DISTRUZIONE E PROTEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISTRUZIONE E PROTEZIONE

Si sente sempre più spesso ripetere quanto sosteneva (tra gli altri) Schumpeter che il capitalismo induce un processo di distruzione creatrice selezionando gli imprenditori più efficienti ed espellendo gli altri. L’occasione per incentivare questa selezione – un aspetto di darwinismo sociale – sarebbe la pandemia: le imprese che riescono a superare la crisi sono le più efficienti, mentre quelle che non sopravvivono, meritano di essere chiuse.

Anche se il ragionamento ha una sua validità e in Italia spesso si è fatto il contrario – con risultati deludenti – invocarlo in relazione alla pandemia è errato per due motivi, che poco hanno a che fare con l’efficienza economica.

Il primo è che l’uomo non è solo homo aeconomicus ma, tra l’altro – Aristotele docet – zoon politikon: e per l’appunto tale caratteristica lo porta a costituire gruppi politici il cui fondamento è, come scriveva Hobbes, lo scambio tra protezione e obbedienza: si deve obbedire a chi da protezione e, in cambio, si ha il dovere di proteggere chi obbedisce. Se però tale rapporto diviene impossibile, viene meno sia il dovere d’obbedienza che quello di protezione, come scriveva il filosofo di Malmesbury. Ne consegue che ciò che economicamente è condivisibile può essere politicamente da evitare (e viceversa). Anzi tante politiche di sostegno a imprese, e ancor più, a settori economici poco efficienti sono state motivate con argomentazioni di carattere politico, nel senso suddetto.

Ad esempio la politica europea di sostegno all’agricoltura (a cominciare dal MEC), molto costosa, era volta al sostegno della produzione, tesa anche (e probabilmente soprattutto) ad evitare che la carenza alimentare fosse utilizzata da altre potenze per motivi ostili. Come capitato agli Imperi centrali nella prima guerra mondiale.

Ed è meno evidente, ma d’importanza considerevole che politiche economicamente valide, specie nel breve periodo, in una visione più ampia e di lungo periodo, siano controproducenti sul piano politico. Così la distruzione di piccole aziende, tenuto conto che i piccoli imprenditori, e, in genere i ceti medi, sono il sostegno sociale decisivo, oggi, delle democrazie liberali.

E, a tale proposito, non è detto che la “distruzione creatrice” di tante piccole imprese, vada a favore di un migliore “funzionamento” del mercato. La concentrazione del capitale in poche grosse aziende, rende assai più facile gestire il mercato in funzione non della libera concorrenza e del favor consumatoris, ma di accordi oligopolistici tendenti a limitarlo o eluderlo.

Il secondo: per quale ragione qualche milione di piccoli imprenditori dovrebbe essere a favore di politiche che non garantiscono protezione? Al punto che coloro che le sostengono tendono a vagheggiare l’opportunità della loro distruzione?

Se Hobbes si era sforzato di dimostrare la razionalità del potere (e dell’associazione) politica proprio per lo scambio protezione-obbedienza, per quale ragione l’individuo razionale del filosofo inglese dovrebb’essere diventato un Tafazzi, tutto contento di soffrire e insieme mantenere e votare governanti intenzionati – e giulivi nel manifestarlo – a farlo morire socialmente ed economicamente (e talvolta, complice la pandemia, anche fisicamente)?

In realtà la tesi criticata è frutto di due postulati: che ciò che è economicamente valido esaurisce il “bene” (sociale e individuale). Come se l’uomo fosse solo un essere economico. E non anche economico. La storia prova che non è così: vi sono state nazioni non disponibili a barattare il benessere economico con l’indipendenza politica.

Anche perché nel lungo periodo, è questa a garantire quello, più che l’inverso.

De Bonald scriveva che durante la Rivoluzione e le guerre napoleoniche gli svizzeri, un popolo (all’epoca) di “pastori e frati” avevano difeso la propria indipendenza assai meglio dei Paesi Bassi che “contavano i più ricchi uomini d’affari del mondo” (forse è anche per quello che gli svizzeri sono diventati assai più ricchi dei pur benestanti olandesi).

