INTERVISTA A THOMAS HOBBES, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A THOMAS HOBBES

La riduzione del numero di parlamentari in uno Stato che non ha tendenza ad autoridursi, ha suscitato un dibattito caratterizzato da svariate posizioni, ad onta del voto parlamentare pressochè unanime. Abbiamo provato a chiedere un’opinione a Thomas Hobbes, che della rappresentanza politica è stato uno dei maggiori (e primi) teorici.

Che ne pensa della riduzione del numero dei parlamentari?

Come ho sempre sostenuto le forme di Stato si distinguono se il sovrano è uno, pochi o tutti, cioè col numero di coloro che prendono le decisioni più importanti. Penso che la migliore sia la monarchia, ma comunque che la vostra oligarchia sia esercitata da qualche centinaio di rappresentanti in meno, fa poca differenza.

E perché?

La scelta tra le forme di governo consiste più che nella differenza di potere, in quella di convenienza o attitudine a produrre la pace e la sicurezza del popolo, pel quale fine esse sono state istituite. Che siano più o meno coloro che comandano, ai sudditi interessano più i limiti entro cui devono ubbidire e quello che i governanti possono pretendere che il numero di questi.

Ma anche il numero lei considerava un tempo rilevante

Si, e sempre a favore della monarchia. In primo luogo perché ogni governante tende a favorire i seguaci. Ma mentre i favoriti di un monarca sono pochi, e non hanno altri da avvantaggiare che la propria parentela, i favoriti di un’assemblea sono molti, e quindi la parentela e l’aiutantato molto più numerosi che quella di un monarca. Perciò se riducete il numero dei rappresentanti dovreste risparmiare qualcosa, comunque molto di più degli stipendi, almeno se non ne aumentano gli appetiti. Ma finché chi comanda spende e chi obbedisce paga il problema sussisterà.

Cosa considera più importante del numero dei rappresentanti?

Quasi tutto. Ma, in primo luogo che siano prese delle decisioni congrue, durevoli e prevedibili. Un’assemblea è più incostante e quindi imprevedibile e, di conseguenza, spesso ne prende di incongrue: nelle assemblee, sorge un’incostanza dovuta al numero, poiché l’assenza di pochi, i quali, presa una volta una risoluzione, sarebbero fermi a mantenerla – il che può avvenire per sicurezza, negligenza o impedimenti privati – oppure la presenza diligente di pochi di opinione contraria distrugge oggi, quello che ieri fu concluso.

Proprio un paio di mesi fa, ne avete fornito altro esempio, così confermando quanto scrivevo, col cambiare governo e politica.

E cosa conta più della quantità dei rappresentanti?

Uno dei difetti delle assemblee è che spesso sanno poco o nulla degli affari, e in particolare di quelli dello Stato. Cercate di migliorare la qualità dei rappresentanti: è meglio che ridurne la quantità. Vero è che quando siete stati governati dai “tecnici”, sedicenti esperti, questi hanno fatto peggio dei governanti meno titolati. Ma perché quelli erano (forse) esperti di astronomia, letteratura, arte, ma digiuni di politica e governo dello Stato.

Cosa pensa della ventilate nuove riforme costituzionali, di cui questa sarebbe la prima?

Da quel che sento, non hanno capito bene. Vogliono istituire il vincolo di mandato. Ma un rappresentante politico è tale perché rappresenta l’unità e la totalità del popolo, e non può essere vincolato da qualcuno, anche il suo capo-fazione, com’è nelle intenzioni dei riformatori; ma neppure dall’ultimo degli elettori.

E quanto al resto?

L’unica cosa chiara e interpretabile con categorie politiche è che desiderano evitare o rendere più difficili, le decisioni politiche. Non si tratta tanto e solo di impedire che decidano coloro che godono della fiducia della maggioranza dei cittadini, ma d’impedire qualsiasi deliberazione, sia contraria alle proprie idee ed interessi, che, in genere, avente un notevole rilievo ed effetto politico, Quando parlano di “freni e contrappesi” non bisogna pensare a Montesquieu ma al Sejm polacco, dove il liberum veto portò  alla distruzione dello Stato. Il cui ridimensionamento radicale è proprio l’obiettivo del potere globale.

In definitiva cosa può consigliare agli italiani?

Di tenere sempre davanti agli occhi quello che è l’essenza della politica e dell’obbligazione politica: la mutua relazione tra protezione ed obbedienza.

Ha il diritto all’obbedienza chi assicura protezione ; non lo ha chi non può o non vuole darla, anche se per i motivi più nobili. Come il Paradiso, (un tempo) o oggi molto più terreni, che invocano in continuazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

IL BASTONE AMERICANO E Il “VENTRE MOLLE” DELL’OCCIDENTE, di Fabio Falchi

IL BASTONE AMERICANO E IL “VENTRE MOLLE” DELL’OCCIDENTE

È opinione diffusa tra coloro che (giustamente) criticano la politica di pre-potenza degli Stati Uniti che sarebbe giunto finalmente il momento non solo per l’Italia ma per l’UE di ribellarsi agli USA, perché la politica americana dei dazi e delle sanzioni arbitrarie non colpisce solo l’Italia ma tutta l’Europa. In realtà, è la guerra commerciale degli USA contro l’UE e in particolare contro la Germania che colpisce pure l’Italia. Comunque sia, pensare che ci si debba schierare con la Germania o dalla parte dell’UE per smarcarsi dagli USA significa interpretare i rapporti tra gli USA e l’UE in modo semplicistico e fuorviante.
Invero, la stessa supremazia economica della Germania in Europa (e in generale dell’Europa del Nord rispetto ai Paesi europei dell’area mediterranea) non sarebbe possibile senza l’egemonia (geo)politica degli USA sul Vecchio Continente, giacché gli interessi economici della UE di fatto sono garantiti, sotto il profilo geopolitico e militare, proprio dalla NATO, cioè dagli USA, tanto che se l’UE (che non è né uno Stato federale europeo né una Confederazione europea) dovesse smarcarsi dall’America, rischierebbe di precipitare in un caos geopolitico che non potrebbe non avere conseguenze disastrose per l’Europa.
In sostanza, l’UE, se si sganciasse dagli USA, per non sfasciarsi dovrebbe mutare l’intera sua struttura politica ed economica, per trasformarsi in un vero “soggetto” (geo)politico, rinunciando di conseguenza ad essere una unione competitiva europea, con tutto ciò che ne deriverebbe riguardo ai rapporti tra i diversi Paesi della UE.
Non a caso è sulla debolezza geopolitica e militare della UE che cerca di far leva l’America di Trump, che non è più disposta a subire la concorrenza europea (e soprattutto l’enorme surplus commerciale della Germania) a scapito della bilancia commerciale americana. Difatti, l’amministrazione di Trump rappresenta gli interessi non tanto della middle class cosmopolita americana quanto piuttosto quelli dei ceti medi americani che più sono stati penalizzati dalla crisi economica di questi ultimi anni, ovverosia Trump concepisce la politica di pre-potenza americana in funzione degli interessi della nazione americana più che in funzione della élite cosmopolita neoliberale, e dato che la UE è sì una potenza economico-commerciale ma anche un nano (geo)politico e militare è evidente che l’America di Trump sia convinta di potere vincere la partita contro la Germania o qualunque altro Paese europeo.
Certo, in teoria l’UE “a trazione” franco-tedesca (ma di fatto soprattutto “a trazione” tedesca) potrebbe allearsi con la Russia per cercare di smarcarsi dagli USA, ma chiaramente (perlomeno in questa fase storica) un simile mutamento di rotta geopolitica è pressoché impossibile. Del resto, i gruppi (sub)dominanti europei condividono la stessa ideologia neoliberale e “politicamente corretta” che caratterizza i gruppi (sub)dominanti americani che si oppongono a Trump, né si deve dimenticare che sia in America che in Europa (Italia compresa) gran parte della ricchezza si è concentrata nelle mani di circa il 10% della popolazione, ragion per cui per i gruppi (sub)dominanti occidentali è necessario difendere comunque il sistema (geo)politico ed economico euro-atlantista per opporsi non solo ai nuovi centri di potenza anti-egemonici (Russia, Cina, ecc.) ma anche alle classi sociali subalterne occidentali (che ormai comprendono la maggior parte dei ceti medi).
Vale a dire che (euro)atlantismo e neoliberalismo simul stabunt simul cadent, di modo che, anche se sotto il profilo  economico l’America e l’UE (e in specie la Germania) possono avere obiettivi diversi e perfino opposti, è ovvio che sia i “dem” che gli “eurocrati” considerino estremamente pericolosa la politica di Trump, che (benché  si tratti di una politica che non è esente da notevoli “oscillazioni” e contraddizioni, poiché neppure Trump non può non tener conto degli interessi del deep State statunitense) sembra ignorare il nesso strettissimo che unisce (euro)atlantismo e neoliberalismo, privilegiando invece una prospettiva populista e nazionalista, che rischia di danneggiare gli interessi politici ed economici delle élites cosmopolite neoliberali.
Sia Trump che i populisti europei costituiscono pertanto una minaccia che i gruppi (sub)dominanti neoliberali devono assolutamente eliminare, anche se paradossalmente i populisti (americani ed europei), tranne qualche eccezione, condividono gli stessi principi politici ed economici dei neoliberali.
D’altronde, non è un segreto che la strategia della oligarchia neoliberale mira a promuovere la colonizzazione di qualsiasi sfera sociale e personale da parte del mercato capitalistico e perfino una immigrazione irregolare di massa, nonostante la difficoltà di integrare buona parte dei cosiddetti “migranti economici” (da non confondere con i profughi che sono solo una piccola parte dei “migranti”). Al riguardo è significativo che non vi sia nemmeno una agenzia europea per l’immigrazione in Europa di cittadini extracomunitari che abbiano i requisiti necessari per inserirsi rapidamente nel sistema produttivo, mentre il flusso dei “migranti” che provengono dall’Africa viene gestito da organizzazioni criminali (a conferma, come ben sapeva Thomas Sankara, che coloro che sfruttano l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa).
In effetti, tanto più si indeboliscono il legame comunitario e il “senso di appartenenza”, che caratterizzano gli Stati nazionali, tanto più è difficile che emergano delle “contro-élites” capaci di sfruttare l’attuale crisi (non solo economica ma anche di legittimazione) per opporsi al sistema neoliberale (ovviamente secondo una prospettiva politico-culturale nettamente diversa da quella che contraddistingue il neofascismo).
Tuttavia, non è impossibile che da una “costola” del populismo (che peraltro è l’effetto della crisi di un sistema che non sa più risolvere i problemi che esso stesso genera) possa nascere una forza politica in grado di mettere fine alla pre-potenza delle élites neoliberali. In altri termini, parafrasando Carl Schmitt, non si può escludere che si veda solo insensato disordine (anche e soprattutto “mentale”) dove invece un nuovo senso può essere già in lotta per il suo ordinamento. Di questo però sono consapevoli anche gli strateghi del grande capitale (anche se non necessariamente i politici o gli intellettuali neoliberali), dato che difficilmente possono ignorare che l’indipendenza dell’Europa presuppone la sconfitta dell’oligarchia neoliberale.

L’Europa dei pirati fiscali, di Giuseppe Masala

Cementir e Mediaset spostano la sede legale in Olanda. Ormai le aziende fanno parte a pieno titolo del fenomeno migratorio_Giuseppe Germinario

L’Europa dei pirati fiscali

La transumanza di aziende che dall’Italia spostano la sede legale nei cosiddetti paradisi fiscali europei (Lussemburgo, Olanda e Irlanda) continua. Le ultime due ad aver annunciato l’operazione sono state la Cementir e la Mediaset. Dal punto di vista legale si tratta, naturalmente, di operazioni perfettamente lecite sulla quali nessuno può dire nulla. Ma dal punto di vista etico magari qualcosa ci sarebbe da ridire. La Cementir produce cemento in Italia, e questo significa che sventra mortagne per prendere l’argilla, il gesso e il calcare necessari alla sua produzione. Questo significa che il danno ambientale e paesaggistico viene fatto in Italia. Così come sulle casse del Pubblico Erario italiano vanno a gravare tutti i suoi dipendenti che dopo tanti anni di lavoro si prendono la silicosi a furia di respirare le polveri della lavorazione. Medesimo discorso vale per Mediaset che per decenni ha pagato allo stato italiano cifre irrisorie per la concessione delle frequenze che hanno permesso all’azienda di macinare profitti miliardari. Un discorso legato alla responsabilità sociale delle attività produttive imporrebbe immediatamente la decuplicazione delle cifre che queste aziende corrispondono per lo sfruttamento di un bene pubblico come è il sottosuolo (Cementir) e l’etere (Mediaset), visto che ora sono aziende “straniere”. Non è assolutamente accettabile che le aziende trasferiscano la sede legale con un mancato gettito per quello stato che le ha arricchite.

Dall’altro lato, rimane sempre la critica verso gli stati pirata che fanno dumping fiscale all’interno dell’Unione Europea danneggiando altri stati che – a parole – vengono magari chiamati fratelli in un tripudio di tromboni di retorica europea.

Oggettivamente non ci si può far prendere per il sedere a questi livelli.

riscaldamento artificioso, di Paolo di Remigio

Prestininzi: «I dati ufficiali, condivisi, dicono che dal 1800 circa la temperatura sulla terra ha subito un aumento di 0,9 gradi circa. La data alla quale si fa riferimento è poco significativa: è stata assunta perché al 1800 circa si attribuisce l’inizio delle attività industriali, con immissione di CO2 antropica. In effetti, la temperatura sul pianeta ha iniziato la propria risalita a partire dal 1700 d.C., quando è stato registrato il minimo di temperatura di quella che è stata definita “la piccola era glaciale”, il cui inizio è individuato intorno al 1400 d.C.. Questo indica che il sistema naturale climatico si trova oggi in una fase “calda” che, tuttavia, si attesta ancora su valori inferiori a quelli della fase calda medievale del 1200 d.C. circa, quando si trovava a +1,5; +1,7 rispetto al minimo del 1700 d.C.. Dal 2000 ad oggi, salvo un picco del 2017 dovuto al “Niño”, la temperatura sulla terra è rimasta pressoché costante, anzi è diminuita di circa 0,1 gradi. In ogni caso, la storia della terra, e in particolare quella degli ultimi 4.000 anni, ci dice che le difficoltà maggiori le società le hanno subite nei periodi freddi, con carestie e contrazione demografica. Viceversa, sono i periodi caldi che hanno portato ricchezza e crescita demografica, come ad esempio, la massima espansione dell’Impero Romano.»

Se ben capisco, nel 1200, il secolo di massima fioritura della civiltà medievale, le temperature erano più elevate delle attuali; con il raffreddamento inizia il catastrofico 1300, quello in cui dopo una sequenza di carestie ed epidemie si verificò la grande peste che in pochi anni cancellò dall’Europa un terzo dei suoi abitanti. Interessante l’osservazione che la data di riferimento dell’aumento della temperatura globale è preso non sulla base del ciclo NATURALE di riscaldamento e raffreddamento del pianeta, ma sulla base dell’inizio dell’industrializzazione: un modo per pregiudicare l’osservazione dei dati così da imputare interamente all’uomo ciò che almeno in parte è del tutto naturale.

La memoria storica è un problema di influenza, traduzione di Giuseppe Germinario

La memoria storica è un problema di influenza


La memoria e la storia sono importanti questioni politiche, poiché la loro scrittura e percezione sono essenziali per costruire un’azione politica. Da qui il fatto che tutti i governi stanno provando a scrivere la storia in modo significativo.


L’ideologia della memoria è un decodificatore della realtà

Una storia è un’arma. Può spiegare l’origine del mondo, stabilire la legittimità di una gerarchia o persino sacralizzare la guerra. I popoli, passati come presenti, hanno tutti bisogno di una narrativa commemorativa per esistere: è attraverso la memoria storica ad essi inculcata che interiorizzano la loro origine, la loro legittimità, il significato della loro storia e quindi il significato profondo della loro relazione con il mondo.

Ma per capire qual è la narrativa storica, è prima necessario capire cosa significa “memoria collettiva”. Sappiamo tutti, ad esempio, che Giulio Cesare invase la Gallia, che Giovanna d’Arco liberò Orleans o che la Francia colonizzò l’Algeria. Ma non tutti sappiamo che esistevano “imperatori gallici”, che Luigi XVI abolì la tortura in Francia o che le truppe etiopi combatterono per il sultano turco nel cuore dell’Europa.

Se alcuni eventi storici fanno parte della nostra “memoria collettiva” mentre altri sono esclusi, è perché questa memoria è una costruzione soggettiva e non una presentazione neutra del passato. Pertanto, se la storia è costituita da un insieme di eventi oggettivi, la sua narrazione nel quadro della costituzione di una memoria collettiva risulta sempre da una scelta partigiana.

Georges Bensoussan, in The Memory Competition, ha spiegato che: “L’immagine che abbiamo del passato non è il passato, e nemmeno ciò che ne rimane, ma solo una traccia mutevole di giorno in giorno, una ricostruzione che non è il risultato del caso, ma collega insieme le isole in superficie della memoria nell’oblio generale.

Pertanto, una “offerta di memoria” deriva inevitabilmente da un processo di conservazione e cancellazione. Queste scelte, messe alla fine, sono in definitiva un ricordo ufficiale che può essere successivamente trasmesso, appreso e assimilato. È questa costruzione di memorie comuni che costituisce la politica della memoria, vale a dire “l’arte ufficiale di governare la memoria pubblica” (Johann Michel, Governing Memories, Memorandum Policies in France).

