I beati, i beoti e il loro Presidente_di Giuseppe Germinario
Se si dovesse esprimere un giudizio sintetico sull’epilogo della recente rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica e sul suo discorso di investitura al Parlamento in seduta plenaria, si potrebbe sintetizzare così: per riaffermare la propria trionfale ragione di “riesistere”, ha dovuto glissare sulle ombre del corretto assolvimento alle proprie prerogative per assumersene di altre e ulteriori, proprie di un organo politico esecutivo e deliberativo.
Aspetti, tutti e due presenti e ben rappresentati in quel consesso. Il tutto tra gli applausi scroscianti di beati e beoti, ormai sempre più accomunati e omologati.
Il discorso del Presidente, investito per altro nel suo ruolo di presidenza, tra l’altro, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio della Difesa, nella sua banalità si focalizza su quattro punti apparentemente anodini: il richiamo potente e retorico al rispetto e alla promozione della dignità in diciotto delle sue applicazioni; il rispetto delle prerogative del Parlamento; la riforma della giustizia; l’adesione incondizionata agli indirizzi della Unione Europea.
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La retorica della dignità, nelle sue diciotto prerogative, con la quale ha impregnato la parte essenziale del discorso sottende in realtà un netto indirizzo politico, se non un vero e proprio programma di governo. Si può affermare tranquillamente che gli equilibri e la maschera istituzionale propri della prima repubblica siano definitivamente caduti nella sostanza, ma non purtroppo nella forma. Non si sa se gli applausi ostentati di Mario Draghi siano la manifestazione di un senso di liberazione da un fardello governativo anche per lui sempre più opprimente o di una presa d’atto a denti stretti della magra figura fatta nelle trattative in corso e del ridimensionamento delle proprie ambizioni.
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Il richiamo scontato al rispetto delle prerogative del Parlamento è un motivo ricorrente di tutti i discorsi di insediamento presidenziale. Non di meno il paradosso di una presidenza che ha avallato in quantità industriale ogni decreto e mozione di fiducia riduce il richiamo in uno strepito.
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Il paradosso si trasforma in sconcerto con il richiamo ad una riforma della istituzione e dell’ordinamento giudiziario in un contesto nel quale avrebbe dovuto usare le proprie prerogative per fissare punti fermi sullo scandalo Palamara piuttosto che glissare elegantemente.
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Nulla di nuovo nell’ostentato lirismo europeista ed atlantista richiamato nel discorso. Sono il segno e il sollievo da un pericolo scampato, piuttosto che di una realtà politica ormai di nuovo supinamente allineata a quegli indirizzi. Un capo dello stato attento alle proprie prerogative, piuttosto che indugiare in un lirismo ormai fuori contesto, dovrebbe soffermarsi su una definizione dell’interesse nazionale che possa plasmare la coesione e la crescita di una formazione politico-sociale e sulla sua modalità di perseguimento in un agone dove i diversi stati nazionali non si fanno scrupolo di rappresentare e contrattare i propri. Quel lirismo serve sempre più a coprire la passività, l’arroccamento e la subordinazione di una intera classe dirigente.
- L’aspetto più significativo e rumoroso è però rappresentato da un silenzio: l’abdicazione dal suo ruolo di figura rappresentativa della unione e coesione nazionale e di punto di equilibrio in un momento di emergenza protratta. La gestione catastrofica ed approssimativa della crisi pandemica, la criminalizzazione di ogni rilievo critico e perplessità della gestione, la strumentalizzazione crescente della lunga congiuntura hanno creato una situazione di divisione manichea della società ed una condizione tale da rendere praticamente impossibile una revisione delle politiche che non sconfessi platealmente e “cruentemente” i responsabili, incluso ormai il capo del governo. Su questo ha brillato la sua assenza, se non la connivenza della figura simbolicamente più importante delle istituzioni. A memoria non si ricorda un solo suo atto solenne e significativo teso a ricondurre il dibattito in termini razionali e civili tali da scoraggiare la demonizzazione e gli esorcismi. Una mancanza le cui ripercussioni si protrarranno nel tempo ed appariranno nella loro ampiezza in un prossimo futuro.
