Per una nuova Costituente, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, Per una nuova Costituente, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XV+86, € 12,00.

Questo saggio di Lottieri, preceduto dall’introduzione di Luigi Marco Bassani, si domanda se l’attuale sistema politico italiano potrà reggere all’impatto della crisi da Coronavirus. E risponde no. Già, come scrive Bassani nell’introduzione, l’Italia era un calabrone economico: come l’insetto, malgrado la forma non aerodinamica e le ali piccole riesce a volare, così il paese “andava, seppur lentamente, avanti”. Non è credibile che prosegua perché in autunno verranno al pettine i nodi irrisolti.

Contrariamente a una parte dei critici dell’attuale “sistema”, di chi pensa sia “colpa della finanza, del Bildelberg o della cattivissima Merkel” il tutto è dovuto alle prebende pubbliche e alle rendite parassitarie organizzate (spesso) e dovute (sempre) al potere politico. Per cui “è del tutto chiaro che o si riforma profondamente la struttura politica e istituzionale, oppure nessuno riuscirà a metter mano a nulla: spesa pubblica, debito e rapina fiscale (ai danni dei singoli, delle imprese e di alcuni territori)”. Il prelievo fiscale tra il 1974 ad oggi è, in rapporto al reddito nazionale, più che raddoppiato; fino a quando (cioè all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso) il PIL aumentava, l’incremento del prelievo era “compensato” – almeno in parte – dall’aumento del reddito. Ma dalla crisi del Covid-19 – che si aggiunge a quella del 2008, ancora gravante sull’Italia la quale, dal governo Monti in poi è “cresciuta” con percentuale annua da prefisso telefonico – e al relativo crollo del reddito, non si esce, sostengono Bottieri e Bassani se non cambiando il sistema radicalmente.

Mentre per l’analisi si può concordare anche se il ruolo dei poteri forti e/od occulti (quelli in crociera sul “Britannia”) non è sottovalutabile, ma sicuramente non è la sola causa dei guai nazionali, diverso è per la soluzione che propone il seggio.

Lottieri parte dall’Unità d’Italia, realizzata secondo un modello centralistico e statalista, accompagnato dalla voluta rappresentazione propagandistica volta a trasformare il Risorgimento in fiaba, mentre “la costruzione dell’Italia unita sia stata l’opera di una minoranza che s’è imposta anche a costo di sacrificare le aspirazioni dei più”. Data tale premessa ne è conseguente che “per proteggere un ordine politico artificioso e un’unità decisa dagli eserciti le classi di governo hanno dovuto a più riprese iniettare quantità massicce di veleno ideologico nelle vene degli italiani…Il controllo materiale sulle esistenze ha dovuto presto essere accompagnato da una progressiva manipolazione delle coscienze. Ma se le cose stanno così, deve essere chiaro che per salvare gli italiani bisogna affrancarli dall’Italia”.

Ora che lo Stato nazionale è fallito, occorre ricostruirlo dalle comunità territoriali con un procedimento federalistico-consensuale. Le comunità che non aderiranno alla federazione saranno libere di starne fuori, scrive Lottieri.

È qui che la tesi presta il fianco a critica. Funzione (dell’istituzione e) dell’autorità è offrire protezione politica. Il che vuol dire in primo luogo, difendere l’esistenza della comunità e dei cittadini. Anche se è assai importante, assicurare la certezza dei rapporti giuridici, attraverso un apparato di coazione è comunque l’aspetto secondario. In ogni fase storica (o anche geo-storica) per dare protezione all’esistenza comunitaria occorreva una massa critica idonea. Se le polis antiche, fino ad Alessandro Magno, riuscivano ad assicurarla, già dopo il macedone il mondo mediterraneo si organizzò progressivamente in sintesi politiche regionali (Roma, Cartagine, i regni dei diadochi) cui succedette un impero unico.

Secoli dopo il declino del feudalesimo – con i suoi poteri locali non (o poco) subordinati al Papa e all’Imperatore, succedettero i più piccoli, ma più centralizzati Stati moderni, I quali esercitavano realmente e pienamente, cioè di fatto, la sovranità ove raggiungessero certe dimensioni. Che nessuno degli Stati pre-unitari sia italiani che tedeschi (a parte la Prussia e fino a un certo tempo, Venezia) avevano. Il risultato fu che le guerre europee si facevano soprattutto in Germania ed Italia perché erano, politicamente, degli open space. L’indipendenza politica esterna degli italiani e dei tedeschi arriva solo con l’unificazione nazionale .

Se pure la formula proposta da Lottieri come soluzione al populismo, ossia “mercati globali, governi locali” è seducente, non è detto che, di fatto, sia capace di conservare l’esistenza delle comunità locali, in una fase storica in cui il potere è concentrato in entità, statali e non, di enormi dimensioni, capaci di far valere con successo le proprie volontà.

Le quali possono essere contenute solo se costrette a confrontarsi con soggetti di pari forza – o di forza non dissimile. Par in parem non habet jurisdictionem, non è solo un principio giuridico; è anche la conseguenza di una parità (o di una non eccessiva disparità) di fatto.

Teodoro Klitsche de la Grange

La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XLI + 66, € 8,00.

È opportuna e tempestiva l’iniziativa di una nuova edizione di questi saggi di Constant (la prima è del 2001) con introduzione di Luca Arnaudo.