In secondo luogo c’è il (consueto) modo di ragionare consistente nel confrontare una “legge” generale e soprattutto astratta (anche tendenzialmente valida), applicandola a una situazione specifica e concreta, senza adeguarla. Con il risultato che l’abito confezionato da pensatori (talvolta neppure da talk-show) vesta male chi l’indossa, magari non per colpa del sarto, ma perché l’abbigliando ha la gobba. E l’abilità del politico, come diceva Giolitti, è quella del bravo sarto che confeziona il vestito adatto a chi lo deve portare. Chi pensa il contrario è, come donna Prassede, troppo affezionato alle proprie idee (con la conseguenza di non cambiarle e spesso neppure di adattarle): è un puro “ragionare” ideologico.

E non può quindi pretendere che venga condiviso, perfino con entusiasmo, da coloro che ne pagano il conto.

Avv. Teodoro Klitsche de la Grange

 

EMERGENZA E VIRTÚ, di Teodoro Klitsche de la Grange

EMERGENZA E VIRTÚ

Ho già scritto (Per qualche migliaio in più) che l’emergenza pandemica è stata l’occasione perché le élite decadenti cambiassero, in parte, le loro litanie abituali, aggiungendovi la strofa sull’inefficienza delle pubbliche amministrazioni, alla quale peraltro avevano concorso – e non poco – attraverso nomine e norme. Aggiungevo che più che salmodiare litanie avrebbero dovuto agire in modo conseguente in primo luogo nominando per affrontare la pandemia, funzionari efficienti e nuovi, (perché dalle vecchie pecore esce sempre lo stesso latte) e in secondo luogo – cosa in parte fatta – promulgando normative d’emergenza. Ma quanto al primo, più importante aspetto, abbiamo dovuto attendere il governo Draghi: ad affrontare l’emergenza pandemica sono stati i soliti. Quando è stato nominato un commissario come il dr. Arcuri, si è scelto un “boiardo di Stato” da quasi quindici anni alla guida di Invitalia, ente, pardon Agenzia, o meglio Agency che dovrebbe promuovere lo sviluppo d’impresa, e che, purtroppo per noi italiani risulta dai dati statistici che non vi riesce granché

Ma non vogliamo insistere su colpe, professionalità, responsabilità concrete, perché preme valutare se l’emergenza richiede, per essere affrontata, dati e attitudini diverse a quanto richiesto in una situazione normale.

E per far ciò è utile – come sempre per gli affari politici – vedere che ne pensa Machiavelli.

Secondo il segretario fiorentino l’azione del governante dev’essere adatta ad affrontare la situazione; sono le caratteristiche di quest’ultima a determinare la condotta ed il soggetto stesso designato a governarla. Il fatto che l’emergenza sia punto (o poco) prevedibile, si presenti la prima volta o no, che ne siano ignote le cause (se naturali) che la creano od oscura ed irragionevole la volontà umana che l’ha generata (ove ne sia la causa), fa si che fronteggiarla sia difficile e richieda (tanta) virtù.

Che cosa sia secondo Machiavelli la virtù è argomento assai frequentato dagli studiosi, con esiti molto diversi, tenuto conto che il segretario fiorentino non la definisce mai (come, d’altra parte, gli altri concetti fondamentali del suo pensiero).

Per lo più la si ritiene la capacità politica di affrontare le situazioni, ossia la fortuna, con successo.

A cercare qualche ulteriore specificazione è connotabile più che in se, in relazione al suo antagonista, cioè la fortuna. La quale va governata e anche sfruttata, usando le occasioni che crea sia per l’interesse della comunità che per quello del Principe, evitandone gli effetti deleteri[1].

Anche se la virtù è necessaria al governante (ed ai popoli) in ogni situazione, nel pensiero di Machiavelli lo è particolarmente nelle situazioni di emergenza, fino a quelle che inducono cambiamenti epocali[2].

E non è detto che sia sufficiente, d’altra parte, a battere la fortuna, anche per gli uomini che il Segretario fiorentino reputava più virtuosi, come Cesare Borgia. Il quale aveva preparato tutto per assicurarsi il potere alla morte del padre, ma non aveva previsto d’essere gravemente malato in quel momento, il che ne provocò la caduta[3].

