorse ecc.? Per quale motivo la fine dell’antagonismo di classe significherebbe la fine dell’antagonismo fra le nazioni? Si tratta di un atto di fede nel carattere risolutivo del “conflitto di classe”, con cui si realizza un’uscita utopica dai conflitti interni alle nazioni europee che avevano assunto già al suo tempo un carattere regressivo.

Dopo la sconfitta definitiva della Francia, con Napoleone, nel secolare conflitto con l’Inghilterra, il nazionalismo perse il suo carattere progressivo di generale movimento dei popoli europei per diventare movimento di un popolo contro un altro popolo, diventando così uno strumento del balancing of power della potenza inglese. L’inghilterra non temeva i singoli movimenti nazionali quanto una potenza egemone che realizzasse un blocco continentale di stati contro di lei. Londra diventa il collettore dei movimenti nazional-rivoluzionari europei, mentre invece in precedenza lo era Parigi. “Il centro delle aspettative rivoluzionarie in Europa era Londra, dove lo stesso Kossuth rientrò quanto prima. In questa città Mazzini e altri rivoluzionari nazionali fondarono nel 1850 un Comitato centrale democratico europeo. Le sue pubblicazioni erano in francese, ma aveva sotto-comitati di italiani, polacchi, tedeschi, austriaci, ungheresi, e olandesi. Dopo il colpo di stato napoleonico del 1851, gli esuli rivoluzionari dalle aspettative messianiche affluirono in maggior copia ancora a Londra. (J. H. Billington, Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria)

Marx alla fine fu espulso sia dalla Germania che dalla Francia e trovò riparo solo in quell’Inghilterra che aveva individuato quale principale nemico della rivoluzione. In questo contesto che non poteva non determinare una forte contraddizione anche sul piano esistenziale, va compresa la russofobia di Marx. Mentre la politica imperialistica dell’Inghilterra diventava “rivoluzionaria suo malgrado”, tutta il peso della reazione si spostava dalla parte della Russia zarista. Tutta la campagna di Marx contro Palmerston è tesa ad “adeguare la realtà al suo concetto”, cioè al concetto di come la realtà avrebbe dovuto essere: l’Inghilterra non doveva essere più una potenza reazionaria, qual era stata nel confronto con la Francia rivoluzionaria, ma doveva assumersi quel compito che i rivoluzionari tedeschi non erano riusciti a portare a termine, la “guerra rivoluzionaria” contro la Russia che Marx voleva introdurre nel programma dei rivoluzionari tedeschi, in cui svolse un ruolo di primo piano, prima dell’esilio in Inghilterra.

Il fatto che il marxismo sia diventato l’ideologia ufficiale delle due grandi potenze che hanno guidato la rivoluzione anti-imperialista del XX secolo ha fatto sì che non ci fosse interesse a fare chiarezza sulla visione eurocentrica che Marx aveva della Russia e della Cina. Inoltre, Lenin volle presentare il suo anti-imperialismo come in linea con il pensiero di Marx, ma non a caso riportava l’affermazione di Marx che sosteneva di aver “cambiato radicalmente idea sulla questione irlandese” (ritenuta affine alla questione coloniale), la liberazione dell’Irlanda non sarebbe venuta dalla liberazione della classe operaia inglese ma dall’Irlanda stessa. Un radicale cambiamento che non riguardava la sola Irlanda, cambia radicalmente in questi anni la visione complessivamente positiva che Marx aveva avuto della colonizzazione inglese dell’India, come visto in precedenza. Tuttavia se è vero che negli ultimi anni modificò il suo pensiero è difficile trarre dalle sue opere una prospettiva antimperialista o anticolonialista.

La distinzione leniniana di una fase imperialista, diversa rispetto al colonialismo, dovuta alla fase della concentrazione monopolistica del capitale che porta alla scontro mondiale dei capitali che controllano gli stati, ritengo sia finalizzata ad una spiegazione principalmente economica del conflitto mondiale, funzionale alla concezione secondo cui eliminando le cause economiche si sarebbero eliminati anche i conflitti, che fu un’illusione tipica del comunismo storico, da cui non fu esente nemmeno Stalin che non mancava certo di realismo. Già prima della “fase imperialistica” vi fu un conflitto di estensione mondiale, la “guerra dei sette anni” fra Francia e Inghilterra (1756-1763) ebbe portata globale, definita da Churchill la prima guerra mondiale vera e propria. Il “marxismo” non aveva trovato la chiave per la risoluzione dei conflitti. Non è il solo capitalismo che genera i conflitti armati, essi sono stati presenti in tutte le epoche e in tutte le latitudini. La possibilità del conflitto è insito nell’esistenza stessa di individui e gruppi umani distinti. L’unica possibile soluzione è politica, attraverso un accordo politico che evita la degenerazione del conflitto in conflitto armato.

