Una “battaglia di civiltà”, a cura di Giuseppe Germinario

Siamo oltre! Siamo alle estreme conseguenze…o coerenze? Dieci anni fa ce l’hanno raccontata diversamente, stando all’articolo e ai resoconti delle testimoni dirette citate. Già allora le questioni poste sulla base delle versioni offerteci, quello del “fine vitae” erano estremamente delicate. Si parlava quantomeno di eutanasia come scelta soggettiva o rispetto ad una persona totalmente passiva ed incosciente senza via di uscita dalle sofferenze e lasciata a languire. Allora ci hanno offerto la soluzione alla vita, oggi in corso di pandemia ci offrono a loro modo la vita. A ben guardare due facce della stessa medaglia. Ormai qui siamo oltre…Giuseppe Germinario

Segue l’articolo de “l’avvenire” e alcune considerazioni di Roberto Buffagni già apparse nel 2009

Dieci anni dopo. Eluana, la verità non muore


Lucia Bellaspiga venerdì 8 febbraio 2019
Cosa sappiamo oggi, ancora, di quella vicenda conclusa così tragicamente? Ecco gli appunti di chi fu testimone delle ultime settimane e delle ore convulse e strazianti tra Lecco e Udine

Eluana Englaro

Eluana Englaro

Costava fatica entrare nella stanza di Eluana e trovarsi faccia a faccia con lei per la prima volta. Costava fatica perché mesi di dichiarazioni e articoli a senso unico preparavano al peggio: Eluana «morta 17 anni fa», si scriveva, Eluana inguardabile, Eluana violata da tubi e macchinari, Eluana “attaccata” a una spina, Eluana costretta a sofferenze… Per questo si aveva paura, e ci sembrò strano il sorriso incoraggiante di suor Rosangela il giorno in cui, dieci anni fa, con il permesso del padre Beppino ci introdusse in quella stanza della clinica «Beato Talamoni» di Lecco e ci indicò un letto: «Ecco la nostra Eluana».

Nessun macchinario, niente tubi, nemmeno sinistri bip bip né numeri scanditi sui monitor: solo una normale stanzetta in penombra, il vetro un poco sollevato nonostante l’autunno inoltrato per far entrare aria pulita, un letto uguale ai nostri, due peluche appesi alla testata, un comodino con pacchi di lettere «Alla signorina Eluana», e di lato la poltrona di suor Rosangela, la Misericordina che le viveva accanto da 15 anni. Un lenzuolo candido copriva una ragazza distesa su un fianco, il destro, così la vedemmo di spalle. O meglio, di spalle vedemmo una testa di capelli lucidi e neri, tagliati corti… Mezzo giro intorno al letto, ed eravamo una di fronte all’altra, ecco Eluana.

Tutta Italia da mesi parlava di lei, ma che cosa si sapeva? Gli italiani la “conoscevano” dalle tante foto scattate a vent’anni, sulla neve o mentre scherzava dietro la tenda della doccia, capelli lunghi e sorriso radioso. Poi quei giorni felici erano stati bruscamente interrotti da un fatale incidente d’auto che nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1992 l’aveva condotta in fin di vita: cinque giorni di coma profondo, la battaglia dei medici per rianimarla e la tracheotomia, ma anche una condizione dalla quale non si era più svegliata, entrando in quello che all’epoca si chiamava solo stato “vegetativo”. Un totale mistero allora e un mistero ancora oggi, anche se negli ultimi anni la neuroscienza ha fatto passi da gigante dimostrando che nel 40% dei casi le diagnosi di “stato vegetativo” erano errate e dentro quei cervelli apparentemente spenti può vivere una coscienza, che lancia segnali, che percepisce il mondo esterno, che a volte persino “comunica”.

«Per me Eluana è morta il 18 gennaio 1992, da quel giorno non l’abbiamo più percepita e non esiste più come persona», ci spiegava Englaro, scegliendo di restare in corridoio ad aspettare la fine della visita. Gli articoli dei quotidiani descrivevano agli italiani una Eluana, ormai 37enne, scarnificata e costretta a vivere in una condizione di estrema sofferenza (tra gennaio e febbraio 2009 assistemmo a un crescendo disumanizzante, tra chi la diceva «completamente calva» e chi con «la faccia rinsecchita come il resto del corpo», il viso piagato «da quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena», «ridotta a meno di 40 chili». Concludeva la danza macabra Roberto Saviano, che mai l’aveva vista: «Le orecchie divenute callose e la bava che cola…”).

