Noterella di Roberto Buffagni

Contrariamente a molti media, così inclini a leggere le notizie internazionali in termini manichei, Kissinger ha ricordato la necessità, per risolvere i conflitti in atto, di considerare con occhio razionale la permanenza della storia e di sostituire la logica dell’escalation delle esigenze strutturali di diplomazia.
In piena coerenza con quanto espresso nell’articolo da lui pubblicato nel 2014 durante la prima crisi ucraina, in cui sottolineava che l’Ucraina, “ponte” tra est e ovest, non doveva necessariamente scegliere tra l’una o l’altra di queste strategie strategiche polarità, Kissinger ha auspicato l’apertura di negoziati che permettano ai protagonisti di affermare i propri interessi e che la Russia riconquisti, a lungo termine, un posto o un ruolo in Europa. Ha inoltre incoraggiato i due maggiori attori della vita internazionale, Stati Uniti e Cina, a tornare sulla strada di un dialogo strutturato, disegnato con la costante preoccupazione di garantire l’equilibrio di un mondo ormai plurale.
Sottolineando la necessità di un ritorno alla storia e l’urgenza della diplomazia in un mondo afflitto da molteplici tensioni, Kissinger ha dato ancora una volta prova della costanza del suo pensiero, ha espresso le esigenze e la portata della sua lettura delle relazioni internazionali, irriducibili alle mode come nonché ad ogni facile appropriazione e che possiamo qualificare, per riassumere la formula, come realismo storico. Mostrandosi animato, all’alba del suo 99° compleanno, da un’irresistibile libertà intellettuale, ha, nel dialogo così instaurato con Klaus Schwab e con Graham Allison, criticando l’opinione più attuale, ha ricordato l’interesse universale a favorire, nella condotta delle relazioni internazionali e per garantire la pace globale, frutto di una razionalità concreta, forte del lungo tempo della storia.
Agli occhi di Kissinger, innanzitutto, sembra innegabile che il popolo ucraino stia attualmente dimostrando eroismo. Ma l’ardore dispiegato nei combattimenti, da qualunque parte provenga, non basta certo a risolvere la crisi. Indica quindi che per quanto riguarda la storia e la geografia, che fanno della Russia un garante degli equilibri europei e dell’Ucraina una marcia, si dovrà trovare un compromesso diplomatico che permetta di ristabilire la pace. Facendo riferimento all’articolo da lui pubblicato nel 2014, Kissinger ritiene che “l’obiettivo ultimo” da privilegiare in vista della stabilità, anche se il contesto attuale è diverso, dovrebbe essere quello di erigere l’Ucraina in “una specie di Stato neutrale.Deplora, infatti, che invece questo Paese sia diventato o sia tornato, se si ricorda la sua storia, in prima linea tra raggruppamenti di Paesi in Europa.
Questa soluzione negoziata non va quindi ricercata, secondo lui, in una forma di escalation incontrollata, che avrebbe l’effetto di rigettare la Russia in seno alla Cina. Un simile sviluppo non mancherebbe ovviamente di apparire controintuitivo, in quanto si impadronirebbe del meccanismo del pendolo triangolare, che in precedenza aveva consentito agli Stati Uniti di controbilanciare le ambizioni di una di queste due potenze giocando un rapporto costruito con l’altra.
L’obiettivo così proposto da Kissinger, il negoziato ritorno allo status quo attraverso il riconoscimento di un’Ucraina neutrale, non va necessariamente contrapposto all’analisi che era stata quella di Zbigniew Brzeziński in The Grand Chessboard. Riprendendo, a sostegno della sua tesi, le categorie forgiate da Halford Mackinder, per il quale l’egemonia mondiale dipendeva dal predominio esercitato sul cuore della terra che è l’Eurasia, Brzeziński vedeva nello stato ucraino un importante “perno geopolitico”, la cui indipendenza poteva contenere le ambizioni imperiali russe. Conserviamo dalla sua analisi la famosa frase: “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. »
La conseguenza che Brzeziński ne trae è che l’indipendenza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita affinché la Polonia non diventi a sua volta un perno geopolitico sul confine orientale dell’Europa unita.
In effetti, la prospettiva aperta da Kissinger, che certamente segue un metodo di analisi diverso da quello di Brzeziński e non condivide la visione del mondo di quest’ultimo, non include alcuna messa in discussione dell’indipendenza dell’Ucraina: fa semplicemente della diplomazia la chiave per ristabilire un equilibrio. E se Brzeziński metteva in guardia gli Stati Uniti e l’Europa dagli appetiti russi, per evitare che un’ipotetica annessione dell’Ucraina avesse la conseguenza di trasformare a sua volta la Polonia in un “perno geopolitico”, Kissinger comprende che, al contrario, l’integrazione dell’Ucraina nelle alleanze occidentali sarebbe portare, del resto, a una situazione equivalente, in cui, concretamente, Russia e Occidente si troverebbero a diretto contatto. La paura di vedere presto la Russia,
Si può presumere che il presidente Biden, da sempre particolarmente preoccupato per l’Ucraina, veda nel conflitto armato di cui quest’ultima è teatro un’occasione imperdibile per indebolire la Russia. È per una tale ragione geopolitica che gli Stati Uniti ei loro alleati stanno consegnando un grande volume di armi all’Ucraina. L’Occidente sotto l’egemonia americana intende quindi porre fine alle ambizioni strategiche della Russia, sottoponendola alla prova di un duro logoramento.
Per Kissinger, l’attrito decisivo di una grande potenza in una regione instabile, a rischio di scatenare una guerra generalizzata e catastrofica, non può costituire di per sé un obiettivo. Lungi dal sopravvalutare la geografia di Mackinder, il realismo storico kissingeriano mira all’equilibrio e favorisce la conservazione dell’ordine mondiale. Pesa la posta: un’Ucraina dello status quo ante , indipendente ma neutrale, gli sembra preferibile a un’Ucraina totalmente integrata nei gruppi occidentali, che si ritroverebbero quindi vicina di una Russia umiliata in preda al risentimento.
Allontanandosi dalla tradizione di ostilità viscerale nei confronti della Russia condivisa da molti suoi connazionali, Henry Kissinger ha mostrato la sua preferenza per la razionalità dei diplomatici e ha ritenuto necessario che i protagonisti del conflitto ucraino si impegnassero in seri negoziati entro “due mesi”.
Di fronte a questo ritorno allo stato di guerra, Kissinger ha sostenuto la diplomazia, l’unico modo per ristabilire l’equilibrio. Perché Henry Kissinger attribuisce tanta importanza al concetto di equilibrio? Perché l’equilibrio si applicava alle relazioni internazionali, come ha insistito nella sua tesi sulla composizione diplomatica della situazione in Europa dopo la caduta di Napoleone, è sinonimo di pace globale in un mondo sempre più instabile, caratterizzato dal moltiplicarsi degli attori e sotto la minaccia nucleare. L’equilibrio non passa, però, per un’alienazione degli interessi di ciascuna potenza. L’interesse nazionale resta il concetto normativo che spiega il comportamento degli enti sovrani sulla scena mondiale, ma deve essere conciliato concretamente, attraverso la diplomazia, con le ambizioni concorrenti di altri poteri.
Così il concetto di interesse nazionale rimane significativamente diverso dalla volontà di potenza, la quale, decorrelata dalla realtà plurale del mondo, può tragicamente obbedire a una motivazione molto astratta. Come sottolinea Jeremi Suri nella sua analisi della diplomazia kissingeriana, l’interesse nazionale è al centro di una vera ed essenziale “strategia del limite “.
Distinto dalla pura volontà di potenza, l’interesse nazionale, come un diamante da lucidare, deve essere rigorosamente delimitato e adattato rispetto alle forze reali a nostra disposizione e alla configurazione di potere in cui l’azione pianificata deve inserirsi. Per sua definizione molto concreta, l’interesse nazionale si distingue necessariamente dalle rivendicazioni ideologiche, il cui oggetto è per natura illimitato e che spesso sono agitate per manipolare le masse.
In hollow quindi, la scommessa kissingeriana, che in questo caso si oppone all’overbidding dei media, porta a considerare che Vladimir Putin, la cui politica è violenta e condannabile, non sarebbe per niente animato da una pura volontà di potenza. giocherebbe ancora il gioco dell’interesse nazionale. Considerato indipendentemente dalla propaganda che sta attualmente diffondendo, lo scopo geopolitico del potere russo, così come formulato almeno dal conflitto georgiano dell’agosto 2008, consentirebbe comunque di attribuirle una presunzione di razionalità, anche se questa razionalità è contraria, è vero, a quello di altri poteri. In una parola, le pretese russe sarebbero limitate ed è proprio questa limitazione che permette a Kissinger di considerare la possibilità di una soluzione diplomatica a breve o medio termine.
Il riferimento alla storia, così tipico della cliopolitica kissingeriana [ 2] , che pone il consigliere di Richard Nixon in linea con l’ Historismus di Leopold von Ranke , sembra avvalorare questa analisi, in virtù della quale si deve considerare che la Russia fa parte dell’Europa, dove essa deve svolgere un ruolo speciale, anche se l’attuale conflitto sembra tracciare i contorni di un’altra geopolitica.
Questo ruolo storico consisterebbe nel consentire l’equilibrio europeo, nell’esserne catalizzatore, come accadde alla fine dell’epopea napoleonica e negli anni successivi, poi alla Germania prima del 1939, infine, nell’ultima fase della guerra mondiale II. La chiave di lettura della crisi attuale ci verrebbe così data dalla storia.
Attraverso le sue osservazioni, Henry Kissinger colloca il conflitto armato in corso, molto localizzato, nel contesto di una più ampia evoluzione geopolitica che si manifesterebbe e la cui posta in gioco sarebbe la configurazione dell’equilibrio mondiale. Osserva che la tentazione occidentale di intensificarsi, negando la diplomazia, avrebbe il probabile effetto di indurre la Russia ad allontanarsi definitivamente dall’Europa e ad avvicinarsi alla Cina, principale concorrente degli Stati Uniti. Per Kissinger, lasciare che la Russia si appoggi alla Cina e si allontani dall’Europa, in un contesto di forte conflitto, non sembra un risultato auspicabile. Un tale sviluppo non mancherebbe di mettere l’uno contro l’altro due campi, polarizzati rispettivamente da Washington e Pechino, e di minare l’ordine mondiale,
Il rapporto tra gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro rimane infatti strutturante per l’ordine mondiale. Dà la matrice dell’equilibrio internazionale. Come fa notare Henry Kissinger, la questione centrale del rapporto sino-americano nella fase a cui è giunta è l’instaurazione di una struttura di cooperazione in grado di garantire la stabilità del mondo. La questione taiwanese sorge certamente; e Kissinger ricorda che questo è un vecchio problema, che sarà sempre preso in considerazione. Allo stesso tempo, afferma che questo problema non dovrebbe cancellare la necessità di un modus vivenditra le due potenze rivali, che hanno la reciproca capacità di distruggersi a vicenda, né l’emergere di una nuova strutturazione del concerto internazionale, che faccia spazio a potenze in divenire, come India e Brasile, e da cui dipende, in definitiva, la stabilità dell’ordine mondiale.
