Guarda chi si rivede, l’esercito europeo 24 settembre 2021_ del Generale Marco Bertolini

Proseguiamo con il tema della difesa comune europea_Giuseppe Germinario

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo

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Una ventina d’anni fa, nello stesso periodo nel quale iniziava quell’impegno in Afghanistan dal quale siamo usciti sconfitti, l’Italia cambiava il modello della propria Difesa, passando da Forze Armate a coscrizione obbligatoria a Forze Armate basate su personale di truppa volontario.

Tutti gli schieramenti politici volevano fortemente questo cambiamento, certamente necessario per esigenze di funzionalità operativa, ma non fu questo il motivo per il quale venne adottato in un regime di sostanziale unanimità: a destra forse si sperava che una maggiore componente professionale avrebbe dato più peso al tradizionale conservatorismo dei quadri militari; nel “nuovo” centro si auspicava una riduzione  quantitativa di un apparato in buona sostanza ritenuto poco utile, in nome della “lotta agli sprechi” mentre a sinistra, probabilmente, si intravvedeva la possibilità di inserire in uno strumento che si percepiva estraneo alla propria tradizione quelle istanze sociali che avevano già eroso l’autorevolezza dello Stato in altri ambiti.

A partire dalla Scuola: obiettivo conseguito con la recente affermazione delle associazioni sindacali che in buona sostanza smilitarizzano i militari.

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Ora sono in tanti a mangiarsi le mani, vista la caduta educativa alla quale è stata esposta la nostra gioventù, privata del più elementare senso dello Stato, esclusa da ogni rifermento all’orgoglio nazionale e orbata di quel sentimento che portava tutti, anche le ragazze e coloro che magari con qualche amicizia altolocata riuscivano a scansare o edulcorare la naja, a considerarsi in debito con la società.

Anche da questo, l’esplosione della retorica dei diritti, a partire dai più assurdi, che ha sostituito quella un po’ bolsa ma rassicurante dei doveri, da quello dell’obbedienza a quello che potremmo definire della “dignità” dei comportamenti.

Comunque, problema superato: indietro non si torna, infatti, visto che abbiamo smantellato quegli strumenti e quelle procedure che ci consentivano di individuare, chiamare, selezionare, assegnare ai reparti decine di migliaia di giovani ogni anno, tenendo conto dei limiti di età, dei criteri di rivedibilità, dei motivi di studio, dei desiderata, delle situazioni familiari, delle esigenze dei reparti e chi più ne ha più ne metta.

E che con i congedati ci consentivano di costituire unità di riservisti, composte da personale già addestrato con il quale allungare il brodo delle unità in vita in caso di necessità. In compenso abbiamo la Riserva Selezionata, fatta da professionisti di vario genere ma senza alcuna esperienza militare pregressa che con un fucile in mano si troverebbero come minimo a disagio.

Poco male: i fucili, come insegnava un nostro recentissimo ex Presidente del Consiglio, possono essere scambiati con altrettante borse di studio per la pace, senza scandalo e con soddisfazione di tutti.

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Da quel cambiamento radicale sono passati vent’anni e a quanto pare siamo pronti ad un altro passo avanti.

Il riferimento è al cosiddetto “Esercito Europeo” che ora entusiasma tutti coloro che non si sono mai entusiasmati per quello che fanno i nostri marmittoni e che magari preferiscono considerarli dei perditempo o dei pigri guardiani della Fortezza Bastiani, abituati agli ozi di una vita inutile.

Il termine scelto per questa ulteriore invenzione è una irritante semplificazione semantica con la quale si definisce “Esercito” quelle che sarebbero in realtà tutte le Forze Armate, naturalmente; ma come si può pretendere una maggiore definizione, e un maggiore rispetto, da una società a-militare come la nostra?

Ma veniamo al sodo. Intanto varrebbe la pena di osservare che l’ideona nasce, anzi rinasce, proprio con la fine ingloriosa della presenza occidentale in Afghanistan. Tutti a osservare, argutamente, che l’Europa è stata assente di fronte alle decisioni unilaterali statunitensi.

Nessuno, invece, si è sentito in dovere di osservare che l’Europa in Afghanistan era presente, presentissima, con molti contingenti dei paesi dell’UE.

L’Unione avrebbe quindi potuto dire la sua ma ha deliberatamente scelto di abbandonare i “propri” paesi ad una linea d’azione non coordinata e ancillare nei confronti degli Usa, facendo proprie le loro strategie e le loro parole d’ordine.

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Infatti, di fronte a un nemico brutale ma tutto sommato contenibile non abbiamo saputo trovare una linea di comportamento comune, trincerandoci dietro “caveat” e Regole di Ingaggio differenziate da paese a paese proprio per non essere costretti a un impegno percepito in mille maniere differenti. Altro che Esercito Europeo!

In Italia, da questo punto di vista, tutti i governi succedutisi in questi vent’anni hanno evidenziato un sostanziale disinteresse per quel che facevano laggiù i nostri uomini; salvo prodursi, a favore di telecamere, nei soliti fervorini sui burka, sull’istruzione femminile (i maschietti non contano) e su un falso ma rivendicato afflato a-militare dei nostri soldati, quasi fossero una sorta di sanfranceschi intenti a parlare coi lupi. Solo ora sembrano accorgersi, con sorpresa, che invece in quel paese non avevamo solo pozzi da scavare e buoni sentimenti da spandere ma anche un nemico da sconfiggere; un nemico che ha vinto.

Tra le sorprese che spingerebbero a questa nuova necessità, anche la sconcertante constatazione che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno stretto un’alleanza con funzione anticinese che potrebbe trasformare il “nuovissimo continente” in un’altra semi-superpotenza, con sommergibili nucleari e missili balistici. Ma come?

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Non c’eravamo già noi, i vecchi amici della Nato? Forse sfugge a qualcuno che un’alleanza anglosassone tra Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda (i “Five Eyes”) esiste da sempre ed è la stessa per la quale un semplice alleato Nato non aveva in Afghanistan l’accesso alle stesse informazioni alle quali poteva accedere un Australiano o un Neozelandese magari di passaggio, che della Nato non fanno parte.

E’ inutile girarci attorno, quindi: senza una politica estera comune non è possibile esercitare sforzi militari comuni. Ed una politica estera comune può basarsi solo su un’identità ed un mutuo rispetto attualmente schiacciati da condizionamenti che la rendono impossibile. Si pensi al seggio della Francia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: lo cederà a Ursula Von der Leyen?

E rinuncerà Macron alla sua Force de Frappe rendendola disponibile per interventi approvati “a maggioranza” e che prescindano dagli interessi diretti d’oltralpe? I virtuosi e frugalissimi paesi nord europei accetteranno di spartirsi le decine di migliaia di disperati che approdano nelle nostre coste, complice la nostra inerzia, e che ora è facilissimo bloccare a passi alpini?

La Germania accetterà di perseguire una parità stipendiale tra lavoratori tedeschi, greci e italiani? E noi rinunceremmo a far giudicare da un nostro tribunale un militare olandese o norvegese che avesse commesso un atto che la nostra giurisprudenza considera reato, mentre per i due paesi gli dovrebbe meritare una decorazione al valore?

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Insomma, penso che per l’Italia quella dell’Esercito Europeo sia un’altra seducente parola d’ordine per nascondere il desiderio di sbolognare ad altri la gestione di uno strumento militare che non si ama, assieme a quello che resta della sovranità nazionale, quale esercizio di responsabilità nei confronti del bene comune che ci è stato lasciato dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Uno strumento militare del quale non si sa cosa fare, visto che abbiamo rinunciato anche alla politica estera che ne dovrebbe giustificare l’esistenza, come confermato dall’abbandono della Libia, prima ai disegni franco-anglo-americani e poi alle ambizioni della Turchia, dall’assurdo braccio di ferro con l’Egitto nonché dall’umiliazione della nostra cacciata dalla base aerea di Al Minad negli Emirati Arabi Uniti, per non avere onorato precedenti contratti commerciali in materia d’armamento.

Per concludere, quello dell’esercito europeo sarebbe un bellissimo sogno, ma richiederebbe un minimo comun denominatore tra paesi che ora dimostrano differenze di vedute e di interessi tutt’altro che marginali.

E che, forse per questo, si ostinano a non abbandonare gli stereotipi ereditati dalla Guerra Fredda con l’idea decisamente ipocrita di un’Europa Occidentale virtuosa che fronteggia un’Europa Orientale da “rieducare”, come nel caso delle manifestazioni di aperta ostilità verso Ungheria e Polonia, colpevoli di voler tutelare i propri valori, le proprie tradizioni più interiorizzate e la propria dignità.

