Il maglio giudiziario, di Giuseppe Germinario
Il caso Amara e il caso Palamara, nella loro rapida successione, hanno portato alla luce del sole l’evidenza di quanto sino ad ora intuito: anche la magistratura è campo di azione politico, oggetto di scontro politico per il suo esercizio; è costituita da soggetti politici partecipi non solo nel loro ambito operativo ma anche attivi nell’agone politico generale sia con strutture istituzionali ed associative formalmente riconosciute che per il tramite di gruppi informali. Sul criterio della separazione dei poteri sembra ormai prevalere quello della divisione e della compartecipazione soprattutto in questa fase di crisi e ristrutturazione degli assetti.
Prima però di dilungarsi su questo tema così delicato e su di un aspetto particolare ma cruciale di esso occorrono però alcune precisazioni necessarie a contestualizzare il merito di quanto scritto:
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l’azione della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni è per sua natura destabilizzante e distruttiva in quanto agisce su singoli attori o al massimo su gruppi o settori della società, segno tra l’altro che non sempre l’azione del magistrato è individuale, ma spesso e volentieri orientata e coordinata; costringe quindi gli attori politici con funzioni “costruttive” a riposizionarsi negli spazi, nei comportamenti e nei rapporti di forza diversamente disposti
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la magistratura è organizzata secondo il criterio dell’ordinamento, in assenza quindi di una rigida struttura gerarchica. Ragion per cui il singolo magistrato, tuttalpiù le singole procure e strutture giudicanti godono almeno formalmente di “completa autonomia e indipendenza”
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in ambito penale l’attività giudiziaria è regolata dall’obbligatorietà dell’azione; criterio che vieterebbe la selezione gerarchica, nei tempi e nei mezzi utilizzati, dei vari procedimenti
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l’attività del magistrato, specie nella fase inquirente, è resa possibile ed è inevitabilmente condizionata dagli input forniti da soggetti politici “costruttivi” quali sono gli organi di informazione, organi di polizia, servizi di intelligence, uomini di apparato e singoli cittadini motivati in senso lato politicamente. Di solito nelle fasi di normalità o di gestione controllata delle dinamiche tale influenza si esercita con isolate eccezioni sotto traccia e discretamente; in quelle di crisi acuta o marcescenti emergono nella loro invasività e virulenza. Un esempio tra i tanti, gli evidenti e ormai conclamati legami e condizionamenti di settori dei servizi di intelligence nazionali e americani operati su alcuni magistrati propedeutici allo scoppio di Tangentopoli, alla defenestrazione di un intero ceto politico governativo e di potere, alle dismissioni e privatizzazioni gestite scelleratamente da quello surrogato in posizione servile e raffazzonata.
Gli indirizzi espressi nel secondo e terzo punto hanno lo scopo dichiarato di garantire al meglio l’imparzialità del magistrato e la parità di trattamento del cittadino; in effetti in particolari ambiti e tempi ci si è avvicinati a questo obbiettivo che più che di imparzialità si potrebbe definire di maggiore considerazione delle parti più deboli individualmente della società.
Al pari di qualsiasi sistema di relazioni e di apparati anche quello della magistratura ha conosciuto fasi ascendenti di funzionamento e fasi discendenti di decadenza e progressiva degenerazione. Le sue modalità di funzionamento ed organizzazione non possono certo impedire l’esercizio dell’impegno e del conflitto politici, proprio per la funzione di indirizzo e di collante che consustanzialmente il “politico”deve esercitare nei vari ambiti di azione umana; ne condizionano certamente però le modalità di esercizio, specie nella magistratura inquirente, sia all’interno, sia all’esterno di essa, sia ancora nelle intricate interrelazioni.
La gerarchizzazione approssimativa dell’ordinamento, la mancanza di un esplicito prevalente rapporto di indirizzo esterno dell’attività giudiziaria, in particolare di quella inquirente, ha determinato al suo interno la formazione e frammentazione di centri di potere e decisionali ostentatamente autonomi e sempre più in conflitto tra di essi, con per di più un armamentario di strumenti disponibili peculiari della categoria, ma così dirompenti nei loro effetti; ha consentito a questi nuclei di tessere, di inserirsi o di essere assorbiti più autonomamente in reti di relazioni e centri decisionali; ha creato infine le condizioni per assumere un ruolo e una capacità di influenza abnormi ormai consolidato e difficilmente scalfibile.
L’esercizio fluido del potere esige il funzionamento corretto e coordinato dei vari centri di potere, in particolare di quelli istituzionali, nella diversità delle loro funzioni; l’incisività dei vari centri strategici in conflitto e cooperazione tra di essi dipende soprattutto dalla capillarità della loro presenza in quelli istituzionali. Quando per un qualche motivo l’equilibrio dinamico viene sconvolto, mettendo per lo più in crisi il funzionamento di uno o più di questi centri di potere, in qualche modo si sopperisce alla crisi sovraccaricando altri settori con tutte le distorsioni che ne conseguono specie in caso di protrazione indefinita delle condizioni di emergenza. È quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con l’avvento e la defenestrazione di Trump; è quello che sta avvenendo in Italia sino ad incancrenirsi da ormai circa trenta anni con la crisi focalizzata nel ceto politico governativo e progressivamente nel ceto di controllo e gestione degli apparati.