Le questioni sollevate dalle attuali tensioni internazionali possono essere risolte, secondo Henry Kissinger, solo attraverso i canali diplomatici.
I negoziati tra le parti presenti permetterebbero probabilmente il ritorno a una forma di stabilità nell’Europa orientale, di cui la neutralità di un’Ucraina ancora indipendente potrebbe essere la condizione principale. Così l’analisi dell’ex Segretario di Stato americano si unisce a quella del pensatore realista John Mearsheimer [10] , il quale, in occasione della crisi ucraina del 2014, aveva evidenziato l’interesse, sia per l’Alleanza Atlantica che solo per la Russia, a rimanere territorialmente separati da uno spaccato di stati neutrali.
Il messaggio principale di Kissinger non è quindi, nonostante le interpretazioni più rapide che sono state date alle sue osservazioni, che l’Ucraina dovrebbe acconsentire a concessioni territoriali. Sul punto, si può sottolineare che l’Ucraina ha acconsentito già prima dell’offensiva russa. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità, di fronte a un mondo attraversato da tensioni, e la necessità di collegare ogni soluzione diplomatica con la più ampia definizione di un nuovo equilibrio globale tra le principali potenze, dialogo la cui strutturazione dovrebbe prevenire qualsiasi pericolosa escalation.
Con innegabile costanza, Henry Kissinger riformula la preoccupazione espressa, nel 2015, in un libro dal titolo esplicito [11] e invita i suoi ascoltatori, per il successo della pace, a non rinunciare a consolidare L’Ordre du monde .
https://www.revueconflits.com/kissinger-lukraine-et-lordre-du-monde/
Inorridite dall’invasione, le élite centriste come Dmitri Trenin sentono comunque che gli Stati Uniti stanno usando il conflitto per distruggere il loro paese.
Un articolo di Dmitri Trenin, intitolato “Come la Russia deve reinventarsi per sconfiggere la ‘guerra ibrida’ dell’Occidente: l’esistenza stessa della Russia è minacciata”, potrebbe essere uno dei più rilevanti pubblicati in Russia negli ultimi tempi, in parte per quello che dice, e in parte per chi lo dice.
Il dottor Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center fino alla sua chiusura da parte del governo russo ad aprile, è stato per molti anni una delle più importanti voci pragmatiche russe a sostegno della cooperazione con l’Occidente e dell’“occidentalizzazione” della Russia. Fu una delle poche figure russe a conservare ancora alcune delle speranze di Gorbaciov per una “casa comune europea”. (Devo dire che conosco il dottor Trenin da quando ero giornalista britannico a Mosca negli anni ’90, e sono stato suo collega al Carnegie Endowment for International Peace tra il 2000 e il 2004).
Il significato dell’articolo di Trenin sta nelle prove che fornisce di un consolidamento delle élite intellettuali russe a sostegno dello sforzo bellico in Ucraina. Non è in molti casi per il desiderio di conquistare l’Ucraina (molte delle figure che hanno aderito a questo nuovo consenso erano fortemente contrarie all’invasione e detestavano Putin), ma per una sensazione sempre più forte che gli Stati Uniti stiano cercando di usare la guerra in Ucraina per paralizzare o addirittura distruggere lo stato russo, e che ora è dovere di ogni cittadino russo patriottico sostenere il governo russo.
Trenin scrive:
“[Gli] Stati Uniti e i loro alleati hanno fissato obiettivi molto più radicali rispetto alle strategie di contenimento e deterrenza relativamente conservatrici utilizzate nei confronti dell’Unione Sovietica. Stanno infatti cercando di escludere la Russia dalla politica mondiale come fattore indipendente e di distruggere completamente l’economia russa. Il successo di questa strategia consentirebbe all’Occidente guidato dagli Stati Uniti di risolvere finalmente la “questione Russia” e creare prospettive favorevoli per la vittoria nel confronto con la Cina. Un simile atteggiamento da parte dell’avversario non lascia spazio ad alcun dialogo serio, poiché non c’è praticamente alcuna prospettiva di un compromesso, in primis tra Stati Uniti e Russia, basato su un equilibrio di interessi. La nuova dinamica delle relazioni russo-occidentali comporta una drammatica rottura di tutti i legami e una maggiore pressione occidentale sulla Russia (lo stato, la società, l’economia,
Così continua:
“È la stessa Russia che dovrebbe essere al centro della strategia di politica estera di Mosca in questo periodo di confronto con l’Occidente e riavvicinamento con gli Stati non occidentali. Il Paese dovrà essere sempre più da solo…” Ristabilire” la Federazione Russa su basi politicamente più sostenibili, economicamente efficienti, socialmente giuste e moralmente solide diventa urgentemente necessario. Dobbiamo capire che la sconfitta strategica che l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, sta preparando alla Russia non porterà la pace e un successivo ripristino delle relazioni. È altamente probabile che il teatro della “guerra ibrida” si sposterà semplicemente dall’Ucraina più a est, ai confini della Russia, e la sua esistenza nella sua forma attuale sarà contestata… Nel campo della politica estera, l’obiettivo più urgente è chiaramente quello di rafforzare l’indipendenza della Russia come civiltà… Per raggiungere questo obiettivo nelle condizioni attuali – che sono più complesse e difficili di quelle recenti – è necessaria un’efficace strategia integrata – politica generale, militari, economici, tecnologici, informativi e così via. Il compito immediato e più importante di questa strategia è raggiungere il successo strategico in Ucraina entro i parametri che sono stati fissati e spiegati al pubblico”.
Questo è un appello alle riforme, comprese le misure anticorruzione; ma esplicitamente parte di una strategia di rafforzamento della Russia e della società russa al fine di resistere all’Occidente e raggiungere obiettivi strategici limitati della Russia in Ucraina. Particolarmente sorprendente è l’appello di Trenin al rafforzamento della Russia come “civiltà” separata, un’idea che non avrebbe mai sostenuto negli anni precedenti.
Sarebbe facile respingere il cambiamento di Trenin (ora membro del Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia) semplicemente come una questione di piegarsi alle pressioni del regime. Ciò significherebbe tuttavia ignorare che egli rappresenta solo, in una forma più brusca e radicale, un cambiamento nell’intellighenzia centrista russa che si è andata consolidando gradualmente per molti anni.
Per un certo periodo, dalla caduta dell’Unione Sovietica alla metà degli anni ’90, l’atteggiamento della maggior parte dell’intellighenzia russa nei confronti dell’Occidente è stato di cieca adulazione, e il cambiamento da questo ha attraversato tutta una serie di fasi. Il cambiamento è iniziato con la decisione di espandere la NATO, generalmente vista in Russia come un tradimento. La paura dell’espansione della NATO è cresciuta con l’attacco della NATO alla Serbia durante la guerra del Kosovo. L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 è stata ampiamente vista come una prova che gli Stati Uniti desideravano imporre regole ad altri che non avevano intenzione di mantenere.
Un punto di svolta chiave è arrivato con l’offerta di una futura adesione alla NATO all’Ucraina e alla Georgia nel 2008, seguita dall’attacco georgiano alle posizioni russe nell’Ossezia meridionale e dalla falsa rappresentazione da parte dell’Occidente di questo come un attacco russo alla Georgia. Il sostegno occidentale alla rivoluzione ucraina del 2014, generalmente vista in Russia come un colpo di stato nazionalista contro un presidente eletto, ha infine condannato il vero riavvicinamento tra gli intellettuali centristi russi e le loro controparti occidentali.
Tuttavia, le speranze russe in una qualche forma di compromesso limitato con l’America o con l’Europa sono rimaste per molti anni. Realisti fino in fondo, membri dell’establishment russo, trovarono difficile capire perché l’America, di fronte a problemi intrattabili in Medio Oriente e all’ascesa di una potente Cina, non cercasse di ridurre le tensioni con la Russia, molto meno pericolosa. Allo stesso modo, erano sconcertati da quello che hanno visto come un fallimento europeo nel capire che con la Russia come amica, non avrebbero affrontato alcuna minaccia militare nel loro stesso continente.
Tre sviluppi in particolare mantennero vive queste speranze. In primo luogo, l’intermediazione francese e tedesca dell’accordo di pace “Minsk II” sul Donbas nel 2015 ha permesso ai russi di credere nella possibilità di un accordo con Parigi e Berlino sull’Ucraina, anche se questa speranza è svanita poiché francesi e tedeschi non hanno fatto nulla per convincere l’Ucraina ad attuare effettivamente l’accordo. Poi l’elezione di Donald Trump nel 2016 ha fatto sperare in un’America più amichevole, in una divisione tra Europa e America, o in entrambe. E infine, l’assegnazione delle priorità alla Cina come minaccia da parte dell’amministrazione Biden ha riacceso le speranze di una ridotta ostilità degli Stati Uniti nei confronti della Russia.
Le speranze russe di cooperazione con Francia e Germania potrebbero rinascere se questi governi cercano una pace di compromesso in Ucraina, con o senza gli Stati Uniti. In mancanza di ciò, tuttavia, l’articolo di Trenin indica che non solo la cerchia ristretta di Putin, ma gran parte dell’establishment russo più ampio, si avvicinerà alla guerra in Ucraina con uno spirito di cupa determinazione, almeno fino a quando non ci sarà la possibilità di un accordo di pace che soddisfi i fondamentali condizioni russe.
Ora, la determinazione di un analista politico di Mosca, ovviamente, è una cosa diversa e meno impegnativa della determinazione richiesta a un soldato russo che combatte l’Ucraina. Tuttavia, è potenzialmente un importante contrappunto alla speranza in molte capitali occidentali per un crollo precoce della volontà collettiva russa di combattere, o un colpo di stato d’élite contro Putin.
Sembra esserci una crescente convinzione nelle élite russe – inclusi molti che sono rimasti inorriditi dall’invasione stessa – che gli interessi vitali, e forse anche la sopravvivenza, dello stato russo siano ora in gioco in Ucraina. A differenza delle masse russe, queste figure ben informate non hanno subito il lavaggio del cervello dalla propaganda di Putin. La maggior parte di loro vede abbastanza chiaramente lo spaventoso pasticcio in cui la Russia è finita in Ucraina e le terribili sofferenze inflitte ai comuni ucraini. Ma l’unico modo in cui sembrano vederne fuori è attraverso qualcosa che può almeno essere presentato come una vittoria.
