Sahel! Che fare ora?, di Bernard Lugan

Riflessioni da un punto di vista transalpino_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, nella stessa settimana, un soldato francese è stato ucciso, gli eserciti del Mali e del Burkina Faso hanno subito diverse gravi sconfitte, perdendo più di cento morti, mentre cinquanta lavoratori civili impiegati in una miniera canadese massacrato in Burkina Faso, un paese in via di disintegrazione. Anche se la Francia annuncia di aver ucciso un importante leader jihadista, la situazione sfugge a poco a poco a qualsiasi controllo.

La realtà è che gli stati africani in fallimento non sono in grado di difendersi, il G5 Sahel è un guscio vuoto e le forze internazionali schierate in Mali usando la maggior parte delle loro risorse per l’autoprotezione, sul campo, fanno tutti affidamento i 4500 uomini della forza Barkhane.

oro:
1) Abbiamo interessi vitali nella regione che giustificano il nostro coinvolgimento militare? La risposta è no
2) Come condurre una vera guerra quando, per ideologia, ci rifiutiamo di nominare il nemico? Come combattere quest’ultimo, allora, facciamo come se fosse nato dal nulla, non appartenesse a gruppi etnici, tribù e clan ma perfettamente identificati dai nostri servizi?
3) Quali sono gli obiettivi del nostro intervento? Il minimo che possiamo dire è che sono “fumosi”: combattere il terrorismo attraverso lo sviluppo, la democrazia e il buon governo, mentre ostinatamente, sempre ideologicamente, minano o talvolta rifiutano prendere in considerazione la storia regionale e il determinante etnico che costituisce comunque le sue basi?
4) Gli stati africani coinvolti hanno gli stessi obiettivi della Francia? È lecito dubitare …

Il fallimento è quindi inevitabile? Sì, se non cambiamo rapidamente il paradigma. Soprattutto perché l’obiettivo primario del nemico è quello di causarci perdite che saranno sentite insopportabili dal pubblico francese.
In queste condizioni, come evitare l’imminente disastro?

Sono possibili tre opzioni:
– Invia almeno 50.000 uomini sul campo per incrociare e pacificare. Questo è ovviamente del tutto irrealistico perché i nostri mezzi lo vietano e perché non siamo più nell’era coloniale.
– Piega la nostra forza. Barkhane è in una situazione di stallo con possibilità di manovra sempre più ridotte, soprattutto a causa della proliferazione di mine poste sugli assi di comunicazione richiesti. Ma anche perché ora dedica una parte sempre più importante dei suoi mezzi alla sua autoprotezione.
– Infine, dai a Barkhane i mezzi “dottrinali” per condurre efficacemente la controinsurrezione. E sappiamo come farlo, ma a condizione di non metterci più in imbarazzo con considerazioni “morali” e ideologiche paralizzanti.

Questa terza opzione si baserebbe su tre pilastri:

1) Tenendo conto della realtà che la conflittualità sahelo-sahariana fa parte di un continuum storico millenario e che, come mostro nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri, non possiamo ambire con 4500 uomini a dirimere le questioni regionali iscritte nella notte dei tempi.

2) Dare priorità al focolaio principale del fuoco, vale a dire la questione tuareg che, nel 2011, era all’origine dell’attuale guerra. Infatti, se riusciamo a risolvere questo problema, asciugiamo i fronti di Macina, Soum e Liptako tagliandoli dai settori sahariani. Ma per questo, sarà indispensabile “torcere il braccio” alle autorità di Bamako dando loro un mercato in mano: o fai delle concessioni politiche e costituzionali reali al tuareg che si farà la polizia nella loro zona, oppure noi andiamo e lasciati coccolare per te stesso. Per non parlare del fatto che diventa insopportabile notare che il governo maliano tollera le manifestazioni che denunciano Barkhane come forza coloniale quando, senza l’intervento francese, il tuareg prese Bamako …