Vedi anche: Ungheria: il futuro di un paese dell’Europa centrale nell’Unione europea

Questo è il motivo per cui diverse offerte politiche offriranno ognuna una memoria diversa: allo stesso modo in cui alcune lobby, altre “fanno” memoria. Se questi ricordi sono troppo diversi o opposti, allora possiamo assistere a vere guerre di rappresentazione, il cui obiettivo è vincere l’adesione commemorativa e, quindi, l’influenza politica che ne deriva. La lotta è sia intellettuale che emotiva, perché questi “ricordi” storici sono assimilati appassionatamente dai figli di ogni società che li offre: la scoperta di se stessi, della propria identità, del proprio “clan” all’interno delle altre nazioni, del suo rapporto con l’altro, sono in gran parte determinate da ciò che ci sarà trasmesso come memoria storica. La principale sfida dell’influenza della memoria è quindi quella di imporre riferimenti comuni, che porteranno all’assimilazione di comportamenti standardizzati e una cultura che può essere trasmessa sia dai genitori che dal gruppo a cui si appartiene. Questo “decodificatore” mentale influenzerà successivamente possibili visioni del mondo e, per estensione, future scelte politiche.

Perché dobbiamo riscoprire la storia dell’Europa?

Gli europei hanno, per gran parte di essi, rinunciato al potere. Volontà la cui unica evocazione è talvolta intesa come una tendenza sulfurea da guardare con sospetto. Poiché si ritiene che la forza sia legittima in Occidente, la crisi della volontà europea al potere può essere intesa solo come una crisi della legittimità di ciò che l’uomo europeo incarna nelle stesse nazioni europee.

L’incarnazione è una questione di rappresentazioni collettive. Al fine di individuare ciò che avrebbe potuto portare i popoli europei a una crisi della legittimità del potere, è quindi necessario mettere in discussione l’origine del cambiamento radicale nelle nostre rappresentazioni comuni. Rappresentazioni che, come abbiamo visto, sono in gran parte il risultato di memorie collettive attuate in molti paesi europei.

In Francia, per circa cinquant’anni, le assi della politica della memoria e l’apprendimento della Storia sono diretti principalmente verso gli eventi che mettono in scena le invasioni, le colonizzazioni e le predazioni europee contro gli altri popoli del mondo. Questo è il modo in cui affrontiamo in modo ridondante, e durante tutta la scolarizzazione, il commercio transatlantico, la conquista delle Americhe, la colonizzazione e l’imperialismo europeo in Asia e Africa, o le ideologie razziste europee. Allo stesso modo, le istituzioni dei media, il mondo dello spettacolo o le associazioni della comunità sono trasmesse da questa memoria collettiva che presenta, sempre e sempre, l’europeo come il carnefice del mondo.

Al contrario, la storia delle invasioni, degli insediamenti e dei trattati contro i quali gli europei hanno dovuto resistere nel corso dei secoli non vengono mai narrati e riportati alla memoria pubblica. Questo squilibrio di memoria è costitutivo di un’identità troncata che attecchisce nel cuore di un numero crescente di cittadini che, così facendo, interiorizzano l’idea che gli europei avrebbero un debito storico da pagare ad altre nazioni del mondo. Inoltre, termini come “patriottismo”, “potere”, “sovranità”, “confini”, persino “identità” innescano inevitabilmente alcuni riflessi di memoria che mobilitano campioni di “memorie” specifiche.

Gli europei hanno dovuto lottare per l’esistenza

Lontano dalla memoria collettiva che stiamo affrontando dal maggio 1968, in un contesto di decolonizzazione e interrogativi della civiltà occidentale, gli europei hanno, infatti, trascorso più secoli a difendersi dalle invasioni che per invadere. Ricordare questa verità non significa negare i crimini commessi dagli europei nel corso dei secoli, ma cercare di sollevare il velo su un’intera parte della nostra storia.

Questo è il caso prima dei persiani che, dal -546 a.C. J. – C., conquistano i Greci dell’Asia Minore. Nel -492, è nella battaglia di Maratona che gli ateniesi respingono l’invasore. Dieci anni dopo, l’impero persiano sta cercando di riconquistare una base d’appoggio sul continente europeo. Nella battaglia di Salamina, la coalizione dei Greci sconfisse gli eserciti di Serse. Un “segno europeo” è nato durante queste “guerre dei Medi”: la vittoria nella sproporzione dei numeri. In molti casi, gli europei erano spesso inferiori in numero rispetto alla vastità della popolazione nell’est e nel sud. Tuttavia, non ha mai rotto lo spirito combattivo europeo.
Queste prime lotte annunciano l’inizio di una storia purtroppo oggi sconosciuta in Francia, ma anche in Europa: quella della lotta millenaria degli europei per la conservazione delle loro terre, perpetuamente contestata da compagnie di conquista e colonizzazione extraeuropee .

Pertanto, possiamo definire il periodo dal V secolo in poi. AC, con l’arrivo degli Unni (a parte le invasioni persiane, poiché il loro riflusso lasciò agli europei una lunga tregua) fino alla caduta dell’Impero ottomano nel ventesimo secolo, come un vasto periodo di colonizzazione e decolonizzazione dell’Europa (che non preclude la creazione di imprese coloniali da parte di alcune nazioni europee).

Se la nostra memoria collettiva ha trattenuto l’invasione dell’Europa da parte degli Unni, che dire di tutte le altre popolazioni turco-mongole che hanno attraversato l’Europa dal vasto “corridoio della steppa” eurasiatico? Gli Avari, che guidarono incessanti incursioni nelle terre dei Franchi, in cerca di bottino e schiavi, che schiavizzarono gli slavi e schiacciarono le tribù germaniche; il Khanato dei bulgari, di cultura iraniana, che fece tremare l’Impero bizantino; gli Onogours, i Barsiles, i Tölechs, gli Oghuz, i Bayirkus, i Khazars, così come molti nomadi turchi-mongoli dimenticati che si sono riversati successivamente in Europa, portando la loro parte di morte e desolazione.

Nel XII secolo furono i mongoli a distruggere il potere russo, georgiano e ungherese. Questi cavalieri delle steppe hanno ridotto in schiavitù quasi un milione di russi. Successivamente, furono i tatari e gli ottomani a perpetrare una continua tratta di schiavi ai danni delle popolazioni dell’Europa orientale e sud-orientale.

I turchi (Seljuk allora ottomano) avevano, a partire dall’undicesimo secolo, restituito respiro alla conquista arabo-musulmana, iniziata quattrocento anni prima contro le terre europee. Nonostante il tentativo da parte degli europei di contenere l’invasione, tra il 1058 e il 1291, il crollo dei regni latini d’Oriente portò alla ripresa della colonizzazione dell’Impero bizantino da parte degli Ottomani. La caduta di Costantinopoli nel 1453 portò alla colonizzazione di un terzo dell’Europa da parte dei turchi. Fu solo con la Battaglia di Vienna del 1683, quando gli Ottomani furono sconfitti dalla cavalleria polacca del re Giovanni Sobieski, mentre assediavano per due mesi la sede della capitale dell’impero asburgico, che l’equilibrio di potere si rivolterà gradualmente contro i turchi fino al crollo dell’Impero ottomano nel 1923.
Memoria al servizio dell’ideologia

Alla fine della prima metà del ventesimo secolo, le grandi ideologie moderne furono scosse: i nazionalismi, i totalitarismi e gli imperialismi razziali del diciannovesimo secolo, la prima e la seconda guerra mondiale hanno minato i tre principali avatar ideologici moderni che erano la nazione (nazionalismo), razza (razzismo) e scienza (socialismo). Questi periodi erano stati segnati dall’ideale dell ‘”uomo nuovo”, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo venisse, a seconda dei casi, dalla riscoperta o dall’affermazione del suo carattere nazionale, dal suo primato razziale o dalla sua appartenenza al Partito. Attraverso questo nuovo cittadino assoluto, distaccato da ogni attaccamento personale, è l’incarnazione di uno stato potente e onnipresente che è stato poi compreso come la punta di diamante del progresso e della “marcia della storia”.

Leggi anche: L’Occidente rifiuta la ragione. Intervista a Samuel Gregg

Ma dagli anni ’70, questo cittadino mala assoluto è debilitato. Nuovi percorsi per il raggiungimento della “modernità” sono difesi nello spazio pubblico. Emerge quindi l’ideale dell’uomo globale e postnazionale di essenza nomade che, dopo i drammatici errori degli ultimi 150 anni, verrebbe a “salvare” la vecchia Europa, sfinita dall’esistenza. In questa logica, l’emergere di questo nuovo uomo globalizzato verrebbe attraverso “apertura”, “tolleranza” o “convivenza”, tante nozioni confuse che, a poco a poco, disarmano il paese dalle sue difese di confine , culturali e sicuritarie.

Come per le religioni, le ideologie moderne mobilitano intelletto, emozione e appetito umano per la trascendenza. Qualsiasi obiettivo politico deve soddisfare questi tre aspetti dell’essere umano. E, come abbiamo visto prima, qualsiasi impresa di legittimazione richiede l’emergere di una narrazione. È così che le predizioni dell’Europa contro altri popoli hanno iniziato ad essere specificamente evidenziate, ignorando qualsiasi sfumatura, che dovrebbe logicamente portare a presentare la storia di tutte le invasioni che riguardavano gli europei, compresi quelli in cui dovevano difendersi. La memoria storica in cui oggi continuiamo a evolversi è nata, quella di un perpetuo pentimento dei popoli europei, incaricati di riscattare il loro “debito” con il resto del mondo e aprirsi a quest’ultimo per esorcizzare i demoni dei suoi vecchi crimini.

In definitiva, nessun rinnovamento del potere europeo può avvenire senza una revisione completa della visione che abbiamo di noi stessi. Questa rivoluzione delle rappresentazioni può essere vittoriosa solo se finalmente solleviamo l’assedio che viene fatto alla nostra memoria collettiva. È giunto il momento per gli europei di riscoprire la loro storia.

https://www.revueconflits.com/education-europe-histoire-invasions-memoire-des-hommes-ottomans/

“NON DICA SCIOCCHEZZE!”, di Piero Visani

“NON DICA SCIOCCHEZZE!”

Ieri, dialogando a “Otto e mezzo” con Lilli Gruber, Giorgia Meloni si è vista apostrofare con un elegantissimo “Non dica sciocchezze!”, non propriamente abituale nei rapporti tra la conduttrice e i suoi ospiti. A mio parere, invece che parlare di altre cose, sarebbe stato utile che la leader di “Fratelli d’Italia” ricacciasse durissimamente in gola a chi l’aveva apostrofata così inurbanamente non tanto la malagrazia – quella è abituale nei riguardi di tutti noi figli di un dio minore – ma l’ostentato ricorso all’accusa di stupidità (anticamera di quella di pazzia…) per tutti coloro che non condividono il pensiero dominante.
Personalmente, ne avrei tratto lo spunto per una lezioncina sulla reale natura del pensiero democratico. Peccato, è andata perduta un’ottima occasione di colpire a fondo utilizzando una frase assolutamente incauta e totalitaria, relativamente alla quale occorreva tra l’altro pretendere – subito – delle scuse formali. Perché, se il pensiero si divide fra quelli che dicono sciocchezze e quelli che no, inutile andare a votare, perché si accetta, fin dall’inizio, la discriminante “manicomiale” (da manicomio sovietico…).
I livelli complessivi della comunicazione del centrodestra sono assolutamente da migliorare, perché così sono da gente che gioca costantemente “fuori casa” e abbastanza convinta di perdere, mentre occorrerebbe essere preparatissimi, perché su quel terreno continuano a giocarsi alcune partite fondamentali e, se l’avversario rinuncia al “fair play”, fare le gentildonne non ha senso.

PICCOLA PRECISAZIONE

Nel campo della guerra ibrida, e della sua componente tecnica meglio nota come “guerra mediatica”, l’importanza delle sciocchezze è pari a zero, chiunque le pronunci. E comunque un’intervistatrice che accusa la propria interlocutrice di dire “sciocchezze”, viene totalmente meno al proprio ruolo.
Tuttavia, permane una questione fondamentale: CHE COSA SONO LE SCIOCCHEZZE E CHI LE DICE?
Personalmente, ne sento e ne leggo a milioni, MA TALI PAIONO a ME. Dunque le considero tali nel mio animo, MA NON ACCUSO ALCUNO DI DIRLE, altrimenti quale credibilità democratica avrei (non che me ne importi alcunché, anzi, ma io non rivendico ciò che altri rivendicano mattina, pomeriggio e sera)?
Ecco perché, quando i corifei della democrazia totalitaria si fanno cogliere – come totalitari – con le mani nel sacco, passerei duramente al contrattacco, ma NON SUL MERITO, SUL LORO ABOMINEVOLE METODO, e avrei di fronte a me un’autostrada spianata (senza ponti Morandi…).
Spero di aver chiarito il mio pensiero: se uno si dice democratico, non può accusare gli altri di dire sciocchezze. Può pensarlo (eccome), ma non dirlo. Se lo dice, rivela la sua reale natura totalitaria (chi lo autorizza infatti a fare il distributore di patenti di saggezza?), e allora colpirei senza pietà.
Sarei lieto se – per una volta – si parlasse su Facebook di strutture e non di epifenomeni. Così, citando Marx, mi dimostro già un perfetto democratico.

SECONDA PICCOLA PRECISAZIONE

I demototalitari dovrebbero cortesemente smetterla di considerare chi non la pensa come loro alla stregua di “terrapiattisti”. So che farebbe loro molto piacere che fosse così, ma ci vorrà ancora qualche anno prima che questo totalitarismo definitivo si affermi: il pensiero unico, da una parte, e le “sciocchezze” dall’altra…
Siamo al livello de “Il duce [democratico] ha sempre ragione!”. Chapeau! Lunga (e tortuosa…) è la strada verso la democrazia. A volte comporta contorsioni impreviste e imprevedibili…

amarcord di un capitano, di Giuseppe Germinario

I pescatori, si sa, sono una comunità un po’ particolare. Corrono insieme ai punti di approdo, ma devono scegliersi in solitaria il punto di pesca più promettente. Passano il tempo pazientemente concentrati a percepire ogni piccolo sussulto della lenza, ma hanno sempre parte dello sguardo rivolto di sottecchi verso le fortune alterne del vicino di sponda. Matteo Salvini, mi pare di vederlo. Dietro la finestra con gli occhi gonfi di rammarico e lo sguardo fisso verso la favorevole postazione abbandonata appena due mesi fa e ormai occupata da altri, per di più suoi acerrimi avversari. La pesca sino a quel momento, in quel punto, era stata miracolosa; in quello specchio di acqua si avvertivano però i primi segni apparenti di esaurimento del banco. Compiaciuto del risultato e inquieto per lo stallo, avrà pensato che il merito fosse soprattutto delle capacità ipnotiche del pescatore piuttosto che delle condizioni ambientali favorevoli. Suggestioni probabilmente misteriosamente irradiate dal rosario gelosamente custodito e grossolanamente ostentato. Era arrivato il momento di ambire ad una postazione più promettente e autorevole e ad una qualità di pescato più pregiata e prestigiosa. Abbandonando il presidio così fruttuoso, aveva azzardato che anche tutti gli altri, compreso il capofila, abbandonassero rassegnati il proprio.

Preso dal miraggio della moltiplicazione dei pesci, Matteo Salvini non aveva compreso e non si era accorto di due cose fondamentali ed ha finito lui paradossalmente per abboccare.

Per lui si trattava di ambire ad una preda più gratificante agli occhi e al palato, per gli altri di abbandonare il presidio che avrebbe loro garantito una sussistenza quantomeno onorevole

Il pesce è solito avvicinarsi alla scogliera per nutrirsi la sera e al mattino, quando i bagnanti si ritirano, la bonaccia lo culla senza rischi particolari e i bocconcini papabili fuoriescono dai piccoli anfratti delle rocce.

Matteo Salvini, l’apostolo pescatore, non si è accorto purtroppo o non ha voluto vedere che il banco non era più così gremito solo per le troppe mute in immersione che fibrillavano a bella posta i flutti della sua riserva.

Ha visto i rivali, alla fine, mantenere le posizioni ed occupare la sua proprio quando, immediatamente dopo l’abbandono, le condizioni di pesca si stavano dimostrando particolarmente favorevoli.

Non si sa se i pescatori succedutisi siano in possesso delle abilità necessarie a cogliere la pesca miracolosa; i pesci al contrario si sa, non sanno esprimersi con la bocca, ma sanno coltivare altrimenti la propria astuzia. L’augurio è anzi che tra tonni ed acciughe capiti qualche squalo o qualche piovra abbastanza agili da afferrare fuor d’acqua i predatori attualmente in cima alla scala alimentare.

Sta di fatto che il Capitano che ambiva a diventare Generale, almeno per un bel po’ non potrà nemmeno avvicinarsi al timone e nemmeno riprendere la posizione e il titolo conquistatosi sul campo; e neppure ad ambire a sedute di pesca tranquille nell’attesa.

Fuor di metafora le condizioni favorevoli, presentatesi non a caso a ridosso della improvvida ritirata, sono al momento due, in un contesto nel quale il Bel Paese sta diventando sempre più uno dei campi della cruenta singolar tenzone che sta opponendo le classi dirigenti statunitensi e le loro propaggini europee:

  • Le pesanti pressioni, per altro verosimilmente giustificate, che gli esponenti della Presidenza Americana stanno esercitando sul Governo e direttamente sugli stessi alti funzionari dei Servizi di Intelligence italiani e americani qui operativi, per ottenere chiarimenti e giustificazioni sul ruolo svolto da questi nella costruzione dell’artificio del Russiagate. I nomi che circolano insistentemente negli States e ormai sommessamente anche in Italia toccano le cariche più alte degli apparati di sicurezza e politici di primo rango, in particolare di area sinistrorsa. Quale migliore occasione per mettere in difficoltà se non addirittura destabilizzare una parte essenziale del sistema di potere ultratrentennale che ha portato allo sfascio e alla più umiliante subordinazione politica il nostro paese e per sferrare il colpo definitivo alla espressione politica che ne ha governato ricorrentemente le sorti?
  • La crisi già latente ma sempre più aperta e inquietante che sta investendo la Germania, il paese centrale della Unione Europea, frutto dello sconvolgimento del sistema unipolare concepito e abbozzato negli anni ’90 e della riconsiderazione dei rapporti e delle gerarchie tra il paese leader del mondo occidentale, gli Stati Uniti e quello dei suoi alleati subordinati sta mettendo sempre più in discussione l’autorevolezza e la sostenibilità delle politiche comunitarie nonché la compatibilità dei vincoli-capestro che stanno facendo languire le economie europee e dissanguando in particolare quelle mediterranee. Si tratta di uno conflitto geopolitico interno all’alleanza che ha assunto le vesti di un confronto geoeconomico; una dinamica che vede sempre più vacillare il complesso delle istituzioni comunitarie europee grazie all’opera innanzitutto del suo principale e originario artefice. Viene a cadere così la motivazione morale e moralistica della distinzione di trattamento tra paesi maiali (PIIGS) e paesi “virtuosi”. Una messinscena che ha retto e giustificato una spoliazione ventennale, in particolare del nostro paese il cui sfarinamento offre nuovi margini di trattativa e di reazione alle vittime. Anche questa una occasione per innescare uno scontro o un confronto meno parolaio e velleitario forti della presenza di concreti piani B, sino ad ora chimerici.