Il vice primo ministro etiope Demeke Mekonen ha avvertito durante il fine settimana che le spedizioni di aiuti dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) vengono sfruttate per rifornire segretamente il TPLF. Ha affermato che “dovrebbe essere prestata particolare attenzione per evitare che le apparecchiature vengano trasferite al TPLF. Ho notato che ci sono sforzi per trasportare più carburante di quanto consentito e alcune attrezzature vietate che possono essere utilizzate per realizzare gli obiettivi del gruppo terroristico. Dovrebbero essere potenziati gli sforzi della commissione doganale e di altre entità per garantire il controllo e la sorveglianza delle apparecchiature vietate”.
Questo sviluppo è una chiara provocazione da parte di attori malintenzionati che operano sotto la copertura delle Nazioni Unite per portare avanti la loro agenda ostile contro l’Etiopia. Non è la prima volta che questo organismo globale viene sfruttato a tal fine, ma quest’ultimo caso dimostra che non hanno rinunciato ai loro vecchi trucchi. È politicamente conveniente operare in questo modo dal momento che possono tentare di capovolgere tutto ogni volta che l’Etiopia li chiama fuori descrivendo male il loro paese ospitante come “contro la comunità internazionale”.
In realtà, tuttavia, gli unici stati canaglia sono quelli che hanno armato l’ONU in modo così illegale. Tuttavia, poiché sono attori dominanti nella comunità internazionale, credono di poter farla franca, indenni tranne che per il danno autoinflitto che ciò causa alla loro reputazione. Questa ultima provocazione è molto più pericolosa di quelle precedenti, poiché si svolge nel contesto della transizione sistemica globale verso la multipolarità che sta accelerando senza precedenti dall’inizio dell’operazione militare speciale in corso della Russia in Ucraina.
Le sanzioni anti-russe dell’Occidente guidate dagli Stati Uniti che sono state promulgate in risposta hanno prodotto artificialmente una crisi alimentare globale che dovrebbe colpire in modo sproporzionato i paesi africani, molti dei quali, inclusa l’Etiopia, hanno respinto le pressioni americane per votare contro la Russia alle Nazioni Unite mentre nessuno di loro l’hanno sanzionato. Queste carestie forzate sono essenzialmente un’arma da guerra ibrida che viene brandita contro di loro come punizione per la loro neutralità di principio nei confronti del conflitto ucraino, che l’egemone statunitense in declino considera assolutamente inaccettabile.
L’Etiopia, che è stata storicamente la culla dei movimenti antimperialisti dell’Africa, è particolarmente antipatica agli Stati Uniti poiché la sua neutralità di principio nei confronti della Nuova Guerra Fredda americana con la Cina è stata la ragione per cui Washington l’ha vittimizzata attraverso la Guerra ibrida al terrorismo guidata dal TPLF che iniziò nel novembre 2020. Proprio la scorsa settimana, l’ambasciata etiope a Londra ha denunciato The Economist per aver costruito notizie false in quello che probabilmente era un tentativo di provocare una guerra con il Sudan, e ora è evidente che ci sono stati anche sforzi per sfruttare le spedizioni di aiuti delle Nazioni Unite al fine di rifornire il TPLF.
Questo triplice smacco – la crisi alimentare fabbricata artificialmente, la campagna di guerra dell’informazione dell’Economist per provocare la guerra con il Sudan e ora le Nazioni Unite sfruttate come copertura per rifornire il TPLF – suggeriscono tutti fortemente che la Guerra Ibrida del Terrore in Etiopia che in precedenza aveva calmato dal suo apice lo scorso autunno si sta intensificando ancora una volta. L’ultima di queste tre provocazioni suggerisce che gli stati canaglia vogliono riavviare la fase calda di quel conflitto proprio nel momento in cui l’Africa sta affrontando una carestia e, guarda caso, nello stesso momento in cui The Economist vuole una guerra etiope-sudanese.
La convergenza di queste tre minacce rende ciascuna di esse molto più pericolosa che se venissero affrontate separatamente. L’obiettivo deliberato dell’Etiopia non ha solo lo scopo di far avanzare l’agenda preesistente di quegli stati canaglia contro di essa, ma anche di punire simbolicamente tutta l’Africa per la sua neutralità di principio nei confronti del conflitto ucraino poiché Addis ospita il quartier generale dell’Unione Africana. L’America è anche infuriata per il fatto che i paesi del continente siano ancora interessati all’acquisto di grano russo nonostante la falsa notizia che sia stato rubato dall’Ucraina, ecco perché questi sforzi dannosi si stanno intensificando negli ultimi tempi.
Ancora una volta, l’Etiopia viene punita come vittima innocente delle Nuove Guerre Fredde degli Stati Uniti con la Cina e ora la Russia per inviare una dichiarazione al resto dell’Africa che non dovrebbe osare continuare a praticare una politica estera indipendente nei confronti di quei due. Tuttavia, queste tattiche delinquenziali hanno già fallito una volta, quindi c’è un precedente per aspettarsi che falliscano di nuovo, ma è comunque importante accrescere la massima consapevolezza nel mondo del modus operandi dietro queste ultime provocazioni interconnesse, in particolare quella più recente relativa allo sfruttamento delle Nazioni Unite come copertura per il rifornimento del TPLF.
Sono lieto di annunciare la pubblicazione oggi su The National Interest, Washington, DC di un piano di pace preparato insieme al mio amico Nicolai Petro, professore di scienze politiche all’Università del Rhode Island.
Una soluzione duratura deve riconoscere che questo conflitto non si concluderà con il ritiro delle truppe russe.
L’attuale strategia occidentale in Ucraina non è favorevole alla pace perché non affronta alcuni aspetti essenziali dell’attuale conflitto. Non si occupa dei diritti dei russofoni in Ucraina e non affronta il fallimento trentennale nell’istituire un sistema di sicurezza paneuropeo che includa la Russia. Entrambi sono questioni di primaria importanza per la Russia . La relazione tra loro potrebbe non essere ovvia per molti in Occidente, ma per la Russia illustrano una mentalità di promozione degli interessi e dei valori occidentali a spese della Russia.
È proprio a causa di questa mentalità che l’Occidente è stato colto alla sprovvista quando la Russia ha improvvisamente preso l’iniziativa di affermare i propri interessi con mezzi militari. Ciò ha lasciato l’Occidente in imbarazzo, con poche opzioni appetibili. I suoi mezzi di coercizione preferiti – le sanzioni economiche – sono destinati a diventare sempre meno efficaci nel tempo, proprio come lo sono stati in altri paesi , che hanno sempre trovato validi sostituti per ridurre la dipendenza dall’Occidente. L’importanza della Russia nel fornire al mondo beni essenziali, come petrolio, gas, cereali e fertilizzanti, le conferisce ancora più peso economico.
Allo stesso tempo, l’isolamento politico che l’Occidente ha cercato di imporre, mentre ha un certo fascino per le pubbliche relazioni, limita ulteriormente la capacità dell’Occidente di convincere la Russia a cooperare su altre questioni di vitale importanza e costringe la Russia a nuove alleanze che essere invariabilmente anti-occidentale. Henry Kissinger ha recentemente affermato che istituzionalizzare tale animosità sarebbe storicamente senza precedenti e dovrebbe essere evitato a tutti i costi.
Nel frattempo, nonostante la retorica di Kiev, la guerra non ha avvicinato l’Ucraina alla risoluzione dei propri conflitti interni. L’aumento del fervore patriottico ucraino è abbastanza reale, ma spesso riflette le stesse disparità regionali che hanno diviso l’Ucraina dalla sua indipendenza. Non importa come finirà il conflitto militare, quindi, è probabile che riemergano vecchi risentimenti , con i russofoni ancora una volta accusati della loro presunta lealtà divisa. Come ha affermato di recente il famoso giornalista ucraino Mikhail Dubinyanski , “ci è voluto solo un momento perché le linee del fronte si stabilizzassero, perché il tradizionale odio interno riemergesse”.
Una soluzione duratura deve riconoscere che questo conflitto non si concluderà con il ritiro delle truppe russe. Un accordo, quindi, deve affrontare contemporaneamente tre aspetti vitali del conflitto, altrimenti non durerà. In primo luogo, la competizione tra Russia e Occidente per l’Ucraina, che chiaramente non finirà dopo la fine dei combattimenti. In secondo luogo, il conflitto tra le élite russe e ucraine sulle rispettive differenze nazionali e culturali , che si intensificherà solo dopo la guerra. Terzo, il conflitto tra la metà occidentale e quella orientale dell’Ucraina, che l’attuale entusiasmo patriottico ha temporaneamente mascherato.
La nostra proposta non cerca di porre fine a questi conflitti, che sono endemici, ma piuttosto di spostare la concorrenza dall’arena militare, con i suoi concomitanti pericoli di escalation, alle arene del benessere economico e del soft power. In sostanza, questo è il tipo di competizione che l’Occidente ha intrapreso con l’Unione Sovietica durante il periodo d’oro della distensione, dopo aver deciso che la coesistenza era preferibile alla distruzione reciprocamente assicurata.
In cambio della cessazione delle ostilità e del ritiro delle sue forze, la Russia sarebbe obbligata a non annettere le regioni che occupa attualmente e ad accettare di indire lì un referendum sullo status sotto la supervisione internazionale, tra dieci o vent’anni da oggi. L’Ucraina, da parte sua, accetterebbe la sua temporanea perdita di controllo su Novorossiya (le regioni di Donbass, Lugansk, Zaporozhye, Kherson e Nikolayev), a condizione che il loro status sarà in definitiva determinato dall’esito del referendum.
Inoltre, la NATO si sarebbe formalmente impegnata a non considerare l’Ucraina per l’adesione. In ossequio all’Ucraina, tuttavia, non ci sarebbe alcuna promessa formale di neutralità ucraina. Ciò consentirebbe all’Ucraina di ricevere un’ampia varietà di assistenza e addestramento militare difensivo da altri paesi, a corto di basi straniere permanenti e sistemi d’arma in grado di colpire il territorio russo. Le preoccupazioni per la sicurezza dell’Ucraina sarebbero ulteriormente attenuate da un impegno formale della Russia a non obiettare all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea (UE), aprendo le porte all’assistenza pluriennale con investimenti e riforme che l’Ucraina avrà un disperato bisogno di riprendersi.
La sicurezza russa, nel frattempo, sarebbe rafforzata dal riconoscimento internazionale della Novorossiya (potrebbero essere applicati alcuni dei meccanismi utilizzati per disinnescare la disputa sul Territorio Libero di Trieste e Saarland ). Una zona smilitarizzata su entrambi i lati del confine russo-ucraino potrebbe essere creata e la sicurezza ulteriormente rafforzata dall’impegno di diversi stati chiave a garantire i confini sia dell’Ucraina che della Novorossiya.