3) Quindi, una volta estinto il focolaio settentrionale e i Tuareg diventeranno garanti della sicurezza locale, sarà quindi possibile affrontare seriamente i conflitti nel sud non esitando a designare coloro che sostengono il GAT (gruppi armati terroristici) e armare e inquadrare coloro che sono ostili nei loro confronti. In altre parole, dovremo operare come gli inglesi hanno fatto in modo così efficace con il Mau-Mau del Kenya quando hanno lanciato contro il Kikuyu, matrice etnica del Mau-Mau, le tribù ostili a queste. Certamente, gli eterici sostenitori dei “diritti umani” urleranno, ma se vogliamo vincere la guerra e prima evitare di dover piangere i morti, dovremo attraversarla. Quindi, tieni presente che, come ha detto Kipling, “il lupo dell’Afghanistan sta cacciando con il levriero afgano”. Non sarà quindi più necessario denunciare le frazioni Fulani e quelle dei loro ex tributari che costituiscono il vivaio di jihadisti. Ma, allo stesso tempo, e ancora una volta, sarà necessario imporre ai governi interessati di proporre una soluzione di uscita ai Fulani.
Sarà quindi possibile isolare i pochi clan che danno combattenti al “GAT”, che impedirà il contraccolpo regionale. Il jihadismo, che afferma di voler andare oltre l’etnia fondandola in un califfato universale, sarà quindi intrappolato in scontri etno-centrici e potrà quindi essere ridotto ed eradicato. Rimarrà la questione demografica e quella delle elezioni etno-matematiche che ovviamente non possono essere risolte da Barkhane.
Collocate alla confluenza tra islamismo, contrabbando, rivalità etniche e lotte per il controllo di territori o risorse, le nostre forze colpiscono regolarmente le dinamiche locali e costanti. Tuttavia, il percorso della vittoria passa prendendo in considerazione e usando questi ultimi. Ma è ancora necessario conoscerli …

Bernard Lugan
2019/07/11

Può riuscire l’ultimo strattagemma del regime algerino?, di Bernard Lugan

Puntiamo ancora l’attenzione sulle vicende del regime algerino. Un paese chiave governato da una classe dirigente decadente ma che è stata capace di preservare il prestigio acquisito con la guerra di indipendenza dalla Francia di ormai sessant’anni fa e di mantenere una notevole autonomia politica nel corso di questi decenni; la stessa classe dirigente, però, che ha fallito l’obbiettivo, sempre che se lo sia posto seriamente, di creare una economia meno dipendente dalle rendite delle materie prime energetiche. Un paese autorevole per il resto del continente africano. Un paese centrale non più soltanto per il vecchio paese colonizzatore, la Francia e per l’Italia, uno dei principali sostenitori del movimento indipendentista. A questi si sono aggiunti la Russia, la Cina e, nell’ultimo ventennio, sulla falsariga dei passi spericolati ed improvvidi di Gheddafi in Libia, gli Stati Uniti. Gli anni atroci della guerra civile con il movimento integralista sono serviti ad intrecciare forti legami e intensi programmi di collaborazione con gli apparati militari e di intelligence americani. Tutti fattori che accrescono le incognite e le variabili sul futuro del paese dal quale l’Italia trae un terzo delle importazioni gasifere; uno solo dei tanti nodi geopolitici che dovrebbero interessare le classi dirigenti italiche. _ Giuseppe Germinario

Bernard Lugan, francese, è un analista geopolitico africanista, autore di numerosi testi sull’Africa e il mondo arabo

In preda al panico per l’ampiezza delle manifestazioni popolari e temendo che sfocino in un processo rivoluzionario incontrollabile, i veri padroni di Algeria stanno tentando una mossa d’azzardo per consentire loro di mantenere il potere reale. Giocando con l’articolo 102 della Costituzione che consente l’accertamento da parte del Consiglio costituzionale della capacità del presidente Bouteflika di esercitare le proprie funzioni, il regime algerino sta cercando infatti di ottenere alcuni mesi di una tregua preziosa che consenta loro di controllare l’organizzazione di future elezioni presidenziali.

Ad essere più chiaro:

1) L’accertamento delle capacità del presidente Bouteflika aiuta a contenere l’infezione, dando una contentino a buon mercato a molti dei manifestanti, isolando nel contempo gli estremisti che vogliono un cambio di regime e la fine del sistema FLN.

2) Questa decisione consente all’esercito di tornare al centro del potere; un esercito, però, che gioca la carta della legalità e che appare come rinsaldato, riuscendo a stendere un velo sulle proprie profonde fratture.

3) Questo riconoscimento della incapacità non cambierà alcunché riguardo al funzionamento del potere in quanto, quasi incosciente per diversi anni, non è stato Abdelaziz Bouteflika a governare.