L’espressione e le manifestazioni fisiche e comportamentali del personaggio politico valgono più di tante parole.
L’ostentazione del trasloco in corso, la scenografia disegnata e la serafica e beata accettazione del reincarico valgono più delle parole, pur esse importanti.
Giorgio Napolitano, figlio almeno dell’eredità morale e dell’ipocrisia di una classe dirigente sorta dalle ceneri della guerra, ebbe l’ardire di rimbrottare duramente il ceto politico e i rappresentanti di un parlamento che lo avevano appena rieletto. Sergio Mattarella, espressione di un regime incompiuto e decadente già al suo sorgere, ha sorvolato sul problema come una nuvoletta leggera e fugace.
La dinamica che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella è il segno della miseria di un ceto politico; è il prodotto della sua espressione politica più compiuta, il PD, abbarbicato e capace di determinare le scelte a prescindere dagli esiti elettorali. Suo compito principale si concentrerà nel tentativo di essere il garante del procrastinamento di questa convenzione e di circoscrivere in questo quadro l’azione di Mario Draghi. Ha smascherato definitivamente il ruolo spregevole di personaggi come Berlusconi e la pochezza, non vale la pena di utilizzare altri termini, del personale politico ormai a corollario più o meno consapevole di questa trama.
Entro certi limiti, il confronto e lo scontro tra centri politici decisori prevede la complementarietà e la surroga di alcune istituzioni, più coese od efficaci e disponibili, rispetto alle prerogative e alle competenze di altre. Quando però questa dinamica si perpetua per troppo tempo e le fasi di transizione si impantanano, si trasformano in un disordine istituzionale e in un contrasto destabilizzante e dissolutorio.
La gestione della pandemia, colta inizialmente come una occasione e un campo di azione, sta diventando sempre più un mero pretesto per altri disegni tesi a procrastinare l’esistenza di questo ceto politico e la permanenza di una classe dirigente decadente ed arroccata, incapace di organizzazione, ma decisa a sopravvivere al proprio stesso paese. Il tripudio visto in Parlamento sono la manifestazione di questa dissociazione ormai patologica.
Il terreno favorevole ad una dinamica politica di fatti compiuti e colpi di mano a dispregio delle stesse forme e della necessaria autorevolezza è predisposto.
Molti vedono in questo l’inizio della fine e la possibilità di una rinascita radicale.
Non è assolutamente detto.
Potrebbe piuttosto essere la procrastinazione di una fase crepuscolare dove impera e prospera lo scetticismo passivo ed anarcoide, la mancanza di autorevolezza di una qualsiasi autorità in essere e in divenire, l’esistenza di una classe dirigente e dominante arroccata ed auto-eteroreferenziale; dove su una opposizione politica chiara e determinata prevale il tumulto indistinto, una fase tribunizia opportunista ed incapace sul quale poter continuare a galleggiare sia pure precariamente.
La facilità e la disponibilità alla cooptazione rivelata da questa classe dirigente è sorprendente, data la precarietà crescente di risorse ed assetti.
Rivela il timore del mix esplosivo di una riorganizzazione e di un regresso della condizione socio-economica che si sta realizzando.
Si parla spesso e ricorrentemente della costruzione di un soggetto politico in grado di offrire una alternativa seria e credibile. Qua e là sorgono iniziative improvvise, rivelatesi sempre meteore smarrite, impazzite o in rotta di collisione.
Non è questo, purtroppo, il tema all’ordine del giorno.
Il solipsismo che affligge la società, affligge purtroppo nella stessa misura l’area dalla quale potrebbe sorgere il soggetto politico necessario.
Il tema vero è come arrivare a costruirlo, con quale retroterra culturale e organizzativo, con quali referenti nei centri decisionali ed amministrativi che pur esistono.
Su questo manca ancora una minima, sufficiente consapevolezza e disponibilità al dialogo nell’ambito stesso di una possibile formazione di questa realtà politica.
In mancanza di esso il divario tra aspirazione, necessità e possibilità è destinato ad allargarsi drammaticamente.
Più la situazione si incancrenisce, più la fretta è cattiva consigliera.