Foto EUTM Mali ed EUTM Somalia

https://www.analisidifesa.it/2021/09/guarda-chi-si-rivede-lesercito-europeo/

LO YIN E LO YANG DELL’ORDINAMENTO MODERNO, di Pierluigi Fagan

Un altro mo(n)do per interpretare la dialettica. Testo interessante che apre a quesiti fondativi. Partirei però da un punto di vista diverso. Il politico, non il personaggio politico, è un ambito che agisce nei vari spazi dell’agire umano collettivo, tra i quali l’economico; spazi, questi sì circoscrivibili. Mi pare improprio contrapporre quindi l’economico al politico e di conseguenza lo stallo economicista del mondo occidentale alla visione più olistica dei mondi emergenti, in particolare cinese. Si tratta al contrario di approcci politici diversi che in realtà tendono sempre più a contaminarsi oltre che a confliggere, tanto è vero che proprio la potenza confuciana, la più olistica, sembra puntare di riffa o di raffa ancora prevalentemente sull’economico per affermare la propria influenza almeno sino a quando riuscirà ad acquisire mezzi di costrizione sufficienti a sostenere il confronto aperto. E’ appunto la molla che può costringere il campo avverso a riconsiderare le chiavi interpretative e a superare la propria crisi. Su una cosa si concorda: le modalità di reazione, classicamente e rudemente “politiche”, del mondo occidentale lasciano presagire tempi foschi. Su questo i cinesi sembrano aver compreso molto poco il senso e le opportunità offerte dalla presidenza di Trump anche se sono stati abili ad occupare gli spazi aperti dal conflitto politico negli USA. Buona lettura, Giuseppe Germinario
LO YIN E LO YANG DELL’ORDINAMENTO MODERNO. [Temi: economia, politica, futuro] La coppia yin e yang rappresenta il modo cinese di pensare la dualità. Per “dualità” d’intende quella che sembra una propensione naturale della mente umana a partire il pensiero in due a cominciare dalla partizione pensante – pensiero, o soggetto – oggetto, ma anche soggetto e mondo o oggetto come risultato di due forze o due elementi e così via secondo varie declinazioni classiche quali caldo – freddo, notte – giorno, maschile – femminile o altre più storiche o antropo-culturali come mente – corpo, razionale – emotivo etc..
Dicevamo “propensione” naturale della mente umana, quindi queste dualità non possiamo dire siano parti obiettive che esistono fuori della nostra mente, purtroppo non possiamo pensare a nulla fuori della nostra mente senza usare la nostra mente. Di contro, la nostra mente è fatta apposta per darci l’impressione di essere un soggetto che pensa un oggetto (pensare è sempre pensare a qualcosa direbbe Brentano) e così, quando poi ci si astrae da questo stato e si mette ad oggetto questa stessa relazione, ecco sorgere la dualità. Si potrebbe dire esser un portato della condizione auto-cosciente, coscienza dell’esser coscienti o pensare al come di pensa (o “pensiero che pensa se stesso” – Aristotele).
In Occidente, la dualità ha preso varie forme all’interno di una vasta famiglia che inizia con le riflessioni di Eraclito e che da Platone ad Hegel, in logica, prende nome di “dialettica” o in altro ambito (gnoseologico) “dualismo”.
La versione cinese di questo impianto, formalizzata nel V-III secolo a.C. ma risalente nel modulo duale a molto prima, è appunto la partizione “yin e yang”, graficamente simbolizzato nel -taijitu-, quel cerchio con due virgoloni con un punto in mezzo che si abbracciano nella forma circolare per quanto la dividano. I virgoloni stanno a dire che i due principi si muovono con predominanza alternata, il punto di diverso colore al centro sta a dire che anche quando uno dei due principi è alla piena espressione dominante, il suo contrario-complementare permane, pronto ad attivare un nuovo ciclo in cui alternerà la dominanza. Così via in una sequenza di mutamenti infiniti. Taiji o nella versione W-G -T’ai Chi-, significa “trave maestra”, la base della logica.
Premessa questa visione logica, applichiamola ad un caso concreto.
Si tratta della forma dell’ordinamento delle società occidentali moderne, un -taijitu- fatto di economia e politica. Per lungo tempo, secoli fa, fu la politica a dominare come ultima intenzione l’economia, poi iniziò il moto contrario. Oggi siamo al punto di massimo dominio dell’economico sul politico. Non a caso registriamo da una parte la massima vigenza di una ideologia economica fondamentalista quale ciò che molti chiamano “neo-liberismo” mentre sono almeno trenta anni che gli scienziati politici avvertono, sempre più sconfortati, il totale declino della forma politica moderna occidentale detta -impropriamente- “democrazia”. Ma al di là del fatto che sia o non sia una democrazia (secondo chi scrive non lo è e sarebbe già tanto rendercene conto ovvero operare quella “rettificazione dei nomi” suggerita da Confucio senza la quale “chi parla male, pensa male”), essendo questa forma ibrida comunque l’incarnazione del politico nel moderno occidentale, è proprio il politico ad esser ai minimi termini, un piccolo puntino bianco nel dominio del virgolone nero.
Segnalo allora due articoli di oggi sull’ineffabile Repubblica, nome di una famosa opera, la più famosa e più complessa per quanto ad esito prettamente politico, di Platone. Ma anche nome della forma politica della società come cosa (res), pubblica. Ma la proprietà di questo giornale è invero in mano ad una famiglia imprenditoriale, quindi operatori economici, operatori economici (invero sempre meno economici e sempre più finanziari) che reputano necessario possedere un figlio politico, lo schema appunto classico dei -taijitu- moderno occidentale, negli ultimi decenni.
Il primo articolo segnala un libro in prossima uscita per i tipi di Laterza, con vari contributi da Canfora a Ferraris, passando per i Friday for Future (potevano anche chiamare i telettubies già che c’erano) su un tema oggi molto pubblicato: il futuro? Mai come di questi tempi, il futuro s’accompagna col punto interrogativo. Molte cose non funzionano più come prima, ma pare che non si abbia la più pallida idea di come altrimenti farle funzionare.
L’articolo, estrae un pezzo colto dal contributo dell’ex Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Visco riesuma il famoso articolo anni ’30 di J. M. Keynes “Prospettive economiche per i nostri nipoti” in cui il Sir inglese profetava necessaria (necessaria, non “auspicabile”), per i tempi dei suoi nipoti quindi più o meno i nostri, una società con tre ore di lavoro al giorno, tre solo perché l’uomo si sarebbe troppo smarrito a lavorarne solo quella che realmente serviva come necessità, cioè una sola.
Il secondo articolo ne traduce uno del NYT dal titolo “Per fermare il cambiamento climatico (dobbiamo) contrarre l’economia?. Si tratta di un altro -taijitu- con un virgolone rappresentato dal concetto di “decrescita” ed un altro rappresentato dal “New Green Deal”. Quest’ultimo pensa di prendere il problema che il sistema dominante continua a ridurre al cambiamento climatico (il “problema” è ben più complesso comportando questioni ambientali-ecologiche e non solo climatiche, geopolitiche, migratorie-demografiche, economiche e finanziarie, tecnologiche e scientifiche, ma se il sistema in atto fosse in grado di pensare in maniera adeguata non saremo nella condizione del -futuro interrogativo in stato ansioso-), e farlo diventare motivo su cui attivare il classico ciclo di distruzione creatrice che anima il modo economico moderno.
La prima posizione dubita fortemente che il problema si possa così risolvere e va più radicalmente affermativamente incontro al titolo dell’articolo: sì, bisogna contrarre l’economia (che tanto si contrae di suo per noi occidentali, da decenni e per decenni a venire per ragioni che pare nessuno abbia interesse ad indagare), e quindi accompagnare una decrescita pilotata. Di questa contrazione strutturale fa parte anche la riduzione dell’orario di lavoro.
La faccenda della decrescita meriterebbe una lunga trattazione con punti appena accennati dall’articolo nel riportare la posizione di Jason Hickel che invito a leggere e riguardano aspetti demografici, culturali, geopolitici, sociali. La decrescita pilotata (stante che è comunque in corso la versione non pilotata) verso una “società dell’abbastanza” (moderatamente prospera direbbe Xi) riguarderebbe in primis i Paesi ricchi (noi) e gli strati di società iper-ricca (le élite). Ma chi dovrebbe pilotarla?
E torniamo così al nostro -taijitu-. Dovrebbe pilotarla la politica. Il virgolone politico che ordina in condominio le nostre società con l’economico e che negli ultimi decenni è stato ridotto ai minimi termini. Quindi, questa non è una discussione da economisti che poverini hanno i loro limiti disciplinari, sarebbe una discussione politica, ma anche la politica ha i suoi limiti (tra cui capire in genere poco o niente di ecologia, geopolitica, società, cultura, storia ma ahimè anche economia). Una “politica” che oltre ai suoi limiti gnoseologici di lunga tradizione (la tradizione moderna che separa tra loro le discipline quindi gli oggetti di cui è fatto l’intero oggetto del politico), si trova oggi ai suoi minimi termini di sviluppo poiché negli ultimi decenni è servita solo come strumento per le élite economiche per prorogare la vigenza della funzione economica, di suo, sempre meno efficiente per restringimento obiettivo delle sue condizioni di possibilità.
Quindi, le nostre società occidentali sono in crisi adattiva ad un mondo che non è più quello dell’era moderna, è così in crisi il virgolone economico che di recente è giunto al suo massimo potere di vigenza squilibrando le società stesse, ma il puntino politico che dovrebbe crescere per ripristinare l’equilibrio delle funzioni subentrando all’economico per pilotarlo verso società diversamente configurate è depresso ed ai suoi minimi storici. Per “politico” qui non intendiamo la “politica” in atto, intendiamo il pensiero politico poiché nelle cose umane che dovrebbero esser auto-coscienti, il pensiero dovrebbe precedere ed informare l’azione. E’ proprio nel pensiero che siamo ai minimi termini.
Si dice che fare una diagnosi sia già incamminarsi vero la soluzione di un problema. Speriamo, il “principio speranza” è un principio del politico e speriamo che il (pensiero)-politico oltre a sperare, criticare e riesumare sue forme del profondo passato che è passato, si dia una mossa. Il virgolone politico ha bisogno di energia per crescere mentre decresce il virgolone economico.

NB_Tratto da facebook

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…, di Hajnalka Vincze

Non si tratta comunque di determinare chi sia il più europeista, quanto di precisare una realtà il più delle volte rimossa: l’esistenza stessa di questa classe dirigente tedesca dominante dipende dai suoi legami e dalla sua subordinazione agli Stati Uniti e la ricerca del proprio interesse non può e non intende prescindere oltre un certo limite da questo dato; essa è parte integrante di una componente ben definita di classe dirigente americana. Tutto è apparso alla luce del sole durante la presidenza Trump. L’attuale Unione Europea è un ingranaggio di questa dinamica. Le ambiguità e i cedimenti della Francia in quest’ultimo ventennio sono cresciuti parallelamente ai suoi proclami di autonomia europea anche se si deve riconoscere quantomeno l’esistenza in essa di un confronto ed un conflitto tra centri decisionali contrapposti. Giuseppe Germinario

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…

Portfolio – 25 settembre 2021
News Note

… stanno solo usando l’UE per rafforzare il proprio potere nazionale?

Sul tema delle elezioni tedesche, è dilagante la speculazione su cosa significherebbe questo e quest’altro nuovo governo tedesco per la costruzione dell’Europa. Sarebbe senz’altro utile tornare prima a cosa significa Europa, in generale, per la Germania e viceversa. Perché ci sono poche possibilità che le linee principali, le stesse da molti decenni, cambino. Nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle tagliò corto: “I tedeschi si comportano come maiali. Tradiscono l’Europa”. Questa visione, certamente accuratamente celata dietro formule diplomatiche, è comunque largamente condivisa in tutto il Reno, anche oggi. Allo stesso tempo, in altri luoghi è comune considerare Berlino come il buon studente dell’UE: La Germania pagherebbe come una vera vacca da mungere; darebbe sempre più potere alle istituzioni comunitarie; non ci sarebbe stato più verde di lei; e sui temi della difesa è modesto (al massimo si spende qua e là qualche parola sul disarmo globale e la pace universale). Potrebbe essere che tutto questo sia solo una tattica intelligente?