4) Il Parlamento, su proposta del Consiglio costituzionale è in procinto, con una maggioranza di 2/3, di constatare l’incapacità presidenziale e, come richiesto dalla Costituzione, l’interim sarà sostenuto per 45 giorni da Abdelkader Bensalah, Presidente della Consiglio della Nazione. Quindi, se dopo questi 45 giorni sarà confermata la disabilità presidenziale, il vuoto di potere viene riconosciuto e Abdelkader Bensalah avrà al massimo 90 giorni per organizzare un’elezione presidenziale. Quindi, in totale 45 giorni più 90 giorni; una vera e propria ancora di salvezza per il regime, nel momento in cui il fatidico 28 aprile segnerà la fine della presidenza Bouteflika.

5) Poiché Tayeb Belaiz, presidente del Consiglio costituzionale, e Abdelkader Bensalah, Presidente del Consiglio della Nazione, sono entrambi fedeli al clan Bouteflika, è logico pensare che faranno di tutto per gestire nel periodo a venire i migliori interessi di questi ultimi dal momento che ne sono una componente. Essi saranno aiutati dall’apparato FLN, tra cui Amar Saadani, ex segretario generale del movimento il quale, domenica 24 marzo, ha acceso la miccia del processo corrente dichiarando che Abdelaziz Bouteflika era il giocattolo del primo ministro Ahmed Ouyahia … ed è stato quindi il secondo che non solo ha governato l’Algeria, ma altresì ha scritto lettere attribuite al presidente.

6) Un comodo capro espiatorio è stato trovato e dato in pasto alla folla; un atto che si prevede possa salvare la testa dello stesso Bouteflika, i padroni del FLN, gli oligarchi e i generali che hanno governato l’Algeria a loro vantaggio, appoggiandosi sull’alleanza tra le casseforti e le baionette’.

La strada si farà ingannare dalla manovra? S lascerà confiscare la propria rivoluzione? Il tempo ci dirà … Una situazione da seguire!

Bernard Lugan

Libia! Sul palcoscenico e dietro le quinte_di Giuseppe Germinario

L’intervento militare in Libia del 2011 è stato un’onta, una macchia tra le più ignobili nella politica estera solitamente non brillante condotta dalla nostra classe dirigente. Un atto paragonabile ad altre rese che hanno caratterizzato la nostra storia del ‘900 ma con una aggravante: l’essere un atto proditorio, di puro servilismo e platealmente contrario agli interessi del paese. Gli artefici di quella scelta cercarono di minimizzare ipocritamente il ruolo svolto nell’intervento bellico di fatto paragonabile a quello di Francia e Gran Bretagna. Il prezzo che l’Italia ha rischiato di pagare avrebbe potuto essere enorme dal punto di vista della compromissione della credibilità acquisita in decenni nel mondo arabo e nell’Africa Mediterranea. L’eventuale successo di quella impresa, coronata con la tragica e infamante uccisione del colonnello Gheddafi, avrebbe dovuto sancire il cambio di consegne dall’Italia alla Francia  della tessitura delle relazioni in quell’area e della gestione degli interessi geoeconomici per conto del dominus atlantista.

Al prezzo tragico di una destabilizzazione e di una frammentazione del paese quel disegno è clamorosamente e fortunatamente in fase di stallo se non fallito. Ha provocato, con la migrazione di truppe una volta fedeli al colonnello, la destabilizzazione di paesi vicini, in particolare il Mali e il Ciad. Nuovi e vecchi attori, una volta attivi dietro le quinte, si sono nel frattempo ostentatamente inseriti nelle rivalità, una volta controllate dal colonnello secondo le modalità di una confederazione tra tribù e clan e diventate poi ingovernabili con la sua morte. Dalla Turchia, inizialmente ostile all’intervento, ai regimi della penisola araba equamente impegnati nelle varie fazioni, all’Egitto dei militari, alla Russia. L’unico risultato politico evidente è stato la formazione di un Governo di transizione a Tripoli, sostenuto dalla coalizione militare occidentale e inizialmente tollerato dalle varie fazioni, impegnate alternativamente ad acquisire il ruolo di garanti e patrocinatori, ma con l’eccezione determinante del colonnello Haftar, in Cirenaica, sostenuto da Egiziani, Emirati Arabi e Russi e avallato dalla Francia degli ultimi tre presidenti. Poco alla volta il colonnello Haftar è riuscito a ripulire quasi completamente la Cirenaica dai movimenti islamisti, ad impadronirsi dei pozzi petroliferi prossimi alla costa ed ora ad acquisire il controllo del Fezzan, nell’area desertica a sud ricca di giacimenti. Il clan di Misurata, sostenuto dalla Turchia, è ormai indebolito e prossimo ad un compromesso con Haftar. Il Governo di Al Serraji ha perso il sostegno delle tribù filo-Gheddafi, le più numerose di quel paese; è ostaggio ormai delle milizie islamiche insediatesi a Tripoli. Ormai praticamente circondato dal colonnello Haftar. Tanto è bastato per far urlare alla fine della influenza italiana in Libia e al trionfo della Francia di Macron. Il sostegno militare del Presidente Francese, grazie all’intervento dell’aviazione, è stato in effetti importante anche per la conquista del Fezzan.