Questo perché in tempi di cambiamenti radicali, di democrazie liberali e illiberali, i saggi inclusi nel volume, soprattutto il primo, famoso, danno un contributo decisivo, tanto alla risposta a cosa sia la libertà politica e, in certa misura, anche la democrazia.

Com’è noto Constant distingue la concezione della libertà degli antichi da quella dei moderni, distinzione poco o punto chiara a molti teorici e politici del XVIII secolo e della rivoluzione francese. Quella degli antichi “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace… ma se tutto ciò gli antichi chiamavano libertà, al tempo stesso ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme… In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Al contrario “tra i moderni, al contrario l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza”; “Scopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie”.

Il crollo delle istituzioni rivoluzionarie, che nella concezione della libertà degli antichi trovano il pilastro, è stato causato proprio dalla diversità dalla libertà come condivisa dai moderni.

La distinzione tra diritti-libertà di partecipazione al potere politico, e diritti-libertà dal potere politico è stata tra le più fortunate. Riecheggia in tanti teorici successivi del diritto pubblico e della politica: ricordiamo, tra i tanti, quella di M. Hauriou tra Droit statutaire e Droit commun; di I. Berlin tra libertà di e libertà da, di C. Schmitt tra principi di forma politica, (democrazia) e principi dello Stato borghese (uno dei quali è quello di separazione tra Stato e società civile).

Su come coniugare la libertà degli antichi a quella dei moderni Constant propone la soluzione, debitrice di quella esposta da Sieyés nel discorso all’Assemblea costituente sul “veto reale”. Alla libertà dei moderni conviene “un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”. L’acume di Constant vede anche il pericolo di tale organizzazione del potere “il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”; trascurare questo può compromettere quello.

Non è vero che i cittadini non sanno decidere sulle questioni politiche “Guardate i nostri concittadini, di tutte le classi e professioni, che staccandosi dalla sfera dei loro lavori abituali e delle loro faccende private si trovano improvvisamente a occuparsi delle importanti funzioni che la Costituzione demanda loro: decidono con discernimento, resistono con energia, sconcertano l’astuzia, sfidano il pericolo, resistono nobilmente alla seduzione”. Per cui Constant conclude “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro…Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. Altro che tecnocrazia e “ce lo chiede l’Europa”. Il secondo saggio (Note sulla sovranità del popolo e i suoi limiti) verte su un argomento quanto mai difficile dato che, come scriveva (tra i molti) V. E. Orlando la sovranità è per sua essenza assoluta; a farla relativa la si distrugge. E per risolvere tale antinomia Constant sostiene che garante ne è l’opinione pubblica (che intendeva come il common sense di T. Paine): “La limitazione della sovranità è dunque esatta, ed è possibile: essa sarà garantita inizialmente dalla forza che garantisce tutte le verità riconosciute dall’opinione, in seguito lo sarà in maniera più precisa dalla distribuzione e dal bilancio dei poteri”. Il che significa che il limite, prima che giuridico, è politico e meta-giuridico. Cosa ancora non compresa da tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARICA DEI MONATTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARICA DEI MONATTI

Sarà, ma non riesco a vedere del tutto negativo che i quattrini dell’U.E. arrivino, come dicono, nei prossimi anni.

Non sono un economista, e molti mi rimprovereranno di non tener conto dell’effetto shock che un’iniezione massiccia di liquidità ha su un’economia in recessione; ma credo di avere qualche esperienza della politica, di quella nazionale in particolare e questo mi induce a bilanciare, almeno parzialmente gli effetti positivi e quelli negativi del ritardo.

Molti pensano che il governo Conte sia prossimo al capolinea, probabilmente sostituito, entro l’anno, da un nuovo esecutivo, sorretto da una “scissione” di Forza Italia; altri (meno) pensano che si vada ad elezioni anticipate nel prossimo inverno (con altre probabilità di alternativa). Se è vero ciò, il vantaggio del ritardo è evidente: non sarà questo governo a spendere la massa di moneta – oltre 200 miliardi di euro – in arrivo dall’U.E.. Vantaggio che sarebbe modesto, ove il governo fosse comunque espressione del PD (e appendici), superiore se lo escludesse e fosse formato dall’attuale opposizione.

Il perché è semplice: il PD (nelle varie trasformazioni) è il maggiore (anche se non l’unico) responsabile della venticinquennale stagnazione economica italiana, che ne ha fatto l’economia più ferma sia dell’U.E. che dell’area euro (dopo essere stata, prima del 1993, una delle più dinamiche).Non c’è passaggio economico decisivo della “seconda repubblica” che non porti la firma di un boiardo di centrosinistra: dall’entrata nell’euro alle privatizzazioni, spesso farlocche e altrettanto spesso profittevoli per i privati, ma non per il pubblico (tra le tante – Autostrade); dal rigore a senso unico (quello sbagliato) alla tassazione a gogò. I protagonisti di questo quarto di secolo (abbondante) sono stati i vari Prodi, Ciampi, Amato, Padoa Schioppa, Monti, nessuno dei quali ha governato senza la fiducia del centrosinistra.

Con i risultati che abbiamo visto prima della pandemia. Per cui chiedersi perché gli italiani abbiano ridotto il PD (e connessi) da quasi la metà dei voti a poco più di un quinto dell’elettorato è sorprendente: a sorprendere – di fronte a tanto sfascio – sarebbe il contrario. Che poi a spendere i quattrini che l’U.E., (bisogna riconoscere, stavolta meno rigorosa del solito), mette a disposizione, debbano essere sempre coloro i quali da decenni ci hanno messo in questa situazione realizzando politiche “rigorose” (si fa per dire) è circostanza assai poco rassicurante. Da risultati passati così negativi non c’è da attendersi un futuro radioso.