Attivista per la pace, con le bombe atomiche

L’osservazione che paragonava i tedeschi ai “maiali” è stata fatta in relazione al trattato di amicizia franco-tedesco, detto dell’Eliseo. Questo accordo aveva originariamente una forte dimensione di sicurezza e difesa e deliberatamente non faceva menzione né degli Stati Uniti né della NATO. Ma il Bundestag lo ratificò alla sola condizione di allegare un preambolo collocandolo immediatamente nel quadro dell’alleanza con l’America. Il generale de Gaulle notò, furioso, che non ci si poteva fidare dei tedeschi: “sono appiattiti davanti agli americani”. Sessant’anni dopo, niente di nuovo sotto il sole. L’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox ha recentemente osservato: “L’autonomia strategica è fonte di tensione tra Francia e Germania: non sono d’accordo su quanto l’Europa possa e debba fare affidamento sugli Stati Uniti”. Qua e là, i politici tedeschi si sono lasciati sfuggire che l’UE avrebbe guadagnato acquisendo “un certo grado di sovranità”. Ma quando la Francia insiste che è tempo che gli europei diventino indipendenti, la Germania ribatte che “le illusioni di autonomia strategica devono finire”. Berlino continua a ripetere: “L’Europa dipende dall’alleanza transatlantica, non può difendersi”.

Quando il presidente Macron evoca il fatto che la forza d’attacco francese difende, senza dirlo, l’intero continente europeo e chiede cooperazione ai suoi partner, la Germania si fa notare per la sua riluttanza. A volte sostiene che esiste già un ombrello americano, a volte suggerisce che prima ci liberiamo dell’atomo, meglio è. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2020, il presidente francese ha messo in evidenza le contraddizioni dell’ardente pacifismo di Berlino. Come dice lui: questa riluttanza verso le questioni militari è finta, perché la Germania è bagnata fino all’osso in una politica di potere, inclusa la sua componente nucleare, attraverso la NATO – tranne che è una politica americana. Infatti: sotto l’egida della condivisione nucleare (alla quale Parigi non partecipa) dell’Alleanza, gli Stati Uniti hanno una ventina di cariche nucleari sul territorio tedesco. Inoltre, i servizi segreti federali (BND) occasionalmente spiano l’Eliseo e la Commissione europea per conto di Washington. L’atlantismo patentato di Berlino nasce da un ragionamento lucido. Da un lato, Berlino spera che in cambio del suo incrollabile sostegno al primato USA/NATO nella sicurezza europea, Washington sarà più indulgente con i suoi scherzi in altre aree (i suoi legami commerciali con Russia e Cina, in particolare). D’altra parte, la stessa Berlino beneficia di questo primato americano: questo relativizza il peso e la portata degli assetti militari francesi, e riduce così il vantaggio politico di Parigi negli equilibri di potere all’interno dell’UE.

(Credito fotografico: Portfolio.hu)

Zelo europeo per egoismo?

In ogni caso, l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’integrazione europea è, per così dire, complesso. Berlino è sempre stata una fervente sostenitrice delle istituzioni sovranazionali dell’Unione, tanto più che le aveva investite per molto tempo e la sua influenza lì è schiacciante. Resta il fatto che il freno più netto al futuro dell’integrazione è arrivato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nella sua decisione del 2009 che interpreta il Trattato di Lisbona, questo organo supremo dichiara nero su bianco che il quadro nazionale è l’unico rilevante per la democrazia e la sovranità tedesche. Il diritto europeo non ha la precedenza, l’Europa non è un’entità sovrana, non ha quella che si chiama “la competenza della competenza”. Quanto alle azioni concrete, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer osserva: “I governi tedeschi ora vedono sempre più l’Europa in termini di promozione degli interessi tedeschi. E lì c’è un pericolo per l’Europa”.

Berlino sta ora anteponendo sempre più apertamente le proprie considerazioni a ogni “comune interesse europeo”. Era disposto a sacrificare anche il più importante progetto strategico europeo fino ad oggi, il sistema di navigazione satellitare Galileo, a meno che il sistema tedesco OHB, ma totalmente incompetente per il compito, non si aggiudicasse l’appalto. In questi giorni, la Germania si rifiuta di discutere del futuro del razzo Ariane, anche se ciò significa mettere a repentaglio uno degli strumenti strategici (e commerciali) più cruciali dell’Europa, il suo accesso indipendente allo spazio. Certo, Berlino può anche essere generosa, purché trovi un profitto clamoroso.

Se ha tanto sostenuto l’allargamento dell’Unione verso Est, è perché ha trovato il suo tradizionale “Hinterland”, con manodopera a basso costo a disposizione delle sue aziende, nello stesso spazio normativo. Per quanto riguarda l’attuale piano di stimolo dell’UE, la Germania ha accettato solo l’idea del pooling del debito per garantire meglio gli sbocchi europei di cui la sua industria ha estremo bisogno (a causa della contrazione dei mercati internazionali). Sul versante della diplomazia, Berlino non esita più a far sentire la propria voce, anche a discapito delle considerazioni europee, a seconda dei casi. Quando la Turchia si avventura, ad esempio, nelle acque greche e cipriote, l’UE nel suo insieme è il bersaglio delle sue provocazioni. Atene insiste: “La Grecia protegge i confini europei”. Tuttavia,

L’eterno avversario: la Francia

Caso dopo caso, Berlino si trova ripetutamente di fronte alla Francia. Sono le due potenze centrali dell’UE, e la storia del nostro continente è in gran parte quella dei loro scontri. La Germania è principalmente interessata all’idea europea nella misura in cui questa può far pendere a suo favore gli equilibri di potere tra i due paesi. Prendiamo l’esempio di questa idea, a priori simpatica, secondo la quale Parigi potrebbe rinunciare al suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a favore dell’Unione europea. Sorpresa, sorpresa: ancora una volta la Germania intende “rafforzare” l’Europa sacrificando un… asset francese. Inoltre, l’UE ne trarrebbe ben poco. Infatti, finché gli Stati membri concordano su una posizione, è meglio avere diversi membri del Consiglio di sicurezza per difenderlo (un seggio equivale a un voto – e ci sono sempre uno o due paesi dell’UE tra i membri non permanenti). E se i Ventisette non dovessero trovare un accordo, la cosiddetta voce unica “comune” rimarrebbe in silenzio. Ovviamente a Berlino non interessa.

Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La Germania ha deciso di chiudere al più presto tutte le sue centrali nucleari a favore delle energie rinnovabili (risultato: riprende la produzione di carbone, e Berlino punta, con Nord Stream 2, sull’aumento dei consumi di gas naturale. ). D’altra parte, quasi il 70% dell’elettricità francese proviene dal nucleare, una fonte non solo economica e permanente (affidabile sia in inverno che in estate), ma che riduce anche al minimo le emissioni di CO2. Tuttavia, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) e il Centro comune di ricerca (JRC) dell’UE affermano entrambi che l’energia nucleare, nonostante tutti i suoi difetti, è attualmente uno dei nostri migliori strumenti per passare a un modello senza carbonio, La Germania sta conducendo una dura battaglia contro di essa. Di recente è riuscita ad escludere il nucleare dai bond “verdi” dell’Ue, per un importo di 250 miliardi, a differenza dei cosiddetti progetti “transitori” sul gas naturale che vi troveranno posto.

Ancora una volta, gestendo bene le istituzioni dell’UE, Berlino sta lavorando per indebolire le risorse francesi, gettando nel processo gli interessi europei. Quando reindirizza le risorse e gli investimenti dell’UE a società e progetti tedeschi, distrugge anche le prospettive per l’energia nucleare europea. Che avrebbe però il multiplo vantaggio di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica per l’UE entro il 2050, di promuovere la competitività delle industrie, di garantire energia elettrica stabile a un prezzo accessibile anche ai cittadini, il tutto senza che l’Europa non cada in un mercato energetico dipendente da potenze esterne come Russia, Turchia o Stati Uniti.

Il settimanale tedesco Der Spiegel ha recentemente riassunto i 16 anni al potere della cancelliera Merkel sotto il titolo “Opportunità mancate”. Questa osservazione vale anche, se non soprattutto, per l’Europa. Il giornale cita il filosofo Jürgen Habermas, per il quale Angela Merkel ha cercato soprattutto la pace – da qui la grave mancanza di qualsiasi strategia degna di questo nome durante le crisi successive e l’attenzione sul solo armeggiare per far ripartire la macchina, senza fare di più. In effetti, c’è una ragione molto più profonda per questo ostinato rifiuto di imparare dalle difficoltà. Il problema, per la Germania, è che la maggior parte degli eventi degli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria alla pandemia passando per la presidenza Trump, hanno confermato la rilevanza degli obiettivi francesi per l’Unione, sovente agli antipodi delle priorità tedesche.

Che si tratti di emancipazione dagli Stati Uniti (la famosa autonomia strategica), di riportare in Europa le filiere produttive, di rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, di necessità di un’agricoltura autosufficiente, di utilità del nucleare nella lotta al riscaldamento globale, o l’importanza degli eserciti e di un’industria degli armamenti indipendente in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente rivalità tra poteri – il mondo intero è consapevole di queste tendenze e cerca di trarne le conseguenze. Ma la Germania, dal canto suo, si oppone con le unghie e con i denti a che l’Europa faccia lo stesso, per paura che ciò favorisca troppo il suo partner francese. Perché, ovviamente, perseguire una politica capace di dare risposte concrete a tutte queste sfide significherebbe, per l’Europa, intraprendere la strada che Parigi ha sempre raccomandato. In questo caso, l’influenza della Francia sarebbe rinforzata automaticamente e le sue risorse ancora esistenti sarebbero immediatamente valorizzate. Tuttavia, Berlino vuole evitare a tutti i costi un simile spostamento negli equilibri di potere tra i due paesi.