Edulcoranti per l’Ucraina
Uno stato ucraino in grado di portare avanti l’ agenda nazionalista post-2014. Per ottenere garanzie di sicurezza occidentali, la Russia dovrà rinunciare al suo obiettivo di denazificare completamente l’Ucraina.
La ferma prospettiva di un’adesione all’UE nel prossimo futuro. La Russia può trarre un po’ di conforto, tuttavia, dal fatto che il regime che verrà costruito in Ucraina sarà poi il mal di testa dell’Europa ( come alcuni stanno cominciando a capire ).
Aiuti pluriennali e assistenza armamenti difensivi per l’Ucraina.
La possibilità che le regioni ora perse possano eventualmente ricongiungersi all’Ucraina se Kiev fornisce loro motivi allettanti per farlo. Ciò, ovviamente, dipenderà dalle politiche che Kiev adotterà nei confronti di quelle regioni, ma le autorità ucraine avranno la maggior parte dei due decenni e una significativa assistenza occidentale per sostenere la loro tesi.
Edulcoranti per la Russia
La perdita del territorio ucraino: la Crimea in modo permanente, Novorossiya forse solo temporaneamente.
Nessuna adesione alla NATO per l’Ucraina .
Le sanzioni occidentali sono state revocate a Russia, Bielorussia e Novorossiya. Si può ragionevolmente presumere che le regioni all’interno di Novorossiya saranno più naturalmente attratte dalla Russia. L’UE non dovrebbe quindi ripetere l’errore commesso nel 2013 di costringere gli ucraini a scegliere tra l’integrazione economica europea ed eurasiatica. Questa volta, si dovrebbe fare di tutto per creare una zona di libero scambio che incoraggi queste regioni a diventare un ponte vitale che collega entrambe.
Infine, c’è la possibilità che Novorossiya alla fine scelga di unirsi alla Russia, se dovesse rivelarsi più attraente e di successo dell’Ucraina. Senza dubbio, l’Occidente farà tutto ciò che è in suo potere nei prossimi dieci o vent’anni per assicurarsi che non sia così.
L’Occidente dovrebbe accogliere con favore un simile spostamento del fulcro della concorrenza poiché considera il successo economico e il soft power come aree di forza tradizionale. Anche la Russia dovrebbe accoglierlo con favore, poiché sostiene che in fondo russi e ucraini condividono un legame culturale e spirituale che va molto più profondo dell’economia. Questa sarebbe un’occasione per provare o smentire questa argomentazione. Anche i nazionalisti ucraini dovrebbero accoglierlo con favore poiché darebbe loro due decenni in cui costruire un’ampia base di sostegno all’interno dell’Ucraina per la loro opinione che russi e ucraini non hanno nulla in comune e per propagare questo punto di vista attraverso legami culturali ed esportazioni in Novorossiya. Inoltre, potranno farlo in una popolazione ucraina molto più omogenea, con la benedizione e il sostegno finanziario dell’Occidente.
Infine, c’è il non trascurabile vantaggio in termini di sicurezza che l’Europa e il mondo trarrebbero dalla creazione di un quadro in cui la Russia e l’Occidente possono competere in modi che sarebbero potenzialmente reciprocamente vantaggiosi, piuttosto che sicuramente reciprocamente distruttivi.
Si obietterà che un simile accordo premia l’aggressione russa. In un mondo imperfetto, tuttavia, la moralità di punire la Russia (senza, badate bene, assicurarne il ritiro) deve essere soppesata rispetto alla moralità di permettere ulteriori sofferenze in Ucraina, soprattutto quando l’alternativa non solo ferma lo spargimento di sangue, ma offre anche un meccanismo per cui , in condizioni più favorevoli, l’Ucraina potrebbe potenzialmente riconquistare i suoi territori. Il tempo, tuttavia, è essenziale. Più lunghi sono i negoziati di accordo ritardati, più territorio è probabile che l’Ucraina perderà a favore di Novorossiya.
Un’altra probabile obiezione sarà senza dubbio che non ci si può mai fidare che i funzionari russi mantengano la parola data. Coloro che la pensano in questo modo hanno un’obiezione già pronta a qualsiasi forma di negoziato, e non solo con la Russia. L’unica cosa che vorremmo sottolineare è che ponendo lo status referendum ben lontano nel futuro, i mezzi per la sua attuazione non saranno negoziati da coloro che hanno scatenato questa guerra, ma da una leadership russa post-Putin. Il tipo di relazione che avremo con quei futuri leader russi è ancora nelle mani dell’Occidente da determinare.
Gilbert Doctorow ha completato un dottorato di ricerca. nella storia russa alla Columbia, seguita da una carriera di 25 anni nel mondo degli affari internazionali incentrata sull’URSS/Russia. Le sue Memorie di un russo in due volumi , pubblicate nel 2021-22, sono state ristampate in traduzione a San Pietroburgo.
Nicolai N. Petro è Professore di Scienze Politiche all’Università di Rhode Island (USA). Durante il crollo dell’Unione Sovietica ha servito come assistente speciale per la politica presso l’Ufficio per gli affari dell’Unione Sovietica presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. È stato Fulbright Scholar statunitense in Ucraina nel 2013-2014 ed è l’autore del prossimo libro, The Tragedy of Ukraine .
https://nationalinterest.org/feature/building-lasting-settlement-ukraine-202920
Il testo prende spunto da un incontro pubblico del Partito Democratico tenutosi il 7 giugno a Rovereto dal titolo “il lavoro che cambia”. È appunto prevalentemente un’occasione per introdurre un tema, visti il carattere locale dell’iniziativa, ma anche, come appena accennato nel convegno, la relativa originalità, per alcuni aspetti in controtendenza con le linee generali, delle politiche industriali propugnate ed adottate convintamente per altro per iniziativa di una parte specifica, la più dinamica, di quel gruppo dirigente piddino; con un atteggiamento, al contrario, però significativamente passivo della influente componente sindacale, rivelatasi avulsa dal contesto. Un retaggio, quest’ultimo, endemico nel sindacalismo trentino, ma che ha pervaso progressivamente la matrice culturale del sindacalismo nazionale e della sinistra comunista e progressista.
La vulgata prevalente nel dibattito di questi decenni, compresi gli ultimi epigoni attuali, sulle politiche economiche e sul ruolo del sindacato, vedeva nell’avvento e nel protagonismo politico dell’operaio-massa la condizione e il veicolo di maggiore potenza e forza del sindacato, nonché della sua brillante capacità di elaborazione politica manifestatasi in tutto il suo splendore tra gli anni ‘60 e ‘70. Quella enorme pressione, dalle caratteristiche radicali, contribuì a determinare sicuramente in termini positivi alcune dinamiche della vita sindacale:
il ruolo dialettico e biunivoco che si instaurò tra i diversi livelli di contrattazione, da quella aziendale, a quella articolata, di categoria ed infine interconfederale. Superando in questo il carattere antitetico di questi livelli così come interpretato nel dibattito sindacale negli anni ‘50 e personificato dal duro confronto tra CGIL e CISL in quella fase.
L’estensione del concetto di rappresentanza da quello dell’iscritto alla totalità delle categorie dei dipendenti, pur tra le mille ambiguità legate ad un rapporto mai del tutto definito e compiuto tra le rappresentanze di base aziendali e il vertice sindacale espressione delle tre sigle confederali.
Paradossalmente ne segnò la fase crepuscolare e l’avvio di un lento e malinconico declino, via via sempre più evidente e incontestabile.
La vera spina dorsale che consentì quel poderoso sviluppo e soprattutto, per una breve fase, il momento di maggiore capacità di elaborazione del movimento erano invece altre figure rimaste sempre più nell’ombra della narrazione: l’operaio e più in generale le figure professionalizzate da una parte, i quadri e tecnici dall’altra, pur se per un breve periodo.
Fu quello il momento durante il quale il gruppo dirigente sindacale unitario e parallelamente la dirigenza del PCI da una parte, ma anche il prevalente senso comune interno a quei movimenti dall’altra, tentarono di realizzare concretamente la pretesa di rappresentanza dell’intero movimento operaio e con esso la pretesa di egemonia culturale e programmatica sull’intera società.
Un tentativo e un’ambizione dalle gambe corte, esauritisi entrambi rapidamente in pochi anni nel loro velleitarismo, pur con significativi successi sulla condizione lavorativa e nell’ambito delle prestazioni sociali.
Quella ambizione poggiava infatti su un assunto teorico errato ed insufficiente a collocare correttamente le figure sociali coinvolte nello scontro politico: individuava nella lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori il motore della storia e nel conflitto tra i rentier, gli azionisti e la finanza parassitari da una parte e i produttori dall’altra, i soggetti portatori del conflitto e dell’esercizio del potere.
Un assunto che offriva una versione riduttiva della potente dinamica del conflitto, già di per sé economicista, offerta da Marx nel Capitale. Esso impediva di individuare la funzione strategica e positiva di queste figure nel ruolo e nella gestione delle imprese, viste come luogo di perseguimento di strategie, piuttosto che luoghi di mera estrazione di profitto. Il veicolo di sviluppo dinamico del modo di produzione capitalistico. Attribuendo loro la funzione di controllo e dominio di ultima istanza delle dinamiche politiche di esercizio del potere, impediva in realtà di individuare la loro appartenenza a vario titolo e peso decisionale nei centri decisori politici in conflitto e cooperazione tra di essi nonché la capacità egemonica propositiva di questi nelle formazioni sociali. Un assunto che d’altro canto produceva una etica del lavoro e un legame forte ed compiaciuto con l’impresa che comunque creava le condizioni per un rapporto conflittuale, ma inscindibile, con la controparte.
Pur con questi peccati di origine, esplose quindi la stagione del “nuovo modello di sviluppo”, delle “riforme di struttura” risoltasi in generale in una giostra parolaia sul modello economico, ma con alcune serie proposte di riorganizzazione, come il “piano intermodale dei trasporti” di Libertini e con alcune conquiste sostanziali dello stato sociale, come la riforma delle pensioni e del sistema sanitario, pur con il retaggio di disastrose pratiche clientelari e corporative delle quali stiamo pagando il prezzo pesante ancora oggi.