Il primo Governo Conte, a partire dalle elezioni europee, aveva ormai imboccato il viale del tramonto. Il piano di accerchiamento ai danni di Salvini è stato costruito abilmente e la morsa che lo stava paralizzando sempre più soffocante. La parodia della lettera di infrazione della Commissione Europea ormai decaduta è stata solo la ciliegina sulla torta. I segnali che gli avversari interni al governo cominciassero ad appropriarsi della conduzione degli stessi cavalli di battaglia del leghista, a cominciare dal problema dell’immigrazione, erano ormai visibili.

La strada intrapresa da Salvini era sempre più irta di ostacoli e disseminata di trappole. All’interno del suo partito numerosi esponenti, verosimilmente, anziché sostenerlo lo hanno spinto ad inciampare. Alla fine, però, è stato lui a scegliere il tempo e le modalità migliori, ma per gli avversari, di conduzione dell’operazione trasformistica ai suoi danni.

Il leader leghista non ha mai goduto di particolare credito negli ambienti, in specie americani che avrebbero potuto sostenerlo. Le sue acritiche intemerate a favore di Guaidò in Venezuela e di Netaniau in Israele parevano musica per le orecchie della Amministrazione Americana, in realtà sono stati degli assist gratuiti, per altro del tutto ininfluenti, a favore della sua componente più oltranzista, ma ridimensionata con le recenti dimissioni di Bolton. Non è stato l’unico gesto da acchiappafarfalle; anche i suoi rapporti con Bannon confidavano in accreditamenti che l’esponente americano non era in grado di garantire. Mi fermo qui per non infierire.

Salvini, assieme a Conte, entrambi hanno avuto in parziale autonomia una carta strategica da giocare rispetto ai compari franco-tedeschi, nel Mediterraneo arabo ed in Libia in particolare. Non hanno saputo né voluto giocarla.

Siamo lontani dalla visione e dalla “audacia” offerte dai Triumviri Andreotti, Craxi, de Michelis, con i prodromi e gli antefatti di Aldo Moro. Il prezzo pagato alla fine da questi ultimi fu particolarmente salato. La loro azione, però, fu propedeutica e decisiva agli accordi di Oslo e alle trattative di Camp David tra Arafat e il Governo Israeliano almeno sino a quando il governo americano decise di condurre in prima persona il gioco. Ancora più coraggiosa, ma sfortunata fu la loro azione tesa a salvaguardare l’integrità della Jugoslavjia. Il contesto geopolitico era radicalmente cambiato e i nemici interni, a cominciare dalle regioni del Triveneto e dal Vaticano, erano particolarmente attivi ed efficaci.

All’attuale classe dirigente italiana, compreso Salvini, non si può chiedere tanto; ma il pressapochismo è veramente disarmante. Lungi da una visione strategica, manca ogni minima accortezza tattica; al massimo furbizia, ma senza astuzia.

Si dirà che “del senno di poi son piene le fosse” ed una situazione geopolitica e politica così intricata non agevola certamente le scelte più opportune e lungimiranti e spingono all’azzardo.

Senza menar vanto, giacché il ruolo di cassandre è puramente coreografico e poco consolante, i redattori del nostro blog, assieme a pochissimi altri, da mesi se non da anni stanno deliberando in maniera originale e sino ad ora attendibile sulla condizione europea, francotedesca e soprattutto americana e in controtendenza con le vulgate più modaiole. A maggior ragione i professionisti della politica dovrebbero possedere strumenti migliori e più efficaci di valutazione.

La Lega soffre di tre tare drammatiche che le impediscono il salto di qualità.

La prima, comune a tutti i partiti, di essere una semplice macchina elettorale ma quasi del tutto priva di legami con quel “partito istituzionale” trasversale o con quei gruppi di “funzionari” che possono garantire almeno una parziale operatività delle scelte politiche.

La seconda è l’incapacità di offrire a quei ceti sociali, specie professionali ed imprenditoriali, presenti in essa, una alternativa credibile al pedissequo allineamento europeista e filotedesco in una situazione per altro ben diversa e molto meno allettante rispetto aille suggestioni filotedesche di trenta anni fa.

Se per il PD il processo di rimozione degli antefatti “comunisti” ha consentito una sopravvivenza trentennale che però lo sta comunque portando ad un progressivo logoramento, il processo di rimozione, piuttosto di giustapposizione, delle posizioni federal-seccessioniste con le ambizioni di partito nazionale rendono pressoché impossibile una navigazione a vista e opportunistica per lungo tempo.

Checché ne pensino i sovranisti di sinistra, ultimi arrivati in questo caleidoscopio, i quali poggiano sui diseredati, sulla plebe, sui precari e sugli sfruttati le ambizioni e i propositi di emancipazione del paese e della formazione sociopolitica e di ricostruzione delle prerogative statuali, l’apporto dei ceti professionali ed imprenditoriali, compresi quelli della grande industria, in specie strategica, è imprescindibile per la realizzazione di queste ambizioni, comprese quelle di potenza e quelle di una formazione sociale più giusta ed equilibrata.

Le Lega si sta rivelando altrettanto incapace ad assolvere a questo compito.

Il risorgente livore anticomunista, il neoeuropeismo di soppiatto ritrovato lasciano presagire un repentino ritorno alle origini della Lega negli alvei classici della lotta e della collusione politica.

A quel punto, raggiunto il quale, l’unico dubbio che rimane sarebbe se Salvini c’è o ci fa; anche su questo non è detto che i comportamenti fattuali coincidano necessariamente con le intenzioni.

 

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (4/4)

Mappa:

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

– I discorsi: incoerenza e indigenza (2/4)

– Ricostruzione dell ‘” Europa “: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive (3/4)

– Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron (4/4)

Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron

Emmanuel Macron, o le disgrazie della virtù europea


Sono passati 29 mesi dall’arrivo di Emmanuel Macron. Questo è un periodo abbastanza ampio per procedere, con il necessario senno di poi, a una prima valutazione della sua azione politica volta a rilanciare ancora una costruzione europea il cui sfarfallio la travolge.

L’analisi delle ambizioni che lo hanno animato nella primavera del 2017, quando è arrivato all’Eliseo, ha permesso – speriamo – di dimostrare che le loro possibilità di realizzazione erano estremamente ridotte a priori . Che ne dici di due anni e mezzo dopo, quando lo stato dei media e il godimento politico di cui ha goduto a livello europeo si sono da tempo dissipati? In che misura il suo ardente volontarismo è riuscito a sfondare il muro di una realtà che il nuovo presidente ha rifiutato di osservare seriamente?

Un’osservazione è immediatamente ovvia: la stragrande maggioranza delle proposte menzionate nel discorso programmatico della Sorbona non ha avuto il minimo inizio. Sembra che molti di quei punti non siano nemmeno stati discussi. Esce , in questa fase, la tassa sul carbone alle frontiere, l ‘”Agenzia europea per l’innovazione”, il nuovo partenariato con l’Africa, la riduzione a 15 del numero di commissari, la rinuncia chiesta ai “grandi” Stati del ‘loro’ Commissario, la convergenza delle aliquote fiscali sulle imprese, il “pavimento sociale europeo”, liste transnazionali per le elezioni europee , ecc .

Europa della difesa: guadagni tattici, debacle strategico

Nella delicata area della difesa, le ambizioni smisurate del presidente sono cadute a margine senza essere neppure esaminate seriamente dai nostri partner. Il bilancio militare congiunto, la forza e la dottrina di intervento comune che il presidente vuole per il 2020 non saranno ovviamente messi in atto nei prossimi mesi, o anche oltre, poiché nessuno ci pensa davvero nel futuro UE.

Con questi annunci fragorosi quanto improbabili, il presidente francese ha dimostrato in particolare nel 2017 l’indigenza delle sue opinioni sulla geostrategica e la sua mancanza di conoscenza delle questioni militari. C’era qualcosa di preoccupante nella persona che è costituzionalmente il capo degli eserciti francesi. In seguito ha confermato questa impressione riferendosi superficialmente, a novembre 2018, alla prospettiva di un “vero esercito europeo” [1], il cui irrealismo ha provocato allarme negli ambienti autorizzati.

Sembra, tuttavia, che nel corso dei mesi sia tornato a considerazioni un po’ meno barocche. Dunque, dallo scorso luglio, non si è mai trattato di “esercito europeo”, ma solo di una capacità di “  agire insieme, che non è né rinunciare né abbassare la sovranità nazionale, né, ovviamente, rinunciare l’Alleanza atlantica  ”[2]. Con queste semplici parole, il presidente francese sta infatti conducendo un ampio ritiro strategico, sotto forma di debacle concettuale. Ovviamente peccò per dilettantismo ed esaltazione ideologica, prima che le sue ambizioni si spezzassero sulla realtà geostrategica del continente.

Per realizzare una “potenza dell’Europa”, sarebbe necessario, innanzitutto, fare della violenza verso l’Europa così com’è, nella diversità delle relazioni con il mondo specifiche di ciascun popolo, nella varietà delle culture politiche e posture militari, strategiche e pratiche operative. Sarebbe necessario, ancor più concretamente, ridurre a una piccola cosa la sovranità e la libertà delle nazioni europee in questo dominio supremo tra tutti gli usi della forza armata. Tale ambizione è semplicemente una sciocchezza.

Per quanto riguarda “L’Europa della difesa”, il presidente Macron è stato rapidamente costretto a fare la stessa cosa dei suoi predecessori negli ultimi vent’anni: ha dovuto impiegare un’impressionante creatività istituzionale per nascondere il suo fallimento. Questa creatività, sebbene di natura puramente formale, dovrebbe consentire all’UE di continuare a fingere, in questo campo anche più che in tutti gli altri: alla brigata franco-tedesca, all’Eurocorpo [3], ai “raggruppamenti tattici” dell’UE (che vivacchiano da circa dieci anni), allo Stato maggiore dell’UE [4], all’Agenzia europea per la difesa, è stato aggiunto un Fondo europeo per la difesa [5] (proposto dalla Commissione europea, con il sostegno della Francia) e la cooperazione strutturata permanente [6] (CSP).

Tutti i suoi elementi dovrebbero dare sostanza e coerenza alla politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC). Ma sono ancora insufficienti agli occhi dell’attuale presidente francese, dal momento che Parigi ha voluto lanciare, inoltre, un “Intervento di iniziativa europea” (IEI), un ulteriore esempio all’interno del quale tenteremo di “  favorire l’emergere di una cultura strategica comune [… e creare] i presupposti per futuri impegni coordinati e coordinati futuri  ”[8]!

Punto interessante: questo IEI non rientra nel campo istituzionale e giuridico dell’UE, come se Parigi si fosse improvvisamente resa conto che il quadro comunitario può essere paralizzante. Dieci paesi hanno finora manifestato l’intenzione di partecipare, compreso il Regno Unito. Sarà ovviamente difficile fare qualcosa di diverso da un guscio vuoto, come tutto ciò che è stato provato in questo settore dal 1992 e la nascita della politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il Generale Bosser (Capo dello Staff Land) è stato in grado di vedere da solo, come dimostrato dalla sua audizione all’Assemblea Nazionale del settembre 2018: “ Per tutta la durata del forum dei capi di stato maggiore europeo, solo io ho pronunciato il nome di IEI e ho avuto l’impressione di avere davanti a me veri equivoci.  [9] Il contegno nei propositi dell’Assemblea, dovrebbe essere messo in evidenza.

Al solo scopo di credere falsamente a sostanziali progressi nell ‘”Europa della difesa”, il presidente Macron sta facendo tutto il possibile per aumentare il prodigiosamente inefficace bazar istituzionale che dovrebbe incarnarlo. La proliferazione di progetti e istituzioni, il processo infinito di consultazione, le magnifiche e fragorose dichiarazioni di intenti: tutto ciò consente di affermare che ogni giorno si stanno compiendo importanti progressi lungo il cammino di un’autentica difesa europea. Questa agitazione superficiale, tuttavia, è strategicamente simile al puro infantilismo, a suo agio e simpatica in tempi calmi, ma destinata a frantumarsi alla prima grave crisi che si dovesse verificare.

Europa sociale a fuoco

Nel campo dell ‘”Europa sociale”, la grande impresa dell’inizio del quinquennio è stata la revisione dello status dei lavoratori distaccati. Conseguita in un anno, questa revisione era, infatti, già prevista prima dell’arrivo di Emmanuel Macron al potere. Ma bisogna ammettere che ha ottenuto ulteriori emendamenti nell’interesse del nostro Paese. La questione è fino a che punto la riforma finalmente accettata dal Consiglio europeo nell’ottobre 2017, quindi dal Parlamento a maggio 2018, probabilmente metterà in discussione lo scandalo di questo status di lavoratori distaccati quando si applica ai paesi con livelli di sviluppo significativamente diversi.

Se la stampa dall’orientamento europeista coglie ovviamente il “successo” e persino la “vittoria” [10] del presidente su questo argomento – prove secondo lei della sua padronanza diplomatica  altri giornali, tuttavia, sono francamente più avveduti [ 11]. Tutti gli anticipi ottenuti sono in effetti simbolici o marginali: la durata del distacco è ridotta da 24 a 12 mesi al massimo, ma in effetti i lavoratori distaccati in Francia raramente rimangono più di qualche mese. Ancora più importante , a priori, i lavoratori distaccati saranno ora pagati come gli altri (compresi i bonus) e non solo il salario minimo.

Mentre questa misura innegabilmente va nella giusta direzione, poiché diminuisce l’interesse nell’uso di questo tipo di lavoro, è tuttavia di portata limitata. La maggior parte dei posti occupati dai lavoratori distaccati sono pagati presso lo SMIC o poco sopra. Nulla o quasi nulla cambierà, soprattutto perché la disposizione più sleale dello statuto rimane invariata: i lavoratori distaccati e i loro datori di lavoro continueranno a pagare i contributi di sicurezza sociale nel loro paese di origine.

Inoltre, il settore del trasporto su strada, che è molto interessato ai lavori distaccati, è stato escluso dall’accordo per ottenere l’adesione di Spagna e Portogallo. Infine, gli impegni formali assunti dagli Stati per rafforzare la loro cooperazione nella lotta contro la grande frode che accompagna questo status [12] sono difficilmente credibili: perché i paesi dell’Europa mediana sarebbero solerti in questo settore, quando questo zelo sarebbe obiettivamente contrario ai loro interessi economici? Per quanto riguarda la Francia, è anche ovvio che le poche centinaia di dipendenti pubblici mobilitati nella lotta contro queste frodi sono abbastanza sopraffatte [13].

La riforma ottenuta dal presidente riguarda quindi il trompe-l’oeil quasi al completo. Ciò è tanto più vero in quanto non entrerà in vigore prima del 2020. Ci sono voluti un totale di sedici anni per modificare modestamente questo status tipicamente comunitario. Sebbene sia stato istituito nel 1996, le sue deleterie conseguenze economiche e politiche sono state osservabili dal 2004, a causa del primo allargamento dell’UE ad est [14]. Sedici anni per far finta di agire, sotto la pressione di un “populismo” crescente che condanna i leader cinici, ma preoccupati, di preoccuparsi superficialmente della giustizia sociale. Questo è tutto ciò che un’Unione europea alla fine del suo corso può mostrare come dinamismo emancipatorio, e non è nulla, se non un po’ di polvere negli occhi.

La riforma soddisferà gli europei fiduciosi, generalmente protetti dalla concorrenza sleale dei lavoratori distaccati dal loro status o livello di qualifica; il resto della popolazione capirà rapidamente che è stato nuovamente ingannato. La comunicazione politica, tuttavia, ha avuto l’audacia di presentare questa riforma come un successo dell’ “Europa che protegge” [15], seduto sull’assurdo paradosso di tale affermazione poiché qui “Europa” protegge solo se stessa. Chi può comprenda…

Tale è, in questa fase, lo scarso bilancio di E. Macron su “Europa sociale”. Bisogna temere che non ci si debba aspettare nulla dalla sua azione in questo campo negli anni a venire. La campagna per le elezioni europee della primavera 2019 è stata quindi contrassegnata dall’assenza di riferimenti all’idea di “Europa sociale” da parte dei candidati EMN (nonché di quelli degli altri partiti). Il tema è letteralmente scomparso dai discorsi, mentre era insistito da trenta anni ad ogni elezione nella speranza di risvegliare l’interesse dei cittadini per il Parlamento europeo. Forse è stato finalmente compreso dal personale del campo che era stato usato sino alla trama e che era controproducente usarlo. Ad ogni modo, sembra che venga determinata una svolta


Eurozona: due anni di chiacchiere per niente

Si tratta della zona euro, del suo approfondimento ritenuto necessario, laddove le ambizioni del presidente Macron erano allo stesso tempo le più grandi e le più realizzabili a priori , tanto è vero che la costruzione europea è principalmente di ordine economico . In questo settore come negli altri, tuttavia, i primi due anni del quinquennio si sono rapidamente trasformati in dolorose Stazioni della Croce, le cui numerose stazioni hanno crudelmente messo alla prova chi ha affermato, nel febbraio 2017, di non respingere il “  Dimensione cristica  ” [16] dell’incarnazione presidenziale.