Il generale de Gaulle ha detto: “E’ destino della Germania che nulla possa essere costruito in Europa senza di lei”. D’altra parte, c’è da temere che con essa non ci possano essere che “anticipi” che, a ben guardare, finiranno sempre per giovare all’Europa molto meno che a Berlino.

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/604-les_allemands_sontils_de__bons_europeens__ou/

Sulla Geoeconomia, Di: Antonia Colibasanu

I collaboratori del sito si sono soffermati più volte sul rapporto tra politica ed economia, sulla relazione tra geoeconomia e geopolitica. Antonia Colibasanu ci offre il suo punto di vista. Una precisazione: il recente passato, in particolare negli anni ’70, ci dice che il trinomio inflazione-disoccupazione- stagnazione (stagflazione) non è poi così inedito. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Sulla Geoeconomia

C’è un cambiamento in corso che potrebbe cambiare le regole del sistema globale.

Di: Antonia Colibasanu

La scorsa settimana ho parlato e moderato di persona in diverse conferenze – una cosa rara dall’inizio della pandemia – i cui argomenti andavano dalla difesa e sicurezza al commercio regionale agli affari europei. Il denominatore comune, ovviamente, era la geopolitica, ma ciò che mi ha colpito di più delle mie conversazioni è stato che, piuttosto che il ritiro dall’Afghanistan o le elezioni in Germania, quasi tutti erano preoccupati principalmente dell’inflazione e della conversione ecologica dell’economia in corso in Europa.

In effetti, quasi tutte le conversazioni avevano una cosa in comune: le sfide economiche della nostra società alla luce della pandemia. Fino ad agosto, l’inflazione era generalmente innescata dal settore energetico e da un ristretto insieme di beni come i semiconduttori i cui aumenti di prezzo erano legati alla crisi della catena di approvvigionamento. Ma, come evidenziato dai recenti aumenti dei prezzi di cibo e servizi, sembra che gli effetti si stiano ampliando. Condizioni meteorologiche avverse, siccità insolite e inondazioni che hanno distrutto i raccolti , spesso citati come danni collaterali del cambiamento climatico, hanno contribuito all’aumento dei prezzi dei generi alimentari.

E sebbene fosse così anche prima dell’inizio della pandemia, la stessa ha effettivamente evidenziato le vulnerabilità del sistema alimentare, influendo sulla produzione, l’offerta e la distribuzione. L’aumento delle tariffe di trasporto marittimo, l’aumento dei prezzi del carburante e la carenza di autisti di camion stanno facendo aumentare i costi dei servizi di trasporto. Inoltre, la pandemia ha creato ai produttori difficoltà di accesso alla forza lavoro di cui hanno bisogno per far consegnare i raccolti in tempo utile (per non parlare dei lavoratori necessari per consegnare e distribuire altri beni). È stato così per i produttori di pomodori, arance e fragole in Europa nel 2020. In Australia, i gruppi industriali temono che le sfide legate alla pandemia possano far deperire quello che dovrebbe essere un raccolto stellare di cereali invernali in questa stagione.

L’industria alimentare non è certo l’unica industria alle prese con questo tipo di sfide. Una spiegazione avanzata dagli specialisti delle risorse umane cita il fatto che sembra esserci una discrepanza tra le industrie che assumono e coloro che cercano lavoro, una dinamica apparentemente confermata dalla ripresa irregolare in diversi settori. Un’altra spiegazione si riferisce al fatto che, durante la pandemia, molti lavoratori si sono allontanati dalle città in cui lavoravano, lasciando i loro posti di lavoro vacanti fino a quando non si percepisce una migliore sensazione di quando la pandemia potrebbe placarsi. Questo parla dell’importanza per la forza lavoro di essere in grado – e disposta – a migrare da un luogo all’altro.

Sondaggi socioeconomici globali
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Per la prima volta, assistiamo sia a un’elevata disoccupazione che a un’elevata inflazione, qualcosa di anomaloe quando le economie si stanno riprendendo dalla recessione, e generalmente anormale. L’inflazione in genere si accompagna alla ripresa e alla crescita, dinamiche che in genere riducono la disoccupazione. Il problema è che l’inflazione è sbilanciata: ci sono troppi posti di lavoro e poche persone disposte ad accettarli.

Aumento della disoccupazione e dell'inflazione
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L’estate del 2021 è stata tutt’altro che normale, ovviamente. La pandemia non è finita. La variante Delta, unita a bassi tassi di vaccinazione, ha nuovamente aumentato le infezioni da COVID-19 e ha quindi rallentato la ripresa del settore dei servizi. Oltre alla carenza di approvvigionamento che colpisce sia la spesa dei consumatori che quella delle imprese in tutto il mondo; una costante ondata di notizie tristi riguardanti l’Afghanistan, la stabilità politica globale e anche eventi estremi come uragani e incendi hanno eroso la fiducia dei consumatori.

Indicatore di anticipo composito (CLI)
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La fiducia è essenziale per il funzionamento di un’economia. La pandemia ha dimostrato ancora una volta quanto sia vulnerabile il nostro attuale sistema sociale. Come con la crisi finanziaria globale del 2008, le persone stanno assistendo in prima persona agli effetti negativi della globalizzazione, anche se conciliano il fatto che l’interconnessione e l’interdipendenza sono realtà che non possono essere annullate rapidamente. È solo ragionevole che mettano in discussione le attuali regole del gioco se quelle regole creano dolore e sofferenza.

E, dopo tutto, è la tolleranza della gente per il dolore che innesca il cambiamento politico. Con così tanto malcontento generale per il modo in cui funziona il sistema globale, l’idea che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella nostra società ha a suo modo fatto avanzare la conversazione sulla sostenibilità e il cambiamento climatico. La percezione che viviamo in un mondo fragile richiede che chiediamo ai nostri governi di fortificare la nostra stessa esistenza, il tutto stabilizzando l’economia. Certo, è un cambiamento radicale, che richiede una ristrutturazione socio-economica.

Da un punto di vista geopolitico, agli stati viene chiesto di utilizzare il loro potere economico per garantire condizioni di vita sicure e stabili per la loro gente. Questo è stato a lungo il caso, ma l’urgenza dei cambiamenti necessari in un momento di intensa competizione economica internazionale porta alla trasformazione della geopolitica in geoeconomia. Il significato tradizionale della geoeconomia è che le nazioni impiegano strumenti del commercio estero per raggiungere gli imperativi. Nell’attuale contesto di tempi profondamente incerti – grazie alla pandemia, ai cambiamenti climatici e alla rivoluzione digitale – la funzione geoeconomica dello stato-nazione si riferisce all’utilizzo di strumenti economici per raggiungere obiettivi politici e aumentare il potere dello stato-nazione. Il controllo dei mercati, la gestione delle eccedenze commerciali e il ricorso a sanzioni economiche o investimenti strategici per rafforzare l’influenza politica fanno parte dell’arsenale che un paese può utilizzare per costruire, mantenere e aumentare il proprio potere economico.

Ma cos’è il potere economico? Come possiamo misurarlo, data la complessità dei tempi di pandemia in cui viviamo? La crescita del prodotto interno lordo reale e le dipendenze commerciali forniscono solo alcune idee di base sulla stabilità economica di un paese. Con la pandemia, abbiamo appreso che il potere di disposizione sulle materie prime strategiche svolge un ruolo importante nel mantenere vivi i settori strategici. Ciò che costituisce un settore strategico, e quindi una materia prima strategica, cambia anche in base al luogo e al tempo. Il petrolio non è così determinante ora come lo era negli anni ’70. L’approvvigionamento idrico, sebbene essenziale per tutti, è strategicamente più prezioso in alcuni luoghi rispetto ad altri. Fenomeni estremi attribuiti al cambiamento climatico pongono anche questioni specifiche a lungo termine. La capacità di produrre innovazione tecnologica darà ai paesi influenza sulle infrastrutture critiche e quindi consentirà loro di garantire la loro stabilità in tempi di eventi estremi come siccità e pandemie.

Allo stesso tempo, la capacità di un paese di far rispettare gli standard e le norme internazionali è la chiave per stabilire le regole del sistema economico globale e per esercitare un’influenza su altri stati. Con la globalizzazione, abbiamo già paesi che utilizzano norme diverse che operano nella stessa economia di mercato, ma l’accesso ai mercati strategici è ancora difficile a causa della prevalenza di standard occidentali.

Ci sono quindi tre elementi su cui uno stato dovrebbe concentrarsi nella costruzione della sua strategia geoeconomica. In primo luogo, deve mantenere la forza economica di cui dispone attualmente. In secondo luogo, deve ridurre le dipendenze economiche unilaterali. Terzo, deve sviluppare una strategia che catturi ed espanda il valore della sua forza economica. Nel compiere questi tre passi, lo stato si concentra sulla definizione dei suoi punti di forza economici, che sono in ultima analisi modellati dalla popolazione. Le risorse umane dello stato sono il bene più prezioso per la strategia geoeconomica, soprattutto in tempi di incertezza.

Ecco perché il rapporto instabile tra inflazione e disoccupazione deve essere preso come un serio segnale di ristrutturazione economica. Il comportamento umano provocato dal dolore umano sta potenzialmente innescando una rivoluzione che potrebbe cambiare le regole del sistema globale.