All’interno delle fabbriche e nelle unità produttive quel nocciolo duro impose tematiche inedite sia in assoluto che nei contenuti proposti e oggetto di contrattazione. L’organizzazione del lavoro, la salute, la perequazione salariale con l’assorbimento in busta paga delle voci ad personam e l’inquadramento unico rappresentarono nella fase matura il tentativo di superamento delle mere condizioni di “fatica” e di sperequazione individuale dei trattamenti per giungere a modalità di controllo dell’organizzazione del lavoro, di ricomposizione delle mansioni. Fu un fiorire di letteratura sull’argomento che ebbe in Braverman il capostipite di un gruppo di intellettuali in grado di fornire chiavi di interpretazione ed analisi a supporto dell’impegno sindacale. L’inquadramento unico, nei decenni successivi, fu incriminato per la sua funzione di appiattimento dei livelli salariali e di inquadramento professionale. Era invece, nella impostazione originaria, un serio tentativo di far corrispondere le qualifiche alle reali competenze professionali. Di intrecciare, adottando il criterio della complessità delle competenze, l’inquadramento impiegatizio con quello operaio e di regolare a questo una adeguata differenziazione salariale e mobilità professionale. Fu il radicalismo egualitario affermatosi inizialmente nelle catene di montaggio e preso a modello in altri ambiti, insieme ad altri fattori esogeni, a sovvertire quelle impostazioni e a creare le condizioni paradossali di una aspirazione all’eguaglianza che riaprì la strada alle fratture interne al movimento operaio, al riavvicinamento di parte di esso, quella più qualificata o con responsabilità, alle vecchie sirene e ad un impoverimento evidente del sindacato e del suo gruppo dirigente. Se nell’ambito operaio il conflitto si risolse praticamente negli anni ‘80, la dinamica egualitaria proseguì per almeno un ventennio nell’ambito del pubblico impiego. Le istanze di contrattualizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, culminate con la legge quadro del pubblico impiego, intendeva a ragione metter fine alla regolazione delle retribuzioni e del rapporto di lavoro per via di leggi e leggine. Intendeva trasformare la funzione del sindacato del pubblico impiego stesso, sino ad allora impegnato nella cura di interessi e problemi individuali e nel rincorrere la benevolenza dei politici disposti a promuovere leggi e leggine ad hoc. Ad una formalizzazione comunque necessaria di un rapporto di lavoro contrattuale corrispose una politica sindacale sensibile alla difesa di settori specifici del pubblico impiego meglio rappresentati nelle varie sigle, piuttosto che una regolazione del rapporto corrispondente all’organizzazione del lavoro in corso o ipotizzata. Da qui nacquero veri e propri obbrobri come il primo contratto privatistico dei postelegrafonici che prevedeva l’inquadramento del 80% del personale in un’unica categoria, cui si cominciò a porre rimedio flebilmente solo dopo il 2000.
Un indirizzo consolidato che più che contrastare sembra subire ed assecondare le dinamiche salariali imposte dalle aziende, frutto allo stesso tempo di una cultura imprenditoriale prevalente sopravvissuta agli anni ‘50, di un degrado costante della struttura economica e della posizione delle imprese italiane nelle catene di valore e nelle filiere e di una arretratezza tecnologica crescente solo in parte compensata, in ambiti per altro circoscritti, certamente non nell’ambito strategico della rilevazione e della manipolazione dei dati.
Tutte dinamiche che stanno producendo la sottoretribuzione delle prestazioni qualificate, l’esodo ormai ultradecennale della manodopera più qualificata, compresa quella extracomunitaria, dall’Italia, la diffusione del lavoro nero, precario e sottopagato.
Negli ultimi mesi il tema dei bassi salari sembra aver suscitato nuovo interesse sino a rendere possibili interventi legislativi.
Ancora una volta, però, viene impostato solo nei termini di una rivalutazione del minimo salariale in analogia a quanto operato con le pensioni; ancora una volta, quindi, si rischia di approfondire la dinamica di appiattimento dei salari a dispetto dei peana in nome della formazione permanente, del merito e di tutta la retorica annessa che ha angustiato periodicamente la platea.
Siamo alla nemesi. Quella che era una istanza della componente più radicale e sterile del movimento sindacale è diventato il principio guida di quel conservatorismo compassionevole, coniato negli ambienti neocon e democratici americani, ma dalle solide radici ormai anche nel movimento progressista e sindacale italiano ed europeo.
Una dirigenza all’altezza dei tempi, consapevole della situazione e intenzionata a recuperare il meglio della tradizione e dell’anima confederale del sindacato dovrebbe fare almeno qualche sforzo e recuperare l’attitudine ad inserire le proprie politiche sindacali in un contesto più ampio e dare risposte realistiche ad almeno alcune domande di fondo:
piuttosto che indugiare sul dilemma fine/proseguimento della globalizzazione con una opzione prevalente, come per altro emerso pallidamente anche nella riunione di Rovereto, sul proseguimento dovrebbe riflettere piuttosto sulle modifiche del processo di globalizzazione in un contesto multipolare; sul fatto che si vorrebbe che le dinamiche geopolitiche siano governate tutt’al più da due potenze egemoni, gli Stati Uniti in posizione dominante e la Cina, in grado di delimitare le proprie sfere di influenza, i terreni di scontro e le modalità di relazione tra di esse, compreso l’ambito economico. Gli unici due attori, quindi, titolati a trattare seriamente. Il ruolo della Unione Europea e dei singoli stati europei diventa, a meno di un sussulto, quello che è ormai sempre più evidente: di puro e semplice gregario destinato a subire i contraccolpi più duri e destabilizzanti. La postura del Governo Draghi deve essere necessariamente quella di assecondare le pulsioni della componente più oltranzista dell’amministrazione americana o deve essere quella di agire, almeno con Francia e Germania, sulle contraddizioni lì presenti per puntare ad un compromesso accettabile per i due contendenti del conflitto ucraino e tentare di ripristinare i rapporti con la Russia?
l’Unione Europea soffre semplicemente di una carenza di integrazione, di una carenza di risorse disponibili da investire oppure è uno strumento costruito per inibire le capacità industriali locali, favorire il drenaggio finanziario ed alimentare quella polarizzazione e quegli squilibri che il lirismo europeista tende invece a rivendicare come fine? A differenza che negli altri paesi, compresi gli Stati Uniti, in Italia manca un dibattito ed una analisi seria sul modello di mercato e concorrenza posto in questi decenni, sulla funzione dei fondi strutturali, sull’assenza di governo dei processi di creazione di realtà imprenditoriali di dimensioni e capacità adeguate. La gestione europea della crisi pandemica si è risolta nell’affidamento ad un paio di multinazionali americane la fornitura di vaccini, inibendo ulteriormente di fatto la ricerca europea; la campagna di conversione ecologica, condotta in maniera dogmatica, rischia di creare dissesti irrecuperabili e dipendenza tecnologica cronica. È un problema di accelerazione e di effettiva realizzazione o piuttosto di revisione strategica radicale di questi programmi? Quanto al PNRR sarà opportuno parlarne quando inizieranno ad emergere i reali limiti e condizionamenti, visto il tabù imperante imposto dalla retorica vigente
è ancora ritenuto così irrilevante il presidio italiano almeno delle aziende strategiche ed importanti, almeno di quello che è rimasto, oppure l’unica preoccupazione deve rimanere quella di bloccare l’influenza cinese?
Cosa significa regolare i flussi immigratori?
Il fatto che si voglia concentrare l’impegno sindacale su due aspetti ormai drammatici e diffusi come il rapporto di lavoro precario e clandestino e la tutela dei salari più bassi, sui deboli, come si usa oggi con il linguaggio compassionale, potrebbe sembrare la scelta obbligata.
Certamente lodevole nelle intenzioni, ma sterile nei fatti. Senza il coinvolgimento e il protagonismo di soggetti forti difficilmente un movimento realmente radicale e riformatore riesce ad essere determinante.
Trattandosi di ambienti esposti e polverizzati, il miglioramento consolidato delle loro posizioni deve necessariamente passare per il sostegno politico e per l’azione normativa e fattuale dei partiti e dei governi e per la capacità di pressione ed interlocuzione autorevole della dirigenza sindacale con essi.
Non pare che l’insieme della dirigenza sindacale brilli di autonomia di giudizio e di analisi politica.
Una condizione del tutto inverosimile oggi tale da far scivolare il movimento sindacale in una condizione di puro e semplice collateralismo non solo con gli ambienti confindustriali, ma ancor più con quelli governativi, come reso evidente dal recente congresso della CISL; in alternativa in un impegno testimoniale buono tutt’al più ad introdurre qualche variazione normativa del tutto illusoria e insufficiente a risolvere problemi ormai incancreniti praticamente dall’unità d’Italia senza una politica che risponda ai tre quesiti posti.
La dirigenza sindacale deve quindi risolvere il problema del rapporto con queste figure forti, sia quelle presenti nel lavoro dipendente, sia quelle professionali autonome. Tra queste ultime vi è un intero mondo, peculiare dell’Italia per ragioni legate alla polverizzazione delle aziende, altamente professionalizzato, legato direttamente al mondo produttivo, non organizzato rigidamente in ordini professionali da esplorare piuttosto che da esorcizzare e stigmatizzare con l’eterna tiritera dell’evasione fiscale. Un mondo cui offrire sostegno politico per iniziative di forniture di servizi agevolati e pratiche consortili tali da rafforzare la loro posizione contrattuale.
Cinquanta anni fa élites sindacali ed élites dei partiti si contendevano questa ambizione; oggi nessuna delle due appare in grado quantomeno di cogliere l’opportunità.
È il tempo infinito delle attese.
“Ce lo deve dire l’Europa”; ce lo deve suggerire qualcuno da Washington. Ma dubito che ne abbiano l’interesse. Intanto nell’oblio, il paese va alla deriva sotto un podestà straniero con il plauso di tutti.
Siamo alla 7a puntata. Il divario di forze tra i due contendenti tende ad allargarsi drammaticamente, non ostante il sostegno del mondo occidentale. L’avanzata dell’esercito russo e delle milizie locali prosegue lentamente, ma inesorabilmente e il regime ucraino rischia ogni giorno di più di cadere vittima della propria propaganda e delle proprie menzogne. Un altro dato, da noi continuamente sottolineato, inizia ad emergere chiaramente: il carattere di guerra civile di questo scontro e con esso le atrocità e le mistificazioni che solitamente accompagnano questo tipo di conflitto. Da qui alla individuazione delle responsabilità pesanti del regime ucraino, il passo sarà breve e con essa il ruolo assunto dagli Stati Uniti quanto meno in questo ultimo decennio. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
https://rumble.com/v17zv1p-ucraina-il-conflitto-7a-puntata-con-max-bonelli.html
SERVILITÁ
Da quanto si legge sulla stampa il Ministero degli esteri russo avrebbe tacciato il comportamento italiano nella guerra russo-ucraina “servile e miope” e che dimostrerebbe “anche l’a-moralità” di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche e dei media italiani. In risposta – si legge in un comunicato – la Farnesina “ha respinto con fermezza le accuse di amoralità di alcuni rappresentanti delle istituzioni e dei media italiani, espresse in recenti dichiarazioni del Ministero degli Esteri russo…” Ad aver attirato quasi universalmente l’attenzione è stata quell’ “amoralità”; a mio avviso avrebbe dovuto esserlo quel “servile”. E spiego il perché.