Cosa ha ottenuto per il prezzo del suo impegno? Niente. Nessuna delle sue proposte di riforma per l’area dell’euro è stata approvata. Il suo fallimento è completo fino in fondo e un risultato del genere era altamente prevedibile. Il nuovo presidente francese non aveva reali possibilità di vincere. La manovrabilità del Cancelliere tedesco ha facilmente trionfato sul suo volontarismo giovanile, ma non è questo il punto. I fattori strutturali hanno giocato ben oltre queste cause superficiali.

Innanzi tutto, un effetto contestuale: non è più tempo che l’UE faccia importanti riforme politiche. Ha gettato la sua ultima forza nell’artigianato istituzionale del 2010, reso necessario dall’urgenza della crisi finanziaria e monetaria (con la creazione del meccanismo europeo di stabilità e il tentativo di unione bancaria). La costruzione dell’Europa è ormai finita, soprattutto perché il suo approfondimento implicherebbe l’abbandono della sovranità in aree così sensibili che quasi nessuno le considera seriamente. Per andare oltre, i cittadini e i leader dei paesi dell’UE dovrebbero dimostrare che, su questioni che sono essenziali per loro, sono diventati europei anziché nazionali. Tale non è e tale non può essere il caso, in mancanza di una identità europea sostanziale.

Pertanto, le questioni relative al debito pubblico, al bilancio dello Stato, alla politica monetaria non sono solo questioni tecniche, poiché la Francia si impegna a credere nei suoi negoziati con la Germania. Queste domande implicano profonde considerazioni di identità, cultura e moralità, sulle quali Berlino non intende cedere nulla di importante. La Germania accetterebbe un approfondimento della zona euro se fosse simile a una germanizzazione, ma non è proprio l’ambizione francese su questo argomento … Parigi e Berlino si sono quindi date, da maggio 2017, a una vera guerra di posizione, che si concluse con una sconfitta francese.

Riunioni bilaterali – formali o informali – Vertici europei, comunicati ufficiali, scambi di organi di stampa interposti … Nel corso dei mesi e degli anni, gli innumerevoli contatti e sessioni di negoziazione hanno avuto per risultato paradossale uno status quo o quasi di cui la Germania si rallegra perché la avvantaggia. Le pietre miliari che hanno portato a questo fallimento francese sono così numerose che è impossibile – e inutile – elencarle qui. Alcuni sono comunque particolarmente salienti:

  • Il 19 giugno 2018, dopo il 20 ° Consiglio dei ministri franco-tedesco, si legge nella dichiarazione di Meseberg. Il principio di creare un bilancio specifico per l’area dell’euro a partire dal 2021 è accettato dalla Germania [17]. Gli altri Stati interessati devono tuttavia prendere una decisione in merito;
  • 29 giugno 2018: 10 giorni dopo Meseberg, il comunicato finale del vertice dell’area dell’euro, organizzato dopo la riunione del Consiglio europeo del 28, non si preoccupa nemmeno di menzionare l’idea di un bilancio per la zona euro come se non fosse nemmeno stato menzionato [18]. Va detto che 12 Stati avevano inviato una lettera qualche giorno prima al presidente dell’Eurogruppo esprimendo la loro opposizione frontale a tale progetto [19];
  • 14 giugno 2019: in occasione di una riunione dei ministri delle finanze dell’UE, sembra essere stata raggiunta una svolta decisiva, poiché sta emergendo un accordo sul principio del bilancio unico per l’area dell’euro, anche se nulla viene deciso sul suo importo (evoca 17 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, quasi nulla), il suo metodo di finanziamento e i suoi obiettivi (“stabilizzazione”, vale a dire, sollievo puntuale verso un paese in difficoltà o investimenti a lungo termine per promuovere la competitività e la convergenza). “  Abbiamo un bilancio dell’area dell’euro  ” [20], tuttavia proclama Bruno Le Maire, ministro francese dell’economia;
  • 21 giugno 2019: alla fine del Consiglio europeo, non sono stati compiuti progressi sul bilancio. Il primo ministro olandese afferma addirittura con soddisfazione che “  la stabilizzazione è finita. Anche il bilancio della zona euro  ”[21].

La Germania ha quindi raggiunto il suo obiettivo senza difficoltà: l’intenso attivismo dispiegato dalla Francia per ottenere un approfondimento dell’area dell’euro si è impantanato nel corso dei mesi, fino a quando non affonda completamente. Se il cancelliere tedesco ha ben presto abbandonato l’idea di un ministro delle finanze o di un parlamento della zona euro, se avesse chiarito chiaramente di essere contraria a qualsiasi idea di mettere in comune fondi. i debiti pubblici, la questione del budget – capitale per Parigi – l’ha costretta a molte manovre di ritardo, essenziali per smorzare nel tempo l’ambizione riformatrice dei francesi.

E’ senza dubbio così che deve essere compreso l’improvviso interesse di Berlino per lo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cui gode la Francia. Suggerendo ripetutamente che Parigi potrebbe donarlo all’UE [22], le autorità tedesche hanno implicitamente inviato un messaggio alle loro controparti francesi: “Non chiederci l’impossibile, altrimenti faremo lo stesso”. L’euro, questo segno esteso su scala continentale, è importante per la Germania come lo è per la Francia il suo status all’ONU. In entrambi i casi, sono in gioco elementi centrali nella concezione di ciascuno della sua sovranità, della sua identità e del suo ruolo nel mondo. Se le autorità francesi hanno avuto difficoltà a capirlo fino ad allora, dobbiamo sperare che il messaggio così espresso è stato compreso questa volta.

Allo stesso tempo, A. Merkel soffiava costantemente caldo e freddo; a volte sembrava conciliante – dicendo ad esempio a luglio 2017 di non essere ostile all’adozione di un bilancio della zona euro [23] – a volte riluttante a progressi seri – come quando ha evocato pubblicamente i suoi “  scontri  [24] con il presidente Macron. Fu in grado di interpretare la sua partitura con la stessa sottigliezza in quanto altri stati – a cominciare dai Paesi Bassi – manifestano regolarmente un’opposizione categorica alle proposte francesi, che Berlino non avrebbe potuto esprimere così duramente senza umiliare Parigi. Si è concluso con un modesto trionfo, affermando semplicemente, alla fine del Consiglio europeo di giugno 2019, di essere “  soddisfatto delle conclusioni relative all’area dell’euro. ”[25].

L’impossibile missione hugolian del presidente francese

Cosa pensare finalmente della vertiginosa cascata di fiaschi incontrata da Emmanuel Macron da quando è salito al potere? Sarebbe stato facile prevenirli dimostrando modestia. Ma un simile atteggiamento, oltre a non adattarsi all’attuale presidente, avrebbe comportato l’aggiunta al disastroso quinquennio di Francois Hollande di cinque anni di ulteriore immobilità, un fermo intorpidimento mortale per un’Unione europea minacciata di disintegrazione.

Durante la campagna elettorale, il futuro presidente francese aveva fatto dell ‘”Europa” il suo principale cavallo di battaglia. Ci saltò sopra con grande fervore non appena arrivò al Palazzo dell’Eliseo e deve essere riconosciuto per la sua vera abnegazione nel tentativo di rilanciare il progetto europeo. Ma va notato, tuttavia, che il suo impegno europeista oggi è un puro donchisciottismo, dal momento che nessuna delle condizioni necessarie per il successo è stata soddisfatta. Come ha fatto il presidente a non accorgersene? Per capirlo, forse è consigliabile tornare a Hugo, la cui relazione con l’idea europea è sempre stata un riferimento essenziale per l’europeismo francese.

“  Verrà un giorno in cui tu, Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania, tutte voi nazioni del continente, senza perdere le vostre distinte qualità e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in un’unità superiore e costituirete in Fraternità europea […]. Verrà un giorno in cui vedremo questi due grandi gruppi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro, che si protendono sul mare [ Quindi, con la loro azione, l’Asia sarebbe stata restituita alla civiltà, l’Africa sarebbe stata restituita all’uomo. Invece di fare rivoluzioni, avremmo creato delle colonie! Invece di portare la barbarie alla civiltà, la civiltà sarebbe portata alla barbarie.  [26]

Queste parole, spesso citate – con l’ovvia eccezione delle ultime righe di un esaltato colonialismo – esprimono con fervore ed enfasi la grande idea di Hugo sull’Europa, eretta dall’illustre poeta all’orizzonte dell’attesa di tipo politico; Hugo vede nella sua unificazione un risultato storico, attraverso il quale l’umanità dimostrerà la sua capacità di sollevarsi. 170 anni dopo, è in questa mistica che pendono in Francia coloro che non riescono a concepire l’idea di un fallimento generale della costruzione europea. Emmanuel Macron s’è fatto il suo campione. Ma il suo ardore, sebbene sembri abbastanza sincero, non può bastare a concretizzare la speranza di Hugo di una vera Unione Europea.

In questo caso particolare, un abisso separa davvero la mistica dalla politica, e tutti coloro che pensano di poterlo attraversare in qualche modo cadono necessariamente lì. Questo è ciò che sta accadendo ora al presidente francese. Perché chiunque cerchi di concretizzare la visione hugoliana affronta una doppia impossibilità:

  • Un’impossibilità logica in primo luogo: come potrebbero le nazioni del continente conservare le loro “  qualità distinte  ” e la loro “  gloriosa individualità  ” fondendosi in una “  unità superiore  ”? Un tale processo implicherebbe l’abbandono della sovranità con cui ciascuno esprime liberamente la propria relazione specifica con il mondo e si evolve secondo le proprie aspirazioni, la principale delle quali è perseverare nell’essere. Questa è un’aporia che i 70 anni di costruzione europea non hanno affatto contribuito a dissipare;
  • Un’impossibilità nata da una formidabile ambiguità allora: Hugo scrive allora che non si realizzano né l’unità italiana né quella tedesca. Scrive in un momento in cui la Francia pensa a se stessa ed è percepita da molti come la madre delle lettere e delle arti e come il faro politico della razza umana. Se il brano sopra citato suggerisce che la futura fraternità europea sarà per Hugo di natura egualitaria, in seguito ha fatto altre osservazioni che suggeriscono, al contrario, che l’Europa sarà unita dall’azione illuminata della sua avanguardia francese. “La  Francia è un predestinato  ”, “  la nazione utile  che “  dipende dal popolo “, è quella “da cui possiamo aspettarci tutto Dice in un discorso nell’ottobre 1877 [27].

È comprensibile, in queste condizioni, che Hugo sia sempre stato attaccato all’ideale, che non abbia mai ritenuto necessario specificare le modalità concrete del passaggio verso gli Stati Uniti d’Europa. Per lui, l’unità deve essere raggiunta dall’irresistibile forza di attrazione della civiltà francese, la cui diffusione su scala continentale servirà da cemento unificante. L’Europa è possibile perché l’Europa è essenzialmente la Francia. Lo ha anche detto in modo molto esplicito durante la sua ultima apparizione pubblica, il 29 novembre 1884, in occasione di una visita a Bartholdi che ha appena completato la Statua della Libertà: “Questa bellissima opera tende a ciò che ho sempre amato, chiamato: pace. Tra l’America e la Francia – la Francia che è l’Europa – questo impegno di pace rimarrà permanente . [28] Non potremmo essere più chiari …

La visione hugoliana dell’Europa è contaminata da un etnocentrismo che è ancora difficile da concepire oggi e che persiste nelle menti di un gran numero di europei. I voli messianici del grande scrittore sono suggellati da un’ambiguità che uccide sul nascere ogni tentativo di concretizzarli politicamente. Questa ambiguità, insuperabile, è quella di un universale fortemente ancorato a un particolare, è l’ambizione di una Repubblica europea plasmata dal genio nazionale francese.

Nella sua versione attuale, è la speranza di una “Europa sociale” e quella di una “potenza dell’Europa”, in genere ambizioni francesi che sono difficilmente condivise oltre i nostri confini. Da qui il paradosso degli europeisti nel nostro paese: vogliono essere “europei” soprattutto, aderiscono alle dissolvenze del “post-nazionale”, pur non essendo in grado di concepire che l’UE può essere qualcosa di diverso da ciò che in loro lo spirito – il francese nonostante tutto – gli impone. Questa ambiguità deriva da incomprensioni a cascata con i nostri partner e da un blocco permanente su tutti i punti importanti.

Emmanuel Macron ha cercato di rilanciare un progetto moribondo cercando di infondere un po’ del misticismo di Hugo e impiegando una notevole energia in infinite negoziazioni. A questo punto, il suo fallimento è completo e probabilmente definitivo. Ma all’impossibile, nessuno è obbligato. Forse prenderà atto di questa impossibilità nella seconda metà del suo quinquennio, data la lucidità che ha mostrato puntualmente [29]. In ogni caso, dobbiamo sperare per il bene della Francia e per l’Europa che l’UE abbia coperto la sua crosta sterile.

Eric Juillot

fonti

[1] http://www.opex360.com/2018/11/06/the-president-macron-about-setting-a-right-european-right/[2] http://www.opex360.com/2019/07/14/exit-expression-armee-europeenne-le-president-macron-parle-days-dagir-ensemble/[3] O “Corpo europeo di risposta rapida”. È uno staff multinazionale di circa 800 persone creato nel 1992. Con sede a Strasburgo, negli ultimi anni ha lavorato principalmente a beneficio della NATO.[4] Uno staff multinazionale con sede a Bruxelles con circa 200 dipendenti e, in quasi 20 anni, ha guidato solo una manciata di micro-operazioni.[5] Questo fondo è destinato a fornire sostegno finanziario a progetti comuni; il suo budget (probabilmente qualche miliardo di euro) non è stato ancora determinato, lo sarà per il periodo 2021-2027.[6] Questa cooperazione assume la forma di progetti avviati da una nazione guida per rafforzare l’interoperabilità, consentendo l’ammodernamento condivisione di attrezzature, ecc . Tutti i progetti avviati in questa fase hanno dimensioni modeste.[7] Sono previsti un carro armato franco-tedesco e un aereo. Tali programmi sono auspicabili ma a determinate condizioni: controllo dei costi, vantaggi industriali proporzionati per tutti gli attori coinvolti, reale efficienza operativa dell’attrezzatura prodotta. Se in passato questo tipo di cooperazione ha avuto successo (Alphajet, Transall, Jaguar …), gli ultimi risultati si sono spesso rivelati laboriosi e costosi (A 400 M ed elicottero NH 90).[8] http://www.opex360.com/2019/07/14/exit-expression-armee-europeenne-le-president-macron-parle-days-dagir-ensemble/[9] http://www.opex360.com/2018/11/06/the-president-macron-parks-to-establish-a-right-european-right/[10] https://www.liberation.fr/france/2017/10/24/work-detaches-la-victoire-europeenne-de-macron_1605391[11] https://www.marianne.net/economics/student-workers-the-three-statches-of-macron-victory[12] https://www.lemonde.fr/economie/article/2018/02/05/detached-workers-the-figures-are-embedded-in-france_5251933_3234.html[13] L’ispettorato del lavoro riesce a effettuare circa mille ispezioni all’anno, non di più, quando il numero di lavoratori distaccati è ora stimato in oltre 500 000. CF: https://www.actualvalues.com/economy / 46-in-un-il-numero-di-dipendenti-dipendente-senvole-93017[14] Nel 2004 l’UE ha aderito a 10 paesi: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta. Nel 2007, la Romania e la Bulgaria hanno aderito all’UE, seguita dalla Croazia nel 2013. Durante un periodo di transizione, alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno introdotto restrizioni per limitare afflusso di lavoratori distaccati da alcuni paesi (Romania, Bulgaria).[15] https://en-marche.fr/articles/actualites/workers-stoppers[16] https://www.lejdd.fr/Politique/Emmanuel-Macron-confidences-sacrees-846746[17] http://www.lefigaro.fr/international/2018/06/19/01003-20180619ARTFIG00368-declaration-of-meseberg-to-reform-the-news-and-of-points- -completer.php[18] https://www.consilium.europa.eu/media/36001/29-euro-summit-statement-en.pdf[19] https://english.rt.com/economy/51866-12-european-countries-are-opposing-to-a-futur-budget-from-euro-zone-europe[20] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/no-agreement-on-euro-budgetary-tool-ministers-send-hot-potato-back-to-leaders/[21] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/stabilisation-mechanism-in-induced-coma-after-eu-leaders-meeting/[22] https://www.ouest-france.fr/monde/organismes-internationaux/onu/onu-l-la-germany-propose-the-france-of-the-future-of-its-permanent-union-europeenne -6096948[23] https://www.la-croix.com/Economie/Monde/Budget-zone-euro-Il-faut-saisir-lopportunite-souvre- us-2017-07-13-1200862817[24] http://www.lefigaro.fr/international/angela-merkel-recognized-to-have-a-conflictual-relations-with-manuel-macron-20190515[25] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/stabilisation-mechanism-in-induced-coma-after-eu-leaders-meeting/ – Gli altri progetti nella zona euro (allargando il ruolo del Anche MES e il completamento dell’unione bancaria), che E. Macron ha ereditato dai suoi predecessori, sono fermi.[26] Estratto dal discorso di Victor Hugo al Congresso per la pace, 21 agosto 1849.[27] Jean GARRIGUES, The Republic Incarnate, da Leon Gambetta a Emmanuel Macron , Parigi, Perrin, 2019, pagina 91.[28] Jean GARRIGUES, La Repubblica incarnata , op. cit ., pagina 110.[29] http://www.lefigaro.fr/conjoncture/2015/09/28/20002-20150928ARTFIG00208-why-macron-predit-il-la-fin-de-la-zone-euro.php

https://www.les-crises.fr/emmanuel-macron-et-leurope-par-eric-juillot-4-4/

Verso il capestro, di Luciano Barra Caracciolo

Il saggio potrebbe in alcuni passi risultare ostico alla comprensione ai non addetti. La ratio e il contenuto assumono comunque straordinaria importanza quanto più i termini dell’accordo prossimo futuro in sede comunitaria sono gelosamente e misteriosamente custoditi sino a portarci all’ennesimo fatto compiuto. Si cercherà con qualche intervista di chiarire gli aspetti più complessi di quanto esposto. Il senso dell’operazione in corso appare comunque nel testo in maniera cristallina_Giuseppe Germinario

IL “NUOVO” ESM: TRA LA VECCHIA SOLUZIONE DEL “TRATTAMENTO GRECIA” E LA SFIDA TEDESCA ALL’ITAL€XIT_di Luciano Barra Caracciolo

 

  1. Il quadro generale della congiuntura italiana nei suoi possibili sviluppi di breve e medio termine.

Cerchiamo di approfondire l’evoluzione della situazione italiana dentro l’eurozona all’incirca nei prossimi due anni (indicativamente). E cioé, appunto, entro un breve periodo in cui si acutizzino i fattori recessivi esogeni (crisi strutturale e geopolitica, – cioè neo-multilaterale-, della globalizzazione asimmetrica) e endogeni all’eurozona (ulteriore consolidamento fiscale, pro-ciclico, determinato dagli obiettivi di pareggio strutturale di bilancio derivanti dal modo in cui viene calcolato l’output-gap dal working group che supporta le prescrizioni impartiteci dalla Commissione Ue).