E le foto a corredo degli articoli mostravano sempre macchinari, tubi, monitor. Per questo rimanemmo stupiti scoprendo che Eluana era una disabile, non una malata terminale, soprattutto che respirava autonomamente e viveva di vita propria. Le suore curavano anche la sua femminilità, idratando ogni giorno con creme la sua pelle intatta, di porcellana, che traspariva da una corta camicia da notte. A volte se il tempo lo permetteva veniva seduta su una sedia a rotelle e portata in giardino. E come tutti noi, la sera si addormentava, la mattina apriva gli occhi e si svegliava. In buona fede, eravamo convinti che bastasse spegnere una macchina per far morire Eluana, ma l’unica spina nella stanza era quella della radio che a volte suor Rosangela sintonizzava sulla musica. Che spina si voleva staccare? Con quale tecnica si poteva pensare di ucciderla?

Occorre fare un passo indietro, all’11 ottobre 2008. Mentre fuori infuriavano la battaglia ideologica e quella legale per la sua eutanasia, Eluana fu a un passo dal morire naturalmente, a causa di una forte emorragia dovuta a un ciclo mestruale anomalo. Il suo medico curante, Carlo Alberto Defanti, amico di Englaro, a noi giornalisti spiegò che l’evento non era legato al suo stato, che sarebbe potuto capitare a ogni donna, ma che Eluana non ce l’avrebbe fatta perché nessuno le avrebbe praticato le trasfusioni garantite a qualsiasi altra paziente. Invece a sera ci annunciò l’inimmaginabile: l’emorragia si era improvvisamente fermata, Eluana migliorava di ora in ora e lottava per vivere. Com’era possibile?, chiedevano i giornalisti assiepati da ore. «Eluana è una donna forte e sana – spiegava lo stesso Defanti –, curata in modo eccezionale dalle suore Misericordine, in tanti anni non ha mai preso un antibiotico».

Brutto dirlo, ma tutti si sperava che Eluana morisse così, naturalmente, mettendo fine al tragico teatro che si svolgeva sulla sua vita. Pochi sanno che il copione era consapevolmente studiato molti anni prima, addirittura 14, quando il gruppetto di persone che lavorano per condurre l’Italia a legalizzare l’eutanasia venne a sapere di quella ragazza, allora giovanissima e da poco ricoverata. La vicenda di Eluana, se ben gestita, sarebbe stata utilissima.

Leggiamo direttamente le parole di uno di loro, il bioeticista dell’università di Torino, Maurizio Mori: «Più che di per sé», visto che «di persone ne muoiono tante anche in situazioni ben peggiori, il caso di Eluana è importante per il suo significato simbolico», scrisse in un libro. Proprio «come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi», sospendere cibo e acqua a Eluana e riuscire a farla morire per sentenza, in modo “legale”, avrebbe significato «abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria per affermarne una nuova». Ovvero per segnare «la fine del vitalismo ippocratico e gettare le basi di un controllo della vita da parte delle persone»…

Di Englaro, incontrato tre lustri prima della morte di Eluana, Defanti riferì a Mori che era la persona giusta per la loro battaglia ideologica: «Di solide convinzioni», sarebbe stato in grado di «portare avanti un caso come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland» (celebri battaglie legali per l’eutanasia, la prima negli Usa nel 1990, la seconda nel Regno Unito nel 1993, ndr): «Valuteremo se ci sono le condizioni per procedere… Ma sono persone serie, che vanno seguite». Quattordici anni dopo, a cose fatte, lo stesso Mori scriverà soddisfatto: «Oggi è dissolta la sacralità della vita».

Torniamo a dieci anni fa.

Andammo a trovarla di nuovo a poche ore dal Natale 2008, senza sapere che sarebbe stata l’ultima visita, sempre con Beppino Englaro che ce lo consentiva. Quel giorno successe un fatto che impressionò profondamente noi, ma normale per suor Rosangela (abituata alle reazioni di Eluana) e ancor più per i neuroscienziati (nelle persone in stato di minima coscienza sono eventi consueti): con una battuta di spirito chi era nella stanza scoppiò a ridere, e quel suono così strano, non sentito forse per anni, accese sul viso della giovane donna un sorriso aperto, evidente, scioccante. Eluana in qualche modo c’era, reagiva, ansimava di spavento se sentiva discutere della sua prossima morte.