E lo si vede già nelle normative per il rilancio: mentre tra le misure per il rilancio dell’economia post-Covid la “cattivissima” Merkel in Germania ha abbassato l’IVA di 3 punti (dal 19 al 16 per l’aliquota ordinaria), seguita dalla piccola Cipro, il governo PD-M5S ha inventato bonus, alcuni giustificati, altri surreali – quelli per bici elettriche e monopattini – , ma – a parte qualche breve rinvio di pagamento – nessuna riduzione d’imposta, tanto meno per quelle generali, gravanti su tutta la popolazione (come, tra l’altro, IRPEF, IVA, IMU). In realtà come al solito emerge la differenza sostanziale tra l’Italia e la maggior parte dell’Europa: che non è tanto il “rigore” ma il modo di governare (e governarlo).

Lì si prendono misure emergenziali che incidono per lo più a danno o a favore di tutti: hanno la stessa caratteristica positiva della legge di Rousseau: che viene da tutti e si applica a tutti.

In Italia viene da un governo di minoranza nella Nazione, nato per impedire alla maggioranza (Salvini e connessi) d’andare al governo e serve, in larga parte a fare favori a pochi, se non pochissimi. Quelli che stanno a cuore ai governanti minoritari. I quali hanno un consenso radicato tra i tax-consommers, ossia tra coloro che, sul bilancio dello Stato, ci campano, E non è solo la burocrazia; come scriveva un secolo fa circa Giustino Fortunato, il bilancio dello Stato è “la lista civile della borghesia parassitaria”. Quella che prospera grazie alle imposte, alle tasse, alle tariffe pagate da tutti. E che nutre grandi attese dalle conseguenze della pandemia. Ridurre le imposte (a tutti), profittando dei fondi europei significa ridurre i favori (a qualcuno); cosa improponibile a un governo che si “regge” sul consenso di quelli.

Tempo fa notavo che Manzoni narra come l’esclamazione dei monatti nella Milano appestata era “viva la moria”, perché i lutti di tutti erano occasione per i monatti di vivere (neppure tanto onestamente): e c’erano segnali in Italia che la situazione (e l’augurio) si stesse ripetendo con i monatti post-moderni.

Ne abbiamo avuto la conferma pochi giorni fa; il brindisi (completo) dei monatti nei Promessi sposi in effetti era: “Viva la moria. Moia la marmaglia”; un ministro l’ha completato dicendo che se i ristoratori non riescono ad adeguarsi, meglio che cambino mestiere. Il che vuol dire la morte economica di non poche imprese. Delle quali non molte (forse) propendevano per il partito del ministro e quindi lo “meritavano”. Ma chi spiegherà al ministro che se cessano di produrre le imprese, pochi pagheranno le tasse? E che se non pagano le tasse non solo i suoi elettori, ma persino lui sarà costretto a lavorare?

Teodoro Klitsche de la Grange

La malattia del mondo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Francesco Borgonovo, La malattia del mondo, Milano 2020, pp. 207, € 15,00

Questo libro è una riflessione sulla pandemia da coronavirus, che dall’evento risale alle condizioni ideali e materiali da cui è stato incentivato, in un’epoca in cui eventi del genere, che hanno funestato l’umanità per millenni, sembravano chiusi nell’archivio della storia. Archivio che a dispetto dei progressisti – e purtroppo non solo loro – si è riaperto.

La pandemia è stata frutto di due fattori fondamentali, ambo ideali: il primo è la ybris, il secondo è (la pretesa/aspirata) assenza di limiti (non solo fisici) che caratterizzano il pensiero della globalizzazione (e dei globalizzatori). Quanto alla prima scrive l’autore, la ybris è “prima di tutto superamento del limite, del confine. E se ci pensate, l’intera storia dell’epidemia di Covid-19 (esattamente come la storia della globalizzazione) è una faccenda di confini varcati e limiti infranti”. Il limite infranto è quello della natura “Della natura noi uomini siamo, al massimo, i custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro ruolo, o quando tentiamo di farci creatori sostituendoci al Creatore, allora scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica”. Secondo gli scienziati il Coronavirus è nato – come altri agenti patogeni – da uno spillover da un “salto” tra specie (da animali selvatici all’uomo). Varcato il limite della specie è stato assai più agevole, dato il progresso tecnico e la permeabilità delle frontiere, diffondersi nel pianeta a velocità impressionante “Prigionieri come siamo dell’ideologia della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente i confini, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: la malattia, dalla Cina, è approdata in Germania, e da lì è giunta in Italia. Poi, il disastro. Quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i nostri limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza economica… Il confine, il limite, le barriere salvifiche che avrebbero potuto arginare l’avanzata del nemico occulto sono stati sbriciolati dal capitalismo selvaggio e dall’ideologia che impone: nessuna frontiera”.

Ricordando quanto scriveva Schmitt della contrapposizione tra terra e mare e le conseguenze che comporta sull’ordine, sul diritto e sull’economia, Borgonovo sostiene che non erra Zigmunt Bauman quando definisce la società post-moderna “società liquida” contrapposta alla solida terra che fonda società basate sul limite (confine delle proprietà, dei territori delle sintesi politiche, almeno di quelle stanziali, ossia, nella modernità, tutte). Per espandersi la “società liquida” necessita di superare se non di abolire i limiti.