La crisi al e del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) è il portato di queste dinamiche. Sequenze dettate dagli imprevisti e dalle incognite di uno scontro politico così acceso e cadenzate da soggetti non necessariamente consapevoli viste le modalità altamente sofisticate di condizionamento e influenza delle azioni.
Ma passiamo al punto centrale di questo articolo.
Se esiste un ambito di azione dell’attività dei magistrati dove sono più evidenti queste implicazioni, questo è l’agone internazionale. Non è un caso quindi che la crisi sia deflagrata sui procedimenti giudiziari a carico di dirigenti dell’ENI impegnati nelle attività all’estero, nella fattispecie in Nigeria, risoltisi con l’assoluzione.
Certamente il punto centrale della crisi non riguarda il carattere informale dei comportamenti nel CSM al riguardo. A qualunque livello dell’attività politica, compreso gli organi della magistratura, i rapporti informali sono altrettanto se non più importanti di quelli formali nel preparare e portare avanti le decisioni, nel determinare le posizioni di potere. Né lo sono le rivalità personali legate al consolidamento o alla minaccia alle posizioni di potere stesse nelle procure e nel CSM.
Le stesse rivalità in seno alla dirigenza dell’ENI, in particolare tra gli amministratori delegati Scaroni e Descalzi, le quali avrebbero alimentato e fornito pretesti al proseguimento dell’inchiesta, sono il portato di dinamiche molto più grandi e complesse che vedono esposta una azienda a caccia sempre più in proprio di coperture internazionali data la crescente evanescenza del peso geopolitico dello Stato che dovrebbe tutelarla, coprirla ed indirizzarla.
L’attività legale, i procedimenti giudiziari, la stessa giurisdizione internazionali hanno delle implicazioni e godono di una aleatorietà tali da innescare pesanti dinamiche geopolitiche e politiche che prescindono dall’esito stesso delle sentenze. Quello geopolitico è un ambito privilegiato per cercare di individuare al meglio il ruolo della giustizia e dei magistrati; ambito che va esaminato sulla base di alcune premesse.
Parlare intanto di diritto internazionale è improprio in quanto il fondamento di queste, ad eccezione parziale dell’ambito dei diritti umani, sono i trattati e non un corpo di leggi; l’adesione a questi e agli organismi internazionali preposti alla gestione, l’applicazione e il rispetto delle norme sono continuamente oggetto di trattative, deroghe e violazioni in realtà difficilmente sanzionabili universalmente; laddove si è riusciti a istituire delle corti, come nell’ambito dei diritti umani, queste corti non hanno potestà su tutti i paesi e paradossalmente viene utilizzato il loro dispositivo da paesi, come gli Stati Uniti, che non vi aderiscono, almeno sino a quando utili al loro esercizio di potenza. L’ultimo esempio clamoroso in tal senso è stato il processo a Milosevic, conclusosi tra l’altro con qualche dubbio sulle cause di morte dell’imputato. Si tratta in realtà di una coperta corta utilizzata dagli stati egemoni al momento in auge a sanzione dei rapporti di forza e degli interventi intromissori. Una aleatorietà che lascia ampi margini di azione agli Stati e alla pletora di associazioni e ONG che fungono da complemento. Ai dispositivi giudiziari internazionali manca comunque il supporto fondamentale di una forza di polizia alle dirette dipendenze, impossibile da realizzare per l’assenza di un governo e di una organizzazione statuale mondiale, al momento scritta solo nel libro dei sogni.
Più interessante è la valutazione dell’azione dei corpi giudiziari nazionali nell’agone internazionale.
L’ambito penale e dirittoumanitarista è quello che si presta maggiormente alla manipolazione indiretta tesa a logorare e condizionare la collocazione geopolitica di un paese. Il caso Regeni è emblematico da questo punto di vista per la direzione unilaterale delle indagini, sia per la permeabilità alle manipolazioni esterne e alle campagne propagandistiche, nella fattispecie di matrice anglosassone. Azioni che tendono a pregiudicare e delimitare ulteriormente il nostro ruolo nel Mediterraneo.