Non so se al Ministero degli esteri russo conoscono il discorso di V.E. Orlando alla Costituente, perorante il rifiuto della ratifica del trattato di pace tra Italia e vincitori della seconda guerra mondiale. Probabilmente lo conoscono, perché tra i vincitori c’era anche l’U.R.S.S.; e Orlando – Presidente della vittoria – era un personaggio da non passare inosservato. Quel discorso terminava con una profezia: “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.
Sempre nello stesso discorso, ben conoscendo i difetti nazionali, Orlando sosteneva che malgrado grandi personaggi francesi avessero collaborato con i nazisti, come i fascisti repubblichini, la differenza era che noi dovevamo essere rieducati alla libertà e alla democrazia, i francesi no, perché la “vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti” (peccato che Letta non l’abbia assimilata). E quanto alla nostra esterofilia (coniugata ad un “complesso di colpa”): “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati”. Anche questo difetto ricorrente è inestinguibile: vi contribuisce un fondo di (parziale) verità. Le classi dirigenti nostrane non sono all’altezza di quelle estere, dedicandosi con eccessivo zelo al proprio particulare piuttosto che all’interesse generale quasi fossero dei privati. E hanno quindi la convenienza ad addebitare al popolo italiano un difetto che grava maggiormente sulle élite.
Il fatto che il governo russo stigmatizzi il servilismo italiano è un’ulteriore conferma della differenza della profondità di vista tra statisti, come Orlando, e non: i primi vedono a lungo termine, i secondi solo a breve (o brevissimo). A più di settant’anni dalla sconfitta non riusciamo a scuotercene di dosso le conseguenze. Perfino la Germania con le enormi responsabilità di Hitler, è riuscita (e riesce) a non appiattirsi sugli U.S.A. Quando Busch jr iniziò la seconda guerra irachena (finita come sappiamo) i tedeschi (e i francesi) gli risposero di accomodarsi da solo. L’Italia si mise sull’attenti e fornì le proprie truppe (e il loro sangue – Nassiria): gli ascari della NATO. Inoltre quando i governanti esternano e praticano la dipendenza dall’estero (i “compiti a casa”) se la cavano senza danni; laddove hanno un soprassalto d’indipendenza (v. Craxi e Andreotti a Sigonella) finiscono in esilio o sotto processo, comunque senza potere perché giudicati poco sottomessi a quelli “forti” (spesso tali solo per la debolezza loro). Attitudine sottomessa confermata anche nella guerra russo-ucraina e oggetto della (facile) ironia di Mosca, come della profondità della previsione di Orlando.
Ma quand’è che un comportamento diventa “servile”, ossia qual è per così dire il “criterio della servilità” (almeno il principale)?
E qua bisogna andare ad un concetto – e ad una conseguente distinzione – che pur risalente (almeno) a S. Tommaso “La legge è un ordinamento di ragione volto al bene comune, promulgata da chi abbia la cura della comunità”, preferiamo riportare da Jean Bodin. Questi ritiene che “Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune”, governo che dev’essere ordinato al bene comune; concetto che, evolvendosi nella secolarizzazione dei secoli successivi, ha cambiato nome (ma meno i connotati) diventando l’interesse generale, s’intende dei cittadini.
Notare che Bodin insiste (ripetutamente sul fatto che il sovrano “non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi…Il principe o il duca, infatti… non è sovrano se a sua volta la riceve da un superiore o da un uguale (…); ancor meno poi si può dire sovrano se non ha il potere altro che in qualità di vicario, luogotenente o reggente…”.
Ciò stante il dovere del governante è di fare l’interesse generale: se fa quello di altri, compreso il proprio, a scapito di quello generale, non solo fa male, ma distorce la condizione perché possa esercitare il potere di fare l’interesse di tutti: la propria indipendenza; che è il carattere principale della sovranità.
E infatti l’Italia, come gran parte del pianeta, è a sovranità limitata. Che significa servilità assicurata.
Teodoro Klitsche de la Grange
DONBASS GAME-OVER, MA TRATTATIVE ANCORA FERME
Quarto mese di guerra: i russi avanzano. Ciò nonostante, Russia, Nato e Ue non trattano
Caduta Mariupol, si può dire che Mosca controlli oramai quasi tutto il Donbass; evidentemente, però, per lo stop alle armi, ci vorrà tempo. O quanto meno, le parti, a cominciare dalla Nato del falco Stoltemberg (e di chi fa le veci di Zelensky), non trattano ancora la beneaugurata tregua. Perché gli alleati atlantici sembrano essere il primo soggetto giuridico a voler procrastinare (sulla pelle degli ucraini) il raggiungimento di una pace duratura? Esaminiamo alcuni dati.
Innanzitutto, per stessa ammissione di Kiev, le cose si stanno mettendo molto male. La resa dei neonazisti dell’Azov ha accelerato un processo che di giorno in giorno è apparso lento, ma irreversibile; lo ha riconosciuto alcuni giorni fa proprio Zelensky, il quale, stavolta si, sembrava aver preso atto realisticamente che occorresse giungere a dei colloqui seri, e magari non eterodiretti, come sono stati e continuano a essere per gran parte. Suddetta “apertura” si è purtroppo infranta contro quello che è sembrato a tutti gli effetti un veto incrociato Nato-UE, tanto che il premier ucraino, a distanza di poche ore, ha di nuovo parlato di “futura vittoria” smentendo sé stesso e affermando principi non percorribili, ancorché vecchi di tre mesi. Detto e ribadito, anche per bocca di personaggi non certo noti per essere dei filo-putiniani – vedi Bloomberg e Parmelin, ministro dell’Economia elvetico – che le sanzioni non stanno avendo l’effetto che Washington e Bruxelles desideravano, ora succede che aumenta il traffico indiscriminato di armi verso Kiev senza una tracciabilità e senza uno straccio di riscontro che le stesse armi approdino presso l’esercito gialloblù (o di quello che ne è rimasto). È per questo che di fronte alla mattanza di soldati e civili, Zelensky, intestardendosi su una presunta liberazione dei territori russofoni a Sud, appare sempre più una pedina mossa dal giogo anglo-americano.
Con la guerra non si scherza. In una condizione del genere, è opportuno ripensare alla scarsa sensibilizzazione mostrata in passato dalla comunità europea rispetto al problema delle minoranze in territorio ucraino, alle quali, nella migliore delle ipotesi, sono stati tolti una serie di diritti fondamentali e nella peggiore sono state bombardate. Non va dimenticato inoltre nel referendum del 1991, dissolta l’URSS, il 20% degli ucraini, corrispondente a circa 8 milioni di elettori, si pronunciò a favore dell’inglobamento amministrativo nella nuova Russia guidata da Boris Eltsin. In un contesto simile, come non tener conto delle comunità ucrainofone filorusse che dal 2014 sono vessate perché culturalmente diverse? Allo stesso modo, tutti coloro che da più di trent’anni hanno la cittadinanza russa (circa un milione di persone) non possono continuare a essere oggetto di discriminazione. Ne va che Unione Europea e comunità occidentale si sono spesso voltate dall’altra parte.
Detto che Mosca martella ormai sistematicamente Kharkiv e Donetsk e sta puntando su Sloviansk (dove il cerchio si chiuderà), cosa impedisce ancora l’allestimento di un tavolo per trovare accordi ed evitare altre migliaia di vittime? Cosa c’è dietro il rifiuto dei belligeranti e dei cobelligeranti? I miliardi che muove l’industria militare, oppure un forte interesse perché la Russia venga fiaccata in modo tale da ottenere un nuovo ordine geopolitico ed economico mondiale? Un ritorno alla vocazione imperialista post-sovietica? Ogni ipotesi o congettura sono possibili, come è possibile che tutto cambi perché nulla cambi. Ma, repetita iuvant: come può un capo di Stato accettare di sacrificare la sua popolazione e trasformarla in cavia per difendere le libertà europee o il principio di democrazia in senso astratto? Premesso che il governo ucraino di liberal-democratico ha sempre avuto ben poco, è proprio quest’ultima considerazione, giusta o sbagliata, che suscita fortissimi dubbi. Fermo restando che agli occhi dell’opinione pubblica internazionale – eccetto forse Di Maio – Kiev non appare più credibile, è il caso che la comunità internazionale cominci a riflettere se sia il caso di riconoscere le repubbliche russofone meridionali, almeno come entità autonome. Solo così si aprirà uno spiraglio.
MG
BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA
Blick, quotidiano svizzero, intervista a Guy Parmelin del 05/06/2022 –
Il sole 24 ore del 22/02/2022 –
Limes, mappa geografica politica dell’Ucraina (compreso il fronte di guerra) –
notiziegeopolitiche.net
Televideo Rai del 04 e 05/06/2022, pp. 150 e 180 –
Qui sotto riproduciamo i quattro protocolli fondamentali che hanno tracciato le dinamiche geopolitiche degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina e quindi della Russia e dell’Europa, alcuni in lingua originale, ma con la rispettiva traduzione. Di questi il memorandum di Budapest, nel 1994, è stato sottoscritto dagli aderenti alla CSCE e garantisce l’integrità e la condizione di indipendenza dell’Ucraina in un contesto di cosiddetta collaborazione tra Stati Uniti e la Russia di Eltsin; il protocollo di Minsk è garantito dall’OSCE, con il significativo silenzio e defilarsi degli Stati Uniti; i due protocolli tra Ucraina e Stati Uniti sono più che eloquenti nella loro intenzione di accendere i fuochi in quell’area alla ricerca di una soluzione definitiva. Ad ognuno di questi momenti sono seguiti i passi decisivi compiuti dalla dirigenza russa, sottolineati da noi tra i primi in Italia nella loro drammaticità ultimativa. Buona lettura, Giuseppe Germinario
The following is the text of the U.S.-Ukraine Charter on Strategic Partnership signed by U.S. Secretary of State Antony J. Blinken and Ukrainian Foreign Minister Dmytro Kuleba in Washington, D.C. on November 10, 2021.
Begin Text:
Preamble
The United States and Ukraine:
Section I: Principles of Cooperation
This Charter is based on core principles and beliefs shared by both sides:
Section II: Security and Countering Russian Aggression
The United States and Ukraine share a vital national interest in a strong, independent, and democratic Ukraine. Bolstering Ukraine’s ability to defend itself against threats to its territorial integrity and deepening Ukraine’s integration into Euro-Atlantic institutions are concurrent priorities.
The United States recognizes Ukraine’s unique contribution to nuclear nonproliferation and disarmament and reaffirms its commitments under the “Memorandum on Security Assurances in Connection with Ukraine’s Accession to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons” (the Budapest Memorandum) of December 5, 1994.
Guided by the April 3, 2008 Bucharest Summit Declaration of the NATO North Atlantic Council and as reaffirmed in the June 14, 2021 Brussels Summit Communique of the NATO North Atlantic Council, the United States supports Ukraine’s right to decide its own future foreign policy course free from outside interference, including with respect to Ukraine’s aspirations to join NATO.