Lenin con il suo anti-imperialismo aveva effettuato nell’ambito del marxismo un cambiamento di paradigma che reintroduceva la “questione nazionale” volendo però sempre restare nel solco dell’”ortodossia marxista” e lasciando quindi molti problemi irrisolti, in particolare riguardo al rapporto tra stato e questione nazionale. L’eredità anarchica del comunismo che mirava all’“estinzione dello stato” (che Lenin riprende, è una mia interpretazione perché funzionale alla necessità di demolire lo stato zarista) fu uno dei motivi per cui in Unione Sovietica non si ebbe mai una vera e proprio teoria che guidasse la creazione di un proprio stato per cui non si uscì mai dallo “stato di eccezione” seguito alla rivoluzione sovietica (in merito Domenico Losurdo ha scritto delle pagine molto interessanti).

Quella di Lenin fu una soluzione solo a metà della “questione nazionale” essa si applicava solo ai movimenti di liberazione nazionale nei paesi sottoposti all’imperialismo, tuttavia delle questioni nazionali continuavano a porsi anche nei paesi imperialisti (o aspiranti tali) e non potevano essere liquidati come nulle perché toccavano la stessa vita quotidiana delle classi inferiori, come fu il caso della Germania dopo la prima guerra mondiale, con la questione delle sanzioni punitive imposte dalle potenze vincitrici che avevano effetti devastanti sulla vita delle classi popolari.

Heinrich Laufenberg fu un importante leader del movimento operaio tedesco a cavallo della prima guerra mondiale. Prima nella Spd e successivamente nel Kpd, fu un oppositore della guerra, e leader della “rivoluzione di Amburgo” negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Fu criticato duramente da Lenin in Estremismo, malattia infantile del comunismo, che attaccava le “madornali assurdità del ‘bolscevismo nazionale’ (Laufenberg e altri), che nell’attuale situazione della rivoluzione proletaria internazionale si è spinto fino al blocco con la borghesia tedesca per una guerra contro l’Intesa”. La critica di Lenin è stata generalmente considerata nel movimento comunista come prova inconfutabile: la posizione di Laufenberg era sbagliata. Ma questo vuol dire considerare Lenin come un capo infallibile, mentalità propria dei movimenti religiosi, e vuol dire incapacità di imparare dai propri errori. Anche i più grandi soccombono all’illusione storica: Lenin riteneva inizialmente la rivoluzione sovietica il preludio ad una “rivoluzione comunista mondiale” e il blocco proposto da Laufenberg andava in direzione opposto ad una rivoluzione simil-sovietica in Germania. Certo, questo vuol dire giudicare con il senno di poi, ma rinunciarvi vuol dire rinunciare ad impare dall’esperienza storica. Quando i comunisti si avvidero che così non era, cambiarono posizione. Radek segretario per un breve periodo, esecutore per conto del Comintern dell’espulsione dal Kpd di Laufenberg adottò le stesse posizioni di Laufenberg, fu successivamente rimosso da segretario del Comintern. Radek arrestato a Berlino nel 1919, ricevette un trattamento di favore, gli fu assegnato in carcere un ampia camera e addirittura un segretario, e gli fu consentito di mantenere le relazioni con il governo sovietico. Il che testimonia che c’era la volontà da parte delle classi dominanti tedesche a un’alleanza con l’Unione Sovietica contro il Trattato di Versailles.
A ragion veduta la posizione di Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim duramente criticata da Lenin era quella giusta. Ancora una volta un tragico errore dei comunisti riguardante la questione nazionale. Alle classi popolari, per l’opposizione alle sanzioni, che per loro significava letteralmente la fame, non restava che rivolgersi ai nazisti. Da qui l'”enigma del consenso” al nazismo che andò ben oltre la classe media se si pensa alla composizione sociale delle Sa (successivamente liquidate dalle Ss). Consenso che diviene meno enigmatico se si ha il coraggio di guardare in faccia ai propri errori.