Nell’appunto sull’applicazione dell’art.65 TFUE, la situazione italiana (attuale) viene riassuntivamente così descritta :

L’Italia attualmente si trova:

  1. a) impossibilitata comunque a promuovere politiche di crescita di c.d. “piena occupazione” (effettiva), e anzi obbligata, dal fiscal compact e dalle sue linee guida applicative (qui, p.3), a perseguire un aggiuntivo e forte consolidamento fiscale, induttivo di una probabile recessione che si aggiunge alla forte stagnazione “esogena” attualmente in corso;
  2. b) impossibilitata, di conseguenza, anche a svolgere le politiche anticicliche (qui, pp. 5-8) la cui necessità e urgenza si manifesta a causa della fase di stagnazione-recessione in cui, anzitutto, la Germania si trova, “trascinando”, di conseguenza anche il nostro sistema produttivo che ne è divenuto, per notori motivi, strettamente dipendente;
  3. c) vincolata, entro breve tempo, (dato l’atteggiamento, ormai da considerare negozialmente tanto irreversibile quanto improvvido, assunto dai vari livelli di rappresentanza italiani), al “nuovo” trattato ESM che implica, in caso di crisi economica in un singolo Stato-membro, che l’intervento del fondo di salvataggio ci sia precluso a priori dal mancato rispetto della regola del debito (limite del 60% su Pil ovvero riduzione significativa negli ultimi esercizi); e ciò, si noti, tranne il caso di previa ristrutturazione dei titoli del debito pubblico nazionale, agevolata, anzi “incentivata”, nella stessa riforma dell’ESM, dall’estensione operativa delle clausole CACS (cioè relative ai poteri dei creditori, in maggioranze ora semplificate, di prescegliere una certa forma, ampiezza, e un certo livello di sostanziale default).
  4. La portata e gli effetti “sistemici” della riforma del trattato ESM.

In questa sede si ritiene di approfondire il punto c), poiché emerge come di primaria importanza per definire in concreto l’ulteriore aggravamento della traiettoria inerziale (quindi in assenza dell’adozione di rimedi “difensivi” da parte delle autorità di governo nazionale), di stress economici, recessivi e distruttivi, cui verrà sottoposta l’intera società italiana, portando alle estreme conseguenze l’ingestibilità e l’instabilità politico-istituzionale.

L’entrata in vigore del “nuovo” trattato ESM (complementare ai trattati Ue, ma sostanzialmente intergovernativo e diretto ai soli membri dell’eurozona, e quindi costituente un vincolo aggiuntivo ed autonomo rispetto al regime dei trattati stessi), nel corso del 2020 può essere dato per scontato: appare infatti ormai impensabile, – date le posizioni favorevoli “in blocco” finora espresse dall’Italia e l’aperta adesione (acritica) dell’attuale governo-, che tale trattato “complementare” non sia definitivamente approvato, come previsto, entro dicembre 2019. La successiva ratifica (che dovrà essere adottata ai sensi dell’art.80 Cost., essendo appunto la sostanziale modifica di un trattato, e non di una fonte di diritto europeo tipizzata, a suo tempo soggetto a ratifica, promulgata nel luglio del 2012), risulta del pari prevedibile ed entro lo stesso anno (salva crisi di governo subentrante prima del compimento di entrambe le deliberazioni delle due camere…). [1]

Schematizziamo il clou delle novità, – di regime dell’eurozona e di gestione delle crisi che possono (asimmetricamente) colpire uno degli Stati ad essa aderenti-, che scaturiscono da questa “riforma”.

Le nuove linee condizionali precauzionali (PCCL- precautionary conditioned credit line), mostrano criteri di ammissibilità agli aiuti impossibili, ove dovesse intervenire a favore di uno Stato che versi nelle condizioni di debito/PIL e di “spazio” di indebitamento annuale dell’Italia (in neretto le condizioni ostative più rilevanti):

(1) non essere in procedura di infrazione,

(2) da due anni non avere deficit superiore al 3%,

(3) anzi, inferiore, come definito da un ‘indice strutturale’ diverso da paese a paese,

(4) da due anni, avere un debito inferiore al 60% ovvero averlo dibotto di almeno 1/20 della distanza dal 60%,

(5) non avere alcun disequilibrio macroeconomico,

(6) avere accesso ai mercati dei capitali ‘a termini ragionevoli’ (ma sconosciuti nei loro esatti termini definitori),

(7) un debito estero sostenibile,

(8) un settore finanziario non vulnerabile.

Criteri che il Consiglio dello ESM è libero di applicare discrezionalmente, secondo linee di “aggiustamento” interpretativo non ragionevolmente preventivabili e, anzi, potenzialmente discriminatorie (come s’è già visto in tema di unione bancaria e discrezionalità relativa ai presupposti di ammissione dei vari tipi di ricapitalizzazione pubblica preventiva e di burden sharing a carico degli obbligazionisti, non evitato a causa di una decisione della Vestager poi ritenuta illegittima dal giudice europeo di primo grado; “caso Tercas).

Infatti queste linee di intervento ordinario sono pensate, per così dire, per Paesi che cadano in crisi…nonostante sé stessi: cioè che, – nonostante siano in condizioni di osservanza dei criteri complessivi del Fiscal Compact e, peraltro, essendovi riusciti pur in vigenza del regime dell’unione bancaria nonché, per la verità, grazie alla “misteriosa” pregressa tolleranza sul deficit (es; casi di Francia, Spagna, Portogallo nel periodo 2009-2017), riescano, allo stato attuale, ancora a registrare una situazione di equilibrio macroeconomico (secondo gli indicatori che accompagnano le regole del Fiscal Compact sugli squilibri macroeconomici); ciò in specie nei conti con l’estero, nonché per quanto concerne le condizioni di accesso “sostenibile” ai mercati per il finanziamento del debito pubblico.

In pratica, il nuovo ESM ammette il salvataggio “ordinario”, dedicato ad un singolo Stato dell’eurozona, come “caso impossibile”, al punto da rendere i suoi strumenti di intervento anti-crisi in concreto del tutto irrilevanti (tranne forse che per un salvataggio rivolto alla Germania o all’Olanda, caso della cui verificazione, stante l’attuale pseudo-equilibrio dell’eurozona, ci sarebbe da molto dubitare; peraltro, già per la Francia, l’attuale linea di deficit perseguita dal governo Macron, risulterebbe escludente, – il condizionale è d’obbligo, nel caso della Francia-, restringendo ulteriormente l’utilità concreta dello strumento).

In difetto di queste condizioni “ideali”, e concretamente paradossali, di concessione dell’intervento, viene poi previsto un “ESM loan”, o linea di credito a condizioni rafforzate, sul modello d’azione tipico del FMI (ECCL- Enhanced Conditions Credit Line), per l’acquisto di titoli del debito pubblico del paese in crisi (da spread, e quindi di rifinanziamento), sia sul mercato primario che sul secondario: e questo, però, solo se venga valutato, sempre con fortissima discrezionalità, che “la generale situazione economica e finanziaria rimane forte ed il debito pubblico sostenibile”.

Infatti, lo ESM è tenuto ad espletare, preliminarmente, una analisi di sostenibilità del debito.

Complessivamente e senza dettagliare la farraginosa disciplina in ogni sua ipotesi, – considerate, appunto, le eventualità effettive di intervento “utile” del Fondo – il Paese che chiede il sostegno dello ESM, deve sapere in partenza che gli verrà chiesta preliminarmente una ristrutturazione del debito.

Per rendere ancora più agevole l’imposizione di questa pregiudiziale fase di condizionalità (fortemente traumatica, nell’ordine degli eventi che concernono la vita di uno Stato appartenente all’OCSE…), col Trattato, le parti contraenti si impegnano a inserire, sin da subito, ed a prescindere dal manifestarsi di prevedibili condizioni di crisi, in tutte le proprie nuove emissioni, le clausole CAC (CAC-Collective Action Clauses) Single Limb (estensive dell’attuale capacità dei creditori di deliberare una ristrutturazione, tra i cui eventi presupposti, va rammentato, è previsto anche il cambio di valuta del paese emittente).

Ma non è finita qui; solo dopo tale ristrutturazione, lo ESM potrà offrire un prestito, “soggetto a stretta condizionalità (…) un programma di aggiustamento macroeconomico”, d’intesa con Commissione, Bce, IMF, dunque “duro” come sempre, per capirsi, come nel caso della Grecia. Il credito così concesso, inoltre, darà luogo a un congruo utile, per livello di interesse previsto, allo ESM, (evidentemente a compensare le perdite del resto del portafoglio, investito in Titoli di Stato tedeschi e francesi). Mentre lo ESM ed i suoi direttori si appropriano di piena immunità legale e penale.

  1. Il riassetto “estremo” che l’ESM determinerà nel funzionamento dell’eurozona.

Vediamo dunque quali saranno le novità essenziali che deriveranno da questa nuova disciplina nel funzionamento, già di per sé difficoltoso, dell’eurozona:

  1. a) le difficoltà di collocamento del debito pubblico determinate dagli spread, e la quasi totale soppressione di ogni spazio di intervento fiscale anti-recessivo degli Stati, potrebbero essere ovviate solo attraverso il prestito del nuovo ESM, previa ristrutturazione/default, e non più tramite l’OMT (Outright Monetary Transaction): cioè l’effetto, essenzialmente “psicologico”, sui mercati finanziari, del whatever it takes pronunciato da Draghi nell’estate del 2012. Quest’ultimo strumento, infatti, – nella sua forma di implicita e pura garanzia del debito pubblico apprestata dalla banca centrale (come accade nel rapporto tra banca centrale e emissioni del tesoro in ogni normale Stato dotato della propria moneta sovrana) -, non esiste più da anni, (ove mai la “creatività” di Draghi gli avesse dato una effettiva esistenza…non mediatico-comunicativa), poiché, su rimessione della Corte costituzionale tedesca, la Corte di giustizia europea, con sentenza del giugno 2015, ha chiarito definitivamente chel’attuazione del programma OMT è subordinata al rispetto integrale, da parte degli Stati membri interessati, di programmi di aggiustamento macroeconomico del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) o del Meccanismo europeo di stabilità (MES)”.

Ora, non sfugga che, in virtù del nuovo regime dell’ESM, i programmi di aggiustamento macroeconomico vengono ancor più inaspriti, erigendo a ipotesi unica, vincolante ed effettivamente applicabile, il “metodo” utilizzato con la Grecia
Appare perciò del tutto evidente che i problemi di crisi del debito pubblico, entro l’eurozona, – determinati anzitutto da evidenti difficoltà di ottenere un adeguato livello di crescita nonché di risolvere una crescente disoccupazione strutturale (e i suoi ovvii effetti di gettito tributario calante e di pressione all’aumento della spesa pubblica per “ammortizzatori sociali”), sono, (dal 2020 in modo ancor più vincolante), risolvibili solo attraverso il trauma della ristrutturazione del debito pubblico e con la sostanziale abrogazione dei già ristretti margini di intervento autonomo della banca centrale, a differenza di quanto accade per ogni altro Stato dotato di un proprio potere di emissione monetaria.

Va infatti rammentato che gli spread sono dipendenti da una condizione strutturale dell’eurozona: cioè costituiscono il “premio”, crescente, di rischio relativo alla uscita di uno Stato-membro, a causa dell’insostenibilità macroeconomica della moneta unica, a sua volta dovuta alle condizioni permanentemente punitive, per la crescita (e quindi per il calo del rapporto debito/PIL) implicite nel divieto di bail-out degli Stati aderenti (ovverosia, divieto di “solidarietà” fiscale dentro l’eurozona; artt.124 e 125 TFUE), nonché nel divieto della BCE di acquisto diretto dei titoli di debito pubblico (art.123 TFUE).

A seguito della crisi del debito pubblico, del salvataggio “psicologico” determinato dalla mera prospettazione dell’OMT, e poi, decisivamente, del primo programma di acquisto dei titoli del debito pubblico lanciato nel 2015 dalla BCE (QE), gli spread appaiono inoltre strettamente collegati al permanere di un atteggiamento “attivo” della stessa BCE, cioè legati al suo intervento (tramite banca centrale nazionale) negli acquisti sul mercato secondario (in particolare per l’Italia), mediante l’utilizzazione della liquidità, già immessa nel sistema, e riveniente dal rimborso alle scadenze dei titoli detenuti in forza di tale QE (e di altri precedenti facoltà di acquisto consentite alla BCE).

  1. Riforma ESM, orientamento privilegiato alla ristrutturazione del debito pubblico, e suoi effetti sul sistema bancario e sul risparmio nazionale nel quadro dell’Unione bancaria.

In complemento a questo scenario di ulteriore irrigidimento delle condizioni fiscali dell’eurozona, occorre considerare la contemporanea vigenza della c.d. Unione bancaria e gli effetti collaterali, di propagazione recessiva, che conseguirebbero, perciò, all’intreccio tra le due discipline, quella dello ESM e quella, già applicabile, dell’unione bancaria.

Detto in estrema sintesi: con il vincolo di (paradossale salvataggio previa) ristrutturazione del debito pubblico, ovvero con la partecipazione del settore privato, detentore dei relativi titoli, alle perdite, tutte le banche italiane andrebbero in default, con prevedibili conseguenze sistemiche.

La sequenza è: a) perdita vistosa dei corsi dei titoli, b) perdita conseguente di bilancio degli istituti bancari, c) esigenza di ricapitalizzazione a livelli impensabili, e non appetibili, per qualsiasi investitore privato, d) contemporanea preclusione di qualsiasi forma di ricapitalizzazione pubblica, non finanziabile sui mercati (ancorché susseguente a burden sharing a carico di azionisti e obbligazionisti…spesso piccoli risparmiatori), ergo: e) inevitabile bail-in di massa dei correntisti e ondata recessiva (aggiuntiva a quella che avrebbe, in assunto, giustificato il ricorso all’ESM!) di dimensioni epocali; ciò a causa della massiccia distruzione di risparmio e, dunque, di investimenti e degli stessi consumi (occorre infatti considerare la c.d. propensione al consumo del risparmio liquido e persino, sebbene inferiore, della ricchezza immobiliare, a valori drammaticamente descrescenti: tali asset infatti sono sempre più divenuti una riserva di consumo “eventuale”, legata all’incertezza e al calo dei redditi delle famiglie).

4.1. Riassumendo:

  1. a) la BCE assumeun ruolo sempre più centrale nell’eurozona, ma ancor più di prima, “in negativo”: cioè divenendo, in modo estremo, assolutamente neutrale nelle sue (peraltro giuridicamente vietate) funzioni di garanzia dell’azione fiscale degli Stati. L’indipendenza pura (cioè estesa non alla mera “libertà” della BC dall’’indicazione governativa di intervento sul mercato dei titoli al collocamento, ma come espresso “divieto” di tale acquisto in, eventuale, “monetizzazione” del debito pubblico stesso; v.art.123 TFUE) e dunque l’adesione all’idea neutrale della moneta, confinano la BCE ad effettuare la vigilanza bancaria ed il (mero) finanziamento del relativo settore secondo le pratiche di regolazione della massa monetaria fisiologicamente legate a tale neutralità (in pratica, l’emissione di moneta di banca centrale sarebbe assolutamente sigillata in un circuito che escluderebbe qualsiasi diretta o indiretta connessione con la “dazione” a soggetti dell’economia reale);
  2. b) non a caso appare altamente improbabile, e anzi complementare alla riforma dell’ESM, che, – in questa direzione impressa all’assetto dell’eurozona -, il nuovo QE sia effettivamente portato a compimento…il che, tra l’altro, equivale anche a una sostanziale rinuncia al vano tentativo di riportare l’eurozona al target inflattivo del 2%, compito già obiettivamente fallito col primo QE, e che risulta ora ostacolato dall’intento aggiuntivo di vietare, col nuovo ESM, i suoi effetti formalmente “secondari” (del QE): cioè quello di sostegno economico-fiscale agli Stati (che tante opposizioni ha suscitato e, ancor più suscita ora, nella Germania e nei suoi satelliti), nonché quello di effetto svalutativo nei confronti del dollaro (effetto che potrebbe essere rinunziato da Francia e Germania, come risulta dall’attuale decisa opposizione delle rispettive banche centrali, per evitare uno scontro commerciale e valutario con gli Stati Uniti);
  3. c) tutto il peso del riequilibrio interno all’EZ ricade sul finanziamento dell’ESM, che si profila anticipatamente come: a) meramente teorico in via di intervento ordinario, in condizioni fisiologiche; b) acutamente pro-ciclico, in caso di intervento residuale e concretamente applicabile, determinando una punizione “estrema” del paese che non reggerà la duplice condizione del pareggio di bilancio e di una crescita priva di squilibri macroeconomici;
  4. d) per l’Italia, a cui appare “mirato” il nuovo regime dell’ESM, questa situazione complessiva equivale a vincolo legale, fortemente sanzionato, a seguire una rigida politica fiscale pro-ciclica e, in prospettiva resa inevitabile, a sottoporsi alla ristrutturazione del proprio debito pubblico con conseguenze bancarie sistemiche e un bail-in di massa disastrosamente recessivo;
  5. e) questo scenario di imminente riforma rende perciò, va sottolineato, quasi obbligato, per l’Italia, un intervento precauzionale di imposizione patrimoniale sul risparmio privato nei depositi bancari, – ovvero un insieme di misure tributarie equivalenti (quanto a gettito)- nonché una ulteriore accelerazione nel progressivo smantellamento del sistema pensionistico e sanitario pubblico, che, ai fini del pareggio strutturale di bilancio, risultano infatti i maggiori aggregati della spesa pubblica (e la cui “incomprimibilità” politica viene considerata il principale ostacolo ad una virtuosa appartenenza all’eurozona). Ma anche questa serie di politiche “precauzionali”, accelerate dalla minaccia…del salvataggio ESM (!), risultano fortemente recessive, se non esiziali per la nostra economia e per il minimo di coesione sociale che caratterizza un paese democratico.
  6. La segregazione nel sistema Target2: una “quasi mediazione” per conservare l’euro e creare un ibrido che potrebbe preparare alla sua dissoluzione concordata.