Hegel lo aveva notato per l’industria nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: “come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il fondo e il terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il mare.

Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio…”; il mare pertanto era l’ “ambiente” più favorevole al commercio e all’industria. Ancor più quando, venuta meno la scoperta di nuove terre (e mercati) l’espansione deve basarsi sull’abolizione dei residui confini.

Il libro è colmo di idee. Per restare nei limiti di una recensione, la sintesi – purtroppo limitata come tutte le sintesi – è che la post-modernità si fonda sulla ybris, ossia la superbia di superare i limiti della natura. Borgonovo ricorda come i greci notassero ciò: Erodoto ed Omero, cui occorre aggiungere Sofocle, in particolare nell’Antigone e nell’Edipo re. Come condanna della ybris come distruttrice dell’ordine terreno e divino è particolarmente significativo il canto del coro nell’Edipo rePossa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni”. O nella profezia di Tiresia a Creonte nell’Antigone, nella quale l’indovino prevede la rovina del re per aver violato le leggi di natura “questo non è un potere tuo, né degli dei supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”. Indubbiamente una civiltà come quella greco-romana che Spengler riteneva basarsi sul senso del finito, cioè del limite è particolarmente utile per capire la degenerazione faustiana della post-modernità.

La quale trova la propria caratteristica fondamentale nel ritenere superabili realtà e leggi naturali. Lo stesso comunismo reale, rapidamente espanso e conclusosi, si fondava sull’illusione del giovane Marx di cambiare la natura umana, mutando i rapporti di produzione; alla fine della dittatura si sarebbe costruita la società comunista, senza comando né obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. Cioè senza i presupposti del politico – le costanti che connotano ogni comunità politica umana. Risultato smentito dalla breve storia del comunismo. Il quale si è retto solo perché ha mantenuto anzi potenziato le costanti del politico nella dittatura sovrana del partito. Cessata la fede nella quale è imploso. Nella post-modernità questa ybris ha preso altre forme, immaginato altri idola: tutti accomunati dalla credenza di poter oltrepassare leggi e limiti naturali. Illusione sempre smentita e fondante, come cantava Sofocle, nuove tirannie.

Teodoro Klitsche de la Grange

RESPONSABILITÁ E POTERE, di Teodoro Klitsche de la Grange

RESPONSABILITÁ E POTERE

Si dice che nel decreto-legge sulla “semplificazione” amministrativa di cui (al momento in cui scrivo) si è in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, vi sia una modifica (per un anno) del regime di responsabilità amministrativa dei funzionari, che escluderebbe quella per “colpa grave”, limitandola al dolo; per lo più, pare, inteso in senso penalistico.

Questa norma era, per così dire, “nell’aria”, perché confermativa della tendenza a ridurre la responsabilità dei funzionari che connota la prassi legislativa della repubblica: anche se, bisogna dire, altre norme annunciate – tese a limitare gli atteggiamenti omissivi e lentezze procedurali, sono condivisibili e semmai tardive perché avrebbero dovuto essere poste in essere da decenni.

Già agli albori dello “Stato di diritto” nel continente europeo la responsabilità dei funzionari (sia verso i cittadini per i loro atti che dello Stato) era oggetto di dibattito tra posizioni contrastanti. Così ne discutevano già Constant (oltre due secoli orsono) e Tocqueville (a metà dell’ottocento) con argomenti tuttora illuminanti.

Scriveva Constant nei Principes de politique (del 1815) che “Non basta aver stabilito la responsabilità dei ministri; se questa responsabilità non comincia nell’esecutore immediato dell’atto che ne è oggetto, essa non esiste: deve pesare su tutti i gradi della gerarchia costituzionale. Quando non è tracciata una via legale per sottoporre tutti gli agenti all’accusa che essi tutti possono meritare, la vana apparenza della responsabilità non è che una insidia funesta per coloro che saranno tentati di credervi. Se punite soltanto il ministro che dà un ordine illegale e non lo strumento che l’esegue, collocate la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire”, all’obiezione che “se gli agenti inferiori possono essere puniti in una circostanza qualsiasi per la loro obbedienza, li si autorizza a giudicare le misure del governo prima di parteciparvi. Per ciò stesso ogni sua azione è impedita. Dove troverà il governo degli agenti se l’obbedienza è pericolosa? in quale impotenza mettete tutti coloro che sono investiti del comando! in quale incertezza gettate tutti coloro che sono incaricati dell’esecuzione!”, il pensatore di Losanna replicava che “Questa obbedienza, quale ci viene esaltata e raccomandata, è, grazie al cielo, del tutto impossibile. Persino nella disciplina militare l’obbedienza passiva ha dei limiti tracciati dalla stessa natura delle cose a dispetto di tutti i sofismi… Un soldato dovrebbe forse, dietro ordine del suo caporale ubriaco, sparare al suo capitano? Egli deve dunque distinguere se il suo caporale è ubriaco o no; deve riflettere che il capitano è un’autorità superiore al caporale. Ecco che al soldato si richiede intelligenza e discernimento”. Per cui “Mai però si potrà far sì che l’uomo possa divenire totalmente estraneo all’esame e fare a meno dell’intelligenza che la natura gli ha dato per guidarsi e di cui nessuna professione può dispensarlo dal fare uso”.