Ugualmente in Italia, il giusto rifiuto della partecipazione alla prima guerra mondiale (il primo atto del crollo della civiltà europea) si trasformò in un pacifismo e in un anti-nazionalismo astratti, incapaci di differenziare le posizioni e di capire laddove si pone una schietta questione nazionale, rispetto al nazionalismo aggressivo, astrattezza che non poteva non essere vista come anti-nazionale e quindi contro anche gli interessi delle classi popolari che appartengono ad una determinata nazione. Cito qui da un articolo di Domenico Moro, tra i pochi marxisti ad avere conservato il raziocinio, che invita a esaminare agli errori storici con l’auspicio che ciò possa essere di aiuto a non commettere sempre gli stessi errori. “Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo, anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: ‘Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi’. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale.” (Gli ex combattenti della Grande guerra e l’”orrido” sovranismo piccolo-borghese).

Veniamo all’oggi, dopo il crollo definitivo della civiltà europea con la seconda guerra mondiale, gli stati europei avevano trovato una forma di pseudo-unità sotto l’egemonia statunitense, ma con il crollo dell’Unione Sovietica, dopo l’intermezzo del ritorno del globalismo, e con il ritorno in scena della Russia, e la progressione verso un mondo multipolare, i problemi irrisolti dell’Europa stanno ritornando. Si è già svelato cos’è l’Unione Europea, ovvero l’egemonia tedesca che si appropria delle economie delle altre nazioni europee; si è iniziato con la Grecia, ora si mira all’Italia, che ha già subito una pesante devastazione economica indotta dalle “politiche economiche europee”, poi sarà la volta di altre nazioni, magari della stessa Francia che in questo momento tiene bordone alla Germania. Ci si trova di fronte ad un dilemma: da una parte sarebbe necessaria una politica di alleanze tra le nazioni europee necessaria per affrontare i conflitti che caratterizzeranno il mondo multipolare, dall’altra è necessario difendere l’Italia da un attacco economico che potrebbe essere devastante e ridurla in panne per i decenni a venire, e sconfiggere questa Unione Europea che non è tale, ma è la Germania che devasta economicamente le altre nazioni. L’unica è sconfiggere queste classi dominanti europee nella speranza che rinasca domani un progetto di integrazione europea degno di questo nome. Nell’evitare che l’Italia faccia “la fine della Grecia” che ha dovuto vendere persino gli aeroporti ai “fratelli europei tedeschi”, subendo una devastazione economica che potrebbe metterla in panne per chissà quanto a venire, si pone anche questa volta una schietta “questione nazionale”.

Questi settori globalisti delle classi dominanti sono pericolosi per un altro motivo. Oggi l’Europa non è più in grado di scatenare una guerra mondiale, tuttavia gli “europeisti” sono i principali alleati di quel globalismo che gli Usa hanno ereditato dall’eurocentrismo. Il progetto del dominio mondiale dell’Europa si è spostato negli Stati Uniti. Fortunatamente negli Usa è nata una corrente più pragmatica, un orientamento strategico che ha trovato espressione in Trump, attorno al quale si sta consumando una dura lotta all’interno delle classi dominati statunitensi, che pur volendo conservare il predominio Usa intende farlo tenendo conto della realtà, del fatto che nel mondo esistono altre potenze nucleari, mentre i settori globalisti con la folle Clinton non escludevano un attacco diretto alla Russia.

Per questi motivi è necessario sconfiggere il globalismo. Purtroppo le forze eredi del partito comunista sono state subordinate e funzionali a questo globalismo, con rare eccezioni individuali provenienti dai settori più “leninisti” che pur vogliono rimanere all’interno di un “marxismo” che Marx stesso aveva sconfessato quando affermò, “sorprendentemente”, di “non essere marxista”. Poiché oggi si sente più che mai la mancanza di forze che difendano gli interessi popolari, mentre le vecchie forze politiche e sindacali hanno avuto una fine ignominiosa, e dato il crollo del comunismo storico si impone un nuovo inizio che passa da un’attenta riflessione sulla storia passata.