Ma non è la prima volta, però, che ad un intervento militare impegnativo e massiccio della Francia e ad una azione diplomatica ostentata sia seguito un bottino decisamente magro in termini di vantaggi geopolitici ed economici. Lo si è visto in Siria, in Arabia Saudita e nella stessa Libia. Con esso, tra l’altro, la Francia ha compromesso pesantemente la possibilità di un ruolo di mediazione tra le fazioni. I veri artefici del successo di Haftar sono i Russi e gli egiziani con gli Stati Uniti, nella componente trumpiana, i quali vigilano sornioni.

È il contesto che può consentire all’Italia di riassumere un ruolo di mediazione efficace, in buona parte legittimato dalla recente conferenza di Palermo e di salvaguardare sotto mutate spoglie il nocciolo dei propri interessi strategici in quell’area. I detrattori dalla pesante coda di paglia, come sempre interessati a piegare gli interessi strategici a quelli di bottega, come sempre non mancano all’interno del Belpaese. Li si è visti all’opera anche nel pieno della conferenza di Palermo. Non mancano nemmeno i pessimisti a prescindere i quali vedono un destino irrimediabilmente segnato. Le ostentate scenografie e la frenesia interventista transalpine riescono ad ingannare facilmente questi adepti. In realtà i circa quattromila militari francesi presenti in Africa subsahariana riescono a tamponare i sommovimenti, ma non riescono a costruire alternative politiche in quell’area. Logisticamente sono fragili e poco dinamici; risultano sempre più invisi alle popolazioni. Devono confrontarsi con circa diecimila militari statunitensi, con una capacità logistica e strategica incomparabilmente superiore e con una presenza cinese, civilmente ed economicamente, massiccia, tesa a costruire reti infrastrutturali imponenti; un dato ormai riconosciuto. Ma anche ormai con una presenza militare, di base a Dgjbuti, suscettibile di raggiungere rapidamente le diecimila unità. L’erosione definitiva dell’area francofona appare ormai una possibilità sempre meno remota; il recente patto franco-tedesco, impegnativo anche per quell’area, appare tardivo ed inadeguato a sostenere il confronto geopolitico. Tanto più che le recenti sparate dell’enfant Macron in terra d’Africa, indirizzate ai giovani di quell’area, rappresentano la classica destrezza di un elefante in una cristalleria; hanno solo messo in allarme le stesse élites rimaste a lui fedeli. Si tratta di dinamiche che stanno coinvolgendo ormai altri paesi sino ad ora al riparo, come l’Algeria e la Tunisia, scarsamente controllabili da un paese in declino come la Francia. La prosopopea Jupiteriana che accompagna il velleitarismo di quella classe dirigente non farà che esporla al pubblico ludibrio a differenza dei compagni di avventura più discreti e meno rumorosi di Oltremanica. Le congiunzioni astrali favorevoli, legate all’avvento di Trump e all’insorgenza cinese e russa, non saranno certo eterne. Non per questo sarà possibile un mero ritorno allo statu quo ante agognato dall’enfant prodige e dai suoi mentori statunitensi di sponda avversa a Trump. Il nostro presuntuoso ed arrogante, eletto dai progressisti nostrani addirittura a leader europeista nel continente, in realtà sta offrendo più o meno consapevolmente le risorse e i residui punti di forza del proprio paese come merce di scambio utilizzata dai maggiordomi teutonici ben più gretti e astuti. Abbiamo conosciuto il servilismo ossequioso e dimesso delle vecchie classi dirigenti italiche; ci toccherà adesso assaporare il fiele di quello transalpino, ammantato di vanagloria. A meno che, qualcosa di serio stia maturando dietro le quinte dell’esagono. L’ostinazione e la persistenza del movimento dei gilet gialli lascia presagire sommovimenti dietro le quinte più strutturati che in Italia.

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