Dato che proponeva, come giudice delle responsabilità, collegi di giurati, sosteneva che ciò non avrebbe incentivato troppo la disobbedienza perché la tendenza naturale dei funzionari “favorita altresì dal loro interesse e dal loro amor proprio, è sempre l’obbedienza. I favori dell’autorità hanno questo prezzo. Essa dispone di tanti mezzi segreti per compensarli degli inconvenienti del loro zelo!”.

Quanto a Tocqueville scriveva che le costituzioni francesi succedutesi dal 1789 avevano tutte confermato di sottrarre l’attività dei funzionari al controllo giudiziario, confermando così quello che, nell’ancien régime era una prassi consolidata “l’articolo parve così ben concepito che abolendo la costituzione di cui faceva parte si ebbe cura di estrarlo dalle rovine e dopo lo si è sempre conservato accuratamente al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori lo considerano ancora una delle grandi conquiste del 1789, ma in ciò sbagliano ancora, perché sotto la vecchia monarchia, il governo non aveva meno cura nell’evitare ai funzionari il disagio di rispondere al giudice come capita ai semplici cittadini”.

Sono quindi due secoli che lungo la “linea di faglia” che congiunge i principi di forma politica a quelli dello Stato borghese – e che comprende (anche) le garanzie del corretto esercizio della funzione pubblica – si riproduce il dibattito nelle medesime posizioni e quasi sempre, argomenti.

E la ragione è chiara: in ogni forma statale insistono due regolarità potenzialmente confliggenti: il rapporto tra governanti e governati (comando/obbedienza) e quella della classe politica, che Miglio estensivamente denominava aiutantato. In ogni regime politico le due regolarità devono essere tenute in equilibrio: perché nessuna classe dirigente può rinunciare a una certa misura di consenso dei governati e neanche ad un certo tasso d’obbedienza dell’aiutantato.

Sicuramente però eliminare la colpa grave come causa di responsabilità – anche se temporaneamente, ma in Italia spesso il contingente diventa duraturo – appare improponibile. Significa assicurare l’irresponsabilità per ogni errore provocato da negligenza, imperizia, imprudenza grave.

Se fosse applicato nei rapporti privati, renderebbe non sanzionabili le inadempienze più evidenti, compresa l’inadeguatezza a esercitare il ruolo per cui si è retribuiti.

Anche l’obbedienza dell’aiutantato ha un prezzo per l’autorità: ma, l’irresponsabilità per colpa grave è un costo troppo alto da pagare.

Teodoro Klitsche de la Grange

NON INDURRE IN TENTAZIONE…, di Teodoro Klitsche de la Grange

NON INDURRE IN TENTAZIONE…

Al fine di giudicare la complessa vicenda – o almeno la parte di essa più rilevante –Palamara – CSM non è inutile quell’invocazione del paternoster all’Onnipotente: non c’indurre in tentazione. Nei due fatti di “deviazione” della giustizia ai fini politici che occupano le prime pagine dei giornali: la sentenza contro Berlusconi di anni fa e la recente richiesta di processare Salvini, un ruolo di grande rilievo hanno le innovazioni legislative e costituzionali successive a Tangentopoli, in particolare, da ultimo, la legge “Severino” del non rimpianto governo Monti.

Presupposto delle quali è la pretesa lesione del diritto di uguaglianza, che avrebbe provocato o comunque incentivato il malaffare dei politici. Questo è difficilmente perseguibile perché la giustizia “politica” – cioè con oggetto e/o soggetto politico – è (per sua natura) derogatoria sia delle competenze che delle procedure ordinarie, onde le deroghe apparivano (e sono viste) come vulnera del principio d’uguaglianza dei cittadini. I quali così, anche ai fini penali, sono distinti in governati e governanti: i primi soggetti alla legge, i secondi alle di essa “eccezioni”. A cui si aggiunge anche la lesione dei principi dello “Stato di diritto”.

Non è così: sin dai primi teorici (e dalle disposizioni delle costituzioni) degli Stati borghesi – risulta che la giustizia politica non può che essere derogatoria di quella ordinaria.

Scriveva Constant circa due secoli orsono per sostenere, nelle accuse ai ministri, la deroga della competenza dei Tribunali ordinari a favore della pairie che “La messa sotto accusa dei ministri è, di fatto, un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo. Occorre dunque, per condurlo a termine, ricorrere a un Tribunale che abbia un interesse parimenti distinto da quello del popolo e da quello del governo e che tuttavia sia unito da un altro interesse sia a quello del governo sia a quello del popolo” che individuava nella camera dei pari; ciò perché “La Camera dei pari è dunque, per l’indipendenza e la neutralità che la caratterizzano, il giudice adatto dei Ministri”, e così a decidere della pubblica accusa (cioè di iniziare l’azione penale) i più adatti sono i rappresentanti della Nazione (altra deroga); mentre i “tribunali ordinari, possono e debbono giudicare i ministri colpevoli di attentati contro gli individui; ma i loro membri sono poco adatti a pronunciare su cause che sono piuttosto politiche che giudiziarie; sono più o meno estranei alle conoscenze diplomatiche,, alle combinazioni militari, alle operazioni finanziarie: conoscono solo imperfettamente la situazione dell’Europa, hanno studiato soltanto i codici delle leggi positive, sono costretti dai loro doveri abituali a consultare soltanto la lettera morta e a chiederne soltanto la stretta applicazione”. Non aveva pensato Constant, al fatto che anche i tribunali ordinari possono essere sedotti dallo spirito partigiano, e giudicare secondo il medesimo, come rimproverato anche da alcuni magistrati nelle conversazioni intercettate. E se si considerano le opinioni dei giuristi negli ultimi due secoli, divergono poco o punto da quella di Constant.