Section III: Democracy and Rule of Law
The United States and Ukraine are bound by the universal values that unite the free people of the world: respect for democracy, human rights, and the rule of law. Strengthening the rule of law, promoting reform of the legal system and of law enforcement structures, and combating corruption are crucial to the prosperity of Ukraine and its people.
Section IV: Economic Transformation
The United States and Ukraine intend to expand cooperation to support economic reform, enhance job creation, foster economic growth, support efforts under United States-Ukraine Trade and Investment Council to expand market access for goods and services and to improve the investment environment, including through enhanced protection and enforcement of intellectual property. Ukraine’s continued adoption and implementation of reforms are critical to ensuring that its economy delivers for all of its people. The United States supports the ambitious transformation plan for Ukraine’s economy aimed at reforming and modernizing key sectors and promoting investments. The United States and Ukraine recognize the need to advance Ukraine’s energy security and to take urgent action to tackle climate change through sustainable, effective, and durable policy solutions underpinned by ongoing corporate governance reform.
This Charter replaces the U.S.-Ukraine Charter on Strategic Partnership, signed at Washington on December 19, 2008. The United States and Ukraine intend to revise this Charter every ten years or earlier if both sides believe that changes are needed.
Quello che segue è il testo della Carta USA-Ucraina sul partenariato strategico firmata dal Segretario di Stato americano Antony J. Blinken e dal ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba a Washington, DC il 10 novembre 2021.
Inizia il testo:
Preambolo
Stati Uniti e Ucraina:
Sezione I: Principi di cooperazione
Questa Carta si basa su principi e convinzioni fondamentali condivisi da entrambe le parti:
Sezione II: Sicurezza e contrasto all’aggressione russa
Gli Stati Uniti e l’Ucraina condividono un interesse nazionale vitale per un’Ucraina forte, indipendente e democratica. Rafforzare la capacità dell’Ucraina di difendersi dalle minacce alla sua integrità territoriale e approfondire l’integrazione dell’Ucraina nelle istituzioni euro-atlantiche sono priorità concomitanti.
Gli Stati Uniti riconoscono il contributo unico dell’Ucraina alla non proliferazione nucleare e al disarmo e riaffermano i propri impegni nell’ambito del “Memorandum sulle garanzie di sicurezza in connessione con l’adesione dell’Ucraina al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari” (il Memorandum di Budapest) del 5 dicembre 1994 .
Guidati dalla Dichiarazione del Vertice di Bucarest del 3 aprile 2008 del Consiglio Nord Atlantico della NATO e come riaffermato nel Comunicato del Vertice di Bruxelles del 14 giugno 2021 del Consiglio Nord Atlantico della NATO, gli Stati Uniti sostengono il diritto dell’Ucraina di decidere il proprio futuro corso di politica estera libero da interferenze esterne, anche per quanto riguarda le aspirazioni dell’Ucraina di aderire alla NATO.
Sezione III: Democrazia e Stato di diritto
Gli Stati Uniti e l’Ucraina sono vincolati dai valori universali che uniscono le persone libere del mondo: rispetto della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto. Il rafforzamento dello Stato di diritto, la promozione della riforma del sistema giuridico e delle strutture di contrasto e la lotta alla corruzione sono fondamentali per la prosperità dell’Ucraina e del suo popolo.
Sezione IV: Trasformazione economica
Gli Stati Uniti e l’Ucraina intendono ampliare la cooperazione per sostenere la riforma economica, migliorare la creazione di posti di lavoro, promuovere la crescita economica, sostenere gli sforzi nell’ambito del Consiglio per il commercio e gli investimenti degli Stati Uniti e dell’Ucraina per espandere l’accesso al mercato di beni e servizi e per migliorare l’ambiente degli investimenti, anche attraverso una maggiore protezione e applicazione della proprietà intellettuale. La continua adozione e attuazione delle riforme da parte dell’Ucraina è fondamentale per garantire che la sua economia produca risultati per tutta la sua popolazione. Gli Stati Uniti sostengono l’ambizioso piano di trasformazione dell’economia ucraina volto a riformare e modernizzare settori chiave e promuovere gli investimenti. Gli Stati Uniti e l’Ucraina riconoscono la necessità di far progredire la sicurezza energetica dell’Ucraina e di intraprendere azioni urgenti per affrontare il cambiamento climatico attraverso mezzi sostenibili, efficaci e
Questa Carta sostituisce la Carta USA-Ucraina sul partenariato strategico, firmata a Washington il 19 dicembre 2008. Gli Stati Uniti e l’Ucraina intendono rivedere questa Carta ogni dieci anni o prima se entrambe le parti ritengono che siano necessari cambiamenti.
United States-Ukraine Charter on Strategic Partnership
Bureau of European and Eurasian Affairs
Washington, DC
December 19, 2008
The United States of America and Ukraine:
This Charter is based on core principles and beliefs shared by both sides:
The United States and Ukraine share a vital interest in a strong, independent, and democratic Ukraine. Deepening Ukraine’s integration into Euro-Atlantic institutions is a mutual priority. We plan to undertake a program of enhanced security cooperation intended to increase Ukrainian capabilities and to strengthen Ukraine’s candidacy for NATO membership.
The United States and Ukraine intend to expand cooperation to enhance job creation and economic growth, support economic reform and liberalization, develop a business climate supportive of trade and investment and improve market access for goods and services. Recognizing that trade is essential for global economic growth, development, freedom and prosperity, the United States and Ukraine support the following initiatives:
Strengthening the rule of law, promoting reform of the legal system and of law enforcement structures and combating corruption are all of key importance to the well being of Ukraine. We intend to work together to support reform, democracy, tolerance and respect for all communities.
The United States and Ukraine share a desire to increase our people-to-people contacts and enhance our cultural, educational and professional exchange programs that promote democracy and democratic values and increase mutual understanding.
Signed at Washington, D.C. on December 19, 2008.
For the United States of America: Condoleezza Rice Secretary of State
For Ukraine: Volodymyr Ogryzko
Carta Stati Uniti-Ucraina sul partenariato strategico
Ufficio per gli affari europei ed eurasiatici
Washington, DC
, 19 dicembre 2008
Gli Stati Uniti d’America e l’Ucraina:
Questa Carta si basa su principi e convinzioni fondamentali condivisi da entrambe le parti:
Gli Stati Uniti e l’Ucraina condividono un interesse vitale per un’Ucraina forte, indipendente e democratica. L’approfondimento dell’integrazione dell’Ucraina nelle istituzioni euro-atlantiche è una priorità comune. Abbiamo in programma di intraprendere un programma di cooperazione rafforzata in materia di sicurezza inteso ad aumentare le capacità dell’Ucraina ea rafforzare la candidatura dell’Ucraina all’adesione alla NATO.
Gli Stati Uniti e l’Ucraina intendono ampliare la cooperazione per migliorare la creazione di posti di lavoro e la crescita economica, sostenere la riforma economica e la liberalizzazione, sviluppare un clima imprenditoriale favorevole al commercio e agli investimenti e migliorare l’accesso al mercato di beni e servizi. Riconoscendo che il commercio è essenziale per la crescita economica globale, lo sviluppo, la libertà e la prosperità, gli Stati Uniti e l’Ucraina sostengono le seguenti iniziative:
Il rafforzamento dello Stato di diritto, la promozione della riforma del sistema giuridico e delle strutture di contrasto e la lotta alla corruzione sono tutti elementi fondamentali per il benessere dell’Ucraina. Intendiamo lavorare insieme per sostenere le riforme, la democrazia, la tolleranza e il rispetto per tutte le comunità.
Gli Stati Uniti e l’Ucraina condividono il desiderio di aumentare i nostri contatti interpersonali e migliorare i nostri programmi di scambio culturale, educativo e professionale che promuovono la democrazia e i valori democratici e aumentano la comprensione reciproca.
Firmato a Washington, DC il 19 dicembre 2008.
Per gli Stati Uniti d’America: Condoleezza Rice Segretario di Stato
Per l’Ucraina: Volodymyr Ogryzko
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12 FEBBRAIO 2015
Pubblichiamo la nostra traduzione in italiano del testo integrale degli accordi in tredici punti stipulati oggi a Minsk dopo la lunghissima notte di trattative. Dopo il testo degli accordi riportiamo un nostro rapido commento, in cui si sottolinea come gli accordi siano deboli e possano dare luogo a infinite diatribe e anche alla ripresa delle ostilità militari.
(Per un background potete leggere i nostri ultimi due articoli: “La nuova fase del conflitto e gli interessi in gioco” e “La situazione prima del summit di Minsk“)
Insieme di misure per l’adempimento degli accordi di Minsk
12 febbraio 2015 (traduzione dal testo russo originale pubblicato dal sito ufficiale del Cremlino: http://news.kremlin.ru/ref_notes/4804)
1. Cessate il fuoco immediato e generale in determinate zone delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk, con un suo rigoroso rispetto a partire dalle ore 00:00 (ora di Kiev) del 15 febbraio 2015.
2. Ritiro di tutti gli armamenti pesanti di entrambe le parti a una pari distanza al fine della creazione di una zona di sicurezza dell’ampiezza massima di 50 km. tra una parte e l’altra per i sistemi di artiglieria di calibro 100 mm. o superiore, di una zona di sicurezza dell’ampiezza di 70 km. per i RSZO [Sistemi a Reazione per Fuoco a Salva] e di un’ampiezza di 140 km. per i RSZO “Tornado-S”, “Uragan”, “Smerch” e i sistemi missilistici tattici “Tochka” (“Tochka U”):
– per le forze armate ucraine: dalla linea di contatto di fatto.
– per le formazioni armate di determinate zone delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk: dalla linea di contatto ai sensi del memorandum di Minsk del 19 settembre 2014.
Il ritiro delle summenzionate armi pesanti dovrà cominciare non più tardi del secondo giorno successivo al cessate il fuoco e terminare entro 14 giorni.
L’Osce fornirà la propria assistenza per questo processo, con il sostegno del Gruppo di Contratto Trilaterale.
3. Garantire un monitoraggio effettivo e una verifica da parte dell’Osce del regime di cessate il fuoco, nonché del ritiro delle armi pesanti, a partire dal primo giorno di detto ritiro, mediante l’utilizzo di tutti i mezzi tecnici necessari, ivi inclusi satelliti, dispositivi volanti senza pilota, sistemi radar ecc.
4. Nel primo giorno successivo al ritiro, avviare un dialogo sulle modalità di svolgimento di elezioni locali in conformità alla legislazione ucraina e alla Legge dell’Ucraina “Sul regime temporaneo di autogoverno locale in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk”, nonché sul futuro ordinamento di queste aree sulla base di detta legge.