Le promettemmo che saremmo tornati per San Valentino, ma il padre intervenne deciso: «Non ci sarà più». Lo incontrammo di nuovo la notte tra il 2 e il 3 febbraio 2009 davanti alla clinica di Lecco, lo sguardo fisso mentre, seduto al volante, si muoveva dietro all’ambulanza che portava via sua figlia, tra vento e nevischio, per condurla a Udine, a morire.

Si concludeva la sua lunga battaglia legale, e per la prima volta nella storia della Repubblica italiana si sarebbe tolta la vita a una persona disabile, non malata terminale, che respirava autonomamente, nutrita e dissetata attraverso un sondino naso-gastrico, come sempre si fa per praticità e sicurezza con questi pazienti, anche quando sono in grado di deglutire. All’una di notte le sole finestre illuminate nella clinica Talamoni di Lecco erano quelle della sua stanza, tra le righe delle tapparelle il via vai angosciato delle suore che invano avevano pregato «lasciatela a noi, non abbiamo mai chiesto nulla per accudirla», e che ora chiudevano in una borsa le poche cose da portare via quando si va a morire.

Avevano sempre taciuto, le suore, ostinate anche con noi giornalisti, fedeli al mandato del silenzio dato da Englaro, che 15 anni prima le aveva supplicate di tenerla loro, perché era lì che nel 1970 era nata. Ma dopo la partenza di Eluana per Udine, la madre generale, suor Annalisa Nava, finalmente parlò: «Eluana ha capito tutto. Era agitata, le ho detto di stare calma, che l’avrebbero portata in un’altra clinica più bella e più comoda. Ho letto sui giornali che è morta 17 anni fa: no, Eluana è viva, anche esteticamente ha un aspetto florido, sano. Mi piacerebbe che chi scrive certi articoli potesse vederla da vicino per stabilire chi ha ragione. Dire a una persona “tu per me sei morto” significa radiarlo dalla sfera umana… È la frase che ci fa tornare indietro in umanità, regredire a tempi molto bui».

A dare l’ultima descrizione impressionante era stato proprio Amato De Monte, il capo dell’équipe costituitasi per applicare il protocollo della sua morte, anestesista nella clinica udinese che aveva accettato di praticare l’eutanasia a Eluana dopo che tutte le altre si erano sfilate una per una. «Accarezzatela spesso, osservate il suo respiro, ascoltate il battito del suo cuore», si erano raccomandate le suore e i medici della “Talamoni” consegnandogli Eluana, «saranno i tre elementi che vi porteranno ad amarla».

Così non è stato. Eluana alla “Quiete” di Udine fu ricoverata, naturalmente, non con una prescrizione eutanasica ma con un’autorizzazione della Asl che parlava di «recupero funzionale e promozione sociale dell’assistita». Insomma, ufficialmente per essere curata. Ma alla “Quiete” Eluana è tra mani estranee, non ci sono più quelle di suor Rosangela sempre pronte a fare la cosa giusta. Così si agita, tossisce fino a strozzarsi, rischia persino di morire, cerca aria, solleva le spalle ma non ci riesce. La salvano.

Poi il protocollo ha inizio, insieme alla sedazione per attutire le sofferenze. Medici e infermieri tengono un diario aggiornato ogni mezz’ora, registrano i peggioramenti, i gemiti, i tentativi di dare sollievo alla pelle che si spacca quando il sondino non porta più l’acqua ed Eluana si secca come una mela al sole. Il rantolo si fa continuo, i reni si bloccano, gli spasmi si fanno frequenti, la “combustione” delle cellule neuronali del cervello dovuta all’assenza di sudorazione innalza la febbre a 42. Così la troverà il medico legale al momento dell’autopsia, con i segni delle sue stesse unghie nei palmi delle mani strette in quei giorni. E nella stessa autopsia finalmente la verità: morta per arresto cardiaco causato dalla sete, dopo quattro giorni senza cibo e acqua pesava ben 53 chili, il fisico era sano e florido, nessuna traccia di piaghe da decubito… «Quando è uscita da qui era bella», avevano giurato le suore, ma contro di loro si era mossa la grande macchina mediatica e ancora oggi la gran parte degli italiani è convinta che Eluana vegetasse attaccata a una macchina. E che sia morta di morte naturale perché fu staccata una spina dal muro.