Il carattere derogatorio è giustificato dai quei pensatori, sia dalla possibilità di sottrarre i ministri a vendette politiche, sia ad applicazioni di norme senza tener conto dell’interesse generale, sia all’indipendenza superiore di organi speciali rispetto ai tribunali ordinari. Non s’immaginava che gli organi giudiziari (ordinari) si trasformassero in soggetti politici, interloquenti e contrattanti con altri soggetti, politici a tutto tondo, come parlamentari, leaders, componenti del governo. E non solo per l’attività amministrativa del CSM, come la nomina dei dirigenti degli uffici o la giustizia disciplinare. Ma per la condanna o l’accusa giudiziaria di uomini di governo, cioè per la perversione del fine della giustizia, strumentalizzato ai fini della lotta politica.

Ma per riuscire compiutamente a ciò occorre che l’esito dell’azione giudiziaria intrapresa si traduca in risultato istituzionale: cioè nell’allontanamento/perdita delle cariche rivestite del politico condannato.

E questa è la prima tentazione alla perversione della giustizia e del pari il punto di frizione tra principi dello Stato borghese e principi di forma politica. Perché se da una parte trattare diversamente chi è giudicato è lesivo dell’isonomia, rimuovere dall’incarico chi è stato nominato dal potere politico – in una democrazia dal popolo – è lesivo sia della distinzione dei poteri (cioè di uno dei principi dello Stato borghese) che dell’essenza e supremazia del “politico”. Come scrive Schmitt “la democrazia è una forma essenzialmente politica, mentre la giurisdizione invece è essenzialmente non politica, poiché dipende dalla legge generale… in uno Stato democratico il giudice è indipendente, se deve essere un giudice e non uno strumento politico. Ma l’indipendenza dei giudici non può mai essere qualcosa di diverso dall’altro aspetto della loro dipendenza dalla legge”.

Proprio il carattere derogatorio della giustizia politica serve a garantire sia la distinzione dei poteri che la superiorità del politico e l’indipendenza del giudice. Ma per far questo occorre che sentenze e altri provvedimenti del giudice non incidano sulle decisioni politiche (e democratiche), in particolare sulle cariche elettive, e soprattutto degli organi rappresentativi. Se l’organo competente a mantenere (o esautorare) un eletto è un ufficio giurisdizionale (come nelle conseguenze alla legge Severino) questo diventa (quanto agli effetti) un organo di direzione politica. Come mi è capitato di scrivere tempo fa “Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.

Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.

A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, «in una cella della prigione della Santé»?

E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità  con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente)” (v. Giudici e governo, Italia e il mondo 19/02/2019).

Per questo incolpare solo i giudici o solo il dr. Palamara della “perversione” è parziale e…ingeneroso. La realtà è che, proprio a quel fine distorto, sono stati predisposti da tempo gli strumenti adatti. E i peccati di oggi sono le conseguenze di quelle tentazioni, predisposte proprio al fine di farli commettere. In nome dell’uguaglianza e dello Stato di diritto, per di più.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?_ di Teodoro Klitsche de la Grange

L’IMPERATORE CLAUDIO ERA IL NONNO DI MACRON?

L’autunno scorso un ex Presidente del Consiglio – e un mese fa l’attuale – si sono rallegrati per l’apertura dei Romani ai “provinciali”; onde già Claudio era stato fatto imperatore, malgrado nato a Lione. Da tale esempio ne hanno ricavato conforto per le politiche d’accoglienza, d’integrazione e, verosimilmente, forse anche per lo jus soli (?), maccheronicamente inteso.

A chi conosce la storia e i costumi di Roma la vicenda non sta così: Claudio era romano, anzi di una delle più antiche gentes. Svetonio riporta che i Claudii immigrarono in Roma ai tempi di Romolo, ad avviso di alcuni; secondo altri, subito dopo la caduta della monarchia. Alla Repubblica la gens Claudia dette centinaia di magistrati, tra cui ben ventotto consoli. Il fatto che Claudio fosse nato a Lione non vuol dire che fosse gallo. Era nato in Gallia perché il padre guidava le legioni romane nelle guerre contro le tribù germaniche. La circostanza della nascita lontano da Roma non significa per nulla che non fosse romano: lo era per jus sanguinis. Ancor più il rilevante ruolo della gens Claudia nella storia romana rende un po’ comica la tesi del Claudio gallico o non-romano.

È interessante chiedersi perché sia stato diffuso da persone di buona cultura. Sembra di escludere che i due credano che Claudio non era civis romanus perché nato in Gallia.

Piuttosto, nella propaganda diretta ad elettori i quali neppure sanno chi era Claudio (e forse cos’era l’impero romano) devono propinarsi argomenti semplici e comprensibili da parte dei meno acculturati. E quale argomento migliore del luogo di nascita, accompagnato dalla completa de-contestualizzazione, onde la Gallia provincia romana appare “uguale” alla attuale Francia, stato sovrano?

In altre parole dire che Claudio è nato a Lione (che allora i romani chiamavano Lugdunum) significa quindi che era gallo, quasi francese. Il fatto che la Gallia fosse una provincia di Roma, che erano – specie nel primo secolo dell’Impero – i magistrati romani a governarla, questo è probabilmente ignorato da tanti onde cede di fronte all’argomento tele-anagrafico, alla portata di tutti.