Approvare immediatamente, e comunque non oltre 30 giorni dopo la data della firma di questo documento, un’ordinanza della Rada Suprema dell’Ucraina con la quale si indichino i territori ai quali verrà esteso l’ordinamento speciale in conformità alla Legge dell’Ucraina “Sul regime temporaneo di autogoverno locale in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk” sulla base delle linee stabilite nel Memorandum di Minsk del 19 settembre 2014.
5. Garantire una grazia e un’amnistia mediante la messa in atto di una legge che vieti la persecuzione e la punizione di persone in relazione agli eventi che hanno avuto luogo in determinate zone delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk.
6. Garantire la liberazione e lo scambio di tutti gli ostaggi e di tutte le persone illegalmente detenute, sulla base del principio “tutti in cambio di tutti”. Questo processo dovrà essere portato a termine al più tardi il quinto giorno dopo il ritiro.
7. Garantire un’accessibilità, una consegna, una conservazione e una distribuzione con modalità sicure degli aiuti umanitari a coloro che ne hanno bisogno, sulla base di un meccanismo internazionale.
8. Definizione delle modalità di un pieno ripristino delle relazioni socio-economiche che riguardi anche i trasferimenti di fondi sociali, come il pagamento delle pensioni e altri tipi di pagamenti (entrate e redditi, pagamento regolare di tutti i conti relativi a servizi municipali, rinnovo dell’imponibilità fiscale sotto la giurisdizione dell’Ucraina).
Al fine di realizzare questi scopi, l’Ucraina ripristinerà la gestione del segmento del proprio sistema bancario esistente nelle aree colpite dal conflitto e si provvederà eventualmente a creare un meccanismo internazionale per agevolare tali trasferimenti.
9. Ripristino del pieno controllo sui confini statali da parte del governo dell’Ucraina in tutta la zona del conflitto, ripristino che dovrà cominciare nel primo giorno dopo le elezioni locali e terminare dopo la regolarizzazione politica complessiva (elezioni locali in determinate zone delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk sulla base della Legge Ucraina e di una riforma costituzionale) verso la fine del 2015, stante la condizione dell’adempimento del punto 11 – in consultazione e con l’accordo dei rappresentanti di determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk nell’ambito del Gruppo di Contatto Trilaterale.
10. Ritiro di tutte le formazioni armate, i dispositivi militari e i mercenari di provenienza estera dal territorio dell’Ucraina, sotto il controllo dell’Osce. Disarmo di tutti i gruppi illegali.
11. Messa in atto in Ucraina di riforme costituzionali mediante l’entrata in vigore, verso la fine del 2015, di una nuova costituzione che abbia come elemento chiave una decentralizzazione (tenendo conto delle particolarità delle determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk, concordate con i rappresentanti di tali regioni), nonché approvazione di una legislazione permanente sul futuro status di determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk, in conformità alle misure indicate nella nota [1], entro la fine del 2015. (Si veda la relativa nota).
12. Sulla base della Legge dell’Ucraina “Sul regime temporaneo di autogoverno locale in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk”, le questioni riguardanti le elezioni locali verranno discusse e rese oggetto di un accordo con i rappresentanti di determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk nell’ambito del Gruppo di Contatto Trilaterale. Le elezioni si svolgeranno in osservazione dei rispettivi standard dell’Osce e con un monitoraggio da parte dell’ODIHR (Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani) dell’Osce.
13. Intensificare le attività del Gruppo di Contratto Trilaterale, ivi compreso mediante la creazione di gruppi di lavoro per la messa in atto dei rispettivi aspetti degli accordi di Minsk. Tali gruppi di lavoro rifletteranno la composizione del Gruppo di Contatto Trilaterale.
[1] Nota:
Tali norme conformi alla Legge dell’Ucraina “Sul regime temporaneo di autogoverno locale in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk” includono quanto segue:
– garanzia che non vengano punite, perseguite o discriminate le persone collegate agli eventi che hanno avuto luogo in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk;
– diritto all’autodeterminazione linguistica;
– partecipazione degli organi di autogoverno locali alla nomina dei dirigenti degli organi della procura e dei tribunali in determinate zone delle regioni di Donetsk e di Lugansk;
– possibilità per gli organi centrali del potere esecutivo di stipulare con i rispettivi organi di autogoverno locali accordi relativi allo sviluppo economico, sociale e culturale di determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk;
– lo stato darà il proprio sostegno per lo sviluppo socio-economico di determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk;
– assistenza da parte degli organi di potere centrali a una collaborazione transfrontaliera tra determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk e regioni della Federazione Russa;
– creazione di formazioni di milizia popolare sulla base di una decisione dei consigli locali al fine di mantenere l’ordine pubblico in determinate zone delle regioni di Donetsk e Lugansk;
– i mandati dei deputati dei consigli locali e dei funzionari eletti con le elezioni anticipate indette dalla Rada Suprema dell’Ucraina in virtù di tale legge non potranno essere annullati prima della loro scadenza.
Il documento è stato firmato dai partecipanti al Gruppo di Contatto Trilaterale:
L’Ambasciatore Heidi Tagliavini [Osce]
Il Secondo Presidente dell’Ucraina, L.D. Kuchma
L’Ambasciatore della Federazione Russa in Ucraina, M.Yu. Zubarov
A.V. Zakharchenko
I.V. Plotnickiy
(traduzione dal russo di Andrea Ferrario – nota del traduttore: ho tradotto il termine particolarmente sensibile “otdelnye rajony” come “determinate zone” perché si tratta della traduzione prevalentemente utilizzata in relazione ai precedenti analoghi accordi di Minsk. L’aggettivo otdelnyj può tuttavia essere tradotto anche come “singolo” o “separato”)
Un primo commento a caldo
di Andrea Ferrario
Da una riunione durata 15 ore e che ha coinvolto direttamente (Ue, Russia) o indirettamente (gli Usa, con le loro minacce di armare l’Ucraina) i maggiori leader mondiali ci si poteva attendere di più. E’ probabile che siano stati presi in via non ufficiale altri accordi verbali (riguardo ai primi accordi di Minsk di settembre molti hanno sostenuto l’esistenza di un protocollo segreto aggiuntivo). Il testo riprende nell’essenza le coordinate generali degli accordi firmati nella stessa sede lo scorso settembre, entrando però maggiormente nei dettagli. Ci sono tuttavia molti punti che, alla luce della situazione reale, sono passibili di diventare oggetto di infinite diatribe, diverse interpretazioni, facili violazioni e così via. Nella sostanza, ci sembra che alla fine tutto dipenda dalla buona volontà delle parti, che non è affatto garantita. Qui di seguito richiamiamo a caldo e brevemente l’attenzione sui punti secondo noi più controversi, ripromettendoci di tornarci in futuro anche sulla base degli sviluppi dei prossimi giorni:
1) Non si capisce perché il cessate il fuoco sia stato fissato solo a partire dal 15 febbraio. Rimangono così più di due giorni per alterare la situazione sul terreno (per es. a Debaltseve o a Mariupol), creando così nuovi forti attriti prima ancora che gli accordi comincino a essere applicati.
2) Non si accenna da nessuna parte al diritto di ritorno dei profughi, un fatto secondo noi gravissimo. Sicuramente è un particolare che costituisce un regalo ai separatisti, i quali si sono garantiti il potere “ripulendo” con la violenza le aree sotto il controllo da tutti coloro che professavano un’identità nazionale ucraina, da chi si opponeva al loro progetto e da ogni nucleo di dissenso.
3) La definizione di “determinate aree” (o “aree separate” o “singole aree”, a seconda di come si voglia tradurre otdelnye rajony) appare molto vaga e passibile di interpretazioni diverse.
4) Il ritiro delle armi dalla fascia di divisione tra le parti riguarda solo l’artiglieria pesante.
5) L’Osce non appare come un’organizzazione sufficientemente efficace per garantire il rispetto del cessate il fuoco e del ritiro: lo dimostrano i mesi intercorsi dai primi accordi di Minsk di settembre.
6) Tutto il processo per l’organizzazione di elezioni locali (solo nelle “determinate aree”?) è poco chiaro, dipende dalla volontà effettiva dei deputati di Kiev di approvare le relative leggi in parlamento e dall’accordo dei separatisti – entrambi assolutamente non garantibili. Il processo è molto lungo e si protrarrà per quasi un anno, durante il quale potrà accadere di tutto.
7) L’amnistia totale, senza eccezioni, copre ingiustamente anche criminali di guerra di grosso calibro e rischia di spaccare la società, dando vita a infinite (e giustificate) diatribe.
8) Lo scambio degli ostaggi in così poco tempo appare difficile da realizzare e sarà sicuramente oggetto di divergenze di interpretazione. Per esempio, per i separatisti saranno “detenuti illegalmente” anche i loro sostenitori arrestati nelle zone sotto il controllo di Kiev, per le autorità ucraine invece saranno “detenuti legalmente”.
9) L’autonomia prevista per il Donbass (o le sole “determinate aree”?) è molto ampia, in particolare per la creazione di “milizie popolari” che saranno nei fatti sicuramente le già esistenti formazioni dei separatisti. Il governo di Kiev però sembra essere tenuto a finanziare la regione, senza che le relative modalità siano definite con chiarezza: sarà di sicuro una fonte di conflitti, anche forti, tra le parti.
10) Le aree autonome potranno avere relazioni privilegiate con “regioni della Federazione Russa”, ma gli accordi prevedono che ciò avvenga con la collaborazione delle autorità centrali. Si tratta di un diritto di veto? Il testo può essere letto anche in questo modo e può quindi dare luogo a infinite diatribe.
11) Nel punto 10. la frase lapidaria “disarmo di tutti i gruppi illegali” è poco chiara. Kiev considera illegali tutte le formazioni armate separatiste e prima che vengano legalizzate diventando “milizie popolari” passeranno lunghi mesi. Cosa succederà nel frattempo?
12) Il punto 11. sulle nuove norme costituzionali da adottare sembra essere un contentino per chi vuole la federalizzazione e può al limite essere interpretato da chi lo vuole anche come mirante a un tale risultato.
13) In ultimo, ed è l’aspetto più importante, rimane il fatto che le “determinate zone”, cioè le aree controllate dai separatisti (circa un terzo dell’area del Donbass, in cui originariamente viveva la metà degli abitanti della regione) così come esistono oggi sono un’entità senza senso. Per arrivare a una soluzione stabile, il Donbass dovrà essere in un modo o nell’altro un’entità unica – questo aspetto fondamentale è chiaramente un preludio alla ripresa di un conflitto armato.
PROTOCOLLO di BUDAPEST del 1994 in italiano:
https://www.osce.org/files/f/documents/e/e/39557.pdf
DOCUMENTO SULLA DISINFORMAZIONE dell’Atlantic Council Eurasia Center (non tradotto)