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/eluana-dieci-anni-dopo?fbclid=IwAR0zkrhCNWZS9XK_RhyDiUlajE_Noa8VnSo0mR74TFuESpod9X6-7N-aOGo

Scritto nel 2009

La storia di Eluana

di Roberto Buffagni

Dei centosettemila articoli, saggi, speciali tivù su Eluana mi sono ben guardato dal leggerne o guardarne anche uno solo. Mi è stato impossibile, purtroppo, ignorare beatamente tutta la storia, perché bene o male qualche giornale, anche solo al bar, lo sfoglio; e qualche telegiornale va a finire che lo guardo, specie la mattina tra le cinque e le sei, mentre faccio colazione da solo in attesa di svegliare il resto della famiglia.

La prima che chiamo, perché è quella che ci mette più tempo a risalire dagli abissi oceanici del suo sonno di bambina, è mia figlia primogenita N. N. ha tredici anni, e naturalmente le voglio molto bene. Gliene ho sempre voluto, certo; ma adesso, in questi mesi e anni in cui mi si trasforma in donna sotto gli occhi, a una velocità da cartone animato, il bene che le voglio si complica e si screzia di una sorpresa, di una incredulità, di un’allegria e di un’apprensione nuove. E poi, è tanto teneramente buffa, così in bilico fra un mondo e l’altro…

Insomma, non ho potuto evitarla, questa storia di Eluana. Non ho potuto evitare di vedere le fotografie di questa ragazzina di poco più grande della mia, con le sue pose commoventi da ex bambina che fa la grande, la spregiudicata, la bizzarra, l’anima della festa; con quei bei capelli neri che avrà curato come un cucciolo e quella pelle delicatamente bianca, lucente di vitalità; e quegli occhi miti di brava e vispa ragazza, quel naso un po’ stonato che coraggiosamente si rifiutava di nascondere alla macchina fotografica. Mi è toccato di vedere anche le foto e i filmati di suo padre, con quei suoi dignitosi e pratici maglioncini a V temperati dall’impermeabile d’un bianco un po’ romantico, e la faccia da cittadino scomodo che nel timore d’ esser trattato come un poveraccio dai notabili dei media, si atteggia a un asciutto, risentito decoro democratico.

Visto quanto sopra, mi sono detto: addio, Eluana e Beppino. Scusate, ma io passo la mano; e fino ad ora ho mantenuto la parola. Ma si vede che la volontà non è il mio forte, perché continuano a girarmi per la mente, quei due nomi goffi che nessuno mai darebbe ai protagonisti di una fiction.

Anche Beppino avrà avuto l’abitudine di svegliare Eluana, la mattina? Quando si sveglia una figlia, di solito ci si china sul suo letto e sul suo viso, e la si guarda un poco, prima di chiamare il suo nome. E quando lei si sveglia, se quel mattino si è svegliata bene, sul viso notturno di bimba, morbido di sogni infantili, si schiude il sole di un sorriso di donna: un sorriso da bella donna felice di vedere te, proprio te, che ti sfreccia fino in fondo alla memoria, fino agli intimi strati geologici dove giace il fossile della tua prima (ridicola, sciagurata, lancinante, spudorata, sbalorditiva) gioventù.

Che effetto gli avrà fatto, a Beppino, chinarsi sul letto di una Eluana che invecchia e imbruttisce in un sonno senza notte e senza giorno, e se la chiami non si sveglia più? E dopo due anni, dieci anni, venti anni, gli sarà mai passato per la mente il pensiero atroce, subito stornato con rimorso e con orrore, “meglio che non si svegli più”?

A me, credo proprio che il suddetto pensiero atroce sarebbe venuto (mi è venuto adesso, scrivendo, dunque). Avrei piantato il casino che ha piantato Beppino con la sua “battaglia”, come la chiamano i media?

Conoscendomi, credo proprio di no. E lascio perdere tutta la tiritera che sono cattolico praticante, contrario all’eutanasia, al neocapitalismo liberista, all’individualismo proprietario, alla selezione genetica; lascio perdere queste ed altre Cose Forti e Ragioni Cogenti più o meno importanti e grosse, che nei minuti in cui avessi dovuto arrivare al mio unico e personale dunque avrebbero contato, per il sottoscritto, zero e meno di zero.