Di fronte ad una tale ricetta per una fine disastrosa dell’eurozona, rimane sul tappeto un’ipotesi, come dire, di “mediazione” (come vedremo non meno penalizzante, a seconda dei suoi tempi e circostanze di adozione).

Il meccanismo in pratica è stato già ventilato “sottovoce” da più parti.

Nella fase attuale, la spinta di partenza sarebbe così riassumibile: se. in virtù del “nuovo” Trattato ESM, le regole tedesche non reggerebbero alla prova dei fatti (inducendo un collasso dell’EZ, proprio perché volutamente troppo costrittive), in realtà, l’introduzione di una riforma così “minacciosa”, potrebbe essere il modo migliore per costringerci ad accettare la c.d. segregazione.

La segregazione consiste (sulla traccia di quanto sperimentato dalla BCE nei confronti di Cipro e della Grecia) nella imposizione, all’interno del sistema di pagamenti Target2, di un obbligo di preventiva prestazione di cauzione per ogni pagamento in uscita proveniente da uno Stato considerato “debitore a rischio” (verso il rimanente sistema delle banche centrali dei singoli paesi-membri e, per riflesso, verso i sistemi bancari di tali paesi “creditori”).   Tale cauzione può assumere la forma di un deposito (presso la BCE) di una certa quantità di riserve della banca centrale nazionale, in oro o valute “forti”. Ma preso nella sua rigida forma giustificativa, avrebbe un limite (l’ammontare di tali riserve, comparato con il volume dei pagamenti verso l’estero dei residenti italiani), relativo all’onere sostenibile da parte della Banca d’Italia, che sarebbe presto raggiunto (in pochi mesi).

Infatti, per un paese che comunque presenta una forte componente di esportazioni, ma anche di connesse importazioni per rifornire il proprio sistema di trasformazione industriale, si avrebbe quasi certamente la concreta traslazione, da parte delle autorità bancarie nazionali, dell’onere di prestazione della garanzia a carico delle banche commerciali che eseguono gli ordini di pagamento in uscita. Queste, a loro volta, agendo come mandatarie degli operatori economici che importano, chiederebbero agli stessi o di sopportare il costo della garanzia, ovvero, in termini più pratici, un sovrapprezzo rispetto a quello corrispondente all’ordine di pagamento derivante dalla transazione di importazione.

Analogamente, nel sistema della segregazione, l’operatore nazionale esportatore, maturando un credito con un profitto (al netto dell’imposizione fiscale), che determina un attivo nelle partite correnti commerciali, non potrebbe poi più generare un pagamento in uscita nel sistema Target2 corrispondente all’investimento, per lo più finanziario, di tale profitto netto: e ciò, appunto, senza doverne sopportare una forte decurtazione a seguito della disposizione di “segregazione” (in sostanza, per l’investitore italiano verso l’estero ciò comporta un aumento del prezzo dello strumento finanziario estero prescelto; all’interno della sola eurozona, peraltro). L’effetto pratico sarebbe che, pur rimanendo l’Italia formalmente nell’eurozona, per gli acquisti dall’estero e per le esportazioni di capitale (all’interno della sola eurozona), l’euro “italiano” risulterebbe de facto svalutato nella misura percentuale corrispondente all’ammontare della cauzione/costo della garanzia imposta per un pagamento verso altri paesi dell’eurozona.

Ciò avrebbe un vantaggio, sia pure costrittivo, consistente in una misura equivalente alla restrizione delle importazioni (componente negativa del PIL), – vietata dall’art.34 TFUE ma consentita dalla supposta specialità delle regole applicabili dalla BCE -, nonché determinante un vincolo all’investimento nazionale dell’eventuale surplus delle partite correnti: tale investimento “nazionale” del surplus (aderendo all’idea che, tendenzialmente, importazioni più costose avrebbero perciò un minor volume, e, sempre tendenzialmente, il surplus commerciale medesimo potrebbe addirittura risultare aumentato) sarebbe, in ipotesi, destinato a rivitalizzare sia la domanda di titoli del debito pubblico che di beni immobiliari.

In altri termini, poiché l’Italia non è Cipro, ma un forte paese industriale manifatturiero, con una consolidata vocazione esportativa, si avrebbe una sorta di ibrido “lira-euro”, ragionevolmente svalutato e, come vantaggio ipotizzato dai tedeschi, una correzione abbastanza rapida del loro saldo attivo Target2, che la Germania considera, in modo unilaterale e controverso, come un attivo di riserve (in euro) della propria banca centrale.

  1. Osservazioni conclusive concernenti le prospettive vincolate dell’evoluzione della situazione politica e di governo italiane.

Qualche osservazione finale che aiuti a comprendere appieno la “svolta” che, senza apparente reazione alcuna da parte del governo nazionale, si sta così profilando:

1) La riforma dell’ESM risulta come una plateale accelerazione della “germanizzazione” dell’eurozona: infatti, si tratta di regole tedesche che non reggerebbero alla prova dei fatti per un debito pubblico e un’economia delle dimensioni di quella ITA. La stessa entità della provvista di cui è dotato l’ESM appare insufficiente a un salvataggio di tali dimensioni. Oltretutto, l’ESM si risolve nella “segregazione”, ovverosia in un vero e proprio sequestro “escludente” della (notevole) contribuzione italiana all’ESM (che assommandosi a quella già erogata all’incorporato ESFS, arriva a oltre 120 miliardi…).

2) Insomma, politicamente, ormai, la decisione finale sulla sopravvivenza o meno dell’€urozona spetterà alla Bundesbank che, certo, potrà invocare il mancato rispetto delle ‘regole’, ma dovrà assumersi l’onere della fine di un meccanismo che, allo stato dei fatti, favorisce l’espansionismo francese (dato che, vale la pena di rammentarlo, lo Stato francese e le banche francesi hanno accesso “non sindacato” al credito BCE);

3) l’alternativa alla segregazione, o, prima ancora, all’applicazione “punitiva” del trattato ESM (pressione tedesca), è costituita dall’ottenimento di saldi primari, pluriennali, del bilancio pubblico, dell’ordine di 3,5 – 4% del PIL (pressione francese), economicamente insostenibili (per crescita e occupazione), ma pienamente compatibili con uno sfruttamento coloniale, ovvero la via €uropea, di trasformazione definitiva del sistema italiano: prima di tutto costituzionale, secondo l’indicazione, ormai insistita da circa tre decenni, data dalla tecnocrazia italica (e dall’insieme di forze economiche e mediatiche che sostengono la permanenza nell’eurozona “ad ogni costo”);

4) il perseguimento di saldi primari di tale entità presupporrebbe, piuttosto, una situazione di, almeno, moderata crescita (sebbene, nell’eurozona, nell’accezione solowian-Barro-sargentiana, cioè praticamente una lunga stagnazione). Per contro, come dovrebbe ormai essere evidente a tutti, la globalizzazione, come s’è detto, si è inceppata, e pare vicina al collasso nella sempre più paventata evenienza della prossima crisi finanziaria globale (è, in estrema essenza, un problema di asimmetrie istituzionali nell’applicazione del WashingtonConsensus, v. pp. 1-2, a cui sono soggetti i paesi OCSE, in primis USA e eurozona, ma non altrettanto i paesi emergenti maggiori, come Cina e India, che hanno eroso crescita, capacità produttiva e occupazione nei paesi OCSE, ricorrendo a uno sviluppo caratterizzato da un forte intervento statale e da un incontrollato dumping sul costo e sulla tutela del lavoro).

Ergo, l’aspirazione francese, a prendere il controllo del sistema (finanziario, industriale e dei servizi) italiano, già nel medio periodo, se rapportata alla congiuntura economica globale, risulta velleitaria (può risolversi in un boomerang, con una recessione che contagi l’intera eurozona); così come appunto velleitaria è l’ostinazione dello spaghetti €stablishment nell’assecondare l’espansionismo francese, promettendo (da decenni), una crescita futura “competitiva”, senza potersi basare su alcun ragionevole motivo macroeconomico che gli consenta di mantenere tale promessa…pagandone appunto il costo in termini elettorali;

5) in questo quadro globale, peraltro, trova spiegazione anche l’opposizione francese (cioè della banca centrale di Francia: un fatto considerato “sorprendente”…) al “nuovo” Quantitative Easing lanciato da Draghi.

Tale opposizione è ragionevolmente dovuta (v. qui, p. 8.1.): a) ai rendimenti negativi sulla gran parte dei loro titoli del debito pubblico che gli stessi francesi stanno subendo (permanendo in parallelo anche l’impossibilità politica per Macron di realizzare le riforme strutturali alla “tedesca”, e quindi di sopportare il costo politico-sociale di politiche di (ulteriore) svalutazione interna; b) all’effetto svalutativo sul dollaro del QE, e alla conseguente guerra daziaria (e anche valutaria) che ne deriverebbe (Trump deve aver parlato chiaro a Macron all’ultimo G7 di settembre), che i francesi commercialmente e geopoliticamente non possono permettersi (essendo gli Usa il primo paese di destinazione, per volume, delle loro esportazioni).

6) Volendo accreditare di una certa sostenibilità le politiche di perseguimento del pareggio strutturale di bilancio, che l’attuale governo persegue con molte incertezze, si renderebbe indispensabile un intervento “di riserva” della BCE alternativo al QE (come abbiamo visto sopra parlando degli spread)…ma sarebbe sufficiente a compensare l’entità della recessione fiscalmente indotta? L’esperienza “Monti” e governi seguenti ci dice di no.

E qui giunge al pettine un nodo nevralgico: l’ESM “punitivo”, tedeschizzato, fondato appunto sulla definitiva neutralizzazione di ogni possibilità di intervento della BCE, porterebbe al riacutizzarsi entro breve di un conflitto franco-tedesco. Ed infatti, la Germania ha interesse a minacciare la (imminente) ristrutturazione del nostro debito pubblico, se non altro (nella migliore delle ipotesi), per consentire di imporci la “segregazione” e assicurarsi un riequilibrio dei saldi Target2, (che, in controluce, prepara in realtà o una German-exit o un’Ital-exit); vale a dire: la Francia ha bisogno di tempo e di politiche di consolidamento fiscale che diluiscano nel tempo, in Italia, un effetto equivalente alla ristrutturazione del debito italiano (come abbiamo visto), per assicurarsi (in forza della tradizionale “cooperazione” politica del PD) il completo controllo finanziario e industriale della penisola.

7) Insomma: il valore operativo dell’ESM sta nell’imporlo (all’Italia), come minaccia “estrema”; consiste cioè, in un certo senso, in una sfida tedesca a imporci l’uscita. Però, prima regolando, a loro favore, i saldi Target2 (cioè vogliono la liquidazione per rimpinguare di riserve la loro moneta forte futura: possibilmente, per loro, un euro senza l’Italia).

 

[1] Questa la configurazione originaria dell’ESM: Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche Fondo salva-Stati (in inglese European Stability Mechanism; ESM), è un’organizzazione internazionale a carattere regionale nata come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro (art. 3); è istituita dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136) approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo[1] e ratificate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011[2][3]. Esso ha assunto però la veste di organizzazione intergovernativa (sul modello del FMI), a motivo della struttura fondata su un consiglio di governatori (formato da rappresentanti degli stati membri) e su un consiglio di amministrazione e del potere, attribuito dal trattato istitutivo, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti al fondo-organizzazione.[4]

Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011, con l’aggravarsi della crisi dei debiti pubblici, decise l’anticipazione dell’entrata in vigore del fondo, inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire da luglio 2012.[5] Successivamente, però, l’attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della pronuncia da parte della corte costituzionale della Germania sulla legittimità del fondo con l’ordinamento tedesco.[6] La Corte Costituzionale Federale tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012, quando si è pronunciata, purché vengano applicate alcune limitazioni, in favore della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco[7].

Il MES sostituisce il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF), nati per salvare dall’insolvenza gli stati di Portogallo e Irlanda, investiti dalla crisi economico-finanziaria.[8] Il MES è attivo da luglio 2012 con una capacità di oltre 650 miliardi di euro, compresi i fondi residui dal fondo temporaneo europeo, pari a 250-300 miliardi.[9][10][11]

Il MES è regolato dalla legislazione internazionale e ha sede a Lussemburgo. Il fondo emette prestiti (concessi a tassi fissi o variabili) per assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquista titoli sul mercato primario (contestualmente all’attivazione del programma Outright Monetary Transaction), ma a condizioni molto severe. Queste condizioni rigorose “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12). Potranno essere attuati, inoltre, interventi sanzionatori per gli stati che non dovessero rispettare le scadenze di restituzione i cui proventi andranno ad aggiungersi allo stesso MES.[12] È previsto, tra le altre cose, che “in caso di mancato pagamento, da parte di un membro dell’Esm, di una qualsiasi parte dell’importo da esso dovuto a titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da versare […] detto membro dell’Esm non potrà esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata di tale inadempienza” (art. 4, c. 8).

Il fondo è gestito dal Consiglio dei governatori formato dai ministri finanziari dell’area euro, da un Consiglio di amministrazione (nominato dal Consiglio dei governatori) e da un direttore generale, con diritto di voto, nonché dal commissario UE agli Affari economico-monetari e dal presidente della BCE nel ruolo di osservatori. Le decisioni del Consiglio devono essere prese a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice (art. 4, c. 2).[12] Il MES emette strumenti finanziari e titoli, simili a quelli che il FESF emise per erogare gli aiuti a Irlanda, Portogallo e Grecia (con la garanzia dei paesi dell’area euro, in proporzione alle rispettive quote di capitale nella BCE), e potrà acquistare titoli di stati dell’euro zona sul mercato primario e secondario. Il fondo potrà concludere intese o accordi finanziari anche con istituzioni finanziarie e istituti privati. È previsto l’appoggio anche delle banche private nel fornire aiuto agli stati in difficoltà. In caso di insolvenza di uno Stato finanziato dallo MES, quest’ultimo avrà diritto a essere rimborsato prima dei creditori privati.

https://orizzonte48.blogspot.com/2019/09/il-nuovo-esm-tra-la-vecchia-soluzione.html?fbclid=IwAR2AzZOiyLEopHfnnfUGN5OujPlTWzk1X544zeiMQtjKmnsRV9uVaGz4uKE

Qualche riflessione sul problema migratorio, di Andrea Zhok

Qualche riflessione sul problema migratorio

1) Premessa

Discutere oggi di immigrazione in Italia, come in Europa in generale, finisce facilmente per fornire occasioni di polemica corrente e per focalizzare su questo o quell’episodio mediatico. Non è questa l’intenzione delle brevi considerazioni che seguono. Non prenderemo posizione su decisioni del presente governo, di quello precedente, del Consiglio d’Europa, ecc. L’intento invece è quello di chiarire, contestualizzandola storicamente, la cornice economica ed etica entro la quale è sensato prendere le nostre decisioni in termini di immigrazione.

 

2) Il contesto italiano in rapporto al fenomeno migratorio

L’immigrazione verso l’Italia è un fenomeno relativamente recente, che però ha avuto una crescita molto rapida, con direttrici di provenienza che sono variate nel tempo. Gli stranieri residenti in Italia sono al 1° gennaio 2018 5 milioni e 144mila (5.144.440), cui vanno aggiunti secondo le stime del Ministero degli Interni circa 600.000 clandestini. Questo significa che la popolazione di stranieri residenti rappresenta l’8,57% della popolazione, cui va aggiunto circa un 1% di clandestini, per un totale approssimativo del 9,5%.

I gruppi nazionali prevalenti sono, in ordine di grandezza e limitandoci ai gruppi che superano le 100.000 presenze: Romania (1.190.000), Albania (440.000), Marocco (416.000), Cina (290.000), Ucraina (237.000), Filippine (167.000), India (151.000), Moldavia (131.000), Bangladesh (131.000), Egitto (119.000), Pakistan (114.000), Sri Lanka (107.000), Nigeria (106.000), Senegal (105.000).

Ciò che colpisce immediatamente è come la percezione pubblica della ‘problematicità’ o ‘onerosità’ di alcuni gruppi di stranieri non coincida con la mole della loro presenza sul territorio. Alcuni gruppi, pur presenti in modo massiccio (Cina, Ucraina, Filippine, India) sembrano aver prodotto un impatto minimo in termini di ‘disfunzionalità percepita’ rispetto ad altri. Proveremo a vedere in seguito se a questo elemento di ‘percezione’ corrispondano elementi obiettivi o meno.