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Cina e Stati Uniti, una partita aperta_con Gianfranco Campa

Sul campo i due principali contendenti iniziano a sfidarsi sempre più apertamente. La competizione economica è sempre meno esaustiva; è parte ed è sussunta sempre più alle dinamiche geopolitiche. Le apparenze ci mostrano una potenza in costante ascesa, la Cina ed una in crescente difficoltà, gli Stati Uniti; una con un quadro dirigente da anni stretto attorno ad un leader, l’altra in preda a continue fibrillazioni. Una ascesa che può portare ad una condizione di soffocamento dettata dalla posizione geografica, una stabilità che può tradire una difficoltà di ricambio e di alternative all’attuale gruppo dirigente sino ad un decennio fa garantiti da avvicendamenti più o meno concordati dalla parte cinese. Dalla parte americana una difficoltà attutita dalle numerose opzioni disponibili sul campo e dalle possibilità di ricambio offerte dalle sorprendenti e violente fibrillazioni in corso da anni nella classe dirigente. Nel mezzo un corteo di paesi in parte paralizzati dalla situazione sempre più caotica, in parte disposti ad approfittare degli spazi offerti dalle incertezze e dalla complessità del quadro politico; tutti al proprio interno spesso dibattuti tra le varie opzioni e le varie cordate di interessi. Almeno sino a quando la natura conflittuale tra i due principali contendenti prenderà il sopravvento e costringerà alla scelta di campo netta rendendo sempre più ardua ed impegnativa, anche se lucrosa nel lungo periodo, una posizione di neutralità o quantomeno di attesa. Tra questi la Russia sembra godere delle migliori opportunità. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Un addio senza rimpianti_di Antonio de Martini

Domenica prossima 26 settembre le elezioni tedesche archivieranno l’ “ epoca Merkel”.
Ha regnato due anni più di Hitler e uno meno di Adenauer.
Sarà ricordata come una zelante burocrate di formazione DDR di cui i tedeschi non serberanno ricordo passati tre anni.
Avrebbe potuto concludere brillantemente il processo di integrazione europea iniziato da Adenauer, De Gasperi e Shuman, oppure rilanciare la Ost-politik di Bismarck e di Brandt, ma ha preferito fare la Kellerina degli Stati Uniti e scambiarsi occhiate di intesa con Sarkozy, un altro profugo dell’est di cui l’Europa avrebbe fatto volentieri a meno.
Gli esegeti la elogiano perché andava personalmente a fare la spesa e si é fatta fotografare a dieci anni di distanza con lo stesso vestito.
Pochino per quattro lustri di regno.
Ha fatto da zelante eco a tutte le dichiarazioni del Presidente USA che ne controllava le telefonate come a una cameriera sospettata di fare la cresta sulla spesa.
Accettò di chaperonare la Turchia per conto della NATO per ricondurla all’ovile coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
In casa, con politiche ambigue e rinunciatarie ha fatto rinascere una forte estrema destra nazionalista.
Anche il Parlamento Europeo sta sbarazzandosi dei suoi protetti.
Scialba e stinta ma stabile. Come un vecchio divano della casa di campagna, disponibile ad ogni uso, ma non é il salotto buono.
E’ stata l’ideale di una democrazia borghese, rassicurante perché imbelle; una miope amministratrice col braccetto corto.
Uno statista si distingue perché impone una cultura e/o lascia dietro di sè una squadra di eredi di cui la Germania sembra invece già ansiosa di sbarazzarsi.

Cosa ci dicono AUKUS e Afghanistan sulla strategia per l’Asia degli Stati Uniti?, di Arash Reisinezhad

Cosa ci dicono AUKUS e Afghanistan sulla strategia per l’Asia degli Stati Uniti?

Messi insieme, questi due sviluppi apparentemente non correlati segnalano una nuova strategia degli Stati Uniti nella competizione con la Cina.

Cosa ci dicono AUKUS e Afghanistan sulla strategia per l'Asia degli Stati Uniti?
Il presidente Joe Biden, insieme al vicepresidente Kamala Harris e al segretario di Stato Antony Blinken, partecipa a un Quad Summit virtuale con il primo ministro indiano Narendra Modi, il primo ministro giapponese Suga Yoshihide e il primo ministro australiano Scott Morrison venerdì 12 marzo 2021. nella Sala da pranzo di Stato della Casa Bianca.Credito: foto ufficiale della Casa Bianca di Adam Schultz

La rapida conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ha fatto notizia in tutto il mondo. Pochi avrebbero potuto prevedere che il gruppo fondamentalista islamico, prevalentemente pashtun, avrebbe resuscitato il proprio potere nell’estate del 2021, dopo aver condotto un’insurrezione ventennale contro il governo di Kabul sostenuto dagli Stati Uniti.

All’indomani dell’invasione guidata dagli Stati Uniti del 2001, i talebani hanno iniziato a sfidare la NATO e a riprendersi vasti territori nel sud-ovest dell’Afghanistan dopo il pesante raggruppamento in Pakistan. La firma di un accordo di ritiro con gli Stati Uniti a Doha ha incoraggiato i talebani a sfruttare il proprio vantaggio e a porre fine alla guerra che dura da 20 anni. Sostenuti dall’Inter-Services Intelligence (ISI) pachistano, i talebani hanno ottenuto rapidi successi quando gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe rimanenti dall’Afghanistan. Nell’agosto 2021, i talebani avevano conquistato tutte le principali città dell’Afghanistan e, infine, Kabul. A settembre controllavano l’intero paese dopo aver conquistato la montuosa valle del Panjshir, dove il Fronte di resistenza nazionale, guidato da Ahmad Masoud, aveva promesso di continuare a combattere i talebani.

Meno di un mese dopo la caduta di Kabul, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il primo ministro britannico Boris Johnson e il primo ministro australiano Scott Morrison hanno lanciato un partenariato di sicurezza trilaterale, chiamato AUKUS, per contrastare la Cina. Il patto AUKUS consentirà all’Australia di schierare sottomarini a propulsione nucleare, che dovrebbero essere costruiti ad Adelaide, rendendo Canberra il settimo paese al mondo ad avere sottomarini azionati da reattori nucleari. L’obiettivo principale di questo patto trilaterale è contenere la minaccia proveniente dalla maggiore influenza della Cina nell’Indo-Pacifico e dalle sue ambizioni mondiali. Non sorprende che la formazione di AUKUS si sia estesa a intensificate tensioni indo-pacifiche, in particolare su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale e sull’Oceano Indiano orientale.

A prima vista, sembra che gli sviluppi in Afghanistan e in Australia siano eventi non correlati. Uno centrato nelle montagne dell’Hindukush; l’altro echeggiava a 9.500 chilometri di distanza, in mezzo alle acque dell’Indo-Pacifico. Tuttavia, in un contesto più ampio, questi due eventi sono interconnessi al centro della competizione Cina-Stati Uniti, formando i reggilibri di una nuova strategia che chiamo “lascia la cintura, premi la strada”. Con questo, intendo dire che gli Stati Uniti prenderanno sempre più di mira la Via della Seta marittima cinese, abbandonando in gran parte la Cintura economica della Via della Seta terrestre. In poche parole, il principale fronte della guerra delle infrastrutture sino-americane è il confine indo-pacifico, mentre il cuore dell’Eurasia sarà lasciato alle forze destabilizzanti della regione.

L’istituzione di AUKUS riafferma il fatto che la pietra angolare della strategia di contenimento della Cina di Washington è posta nella zona indo-pacifica. Pertanto, l’attenzione degli Stati Uniti alle posizioni geografiche nel cuore dell’Eurasia sarà degradata, ma questo fa parte del piano. La mancanza di volontà o capacità degli Stati Uniti di mantenere la propria presenza in Eurasia potrebbe interrompere intenzionalmente la stabilità della Cintura generando un minaccioso vuoto di potere. Il rapido ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e il successivo potenziamento dei talebani hanno il potenziale per destabilizzare i progetti terrestri cinesi in Asia centrale, Pakistan e persino nello Xinjiang. Sebbene il caotico ritiro della guerra in Afghanistan abbia messo a dura prova la permanenza di Biden in patria, il vuoto geopolitico in Afghanistan in seguito al ritiro degli Stati Uniti potrebbe essere utilizzato per controbilanciare Mosca, Pechino,

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Nonostante gli sviluppi apparentemente improvvisi degli ultimi due mesi, questa tendenza nella competizione globale non è nuova. Dopo quasi dieci anni di pausa, il Dialogo quadrilatero sulla sicurezza, noto anche come Quad, è stato ufficialmente ripreso nell’agosto 2017 per contenere la proiezione della potenza marittima di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano. Fondato inizialmente nel 2007, il Quad è composto da Australia, India, Giappone e Stati Uniti, preannunciando la possibile formazione di una NATO asiatica per contrastare la Shanghai Cooperation Organization (SCO). Ci sono state persino voci su un “Quad Plus” quando la Corea del Sud, la Nuova Zelanda e il Vietnam si sono uniti agli incontri nel marzo 2020. Gli esercizi di Malabar ospitati ogni anno dall’India sono una delle principali manifestazioni della sua componente militare.

In una dichiarazione congiunta del 2021 su “The Spirit of the Quad”, i leader di Australia, India, Giappone e Stati Uniti hanno evidenziato “una visione condivisa per un Indo-Pacifico libero e aperto (FOIP)” e un “regole- ordine marittimo basato nei mari della Cina orientale e meridionale” per contrastare la minaccia marittima della Cina. Questo progresso è stato concomitante con l’attenzione sempre più strategica dell’UE verso la zona indo-pacifica, poiché Francia, Germania e Regno Unito hanno accelerato la loro cooperazione con il dialogo Quad Plus. In questo contesto, il patto AUKUS integrerebbe il Quad nel controbilanciare la crescente influenza della Cina nell’Indo-Pacifico.

Sebbene AUKUS e Quad mostrino entrambi potenza di fuoco muscolare e tecnologica militare, mancano di una proporzionalità fondamentale. La Belt and Road Initiative è la principale strategia geoeconomica di Pechino per sfidare l’egemonia statunitense in tutto il mondo, mentre Quad e AUKUS sono strumenti geostrategici e militari per contrastare la Cina nella zona indo-pacifica. In altre parole, c’è un divario strategico tra la forza minacciosa e la controforza deterrente. È stato questo divario di proporzionalità a spingere l’amministrazione Biden a lanciare una specifica controforza geoeconomica contro Belt and Road: Build Back Better World, o B3W, annunciato a giugno al vertice del G-7 in Cornovaglia, nel Regno Unito.