Molto più diretto ed articolato è l’uso del diritto in ambito geoeconomico sino a diventare un vero e proprio sofisticato strumento di guerra economica e confronto geopolitico. Soprattutto in ambito economico l’adozione di un modello giurisprudenziale, nella fattispecie quello anglosassone, rappresenta la sanzione della superiorità egemonica di un paese e il tentativo di protrazione di questa per inerzia anche in una fase di incrinatura e di relativa decadenza della sua capacità di dominio. L’adozione di tali modelli apre la strada al radicamento di studi professionale avvezzi a quelle procedure, alla individuazione di sedi di definizione di controversie solo apparentemente neutrali, alla formazione di gruppi lobbistici sempre più influenti, alla circolazione di conoscenze, dati riservati e quant’altro le quali regolarmente affluiscono nelle case madri degli studi legali e da esse verso i centri di potere politici e politico-economici. La proliferazione di studi legali americani nel modo, specie nell’area occidentale, non è certo casuale e politicamente neutra; è sufficiente analizzare il corollario sviluppatosi attorno alle controversie di giganti come Airbus e Bayer per avere una idea delle dimensioni del fenomeno. La corruzione, la violazione delle regole della concorrenza, il mancato rispetto dei vincoli finanziari e debitori, la violazione dei brevetti sono le costanti di tali azioni.
Il principio della extraterritorialità è invece il fattore decisivo in grado di far compiere il salto di qualità alla efficacia delle azioni giudiziarie dei paesi. In senso masochistico ai paesi scarsamente in grado di applicarlo, in senso proattivo agli altri. L’Italia primeggia, manco a dirlo, tra i primi, gli Stati Uniti in assoluto, con la Cina come neofita ed aspirante, tra i secondi.
La base di questo principio viene posta dal lontano caso Lockeed che investì negli anni ‘70 numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, l’Italia, il Giappone, l’Olanda. Sull’onda di indignazione sollevata dallo scandalo, gli Stati Uniti in prima battuta, seguiti pedissequamente con grande solerzia da gran parte degli stati europei e dal Giappone, vararono leggi che penalizzavano le proprie imprese implicate in azioni di corruttela. Con il passare del tempo, ma in pochissimi anni, i centri decisionali americani si accorsero della discriminazione e del danno arrecato alle proprie aziende con un intervento in esclusiva. Estesero così progressivamente il campo sanzionatorio a tutte le imprese intrattenitrici di rapporti con paesi implicati in casi di corruzione, ma anche con quelli vittime di provvedimenti anche unilaterali di sanzioni per violazione dei diritti umani, per fomentazione del terrorismo (Iran), per minaccia alla “coesistenza pacifica” o per insolvenza debitoria (Argentina), comprese quelle straniere che in qualche maniera utilizzassero servizi e componenti produttivi americani. A cotanto zelo non hanno saputo resistere molti paesi, prima fra tutti l’Italia. Ma quello che per gli Stati Uniti è diventato via via uno strumento offensivo temibile e sempre più perfezionato nel conflitto geoeconomico e geopolitico, per l’Italia si è rivelato uno zelo autolesionistico di rara efficacia e perseveranza. Agli Stati Uniti è bastato ostacolare l’accesso ai propri servizi finanziari, al proprio bagaglio tecnologico e al proprio mercato interno per “correggere” i comportamenti riottosi e allineare le politiche governative e aziendali ai propri disegni; l’Italia non ha questa capacità geopolitica e nemmeno quella di determinare o contribuire a fissare gli standard di mercato e commerciali. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno concentrato in casa altrui le attenzioni e affibbiato l’80% dei provvedimenti sanzionatori ad aziende straniere riuscendo in qualche maniera a condizionare a proprio favore i comportamenti generali all’interno della propria sfera di influenza e a condizionare pesantemente quella dei competitori ed degli avversari dichiarati; l’Italia ha concentrato tutte le sue attenzioni verso le proprie aziende e a rivolgere gli strali più pesanti verso le proprie aziende pubbliche. La pletora di indagini e provvedimenti giudiziari ai danni di ENI, Leonardo e Finmeccanica per le loro attività estere, spesso conclusi con un nulla di fatto dopo anni di indagini e processi, hanno sconvolto le strategie aziendali in settori strategici, hanno minato profondamente la credibilità e l’affidabilità internazionale di queste e del paese stesso, hanno arrecato danni economici e politici enormi specie nell’area operativa mediterranea e subsahariana, hanno spinto queste aziende ad intensificare per proprio conto i legami politico-economici con paesi stranieri geopoliticamente più attivi indebolendo quelli con la casa madre. Tanto per non farci mancare niente, non è nemmeno l’unico campo dove si è entrati giudiziariamente con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli sino a scombussolare assetti e reti operative: basterebbe seguire le peregrinazioni giudiziarie di tanti vertici dei servizi di informazione in quest’ultimo trentennio. In questo quadro, azzardare l’ipotesi di una particolare permeabilità degli ambienti giudiziari a questi disegni e a queste dinamiche ed esercizi di influenza e manipolazione non è poi così peregrina, a prescindere dalla consapevolezza e dalla correttezza di comportamento dei singoli magistrati. Servirebbe anche ad inquadrare con maggior respiro conflitti istituzionali gravissimi e feroci presentati dagli organi di informazione per lo più come deplorevoli beghe di bottega dal sapore corporativo. Queste naturalmente esistono, ma assumono l’aspetto del contenzioso tra i polli di Renzo, se non peggio.