La situazione italiana ha alcune caratteristiche specifiche rispetto ad altri paesi europei con dimensioni simili. In termini assoluti, in raffronto a paesi di dimensioni comparabili, abbiamo una percentuale di stranieri residenti non particolarmente elevata: come abbiamo detto l’Italia presenta circa il 9,5% di stranieri residenti di contro al 14,8% della Germania; al 14% del Regno Unito; all’11,8% della Francia, al 9,9% dell’Austria, al 9,8% della Spagna.

L’andamento temporale della presenza in Italia è però particolare. Rispetto a Francia, Germania o Inghilterra, l’Italia ha iniziato ad assorbire forza lavoro straniera solo in tempi recenti, con una curva degli ingressi molto repentina. Nel 2000 gli stranieri in Italia erano circa un milione, oggi sono oltre 5 milioni, con una quintuplicazione della popolazione straniera nell’arco di 18 anni.

Per comprendere anche le specificità nella percezione pubblica del problema bisogna ricordare come a questa dinamica di crescita si sia aggiunto il fenomeno degli sbarchi clandestini, dovuto alla collocazione geografica del paese. Con l’eccezione della fiammata del 1991, con lo sbarco di circa 50.000 albanesi in pochi mesi, fino al 2010 il tasso di sbarchi si era contenuto in una forbice che andava dai 4.000 ai 50.000, poi a partire dal 2011, con 62.000 sbarchi, è iniziata una tendenza alla crescita che ha portato nel 2014 a 170.100, nel 2015 a 153.843, e nel 2016 a 181.436 sbarchi. Ancora nella prima parte del 2017 l’andamento sembrava ricalcare quello del 2016, ma il successo della strategia di contenimento adottata dal ministro Minniti ha ridotto drasticamente gli sbarchi nella seconda metà dell’anno, che sono risultati alla fine 119.247.

La rapidità della crescita percentuale della popolazione straniera in pochi anni e il recente fenomeno di immigrazione clandestina di massa sono le coordinate obiettive indispensabili per comprendere il formarsi di una percezione pubblica dell’immigrazione come priorità nazionale. A questo aspetto oggettivo va però abbinato l’aspetto interpretativo, più specificamente politico, su cui ci soffermeremo in seguito.

 

3) L’immigrazione dall’Africa subsahariana come caso di studio

Proviamo ora a concentrare l’analisi su quella componente che, a dispetto di numeri non debordanti, è stata percepita negli ultimi anni come maggiormente problematica, ovvero l’immigrazione proveniente dall’Africa subsahariana. Prendiamo questa situazione non solo per il suo carattere di emergenza contingente, ma soprattutto come esempio di problemi che potrebbero verificarsi su altre direttrici, e per cui bisogna approntare una risposta.

Per quanto il problema degli ‘sbarchi’ dal Mediterraneo riguardi persone provenienti tanto dal Medio Oriente e dal Maghreb che dall’Africa subsahariana, la situazione in prospettiva più preoccupante è quest’ultima, in quanto non sembra di essere di fronte a crisi passeggere, ma ad una condizione di squilibrio strutturale.

In Italia, sulla rotta mediterranea, giungono prevalentemente migranti da Senegal, Nigeria, Tunisia, Guinea, Eritrea, Sudan, Gambia, Costa d’Avorio, e Somalia. Sono quasi tutti paesi con condizioni di vita problematiche, spesso in mano a cordate familistiche che detengono il potere in forme autocratiche ed autoritarie. Salvo il caso del Gambia non si tratta in senso stretto di ‘paesi poveri’.

La Tunisia è l’unico paese del Maghreb in questa lista. Dal 2010 le vicissitudini politiche seguite alla ‘primavera araba’ hanno abbattuto un Pil che nei precedenti dieci anni oscillava tra il 2 e il 6% di crescita; da allora il paese è in sostanziale stagnazione, nonostante il ritorno ad una situazione di stabilità politica.

Il Senegal è il paese dell’Africa subsahariana con la maggiore stabilità politica e con una crescita economica prima facie invidiabile (salvo una breve recessione nel 2012 oscilla negli ultimi dieci anni tra i 2% e il 10% di crescita).

La Guinea ha avuto una serie di vicissitudini politiche interne che hanno inciso sull’economia, inducendo un andamento ondivago della produzione, con negli ultimi anni un episodio recessivo e ora una crescita apparentemente solida, oltre il 6%.

La Nigeria, paese produttore di petrolio, ha visto una crescita del Pil oscillante tra il 4 e il 6% tra il 2005 e il 2015, per poi avere una repentina recessione (2016-2017) ed una ripresa all’attuale 1,5%.

L’Eritrea, dopo una lunga guerra intestina, ha ripreso a crescere nel 2009, tenendo una crescita media un po’ superiore al 4%.

Anche il Sudan è un paese produttore di petrolio che ha avuto un tasso di crescita medio negli ultimi 10 anni poco sopra il 4%.

Il Gambia, uno dei paesi africani più poveri, ha comunque avuto buona crescita (3-4%) negli ultimi 10 anni, con un episodio recessivo nel 2011.

Dopo la conclusione di una guerra civile nel 2011, la Costa d’Avorio, il più grande esportatore al mondo di cacao, ha infine un’economia che, in termini di Pil, appare galoppante.

Senza voler entrare in troppi dettagli, ad uno sguardo generale è facile riconoscere che in quasi tutti i casi si tratta di paesi ricchi di risorse naturali, con potenzialità produttive buone e talvolta eccellenti, ma dove tuttavia la ricchezza procapite non riesce ad aumentare in modo significativo.

Ciò sembra dipendere da una molteplicità di fattori, ma tre si presentano in primo piano: 1) l’organizzazione politica interna è spesso conflittuale e disfunzionale, con una distribuzione interna della ricchezza estremamente diseguale, dove a fronte di una ristretta élite estremamente benestante c’è una parte ampia della popolazione sulla soglia della sopravvivenza; 2) l’elevata crescita demografica suddivide la crescita totale su di una popolazione a sua volta crescente; 3) nei casi più ‘favorevoli’, dove il paese ‘gode della fiducia’ degli ‘investitori stranieri’, questi ultimi drenano ampia parte del Pil al di fuori del paese. In sostanza, come è stato osservato più volte, parlare di ‘paesi poveri’ è limitativo e fuorviante; si tratta di paesi i cui problemi di ordinamento interno, fragile e conflittuale, si ripercuotono in instabilità e scarsa capacità di imporre le proprie condizioni negli scambi internazionali.

Se guardiamo all’evoluzione demografica in questi paesi troviamo, come detto, elevata natalità, contenuta in parte da una mortalità più elevata rispetto a quella dei paesi OCSE. Nell’Africa Subsahariana le donne hanno in media 5,2 figli nel corso della loro vita, rispetto all’1,6 dell’Europa e all’1,9 del Nord America, e la densità media della popolazione nell’Africa subsahariana è di 43 abitanti per kmq. Per avere un raffronto, in Italia la demografia è in lieve decrescita (-0,12/anno), con una densità di popolazione di 202 persone per kmq.

Più specificamente in Africa troviamo:

Eritrea: crescita demografica = + 2,3%/anno, densità: 51 persone per kmq;

Somalia: crescita demografica = + 2,96%/anno; densità: 24 persone/kmq; Nigeria: crescita demografica = + 2,64%; densità 215/kmq;

Costa d’Avorio: Popolazione + 2,53%/anno, densità 78/kmq;

Gambia: Popolazione + 3,1%/anno, densità 214/kmq;

Senegal: popolazione +2,42%/anno, densità 84/kmq;

Guinea: crescita demografica = + 2,64%/anno, densità 44/kmq.

L’unico paese con un tasso di crescita demografica relativamente ridotto è la Tunisia, con uno 0,96%, per una densità di 65/kmq.

Naturalmente qui contano anche i valori assoluti di partenza e perciò l’incidenza di crescita della Nigeria, con quasi 200 milioni di abitanti, è molto superiore a quella del Gambia, con poco più di due milioni di abitanti. Con una crescita media del 2,6% la popolazione dell’Africa subsahariana è destinata a raddoppiare nell’arco di una generazione (ogni 27 anni).

Ciò che si può evincere da questi dati demografici è una dinamica di fondo. Gran parte dell’Africa Subsahariana adotta una strategia riproduttiva adatta a condizioni di vita rurali e precarie, strategia non dissimile da quella che si poteva ritrovare anche in Europa fino a un secolo fa: le famiglie fanno comparativamente molti figli per tre ragioni: a) l’investimento richiesto (ad esempio in formazione) per il mantenimento di un figlio è comparativamente basso; b) il gruppo famigliare rappresenta la principale risorsa economica e di influenza sociale; c) l’incertezza delle condizioni di vita rende sensato considerare la possibilità di decessi precoci.

Questa strategia riproduttiva potrebbe lasciare spazio ad una strategia differente, come spesso predicato dai demografi, solo in presenza di condizioni di sviluppo differenti. Tuttavia al momento i sistemi di organizzazione sociale e produzione, a base familistica, e le condizioni di sfruttamento internazionale non sembrano consentire cambiamenti consistenti: i gruppi dominanti, su base familiare o tribale, spesso tributari a potenze estere, si appropriano di una parte comparativamente molto elevata del Pil, che non alimenta né servizi locali, né la domanda interna. Questo è testimoniato anche dall’Indice di Gini, che cerca di misurare il tasso di diseguaglianza economica (dal minimo al massimo, tra 0 e 100). Per quanto l’Indice di Gini sia spesso di ardua misurazione in quei contesti, nella misura in cui lo riteniamo attendibile, esso mostra una forbice reddituale tendenzialmente ampia. Prendendo come parametro la Germania (31.4) o l’Italia (34.7), troviamo il Senegal con 40.3, la Costa d’Avorio con 41.7, la Nigeria con 43.0, il Gambia con 47.3, ecc.

Nel complesso questa situazione può essere rappresentata come una sorta di ‘squilibrio perpetuo’, dove i problemi interni di questi paesi, politici ed economici, vengono allentati ricorrendo alla valvola di sicurezza dell’emigrazione. Tale valvola, tuttavia, si limita a impedire (o limitare) la conflittualità interna, senza indurre mutamenti sistemici e anzi consentendo a quegli squilibri di perpetuarsi indefinitamente.

È abbastanza evidente come questa dinamica non rappresenti né un meccanismo socioeconomico capace di risolvere i problemi delle relative nazioni africane, né un processo sostenibile nel medio-lungo periodo dai paesi europei.

Nei paesi industrializzati, il tasso demografico ridotto corrisponde ad un modello sociale dove l’investimento in cura e formazione è tendenzialmente elevato, dove i tempi di lavoro e i correlati oneri tendono a lasciare tempi contingentati alla cura famigliare, e dove il raggiungimento delle condizioni economiche favorevoli alla procreazione ne impongono spesso una dilazione considerevole. Queste condizioni, non meno strutturali ed oggettive di quelle che dettano una strategia demografica diversa nel Terzo Mondo, si sono sviluppate in Europa in forme sociali ed economiche dove lo Stato si assume un ruolo di cura e supporto significativo (welfare state). Tali forme sociali possono essere messe a repentaglio dai flussi migratori, in forme che vedremo.

Qual è dunque l’effetto dei flussi migratori in Europa? L’effetto dipende naturalmente da paese a paese, a seconda di quali siano le condizioni sociali ed economiche pregresse, ed è un’impresa complessa darne un resoconto che quantifichi separatamente l’impatto migratorio rispetto ad altre variabili. Tuttavia, è possibile estrarre una dinamica generale di incidenza sia sul piano strettamente economico, che su quello sociale.

4) L’impatto dell’immigrazione su stato sociale e spesa pubblica

Dal punto di vista economico un afflusso di immigrati può influire in modi diversi, a seconda di quanto essi possano essere assorbiti dal locale mercato del lavoro.

Se gli immigrati sono in grado di entrare nel circuito produttivo e di pagare contributi, essi possono incidere positivamente sul benessere economico di un paese. Ciò accade quando un paese è in una condizione prossima alla piena occupazione, oppure nell’eventuale caso di ingressi settoriali di lavoratori qualificati per supplire a mancanze di offerta lavorativa interna altamente specifiche. Questo secondo caso riguarda tipicamente lavori specializzati e non comporta spostamenti massicci di popolazione.

Se siamo in presenza di moderata disoccupazione, l’afflusso di forza lavoro straniera crea un incremento di concorrenza, che, in un regime di libero mercato, crea una pressione al ribasso dei salari e in generale delle condizioni di lavoro. Questo naturalmente non si verifica ad ogni livello, ma solo in quegli ambiti lavorativi in cui la manodopera immigrata è in grado di fornire un contributo lavorativo. Di norma il fenomeno è percepito nelle occupazioni con minore valore aggiunto. Tale processo viene spesso salutato con favore da una parte della classe imprenditoriale, mentre viene percepito come un problema dai lavoratori autoctoni, specialmente quelli meno qualificati, le cui condizioni sul mercato del lavoro tendono a degenerare. Naturalmente l’idea che ‘esistano lavori che gli italiani / europei non vogliono più fare’ è una sciocchezza: quel che è vero è solo che mestieri al di sotto di certi livelli salariali sono accettabili solo per chi è prossimo alla disperazione. Un sistema che dia per scontato che è impossibile elevare le condizioni di lavoro dei mestieri meno piacevoli, e che dunque, per preservare i margini dei ceti benestanti, si richiede l’importazione di persone disperate, rappresenta un tale abisso morale da non richiedere particolari commenti. Per una bizzarra perversione concettuale, chi sostiene questa tesi di sfruttamento sistematico spesso ammanta sé stesso di virtù umanitarie ed etichetta chi la contesta di razzismo.

Infine, se siamo in condizioni di elevata disoccupazione, il sistema economico non è in grado di assorbire alcuna nuova forza lavoro. In queste circostanze un afflusso migratorio genera fatalmente esiti altamente problematici, che incidono sul sistema di welfare e/o sulle risorse statali. I nuovi arrivi, non trovando occupazione non possono fornire alcuna risorsa al paese con i propri contributi. Al tempo stesso, quanto più esteso e generalista è un sistema di welfare, tanto più esso viene messo sotto tensione da tali nuovi arrivi, che inevitabilmente pesano su asili nido, case popolari, servizio sanitario pubblico, assistenza alla povertà, ecc.

Ciò ha anche un effetto indiretto di logoramento del welfare negli stati che lo offrono. Infatti, gli Stati che offrono di meno in termini di servizi pubblici e ammortizzatori sociali (scarso welfare e ampie aree privatizzate) sono anche meno oberati dall’afflusso di persone disoccupate o maloccupate. I servizi di welfare degli Stati più socialmente generosi sono messi in tensione dall’utenza addizionale e riducono perciò la propria qualità ed accessibilità. Questo deterioramento alimenta l’opinione comune e l’azione politica favorevole ad una sostituzione del servizio pubblico con un servizio privato, che per sua natura non è universalistico e non rappresenta un onere per le casse dello stato. Perciò, con un meccanismo indiretto ma intuitivo, un’immigrazione incontrollata produce pressioni per la riduzione del welfare pubblico e la privatizzazione dei servizi.

Nel peggiore dei casi, infine, i soggetti che non riescono ad entrare nel circuito dell’economia legale si ritroveranno in quello dell’economia illegale, quando non senz’altro in quella criminale.

5) L’impatto dell’immigrazione sull’ordinamento sociale

Prendiamo ora in considerazione l’altro lato, oltre a quello economico, dell’impatto di un’immigrazione eccedente le capacità di assorbimento di un paese. Fino a che l’immigrazione riesce a integrarsi essa può rappresentare un arricchimento, come testimoniano, per dire, i ristoranti etnici di molte grandi città. C’è tuttavia un nesso causale ovvio tra l’impossibilità di integrazione economica e la tendenza a nutrire le fila della criminalità: chi non può vivere legalmente vivrà illegalmente. Inoltre, sia la cultura di provenienza sia la specifica formazione culturale del migrante non sono variabili neutrali quanto alla facilità o difficoltà di integrazione. Persone che presentano maggiori difficoltà di integrazione culturale possono essere più difficilmente assorbibili dal tessuto lavorativo (dove tale assorbimento è ancora possibile) e finire più facilmente per minare la convivenza e la legalità. Troviamo una conferma di questi due effetti nei dati relativi alla popolazione carceraria italiana.

Al 31 dicembre 2017 i detenuti stranieri in Italia erano 19.745 su 57.608 detenuti totali, dunque il 34,27% del totale a fronte di una popolazione straniera residente del 9,5%. Questo dato sembra segnalare una maggiore propensione a delinquere nella popolazione straniera, propensione sensatamente ascrivibile alla maggiore difficoltà di integrazione sociale ed economica. È stato peraltro osservato, giustamente, come la popolazione carceraria straniera tenda ad essere sovrarappresentata per la maggiore difficoltà ad avere accesso a servizi sostitutivi al carcere. Tuttavia, come vedremo, questa difficoltà non può spiegare se non in piccola parte l’asimmetria tra le percentuali in oggetto (9,5% vs 34.27%).

Questo dato generale può essere confermato e precisato analizzandolo per sottogruppi. Questo 34% di popolazione carceraria straniera può essere suddiviso per macroaree come segue: 7.287 (il 12,64% del totale) provengono dall’Europa di cui 3387 (il 5,87%) da paesi UE; dall’Africa provengono 9.797 detenuti (il 17,00%), dall’Asia 1.357 (il 2,35%) e dalle Americhe 1.096 (il 1,90%). Il dato qui è molto grossolano, e andrebbe spezzato per singolo paese di provenienza, ma alcune linee sono di particolare interesse. In particolare colpisce la divergenza tra il dato di presenza sul territorio e quello relativo alla popolazione carceraria.

Gli europei nella popolazione straniera residente sono 2.620.257 (cioè il 4,36% della popolazione totale residente in Italia), e nella popolazione carceraria sono il 12,64%. Questo significa che la percentuale di popolazione carceraria di origine europea è in una proporzione di 2,89 a 1 rispetto alla percentuale degli stranieri europei residenti.

Gli asiatici nella popolazione straniera residente sono 1.053.838 (cioè l’1,75% della popolazione totale), e nella popolazione carceraria sono il 2,35%). Questo significa che la percentuale di popolazione carceraria di origine asiatica è in una proporzione dell’1,34 a 1 rispetto a quella degli asiatici residenti.