Certo sarebbe stato sicuramente più in linea con la tesi cara ai due leaders politici, ricordare, di Claudio, lo splendido discorso fatto per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche, riportato da Tacito, che è, a un tempo, spiegazione della capacità di Roma di integrazione di popoli diversi, e della stessa integrazione quale mezzo della politica. Disse Claudio che i romani, da Romolo in poi, non avevano mai considerato gli altri popoli, anche se un tempo nemici (e vinti) come alienigeni (cioè diversi da loro); per cui con chi si era fatta la guerra era possibile costruire insieme e vivere in pace.

L’inconveniente di quel discorso è che non è immediatamente comprensibile (soprattutto) e che comunque l’integrazione richiede tempo (i Galli ammessi l’avevano aspettata circa un secolo) e non verificata da un esame d’italiano (o giù di lì).

A proposito di altri esami (e d’istruzione): non vorremmo che, anche complice l’emergenza da Coronavirus, il distanziamento scolastico e così via, non si desse un ulteriore “taglio” allo studio della storia, che, a quanto si legge, ne ha già subiti. In particolare di quella antica giudicata – a torto – di scarsa utilità.

Il che non è vero: a leggere il libro italiano che sarebbe il più conosciuto al mondo, cioè il Principe, Machiavelli lo scrive prendendo gran parte del materiale dalla storia antica.

Perché, dopo certe lezioni, c’è da aspettarsi che gli studenti, disabituati a conoscenza e valutazione storica, rispondano agli esaminatori che l’imperatore Claudio era il nonno di Macron.

Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

VIVA LA MORIA

Scrive Manzoni che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero – brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti. Una delle vittime fu proprio Don Rodrigo derubato dai monatti d’accordo con il Griso. Mentre Renzo, preso dalla folla per untore (ossia diffusore volontario della pestilenza) era protetto dai monatti quale procacciatore d’affari dei medesimi.

Il contegno dei monatti è da non dimenticare perché per ogni situazione, anche quella più luttuosa, c’è sempre qualcuno che ci guadagna, e non solo l’erario, come mi è capitato di scrivere poco tempo fa, citando Puviani e Pareto. Qualche tempo dopo il terremoto d’Abruzzo, destò scandalo la registrazione della telefonata di un imprenditore edile che esultava nell’apprendere l’entità dei danni provocati dal sisma, che si sarebbero tradotti – per lui – in appalti e commesse per la ricostruzione.

Indubbiamente alcuni settori hanno già beneficiato della pandemia: farmacisti, industrie farmaceutiche, imprese di pulizia, industrie tessili convertitesi alle mascherine e così via. Ma dato il rapporto chiaro e diretto tra evento e beneficio relativo non v’è ragione di alzare la guardia. Che invece occorre in altri, meno diretti, rapporti tra virus, poteri pubblici e beneficiari della spesa (tax-consommers).

Sarà, ma quel gran parlare della novità, del mondo nuovo, di ricostruire dopo la pandemia sembra, o può diventare l’ouverture di una (prossima) grande abbuffata.

Ricorda il prof. Conte che il nostro è il Paese della bellezza (ovvio) e per farlo crescere – anzi ripartire – occorre la “modernizzazione”, la “transizione ecologica” e l’ “inclusione sociale, territoriale e di genere” (quest’ultima non poteva mancare).

Tutte ovvietà, ed alcuni idola esclusivi della sinistra. Per sostenere questi “tre pilastri” del rilancio, qualche euro è già disponibile ma altre spese “dobbiamo deciderle e per la redistribuzione delle somme, se non abbiamo progetti concreti, misure di impatto, non andiamo da nessuna parte” (fonte: qui finanza).

Il prof. Conte si regge con una maggioranza il cui socio principale, non in parlamento, ma nell’elettorato è il PD che nella quasi trentennale stasi italiana da cui ri-partire, ri-distribuire, ri-progettare (e via ri-partendo e ri-parlando) ha grandi responsabilità, onde come partner della ri-costruzione è poco credibile. Dato tale pilastro del governo il nuovo facilmente sarà la ri-edizione del vecchio copione (cambiati titoli, colori e al limite la punteggiatura). C’è da dire peraltro che proprio la vaghezza e ovvietà dei propositi non fa presagire granché di nuovo né di travolgente.

Quello che però conta è che propositi vaghi possono attrarre perché una volta determinati – e dotati delle idonee provviste monetarie, merito (anche) di un’Europa meno avara del consueto – suscitano vere folle di candidati alla ri-distribuzione, non solo disoccupati, cassintegrati, partite IVA, ma anche (soprattutto) fornitori dei beni e servizi di ri-costruzione.

Cioè attirano una folla di tax-consommers i quali, come dicono in Spagna si attivano a buscar un lugar en el presupuesto, ossai a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile.

Ciò che per i contribuenti italiani è assunzione di obblighi e pesi, per quelli costituisce guadagni e affari. È prevedibile che quindi la lotta per la re-distribuzione sarà ampia e dura e l’unico a soccombere il contribuente.

Accanto ad alcune iniziative logiche (investire per un vaccino) già se ne sentono altre che appaiono meno confortate dall’esperienza e dalla logica.