Guidata dagli Stati Uniti, B3W mira a contrastare la leva globale cinese attraverso massicci investimenti nello sviluppo infrastrutturale dei paesi in via di sviluppo entro il 2035. Il piano dovrebbe fornire circa 40 trilioni di dollari, principalmente dal settore privato, ai paesi a basso e medio reddito , dall’America Latina e dai Caraibi all’Africa e all’Asia. Guidati dagli standard e dai principi del Blue Dot Network (BDN), i progetti B3W promettono di concentrarsi su diversi domini, in particolare il clima, la salute e la sicurezza sanitaria, la tecnologia digitale e l’equità e l’uguaglianza di genere. La portata globale del B3W fornirebbe ai suoi partner del G-7 diversi orientamenti geografici per rivolgersi a specifici paesi a basso e medio reddito in tutto il mondo. Mentre gli Stati Uniti si concentrano sull’Indo-Pacifico, il Giappone e l’UE si concentreranno rispettivamente sul sud-est asiatico e sui Balcani,

L’imminente competizione tra B3W, ora sostenuta da Quad e AUKUS, e la BRI cinese è un preludio alla guerra delle infrastrutture tra Cina e Stati Uniti. Il B3W non è solo una risposta finanziaria degli Stati Uniti alle ambizioni economiche della Cina; piuttosto è uno sforzo strategico per trasformare il crescente assetto geopolitico della Grande Eurasia e delle sue acque costiere stabilendo un nuovo modello di sviluppo. In altre parole, gli Stati Uniti stanno scatenando una controforza geoeconomica contro la BRI cinese per raggiungere i suoi grandi obiettivi geopolitici mobilitando le sue aziende private e quelle dei suoi alleati in massicci investimenti infrastrutturali per controllare i corridoi BRI. La nuova guerra delle infrastrutture determinerà la traiettoria e il percorso della battaglia geopolitica tra Cina e Stati Uniti per il dominio del mondo nel 21° secolo.

Dall’altra parte dell’equazione del potere globale, la Cina ha controllato con successo i mercati dell’Asia centrale perseguendo la sua dottrina del “equilibrio positivo” tra tutte le parti dell’Asia occidentale, in cui l’espansione della cooperazione con Pechino potrebbe essere l’unico punto su cui tutte le potenze regionali possono concordare. La drammatica crescita economica e la stabilità interna della Cina hanno allettato sistemi politici non democratici nella regione. Pechino ha allo stesso tempo stabilito strette relazioni economiche con gli sceiccati del Golfo Persico, Israele, Iran e Turchia. Tuttavia, la politica di successo di Pechino nel cementare la sua connessione con l’Asia occidentale attraverso l’Asia centrale potrebbe essere interrotta dalle minacce provenienti dall’Afghanistan. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan destabilizzerà la cintura terrestre mentre la forte pressione del Quad e ora dell’AUKUS contrasterà la strada marittima.

Il mondo è sull’orlo della competizione internazionale Cina-USA. Gli sviluppi regionali, come AUKUS, e le trasformazioni interne, come l’acquisizione di Kabul da parte dei talebani, saranno entrambi elementi cruciali nel grande scacchiere tra Stati Uniti e Cina. Ora che la polvere si è calmata a Kabul, si può vedere come il crescente potere dei talebani sia concomitante con il patto trilaterale AUKUS. Entrambe sono pietre miliari per una nuova fase della competizione sino-americana: lasciare la Cintura, premere la Strada.

https://thediplomat.com/2021/09/what-aukus-and-afghanistan-tell-us-about-the-us-asia-strategy/

Henry Levavasseur, L’identità come fondamento della città. Riconciliare ethnos e polis, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Henry Levavasseur, L’identità come fondamento della città. Riconciliare ethnos e polis, Passaggio al bosco edizioni, 2021, € 10,00.

Questo saggio, chiaro e sintetico, si pone il problema di come conciliare ethnos e polis, ovvero in altri termini, ma di senso vicino, comunità e istituzione (politica).

Nella decadenza della modernità, cioè l’epoca in cui viviamo, ethnos e polis sono stati progressivamente separati: nel senso che si pensa possa costituirsi un’istituzione senza una certa omogeneità tra i cittadini. E tale omogeneità non è necessario che si fondi su dati concreti e reali.

L’autore cita a tale proposito, tra le tante, le interpretazioni moderne della celebre conferenza di Renan Cos’è una nazione? Il passo in cui Renan definisce la nazione come sintesi tra passato (possesso in comune di una quantità di ricordi, cose, rapporti, usi) e il presente (la volontà di vivere insieme ed avere un destino comune) è intesa pretendendo di ridimensionare e svalutare il passato, e attribuire alla volontà arbitraria (Tönnies) dei partecipanti la capacità di costruire un futuro comune tra persone prive di ogni passato comune. Un’esegesi che annichilisce totalmente ciò che nel pensiero di Renan era collegato necessariamente.

Alla volontà (arbitraria) e al diritto, inteso anch’esso riduttivamente (come atto volontario) dei consociati è rimessa la costituzione dell’ordine sociale o almeno della magna pars di esso, cioè la costituzione dell’istituzione. Così l’atto relativo è il risultato di una decisione comune degli associati, direttamente o per rappresentanza.

Il tutto non presuppone l’esistenza di una comunità: anche un’assemblea multietnica, multirazziale e multi religiosa potrebbe agevolmente trovare un modo d’esistenza comune e scriverlo su un pezzo di carta, sulla base della sola ragione. Una costituzione diventa così la sorella maggiore di un regolamento condominiale.

Ovviamente, nella realtà, non è così; anche le costituzioni frutto di un procedimento come quello descritto (come quasi tutte quelle moderne) sono poste in essere – e vengono bene – se espressione di una volontà comunitaria e di un ordine già – almeno in parte – esistente. Se non c’è in un gruppo politico almeno un certo tasso di omogeneità tra gli associati, l’impresa è destinata al fallimento.

Anche la storia recente l’ha provato. Oltre trent’anni fa, nella crisi (terminale) dell’URSS, Gorbaciov propose di stipulare (tra le repubbliche sovietiche) un nuovo trattato dell’unione (connotato da pluralismo e democrazia). L’impresa finì come tutti sappiamo: in gran parte perché era difficile tenere insieme repubbliche con maggioranza di cittadini cattolici o protestanti (come quelle baltiche) con altre a maggioranza cristiano ortodossa, o musulmana; peraltro tutte organizzanti popoli ed etnie diverse. In altra anche perché si può cercare di farlo, e molti imperi ci sono riusciti, ma a patto che il potere “federale” o meglio unificante non fosse democratico ma assoluto come quello zarista e, poi, comunista. Voler coniugare potere, disomogeneità e democrazia è un’impresa che non risulta riuscita nella storia.

Proprio questa refrattarietà al reale e al concreto è il principale connotato della modernità decadente. Scrive Levavasseur “questa situazione ricorda quella della fine del mondo sovietico, la cui ideologia marxista sembrava imporsi a tutti i popoli che controllava… sembrava che non ci fossero altri esiti possibili, se non quello del collettivismo, fino al giorno in cui il regime è crollato come un castello di carte, poiché la sua ideologia si basava su parole e concetti che non avevano più nulla a che fare con la realtà” e “La democrazia liberale potrebbe subire un giorno la stessa sorte, con la fondamentale differenza che la sua scomparsa provocherà un caos molto più consistente”. Distruggendo poi il passato comune, cancella l’ethos, che è fondamento dell’esistenza dell’ethnos. È necessario ricostruire il rapporto tra ethnos e polis, e così tra identità e sovranità “è più che mai necessario ritornare a una concezione dell’ordine politico che riconcilia nazione etnica (l’ethnos) e nazione civica (la polis)”.

In conclusione la concezione criticata della “democrazia liberale” – che a ben vedere è poco democrazia e anche poco liberale – rischia, assai più della caduta del comunismo, di far uscire non l’umanità, ma almeno i popoli europei dalla storia.

Teodoro Klitsche de la Grange

I confini dell’Europa, di Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è uno dei maggiori storici ed analisti europei, per altro sconosciuto in Italia. Uno dei pochissimi che già sul finire degli anni ’80 ha offerto una ricostruzione storica molto ben documentata della costruzione europea a partire dal punto di vista e dalla spinta determinante americana nel dopoguerra, ma già preparata sin dagli anni ’30. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Christophe Réveillard

Christophe Réveillard è laureato in Diritto Internazionale Pubblico, Dottorato in Storia, Membro dell’UMR Roland Mousnier (Scuola di Dottorato Moderna e Contemporanea Paris-Sorbonne Paris IV – Centre for European History and International Relations), Direttore del Seminario di Geopolitica, War School, Joint Defense College (CID), Scuola Militare, Revisore dei Conti del Center for Advanced Studies on Modern Africa and Asia (CHEAM – classe 1999), Research Engineer, European Professor-Jean Monnet

Più che in qualsiasi altro continente, il concetto di confine ha un’evidente rilevanza geopolitica in Europa. Tuttavia, è anche legato alla complessità derivante dalla storia del continente che plasma, all’interno dell’identità globale, identità particolari.

Poiché la geografia da sola non può essere sufficiente a determinare e fissare i limiti del continente, si pone la questione delle caratteristiche dell’identità collettiva europea come legittimazione o invalidazione dell’appartenenza di territori e società all’Europa. Questi sono i confini dell’appartenenza. Se le coste delimitano facilmente il nord, l’ovest e il sud dell’Europa, è nei confronti della zona orientale che l’elemento identitario e culturale, attraverso il prisma storico e politico, deve sovrapporsi agli apporti della geografia. Ovviamente, come i recenti Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, la delimitazione geografica copre la Bielorussia, la Moldova e l’Ucraina. La Russia è bicontinentale eurasiatica, ma ha una popolazione molto prevalentemente europea e soprattutto fissata ad ovest degli Urali, anche se il suo territorio è situato per il 75% in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali:“Raduno dagli Urali a Gibilterra, dalla Tracia alle Ebridi; e seguita dalle sue processioni di imperi, [l’Europa] avrebbe potuto sfidare il mondo” (Jules Romains, Les hommes de bon will ) e il generale de Gaulle con l’obiettivo di “creare la solidarietà europea dall’Atlantico agli Urali” , ma anticipando che “l’URSS non è più quello che è, ma la Russia” . Gli Urali manifestano una scelta di europeizzazione senza fissare un termine politico, poiché Mosca conserva la scelta di proiettarsi anche sulle sue periferie orientali ( Michel Foucher ).

Dove finisce l’Europa?

La questione si pone quindi più particolarmente in primo luogo per il Caucaso meridionale, la Transcaucasia o quella che fu chiamata un tempo Asia occidentale comprendente gli Stati di Armenia, Georgia e Azerbaigian; sorge anche per l’Asia Minore o l’Anatolia, la Turchia per la maggior parte.