Proprio l’imprevedibilità, la novità, l’inconoscibilità delle situazioni d’emergenza rende necessario per affrontarle, delle doti che in frangenti normali non avrebbero alcuna rilevanza, e di converso, rende incongrue le altre, utili in quelli.

Compito di chi governa l’emergenza è di raggiungere un risultato concreto: vincere il nemico, ricostruire una città distrutta dal terremoto, superare un’epidemia.

A tal fine osservare delle norme generali può essere d’impedimento (e spesso lo è). Anche nella tranquilla prima Repubblica italiana i commissari nominati per il sisma campano-lucano del 1980 avevano il potere di porre in essere ordinanze anche contra legem, col limite dell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento giuridico[4] allo scopo di soccorrere le popolazioni terremotate. In una situazione normale un simile potere, peraltro conferito ad un organo amministrativo straordinario, sarebbe considerato – ed è – incostituzionale,  essendo l’Italia uno Stato legislativo-parlamentare.

Consegue da ciò che, in qualche misura il funzionario (inteso lato sensu) incaricato di superare l’emergenza oltre che a non essere più vincolato alla norma, e così un mero esecutore della norma (perché ne può – almeno in parte – farne a meno e porne di nuove), ha minore bisogno anche delle doti professionali relative. Scrive Max Weber che “il tipico detentore del potere legale… mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisce all’ordinamento impersonale in base al quale prende le sue prescrizioni…”[5] e prosegue “le categorie fondamentali del potere razionale sono pertanto: a) un esercizio continuativo, vincolato a regole di funzioni d’ufficio…”. “Le regole secondo le quali si procede possono essere regole tecniche oppure norme”[6]. Invece, nell’emergenza, l’importanza delle regole e della loro osservanza passa in secondo piano, al punto di poter rivelarsi d’impaccio al raggiungimento dello scopo. E così consigliare il conferimento di un generale potere di deroga (v. anche art. 25 D.lgs. 1/2018). L’antico detto di Publilio Siro divenuto una massima giuridica (da Graziano a Santi Romano): necessitas non habet legem sed ipsa sibi facit legem, è ancora diritto vivente ed applicato. La necessità è come la guerra secondo Clausewitz: dove sono i nemici ad imporsi mutualmente legge. Così è la necessità a determinare le misure opportune a contrastarla.

Se quindi è di nessuna utilità (nel migliore dei casi) l’applicazione della legge, l’essere doctor in utroquo jure (diverso – in parte – è per le regole di altro genere) quali sono le doti più adatte a fronteggiarla? Coraggio, propensione al rischio, audacia hanno indubbiamente un ruolo accresciuto. E la virtù machiavellica?

Machiavelli tiene la virtù in grande considerazione, al punto da attribuirle il potere di piegare la fortuna (batterla); in particolare nelle situazioni di crisi, quando le cose peggiorano “Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la “virtù” di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro”[7]. Alla virtù è connotato essenziale (anche) la capacità di prevedere, oltre quella di decidere e comandare. Come scrive Fusaro “Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La “virtù” di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico… in secondo luogo dalla capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la “virtù” del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte”. A metà del secolo scorso un acuto giurista tedesco, Ernst Forsthoff scrisse un breve saggio su “Lo Stato moderno e la virtù”, facendo il punto sull’importanza (o meno) della virtù nello Stato costituzionale del XX secolo. Notava Forsthoff (che non considera il pensiero di Machiavelli e il di esso concetto di virtù, ma prende in esame quello di Platone ed Aristotele) che nel pensiero classico (cioè fino al XVIII secolo) era considerata la virtù (v. Montesquieu) nella dottrina dello Stato “Solo nel periodo più recente, certo come chiara ripercussione della rivoluzione francese, la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù… Come dottrina del sistema istituzionale e funzionale dello stato, la moderna dottrina dello stato non considera più l’uomo… Essa è divenuta una dottrina dello stato senza virtù”. Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, l’attitudine è cambiata ma “Per quanto sia importante collegare di nuovo la concezione dello stato alle qualità umane, ed in particolare alla virtù… è impossibile ignorare o cancellare con un colpo di penna due secoli di continua evoluzione”[8] (coincidenti con il XIX e, in parte, il XX secolo). Lo Stato di diritto del positivismo giuridico classico sarebbe stato impossibile senza l’alto livello di virtù specifiche della burocrazia professionale tedesca, la quale era il “vero legislatore” del Reich bismarckiano. Ovviamente tra virtù del Segretario fiorentino e quella che Forsthoff vede nella burocrazia del Secondo Reich c’è poco in comune. Quest’ultima è assai prossima a quella individuata da Max Weber nell’etica del funzionario.