Forse, mi sarei rassegnato, perché tendo a essere fatalista, e quando arriva un vero dolore, mi suscita sempre una forte impressione di dejà vu. Ma se non mi fossi rassegnato – può darsi benissimo: un colpo del genere non si sa cosa ti smuove, dentro – non credo proprio che avrei organizzato una campagna d’opinione. A mia figlia ci avrei pensato io, e avrei fatto da me.

martedì, febbraio 03, 2009

Bruciano Eluana come bruciarono Giordano Bruno. Con il permesso dei giudici

di Carlo Gambescia

Probabilmente siamo alla fine. Da questa notte Eluana Englaro è ricoverata nella clinica “La Quiete” di Udine, dove, come riporta il Vaticano della laicità, Repubblica, i medici dovranno “attuare il protocollo del distacco dell’alimentazione forzata, che tiene in vita la donna in coma vegetativo da 17 anni”(http://www.repubblica.it/2009/02/dirette/sezioni/cronaca/eluana/eluana/index.html). Si brucia la vita di Eluana facendosi forti di una sentenza della magistratura.

Due osservazioni.

Punto primo. Questa non è una vicenda tra privati. Forse lo era all’inizio. Il suicidio ha una sua “rispettabilità” quando viene liberamente messo in atto dalla persona stessa, quando, come dire, una persona decida di passare dai propositi ai fatti: direttamente e personalmente. Si può non condividire una scelta del genere, per ragioni religiose e/o morali, ma non si può non rispettarla.

Nel caso di Eluana a tutt’oggi non si è raggiunta alcuna chiarezza intorno alla volontà “privata” della giovane di mettere fine alla propria vita. Certo il padre ha sempre dichiarato che una volta Eluana, eccetera… Ma si tratta delle classiche affermazioni cui possono credere solo coloro che già condividono una certa causa … Sono affermazioni che racchiudono ( e difendono) ragioni più sociologiche che giuridiche.

Inoltre il conseguente iter giudiziario pubblico, intrapreso dai familiari di Eluana, e fortemente sostenuto da numerosi gruppi di pressione mediatici, ha definitivamente trasformato il fatto privato in sociale. Di conseguenza è inesatto e ridicolo parlare di questione privata. Basta dare un’occhiata ai giornali di oggi.

Se il padre di Eluana – e stiamo per dire un cosa terribile, di cui ci vergogniamo – avesse a suo tempo “provveduto” da solo, l’intera vicenda avrebbe assunto, anzi mantenuto, altro rilievo e significato. Privato. Pur trattandosi sempre di un omicidio…

Punto secondo. La trasformazione del fatto privato in pubblico e il tragico esito che si va profilando, segnano un punto di non ritorno. Da oggi in poi ci sarà sempre un precedente, quello di Eluana: per mano di “giudici-sacerdoti”, interpreti e officianti della Santa Inquisizione Laicista e Individualista, si potrà uccidere. Altre donne innocenti, nella condizione di Eluana, potranno essere mandate al rogo.

Fatte le debite proporzioni, il sacrificio di Eluana sul rogo dell’intolleranza laicista e individualista, sta al sacrificio di Giordano Bruno suo rogo dell’intolleranza religiosa e olista .

Eluana Englaro e Giordano Bruno sono vittime innocenti di uno stesso meccanismo inquisitorio, dove alle torture fisiche si sono sostituite le torture mediatiche. Fermo restando il fatto che nel periodo di “vita” residuo, tra la sospensione dell’alimentazione e la morte, il corpo di Eluana soffrirà.

Che tragedia.

di Roberto Buffagni (5 febbraio, dopo che Gambescia mi ha chiesto di intervenire).

Sottoscrivo in pieno l’intervento di Carlo Gambescia dalla prima riga alla penultima, perché nell’ultima c’è scritto: “Che tragedia”.

No, caro Carlo. Non solo qui non ci sono tragedie, ma tutta questa vicenda nasce proprio da una perseverante volontà di scongiurare, rimuovere, revocare la tragedia.

La tragedia è il genere drammatico che rappresenta uomini soli di fronte alle contraddizioni insolubili della vita; uomini alle prese con “i problemi che nessuno può risolvere per noi”. Di fronte alla sfida che gli getta il destino, questi uomini se la possono cavare meglio o peggio, ma a nessuno di loro salta in mente di demandare la questione agli uffici competenti: per il semplice fatto che uffici competenti non ne esistono.