Il Caucaso è stato a lungo considerato l’asse di separazione tra l’Europa a nord e l’Asia a sud, ma il suo cuore georgiano e armeno beneficia del contributo di analisi storiche e politiche al servizio della profonda comprensione delle caratteristiche identitarie e culturali, per il riconoscimento europeo e respingere al fiume Araxe il vero limite con l’Oriente turco, la Persia e le sponde occidentali del Mar Caspio. La porzione di confine turco nel continente europeo è la Tracia orientale, confine politico che rappresenta meno del 3% della superficie totale del territorio turco schierato quasi esclusivamente nell’Asia anatolica. Ciò che la geografia suggerisce facilmente da questo rapporto totalmente squilibrato tra Europa e Asia è confermato dalla rigorosa linea di demarcazione tra i due continenti rappresentati dal Mar di Marmara. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa fondate sul loro retroterra religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali.

Il continente frammentato

Se Michel Foucher evoca i “frammenti d’Europa” è in particolare perché il continente ha vissuto una moltiplicazione dei suoi confini interni secondo un processo continuo e accelerato dalle crisi; inoltre, “più di ogni altro, l’Europa è il continente dei confini”  (Yves Gervaise). La creazione e poi la generalizzazione del concetto di stato-nazione è la causa principale di un periodo inaugurato a distanza dal Trattato di Westfalia.(1648), ma la cui vera portata si fonde con l’ideologia del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorita dal crollo dei maggiori gruppi politici storici. La scomparsa degli imperi russo, ottomano, austro-ungarico e tedesco è il risultato di un conflitto che ha visto il suo completamento la creazione di nuovi stati, in particolare Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, i tre Stati baltici, la nuova Polonia e Jugoslavia nonché il mantenimento di rivendicazioni di indipendenza da altre minoranze nazionali o il loro manifestarsi per contestare le disposizioni dei Trattati di Versailles (anche Saint-Germain, Trianon, Sèvres). Nuovo conflitto, nuovo sconvolgimento dei confini interni del continente europeo: la sovietizzazione, poi chiamata “sovranità limitata”dell’Europa centrale e orientale e di parte dei Balcani, la divisione della Germania e il recupero dei paesi baltici da parte dell’URSS. La Guerra Fredda (1947-1991) ha rappresentato un periodo di glaciazione geopolitica per l’Europa continentale durante il quale non si sono verificati notevoli cambiamenti di confine nello spazio continentale.

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Poi, improvvisamente, la caduta del comunismo ha provocato una riconfigurazione dello spazio europeo, degli Stati e dei loro rispettivi confini, secondo schemi derivanti dalla storia o in un inedito quadro essenzialmente orientale. La caduta dell’impero sovietico rende la loro rilevanza politica ai confini delle regioni sotto il giogo comunista, consente la riunificazione della Germania, ma mantiene l’enclave di Kaliningrad o Koenisberg. Più tardi, la Cecoslovacchia si divise in due entità e la Germania causò la disgregazione della Jugoslavia. In totale, è stata la comparsa di una quindicina di nuovi stati al suo interno e il numero di diadi corrispondenti, a cui l’Europa continentale ha assistito senza contare gli stati di fatto e contesi, come, ad esempio, Kosovo. , Cipro del Nord, Transnistria,Repubbliche Lugansk e Donetsk , Nagorno-Karabakh, Abkhazia, Ossezia del Sud, quasi cinquanta Stati di fatto o e de jure. Va precisato che l’Unione Europea a 27, quindi, non copre, tutt’altro, l’intero territorio europeo. La principale particolarità di questa frammentazione europea, e ciò che tendiamo a dimenticare troppo, è che queste delimitazioni politiche dei confini europei sono il risultato di crisi, insediamenti postbellici e lotte di potere. Un certo numero di questi confini non sono ancora stati accettati dai popoli e portano, in tutte le loro possibili varianti, a reazioni, sia contro l’isolamento politico serbo e per l’accesso alle coste dell’Adriatico, sia per la non adeguatezza del confini politici dell’Ungheria con le popolazioni magiare per citare solo questi due esempi. Sottolineando il posto unico dell’Europa nel mondo,“89 diadi o il 28  % del totale mondiale per il 23% del numero degli stati, l’8% della popolazione e il 3% della superficie. In totale, il continente europeo è aumentato di 26.000 km dagli anni ’90. Da questo punto di vista, l’Europa è il più nuovo dei continenti”.

Il caso dell’Unione Europea

La particolarità del rapporto dell’UE con la frontiera è che “  qualsiasi riflessione che voglia fissare definitivamente i limiti dell’Unione è in contraddizione con il processo di costruzione europea che, dal 1950, è una “creazione continua”” (Pascal Fontaine) . Deriva dal processo di integrazione sul tema delle frontiere sia interne che esterne dell’UE, la cancellazione del quadro territoriale e il disuso della linea di confine a favore del concetto di grande mercato interno, l’allargamento di uno spazio deterritorializzato gestito da istituzioni integrate e da una nuova identità plurale garantita dalla cittadinanza europea da un lato, e dalla moltiplicazione dei partenariati, della politica di vicinato e della gestione dei candidati, dall’altro.

I cambiamenti geopolitici degli anni ’90 hanno portato all’adesione 2004-2007-2013 all’Unione Europea e hanno raddoppiato il numero dei suoi chilometri di frontiere esterne e diadi. Oggi l’UE condivide più di 14.500 km di confini terrestri con 21 Stati. Confini di fattofurono anche erette come quelle che delimitano la Transnistria, il Kosovo, ecc. Ci sono anche casi particolari come l’isolamento di territori non membri dell’UE nel suo spazio territoriale, come Svizzera, Liechtenstein, Kaliningrad (Russia) e i piccoli stati, Andorra, Monaco, San Marino e lo Stato del Vaticano. Anche gli Stati balcanici extra UE possono essere considerati privi di sbocco sul mare a causa del loro accerchiamento in un asse nord-ovest-sud-est, da Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia, e ad ovest con la chiusura costiera dal mare Adriatico. Esiste una situazione geografica inversa con l’area senza sbocco sul mare spagnola di Ceuta e Melilla (16 km) al centro del territorio marocchino dall’indipendenza di quest’ultimo nel 1956, nonché la vicinanza dell’arcipelago delle Isole Canarie L’ondata di adesioni del 1995, Austria, Finlandia, Svezia, ha dato un confine di 1.300 km con la Russia, ampliato di ulteriori 1.000 km con l’adesione, nove anni dopo, della Polonia (Kaliningrad), della Lituania, dell’Estonia e della Lettonia. È con l’adesione della Bulgaria nel 2007 che la Turchia (446 km) può ormai condividere un confine con l’UE sulla rotta che era stata fissata nel 1923 dal Trattato di Losanna. Un altro caso particolare è l’uscita del Regno Unito dall’UE: quest’ultima perde i suoi 244.820 km 2di superficie e i vantaggi del dispositivo geopolitico globale offerto fino ad allora dalla presenza di Londra al suo interno. I negoziatori europei credevano di poter imporre, giocando sulla rete di sicurezza nordirlandese e nonostante la manifesta volontà popolare del Regno Unito per la Brexit, le regole di un’unione doganale con l’UE separando di fatto Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Tuttavia, questo per dimenticare che la prima ragione del desiderio britannico di lasciare l’UE era il suo rifiuto del suo sistema di integrazione normativa e giudiziaria. Non va inoltre trascurato l’impatto sulla Brexit della presenza di oltre 3 milioni di stranieri europei nel Regno Unito. Ovviamente l’uscita britannica riguarda anche tutte le regioni ultraperiferiche del Regno Unito e in particolare Gibilterra.

All’interno dei meccanismi annessi alle frontiere esterne, i collegamenti tra l’Unione Europea e il continente sono realizzati sulla scala, in parte, dei Balcani occidentali; per l’altra parte dell’Europa orientale nell’ambito del partenariato orientale: Ucraina, Moldova, Bielorussia e Caucaso meridionale. Le articolazioni tra l’UE ei suoi margini esistono con la Turchia, la Russia, gli Stati del Maghreb e del Medio Oriente e l’arco di crisi mediorientale. L’UE ha svolto nella sua politica di vicinato alternativamente la ricerca realistica di poli di stabilità e l’avvio di grandi politiche di stretti accordi di associazione al servizio di una visione atlantica propositiva, soprattutto con il vicinato orientale,

È così che si conferma, su una base identitaria comune, la grandissima diversità delle caratteristiche che definiscono i territori all’interno della delimitazione dei confini dell’Europa continentale. Questa varietà europea ha radici profonde, in particolare mitiche, spirituali e culturali. Nulla può, però, garantirne la sostenibilità in modo assoluto rispetto alle diverse sfide e minacce che si sono recentemente accumulate al suo interno, senza un periodico richiamo ai limiti che ne costituiscono il quadro.