Come quella che l’inquinamento avrebbe provocato (o almeno aiutato) il virus. Ma l’umanità è stata funestata da millenni di pestilenze e non risulta che i contemporanei di Renzo, di Boccaccio o di Marco Aurelio bruciassero, come facciamo noi, miliardi di tonnellate di carbone, gas, petrolio.

E gli italiani che di sprechi (pubblici) ne hanno sopportati tanti, tutti motivati dalle buone intenzioni dei governanti e dei tax-consommers, devono vigilare perché i sacrifici richiesti a tutti non si risolvano in benefici per pochi.

Teodoro Klitsche de la Grange

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

GLI “STATI GENERALI” DI CONTE

È impegnativa l’espressione con cui il prof. Conte ha designato il convegno programmato per la settimana in corso. “Stati generali”, che rimanda a quelli convocati (l’ultima volta) nel 1789, per risanare le finanze francesi e il cui risultato – come spesso accade – non fu quello preventivato, ma l’altro di cambiare in toto la forma politica, e ancor più, il mondo moderno; passando per rivoluzioni, terrore, guerre (civili e internazionali). Pare comunque da escludere che il convegno – a onta del nome – possa avere esiti così epocali; proprio perciò occorre fare qualche considerazione, per non confondere con le parole quel che è distinto nei fatti.

In primo luogo quali differenze hanno gli Stati generali di Conte da quelli convocati da Luigi XVI, e a cosa di attinente alla rivoluzione invece somigliano? È diverso, in primo luogo il ruolo (e la posizione) costituzionale: l’assemblea francese era un organo dell’Ancien régime, quello del prof. Conte è un’iniziativa che non ha funzione, rilievo, effetti istituzionali. E ciò fa gioco alla maggioranza parlamentare, perché qualunque cosa decida (??) il convegno, non può comandare e soprattutto mandarli a casa, né ora, né nel futuro.

Secondariamente, altro pregio del convegno, i partecipanti sono degli invitati di Conte e non dei delegati o rappresentanti di qualcuno (nazione, popolo, ceti, terzo stato, ecc. ecc.), quindi non possono parlar quali “rappresentanti” e a nome di qualcuno né esprimerne la volontà. I componenti degli Stati generali erano stati eletti dalle assemblee di “ceto”, ne riportavano volontà e aspirazioni esposte nei Cahiers des doléances, erano vincolati al mandato ricevuto; la funzione che avevano – anche se istituzionale – era consultiva. Ma erano scelti con procedimenti pubblici; nel regolamento (per l’elezione degli Stati generali) del 24 gennaio 1789 si leggeva che “il Re… ha voluto che i suoi sudditi venissero tutti chiamati a concorrere alle elezioni dei deputati che dovranno formare questa grande e solenne assemblea”. Così attraverso il procedimento elettorale si saldava la delega tra mandanti e mandatari. Comunque ben diversi dagli invitati del prof. Conte.

Semmai qualche tratto di maggiore somiglianza la convention di Conte ce l’ha con l’altra assemblea consultiva convocata nel 1787 da Calonne: l’Assemblea dei notabili, la quale, a differenza dei deputati – mandatari degli Stati generali, era composta da nominati dal monarca e quindi, malgrado fossero non del tutto proni alla volontà del governo non avevano alcuna intenzione di fare una rivoluzione, tantomeno quella che ne venne fuori. Anche perché come pensavano (e pensano) i rispettivi governi è improbabile che nominati dal re provvedano a tagliargli (e tagliarsi) la testa. E infatti non assentirono alle richieste del governo, ma se ne tornarono a casa buoni buoni (seguiti, subito dopo, da Calonne).

L’altra somiglianza è nella situazione critica, anche se priva del carattere epocale e del lavorio preventivo della talpa (illuminista) della storia.

Allora furono il deficit e i cattivi raccolti il contesto, e l’occasio che fece brillare la scintilla rivoluzionaria; oggi il Coronavirus, la più che ventennale stasi economica italiana e la crisi, non ancora esaurita, del 2008-2011.

Se è vero che la “talpa” non ha lavorato come quella del XVIII secolo, ha comunque scavato qualche tunnel: la scarsa considerazione in cui le élite globaliste sono considerate dai governati ne è il risultato. Misurata anche dal consenso crescente ai partiti sovran-popul-dentitari.

E la stessa convocazione dell’ (innocua) convention di Conte lo conferma.

I mandatari del 1789 avevano i Cahiers des doléances elaborati dalle assemblee dei mandanti e così un qualcosa di concreto e reale da esporre al monarca: gli invitati di Conte, non hanno né quelli, né un mandato, né – alle spalle – una procedura di scelta da parte dei mandanti. Sono dei partecipanti a un convegno: sicuramente innocui e probabilmente inutili.

Chi ha la rappresentanza nella versione forte, tipica della dottrina moderna dello Stato, e formulata da Sieyès per trasformare proprio gli Stati generali in assemblea costituente, è il Parlamento: e non ha neanche bisogno del genio di un abate rivoluzionario, perché è già presente ed enunciata nella costituzione (v. art. 67), come tale ogni parlamentare è un rappresentante e organo rappresentativo è il Parlamento: al contrario dell’ancien régime, un organo rappresentativo che discuta e decida, già c’è. E quindi non deve far altro che il proprio mestiere: eletto dal popolo deve decidere in favore del popolo, e soprattutto, in una repubblica parlamentare, dando (o revocando) la fiducia al governo. Proprio quella che il governo giallo-fucsia teme. E per questo preferisce una convention di invitati.

Teodoro Klitsche de la Grange

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