Gli africani (Maghreb incluso) nella popolazione straniera residente sono 1.096.089 (l’1,82% della popolazione totale), cui però vanno certamente aggiunti una parte significativa dei 600.000 clandestini, che potrebbe portare la percentuale totale intorno al 2,5%. In termini di popolazione carceraria tuttavia essi ne rappresentano il 17,00%. Questo significa che la popolazione carceraria di origine africana è in una proporzione di 6,8 a 1 rispetto a quella degli africani residenti.

Per un raffronto, gli italiani in carcere sono 37.863, che in rapporto alla popolazione italiana rappresenta una proporzione dello 0,74.

Come sempre tutti questi dati vanno presi con cautela e verificati con attenzione, tuttavia essi sembrano confermare in maniera netta sensazioni diffuse, spesso sbrigativamente additate come ‘razzismo’. Così come è ragionevole aspettarsi che persone che hanno maggiori difficoltà ad integrarsi nell’economia, come un migrante disoccupato, abbiano una maggiore propensione ad entrare in forme di economia illegale o criminale, parimenti è ragionevole aspettarsi che divergenze culturali più accentuate, maggiori difficoltà ad identificarsi con usi e costumi del paese ospitante, accentuino la violazione delle regole comuni. – Di passaggio questo dato scomposto chiarisce anche come l’argomento della maggiore difficoltà degli stranieri di accedere a servizi sostitutivi al carcere non sia decisivo: se lo fosse non si comprenderebbe la vasta divergenza nelle proporzioni di cui sopra tra differenti gruppi stranieri, visto che tutti quanti hanno le stesse difficoltà di accesso a servizi alternativi in quanto stranieri.

Qui va evitata nel modo più netto ogni tendenza a trasformare questi dati in discussioni razziali, trattandosi di questioni perfettamente trattabili con variabili schiettamente sociologiche. Tuttavia, il problema rappresentato dalle specifiche difficoltà di integrazione, economica, culturale e sociale, con i relativi costi, non può essere sottovalutato, e in questo contesto l’immigrazione dal continente africano sembra rappresentare un problema di gravità specifica rispetto ai problemi posti da altre provenienze. Ciò aiuta forse anche a comprendere le ragioni per cui in Italia il rigetto nei confronti dei flussi migratori si sia accentuato drasticamente in concomitanza con il fenomeno degli ‘sbarchi’, provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.

In sintesi, è chiaro e non dovrebbe essere oggetto di controversie, se non ideologiche, che in condizioni lontane dalla piena occupazione un afflusso di popolazione migrante rappresenta per il paese ospitante un logoramento del welfare, un onere economico netto, ed una pressione disgregativa sul piano sociale e legale.

Come abbiamo notato, esiste un problema di integrazione economica, ma esiste poi anche un problema di integrazione sociale complessivo. Come si è visto in paesi con economie più prospere della nostra, la capacità di integrare gli ingressi lavorativi nel tessuto economico produttivo non garantisce che essi siano anche integrati sul piano sociale. Le periferie urbane di Parigi, Londra e Bruxelles, con le tensioni e gli scontri che vi si verificano da tempo e reiteratamente, stanno lì a ricordarci come fornire un posto di lavoro sia solo un passo necessario, ma ampiamente insufficiente verso l’integrazione e l’assimilazione, un passo che, se rimane l’unico, apre facilmente la strada a successive situazioni di aspro conflitto. È un dato manifesto che vi sono forme di vita e culture con gradi di conciliabilità maggiore o minore. Nei casi di minore conciliabilità, la creazione di enclave etniche impermeabili le une rispetto alle altre tende a produrre tensioni tra aspettative differenti in termini di leggi e costumi. Nei periodi di afflusso rapido di popolazione, anche dove le condizioni economiche ne consentano l’impiego, la creazione di tali enclave resta esiziale.

Questo è uno dei temi perennemente misconosciuti nel dibattito pubblico corrente. Lo è innanzitutto perché è un tema obiettivamente delicato e molto difficile da trattare, visto che la ‘conciliabilità (o inconciliabilità) culturale’ non è un dato immediatamente evidente, ma è l’esito di una pluralità di fattori, legati alla religione, ai costumi popolari pregressi, al livello culturale complessivo. Ma è misconosciuto anche perché è un tipo di questione che nella prospettiva culturale oggi dominante, di matrice liberale, viene delegittimata in partenza, in quanto l’esistenza stessa di identità collettive (società, comunità, nazioni, ecc.) è considerato un atavismo o un nonsenso.

Ad essere misconosciuto qui è un dato di fondo, ovvero che nessuna società è in grado di funzionare sulla sola base delle leggi formali, scritte, dei codici implementati da tribunali e carabinieri. In ogni sistema normativo (perfino nei contratti redatti tra contraenti volontari) esiste sempre un’ampia parte di ‘tacito senso condiviso’ che non può essere formalizzato, non può essere esplicitato, ma che presuppone una comunanza di vita, un’esistenza di vissuti pregressi comuni, di percorsi formativi comuni, ecc. Per quanto, come è ovvio, non ci siano due individui che abbiano esattamente gli stessi trascorsi e le stesse radici, comunque esistono gradi di maggiore o minore conciliabilità, e i confini tradizionali degli Stati nazione rappresentano a tutt’oggi la maggiore discontinuità in questo ambito di ‘comunanza informale’.

Fino a quando l’ospitalità concerne numeri limitati o casi episodici, chiunque si trapianti in un nuovo paese tende naturalmente ad assimilarsi, anche senza un intervento intenzionale da parte dello Stato. Ma quando si è di fronte ad afflussi massicci in tempi brevi, la tendenza a creare comunità chiuse, che replicano le forme di vita dei paesi d’origine è pressoché irresistibile. E mentre nel caso di differenze culturali blande ciò può rappresentare un problema minore, in altri casi esso può costituire un processo potenzialmente deflagrante, come le banlieue parigine ci ricordano.

6) Tre argomenti a favore dell’immigrazione e il contesto italiano

Torniamo nello specifico al caso italiano e alla recente sensibilizzazione di una parte cospicua della popolazione al problema migratorio. Per comprendere quanto accaduto è necessario ricordare insieme la catena degli eventi oggettivi e il modo in cui essa è stata discussa nel dibattito pubblico e sui media.

Che obiettivamente ci sia stato un doppio processo capace di ingenerare allarme lo abbiamo sottolineato sopra: abbiamo assistito ad una crescita rapida della popolazione straniera e negli ultimi anni ad un fenomeno di sbarchi clandestini accentuato e apparentemente irrefrenabile. Rispetto a questo quadro oggettivo il monopolio di una posizione semplicemente avversa è stato detenuto dalla Lega. Ma nonostante la Lega (come Lega Nord) sia stata al governo per otto degli ultimi diciotto anni (2001-2006 e 2008-2011) il dibattito mediatico è stato dominato da varianti di tre argomenti, tutti e tre in forme diverse favorevoli all’immigrazione. Possiamo chiamarli per comodità espressiva, rispettivamente, a) l’argomento “umanista”, b) l’argomento “fatalista” e c) l’argomento “utilitarista”. Va notato come spesso tali argomenti, nonostante si appellino a istanze incompatibili, vengano usati liberamente come opzioni alternative, tali per cui, se una opzione appare impercorribile, ci si appella senza remore ad una differente. Questo procedimento argomentativo dà talvolta la sgradevole impressione che qualunque cosa vada bene purché supporti il fine predeciso, cioè il sostegno alla libertà di immigrazione.

6.1) L’argomento umanista

Questo argomento è probabilmente quello più difendibile. Si tratta di un appello di natura deontologica alla necessità di aiutare i meno fortunati e al rispetto dei diritti umani. Questo appello, umanamente condivisibile, presenta però tutti i tipici problemi degli appelli a diritti/doveri fondati aprioristicamente e svincolati dal contesto reale di applicazione.

C’è innanzitutto il problema dell’identificazione di chi sia prioritariamente da aiutare. In un periodo affluente, di benessere diffuso, con condizioni di lavoro agiate, redditi generali crescenti, può essere facile identificare il bisognoso e motivare così il soccorso. Molto meno facile farlo quando precarietà reddituale e lavorativa sono ampiamente presenti. Esercitare comparazioni di fino circa chi sia più ‘sfortunato’ tra i bisognosi prossimi e quelli remoti, tra l’infanzia negata della periferia di Napoli o quella di Abuja, diventa un’impresa francamente improbabile. In ogni caso le difficoltà di vita non sono mai misurate dai dati sul Pil medio pro-capite, visto che livelli di sviluppo e di organizzazione differenti richiedono risorse molto differenti per tenere la testa sopra la linea di galleggiamento. Peraltro, sul piano politico, a chi nutra fondati timori per il futuro proprio o della propria famiglia non si può realisticamente chiedere di posporre questi timori all’aiuto di ignoti estranei.

Nella stessa ottica appellarsi, in maniera più o meno vaga, ai ‘diritti umani’ è una mossa retoricamente brillante, ma vacua. Chi si prenda la briga di visionare gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 può facilmente notare come essi siano ampiamente disattesi in tutto il mondo, per diversi miliardi di persone, e per moltissime persone anche nel nostro paese. Chi volesse prendere l’appello ai ‘diritti umani’, come imposizione di un ‘dovere inderogabile’, si troverebbe in un vicolo cieco. Molte persone incontrate quotidianamente sull’autobus o per strada vedono i propri ‘diritti umani’, a partire da quelli sociali, palesemente violati (sia prendendo come riferimento la Dichiarazione del 1948 che la Costituzione italiana). Ciò significa che il presunto obbligo ‘kantiano’ deve necessariamente essere temperato con un criterio selettivo: possiamo essere d’aiuto sempre solo a una netta minoranza degli aventi bisogno in senso assoluto. Ma una volta riconosciuto che un criterio selettivo deve esserci, il passo ulteriore è abbastanza diretto: nel patto sociale che fonda ciascuno Stato ci si vincola innanzitutto a diritti e doveri reciproci nell’ambito della medesima nazione. Questa è la dimensione primaria cui dobbiamo rivolgerci in termini di doveri di aiuto. Solo nel momento in cui questa sfera di soddisfacimento dei diritti sociali fosse adeguatamente coperta, avrebbe senso aprire un secondo livello di prossimità, rappresentato ad esempio da chi desideri insediarsi nel nostro paese.

6.2) L’argomento fatalista

Il secondo argomento, anch’esso frequentemente sollevato di fronte al fenomeno migratorio, suona più o meno così: siamo di fronte ad un movimento storico, epocale, fatale, di fronte cui opporre resistenza è futile, pretenzioso ed illusorio; migrazioni e spostamenti di popoli ci sono sempre stati e nessuno può farci nulla: meglio dunque disporci in maniera adattiva alla nuova situazione. Questo argomento, frequentemente ripetuto nei salotti televisivi non meno che in pensosi editoriali, è stato uno di quelli che hanno nutrito in maggior misura il successo della Lega di Matteo Salvini alle ultime elezioni. Infatti, il combinato disposto di crescita di stranieri e sbarchi da un lato e appello alla resa di fronte ad un ‘ineluttabile movimento storico’, ha prodotto naturalmente un’acuta ‘sindrome da invasione’. Inutile sottolineare come l’idea di un’invasione possa essere accettata con serena compiacenza solo da una minoranza di persone altamente ideologizzate. L’argomento fatalista così dispiegato è stato tra i maggiori contributori di quella svolta nella percezione pubblica che ha reso in qualche modo obbligati gli interventi di Minniti prima e di Salvini poi. La questione infatti era diventata quella di dimostrare sul piano pratico come, volendo, il flusso migratorio potesse essere arrestato o ridotto ai minimi termini. Cosa puntualmente avvenuta.

6.3) L’argomento utilitarista

Con ciò si arriva al terzo e ultimo argomento. Questo è forse l’argomento sollevato più spesso nell’ultimo periodo, in particolare nella versione per cui l’afflusso migratorio, colmando il deficit di crescita demografica italiana, servirebbe a pagarci le pensioni. In questo argomento ci sono una quantità di fallacie logiche del tutto indipendenti da stime numeriche o calcoli più o meno affidabili. Qual è, infatti, il modello di pagamento delle pensioni che esso prefigura? Se l’immigrazione è necessaria per pagare le pensioni, ciò significa che per riuscire a pagare le pensioni un sistema dovrebbe avere un numero di lavoratori in ingresso sempre crescente rispetto ai lavoratori in uscita. In sostanza si dice che senza crescita demografica infinita, o senza drenare risorse umane da paesi poveri, i paesi industriali non potrebbero pagare quanto dovuto ai pensionandi. In sostanza si propone come norma un sistema in perenne squilibrio che ‘vampirizza’ risorse umane altrui. È peraltro difficile capire come un modello del genere possa essere sostenibile nel tempo, in particolare in paesi con densità di popolazione già molto elevata (come tutta l’Europa occidentale).

Detto questo, bisogna ricordare che gli introiti della previdenza sociale non dipendono dal ‘numero dei lavoratori’, ma dal reddito complessivo dei lavoratori e dalla percentuale di questo reddito versato in contributi. Il modo più ovvio per supplire a difficoltà del sistema pensionistico sarebbe aumentando i redditi dei lavoratori attuali, e/o aumentando gli occupati, non certo aumentando indefinitamente il numero assoluto di lavoratori sempre più impoveriti. In un paese con la disoccupazione a doppia cifra e 100.000 giovani con alta formazione in uscita ogni anno, dire che per pagare le pensioni bisogna far entrare persone destinate a lavori a basso valore aggiunto o, più spesso, al lavoro nero o alla disoccupazione, può valere solo come una provocazione, non come una proposta costruttiva.  Incidentalmente, tutto questo discorso non sfiora neppure la prospettiva a brevissimo termine in cui, a causa della crescente automazione, si prevede una riduzione della domanda di lavoro pur in presenza di produttività crescente.

Se si prende come argomento a favore dell’accoglienza degli afflussi migratori l’idea che lo si debba fare nel nome dell’utilità economica, questo argomento andrebbe svolto con coerenza in tutte le sue implicazioni. Questo ragionamento implica che in presenza di disoccupazione locale, nel paese ospitante non dovrebbe entrare assolutamente nessuno, salvo eventuali contingenti mirati a momentanee scoperture di personale con precise qualifiche (e solo fino a quando il paese non sia in grado di riconvertire forza lavoro locale a quei compiti). Un afflusso di migranti in presenza di disoccupazione più che ‘fisiologica’ può solo sostituire lavoratori già impiegati (comprimendo i salari) o nutrire il lavoro nero: in entrambi i casi nessuno contributo giunge ai cespiti che pagano le pensioni.

 

7) Conclusioni e modelli di integrazione possibili

Nel complesso, le linee generali che sembrerebbe ragionevole adottare nei confronti del fenomeno migratorio (parliamo dei cosiddetti ‘migranti economici’) sembrano chiare. Se si ha a cuore il paese, nella situazione attuale e per il prevedibile futuro, ogni ingresso di popolazione migrante dev’essere rigorosamente regolamentata, il che significa che deve poter essere possibile bloccare gli accessi (altrimenti parlare di ‘regolamentazione dei flussi’ è solo una chiacchiera). La consegna, con riferimento alla cosiddetta ‘migrazione economica’ dev’essere quella di accogliere solo quantità di persone integrabili sia lavorativamente che socialmente.

A grandi linee ciò potrebbe implicare l’adozione di questi indirizzi.

Innanzitutto il paese deve avere un canale ufficiale per gli ingressi legali, canale che possa essere modulato in modo restrittivo e selettivo, e che consenta l’inoltro di richieste d’asilo per ragioni umanitarie. Queste ultime, fino a quando rimangono entro numeri non esorbitanti, possono essere considerate in eccezione alle esigenze di funzionalità del paese.

Per quanto concerne la migrazione di tipo economico, in prima istanza, il modello di accoglimento può essere di tipo funzionalista, simile a quello dei Gastarbeiter tedeschi, dunque con permessi funzionali, limitati, rinnovabili, senza la pretesa, né l’aspettativa che un processo di assimilazione avvenga. Questo processo ha senso solo per numeri limitati, e per periodi limitati.

In seconda istanza, quando c’è l’aspettativa che la permanenza lavorativa si protragga nel tempo è opportuno entrare nell’ottica di una strategia ‘assimilazionista’, mirata in ultima istanza alla creazione di nuovi cittadini. Questa strategia deve farsi carico di alcuni elementi di supporto all’integrazione di tipo culturale e linguistico, e deve portare, dopo un congruo numero di anni (dieci?) alla possibilità di richiedere la cittadinanza. La cittadinanza dovrebbe peraltro essere conferita solo previo superamento di alcune prove (una seria prova di italiano parlato, e una conoscenza normativa di base, con particolare riferimento alla normativa costituzionale). A chi obietti che anche alcuni cittadini italiani potrebbero essere in difficoltà a superare tali prove bisogna replicare che ciò sarebbe una buona ragione per dedicare sforzi primari alla formazione degli italiani, non certo una ragione per abbassare ulteriormente il livello di formazione medio. In ogni caso, il senso di tali prove è quello di supplire, almeno in parte, alla mancanza di un retroterra pregresso comune, che per gli autoctoni si estende a numerosi livelli informali impossibili da insegnare ‘tecnicamente’.

Infine, chiunque abbia a cuore l’esistenza futura del proprio paese, la tenuta di qualche forma di stato sociale, e la prosperità della propria popolazione deve respingere radicalmente i modelli di accoglimento di tipo ‘pluralista’ o ‘multiculturalista’. Tali modelli infatti tendono a creare enclave incomunicabili, conflitti sociali endemici, e difficoltà nel governo del territorio. Una volta di più, a chi obietti che da tali difficoltà l’Italia è già afflitta, bisogna replicare che questo è solo un argomento per farsene carico seriamente, e non certo per dichiarare per l’ennesima volta la resa di fronte al degrado.

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