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DAL MONDO DI IERI AL MONDO DI OGGI, di Pierluigi Fagan

DAL MONDO DI IERI AL MONDO DI OGGI (Aggiornamenti geopolitici) Come saprete, è stato varato l’AUKUS che sancisce una più stretta alleanza militare tra Australia-UK-USA ed i francesi se la sono presa non poco. Primo perché hanno perso una precedente commessa miliardaria concordata con gli australiani, secondo perché non sono stati ritenuti partner per la nuova avventura occidentalista in quel del Pacifico / orlo asiatico dove pure hanno trascorsi coloniali, terzo perché non sono stati neanche avvertiti per tempo e l’hanno appreso poco prima delle comunicazioni ufficiali. Ne è conseguito il ritiro degli ambasciatori per consultazioni. La faccenda, ma più in generale il “momento” ha molti aspetti da commentare.
Il primo aspetto è il riconfermarsi della svolta realista della dottrina estera degli USA. L’impostazione del programma di politica estera di Trump, si vociferava esser stato benedetto da Kissinger, il principe dei realisti americani per lungo tempo in ritirata dato il dominio delle impostazioni dette “liberali” ma sarebbe più simmetrico dire “idealiste” in politica delle Relazioni internazionali. In sostanza, l’impostazione realista leggeva praticamente quasi più nessun interesse per l’Europa, una partecipazione affettuosa agli interessi di Israele ed Arabia Saudita in Medio Oriente ma non più di tanto, un sostanziale agnosticismo verso la Russia. Tutta l’attenzione quindi, andava puntata sull’Asia, l’hot spot del mondo oggi e sempre più nei prossimi decenni e dentro questo frame, la messa a fuoco di varie strategia competitive e di contenimento, se non peggio, verso il vero main competitor degli USA: la Cina. Per effetto dei vari vestiti valoriali coi quali s’incarta la strategia, molti non hanno percepito questo ri-orientamento che invero risale al “Pivot to Asia” di Obama-Clinton del 2012. Con qualche variante ovvero ancor meno interesse verso il Medio Oriente e meno agnosticismo verso la Russia anche se non è chiaro, al momento, in favore di cos’altro, portando a conseguenza l’asse strategico col ritiro dall’Afghanistan che sì sta in Asia ma non la parte di Asia che interessa Washington, la nuova amministrazione Biden sembra sviluppare la stessa strategia. Del resto, chiunque dotato di intelligenza strategica ed al netto delle diverse inclinazioni ideologiche, al posto di un presidente americano, avrebbe pensato e poi fatto, più o meno, la stessa cosa. Biden all’inizio ha buttato lì la versione liberale della strategia con l’alleanza delle democrazie contro la Cina, un consiglio di qualche esperto di think tank ma non così esperto e con i piedi per terra, ora pare sia passato al “io vado chi vuole mi segue, poi facciamo i conti”.
Il secondo aspetto che discende dal primo è il definitivo spostamento deciso dell’asse di attenzione e competizione geopolitica verso l’Asia-Pacifico. Ne consegue il “senso di abbandono” provato sia nel Medio Oriente che in Europa. Segnalo che in Medio Oriente, vanno avanti da tempo tessiture che hanno portato a ricomporre la frattura tra i tre fratelli-coltelli delle famiglie regnanti di Arabia Saudita, EAU e Qatar, il che dovrebbe portare anche ad abbassare le antipatie reciproche tra Egitto e Turchia. Ma queste tessiture riguardano anche l’annosa inimicizia tra Arabia Saudita ed Iran, un gran lavoro diplomatico che va avanti da mesi e che è sfociato in un meeting tenuto a Baghdad ad agosto dove per la prima volta erano presenti Egitto, Kuwait, EAU, Giordania, il ministro degli esteri della Turchia mentre quello dell’Iran ha incontrato i suoi omologhi del Kuwait ed EAU. Ufficialmente non ci sarebbero stato incontri diretti AS-Iran, ma molti pensano di sì anche perché, come detto, i due si parlano da tempo a riparo da orecchie indiscrete.
Bene, a quel meeting era presente anche Macron. A riguardo ci si potrebbe domandare se Macron fosse lì in missione delegata anche dagli USA o fosse lì di propria iniziativa. Questo secondo caso direbbe che non solo gli USA, ma anche la Francia ha una sua autonoma agenda geopolitica. In questo caso la faccenda dei sottomarini australiani sarebbe solo una nuova puntata di un “liberi tutti” di tono multipolare, in cui partner prima tra loro in cordata, cominciano a giocare ognuno la propria partita. In questo caso, chissà se la vecchia commessa Iran-Total concordata dopo l’accordo sul nucleare iraniano firmato ai tempi di Obama e poi saltato (come saltarono accordi anche con l’ENI) con la non ratifica da parte di Trump, potrebbe tornare d’attualità, cosa più irriterebbe gli americani dopo che questi hanno irritato Parigi?
Oltre a varie ragioni geopolitiche, segnalo due ragioni per questi tentativi di pax-islamica. La prima è che il Covid ha messo in ginocchio più o meno tutti dal punto di vista economico, ma alcuni più di altri. Ovvio cerchino tutti di riprendersi, nessuno è tanto più forte degli altri da potersi permettere di approfittare della debolezza generale, quindi tutti sono obbligati a sospendere le varie competizioni per curarsi dalla ferite pandemiche. La seconda è che c’è una poco nota, veramente drammatica, crisi idrica. L’Eufrate ha perso quasi metà della sua portanza. Ben tredici organizzazioni umanitarie collegate all’ONU segnalano che 5 milioni di siriani e nove milioni di iracheni sono a rischio avanzato di “catastrofe umanitaria”. Ma altri dicono che oltre a siccità e crollo delle precipitazioni dovute al cambiamento climatico che solo qualche coglione prezzolato seguito da sciami di coglioni decerebrati continuano a negare su Internet, c’è anche una responsabilità turca che ha dighe a monte del corso del fiume. A volte le crisi sono benefiche, poiché crisi viene dal greco κρίσις che voleva dire “scelta, decisione” chissà che tipi di decisioni queste crisi congiunte porteranno a prendere i rissosi stati musulmani della regione. E chissà che ruolo di mediazione occuperà la Francia. E chissà cosa ne pensa Biden.
Il terzo aspetto riguarda l’Europa. Tutto ciò che oggi notiamo nella strategia USA era da tempo previsto, io ne scrissi su un libro quattro anni fa e non perché sia veggente, ma perché se si fanno analisi e non commento polemico nelle guerre tra immagini di mondo, il dato di fatto di una divergenza di interesse e di interessi tra USA ed Europa, emergeva chiaro e semplice. All’Europa occidentale piacerebbe fare affari con la Russia, ma a quella orientale ed in definitiva anche agli USA no. All’Europa tutta piacerebbe fare affari con la Cina ma agli USA no. La NATO è a corto di ragioni strategiche come tutte le cose nate settanta anni fa in altri tempi, in altro mondo. Gli USA non hanno più la potenza di spesa del passato ed il tavolo della roulette si è ampliato, tocca decidere dove porre le fiches, tocca “scegliere”. Gli USA essendo uno Stato possono riorientare la propria strategia e declinarne le tattiche, l’Europa no perché non è uno Stato ma una congerie di Stati, staterelli, burocrazie, geo-storie, culture ed economie diverse e storicamente tra loro diffidenti ed in competizione. Quindi gli USA possono ignorare la NATO e dedicarsi a costruire la propria rete di alleanze nel Pacifico, dopo l’AUKUS, venerdì prossimo, dovrebbe tenersi il vertice QUAD con USA-Australia-Giappone-India e vedremo quanta volontà di attrito mostreranno giapponesi per altro in crisi di governo e l’India di Modi a pezzi dal punto di vista economico per via del Covid su cui ha sparato cifre di contagi e morti di pura fantasia (la più “grande democrazia” del mondo, vabbe’ …). Agli europei, invece, una NATO sgonfiata, pone problemi insormontabili, perché gli “europei” non sono “uno” Stato, né mai lo saranno perché non è possibile sotto tutti i possibili punti di vista conduciate l’analisi, a meno di non sostituire la razionalità analitica con la fantasia delirante. Ne seguono varie cose che qui non possiamo approfondire, come il piano di Difesa europea, il mitico ed impossibile esercito europeo, la forza militare di pronto intervento su base 6000 uomini delle tre armi che però serve a poco, l’industria militare, la totale assenza di competitività sulle nuove tecnologie, la stessa dipendenza dai chip di altri e tanto altro, veri e propri drammi irrisolvibili come il riarmo tedesco, il problema nucleare che ha risolto la sola Francia, il seggio al Consiglio di Sicurezza, il con quali soldi finanzi la spesa militare dentro cornici di bilancio unioniste stabilite ai primi anni ’90 quando si credeva che la storia fosse finita ed il mondo diventava un unico mercato etc. etc. .
Simpatica (e sintomatica) l’iniziativa britannica di cancellare l’uso delle metriche di peso e misura europee in favore del proprio sistema imperiale, definire il proprio “numero-peso-misura” è un classico dell’atto di piena sovranità. E dire che appena qualche anno fa stavamo tutti in paranoia per il Grande Governo Mondiale Unificato! Nulla descrive meglio il cambiamento storico del cambiamento del contenuto paranoide.
Un quarto aspetto riguarderebbe la Cina. Cina che dopo aver creato il RCEP ha chiesto formalmente venerdì di entrare nel CP-TTP. Cosa significhino queste sigle e cosa significhi questa richiesta e come andrà a finire se cioè verrà accettata o meno (verrà accettata) non c’è spazio qui per approfondire. Diremo solo che gli interessi economici intra-asiatici vanno da una parte, quelli di difesa e militari potranno anche andare da un’altra, questa non è una contraddizione, è pura logica da sistema multipolare. Con simpatica sincronia, tra giovedì e venerdì si è tenuto anche il 21° incontro della SCO (Russia-India-Cina-Pakistan-quattro repubbliche centro asiatiche, Bielorussia ed Armenia osservatori ed Afghanistan invitato speciale). Ma senza che ovviamente qui nessuno ne sapesse niente, è stata anche ratificata ufficialmente la cooptazione dell’Iran, cosina non proprio da poco. Ma c’è stato anche un incontro CSTO, un’alleanza militare con al centro la Russia e di corona i centro-asiatici che avrebbero dovuto ratificare l’istituzione di una armata comune di impiego ed azione rapida, un po’ come stanno discutendo gli europei. I sistemi asiatici si stanno organizzando per digerire il buco afgano in qualche modo e non solo questo.
Si noti la sincronia tra riunione SCO con cooptazione Iran, la domanda ufficiale cinese di adesione al CP-TPP e l’annuncio AUKUS prima del prossimo QUAD.
Insomma, le cronache multipolari come vedete sono in pieno sviluppo e non sono facili da raccontare e spiegare, si sta creando una matassa complessa ed i più, anche a livello di analisti, fanno fatica stargli appresso e capirne i sottostanti, quindi gli sviluppi. Meno male che ci sono i social in cui il primo che passa può raccontare la sua mirabolante versione del Risiko planetario, come abbiamo visto nella “settimana del commento” a seguito della sensibilizzazione ai fatti afghani, fiumi di parole che hanno aiutato a capire praticamente nulla di ciò che è successo, del perché e di ciò che succederà. Ma tanto è flusso eracliteo, tutto scorre, qualcuno affoga, altri fanno il loro distratto bagnetto d’attenzione, poi la vita normale tra nazisti del green pass ed evasori vaccinali, riprende la sua giusta, centrale, ribalta. Fino a quando quello che accade nel mondo “grande e terribile” non ci ribalterà tutti, vaccinati e non.
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