Non ne esistevano sotto il cielo della Grecia classica, e continuano a non esisterne oggi. Ci sei tu, c’è la terra, c’è il cielo, c’è la vita, c’è la morte, e stop. Quello che succede dopo lo stop, si chiama, dopo l’invenzione drammaturgica del genio greco situabile intorno al quinto secolo avanti Cristo, “tragedia”.

Le condizioni della tragedia ci sarebbero tutte, nel caso di Eluana.

C’è una ragazza innocente e sventurata che in seguito a un incidente, da diciassette anni vive (per quel che ne possiamo sapere) come una pianta, in un incantesimo senza coscienza e senza dolore. C’è suo padre che non sopporta più di vederla così. C’è la sua decisione di ucciderla nel sonno, e c’è la giustificazione che adduce: che uccidendola esaudirebbe un desiderio espresso in passato dalla sua futura vittima. (La ragione dell’omicidio essendo palesemente insufficiente a giustificarlo sia eticamente sia psicologicamente – Eluana non è Ifigenia, e Beppino non deve comandare la spedizione contro Troia – è probabile che il trageda classico impernierebbe l’intreccio intorno a questo enigma, svelandone gradualmente le radici in una maledizione che ha colpito la stirpe in seguito alla violazione di un interdetto sacro).

Questa è la situazione così come appare sotto lo sguardo della chiarezza tragica, che come il sole evangelico risplende, senza fare preferenze e classifiche, sui giusti e sugli ingiusti.

Se Eluana e Beppino fossero protagonisti di questa vicenda tragica, di fronte a loro ci mancherebbe il fiato, e le chiacchiere si incenerirebbero sulla nostra lingua. La loro vicenda non sarebbe “privata”, ma “intima”, e pertanto nessuno vorrebbe o potrebbe renderla “pubblica”, perché come tutto ciò che è propriamente intimo essa sarebbe già, di pieno diritto, “comune”. (Diceva Baudelaire: “avviso ai non comunisti: tutto è comune, anche Dio”). E se Beppino davvero alzasse la mano contro sua figlia, uccidendola nel sonno sotto i nostri occhi, forse incanutiremmo di colpo e ci copriremmo il viso per non incrociare il suo sguardo, ma non faremmo dei pettegolezzi.

Le cose, però, non stanno così. Le cose stanno che Beppino non ha nessuna voglia di rimanere solo con la terra, il cielo, la figlia dormiente, la vita, la morte, e la sua decisione di uccidere. (Naturalmente lo capiamo benissimo: nessuno ne ha voglia, perché la tragedia vissuta è miseria e sventura). Per non restare solo – per non accorgersi di essere solo – Beppino chiede aiuto alle istanze più potenti che conosce. Invoca Beppino: “Stato, Legge, Scienza, Opinione, prendetemi per mano!”

Ci devono pensare loro, a uccidere sua figlia. Devono farlo con la massima correttezza, senza chiamare la cosa col suo nome, senza versare sangue, senza sporcare in terra, senza grida, senza sussulti: nel sonno, per fame e sete, come un’Antigone sotto sedazione.

A uccidere non dev’essere il dolore o la follia di un uomo, ma la norma legale. Uccidere una innocente che dorme deve essere un atto normale; e visto che sinora non lo è mai stato, l’uccisione di Eluana deve diventare un atto normativo, un modello per tutte le normali uccisioni a venire.

Così Beppino, e tutti i Beppini che verranno (e sono, e saranno legione) non si sentiranno più soli al cospetto della terra, del cielo, della vita e della morte. A tenergli compagnia, a distrarli nel corso del nostro comune, lungo viaggio verso la morte, ci saranno tanti uffici competenti, tante procedure collaudate, tanti linguaggi tecnici, e tante chiacchiere, soprattutto tante chiacchiere.

Bé, cari Beppini, buona chiacchierata. Io mi sforzo, tendo l’orecchio, ma non riesco a sentirvi. Si vede che con l’età divento sordo. Il silenzio, però, ad esempio il silenzio di Eluana, lo sento benissimo. Direbbe tante cose, quel silenzio: ma voi chiacchierate, chiacchierate, chiacchierate, e con questo rumore di fondo, che volete mai sentire? Niente, sentite. Niente.