Ma è altrettanto sicuro che anche lo Stato moderno non può fare a meno della virtù, come scrive Forsthoff: “il vero problema dello stato di diritto di fronte all’attuale sfacelo etico e morale, e così la nostra riflessione sbocca nella problematica attuale della teoria dello Stato moderno… uno stato le cui funzioni devono inevitabilmente aumentare in misura notevolissima, può evitare a lungo andare la intensificazione della coazione solo rafforzando la virtù – sia la sua che quella dei suoi cittadini. Solo uno stato moderno sostenuto dalla virtù può essere uno stato liberale”.

E tanto meno può prescinderne nelle situazioni d’emergenza e da una virtù che va coniugata più alla concezione machiavellica che a quella “classica”. E ne serve tanta. Per cui pensare che uno Stato sgangherato come la Repubblica italiana, governato nell’ultimo trentennio da élite decadenti possa farne a meno è del tutto incredibile. Ancor più se gli apparati sono sempre gli stessi. Come scriveva Machiavelli dei principi italiani suoi contemporanei non avendo previsto né avuto sentore degli impeti della fortuna, non dovevano accusare questa, ma la loro ignavia[9].

[1] Due passi – tra i tanti delle opere di Machiavelli – descrivono gli  aspetti ricordati. Il primo è quello notissimo del cap. XXV del Principe col paragone della fortuna al “fiume rovinoso” e della virtù ai “ripari ed argini” che lo possono evitare o limitare i danni; l’altro nel cap. XX quando discorre della grandezza dei governanti “Senza dubio e principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, maxime quando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che un ereditario, gli fa nasce de’ nemici e fagli fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle e, su per quella scala che gli hanno porta li inimici suoi, salire più alto”; onde la fortuna può diventare un’occasione favorevole.

[2] Come scrive nel XXVI capitolo del Principe “B”; è più vero che l’antitesi fortuna/virtù non è solo vista in funzione dell’azione di singoli individui ma anche dei popoli (v. Discorso, II, 1).

[3] V. Il Principe cap. VII.

[4] V. art. 1 D.L. 26/11/1980 n. 776.

[5] Economia e società, Milano 1980, p. 212.

[6] Op. cit., p. 213.

[7] V. D. Fusaro Nicolò Machiavelli in rete.

[8] E prosegue “Il superamento di una dottrina dello stato, impantanata nel formalismo e nel funzionalismo, è possibile solo sulla base di un’analisi di questa evoluzione e della situazione creatasi con essa… La constatazione che la dottrina dello stato ha perduto, nel secolo XIX, il contatto con le qualità umane, ed in particolare con la virtù, non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli stati… Essa è impensabile senza una certa dose di virtù. Lo stesso vale per il diritto – inteso nel suo vero significato etico. L’emancipazione del positivismo giuridico dal diritto (inteso in questo senso) e l’emancipazione della dottrina dello stato dalla virtù sono strettamente connesse fra loro”.

[9] V. “Pertanto questi nostri principi, e quali erano stati molti anni nel loro principato, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne’ tempo quieti pensato ch’e’ possino mutarsi – il che è comune difetto degli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta” (v. Principe, cap. XXIV).

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ, di Teodoro Klitsche de la Grange

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ

È degno di nota l’attaccamento delle élite decadenti e dei loro mezzi di comunicazione alle parole d’ordine e agli idola con cui cercano di rappresentare una situazione che non è quella reale e che, in ogni caso, non intendono cambiare, se non in un senso di loro gradimento.

Fino a qualche tempo fa, dopo l’inizio dell’emergenza Covid, si erano accorti, con grande clamore, che in Italia la pubblica amministrazione funziona poco e male. Era ora! Ma tanto ed insistente  lamento non induceva a procedere con qualche misura coerente ed incisiva, come la rimozione di dirigenti inetti (o altro), ovvero la prescrizione di sanzioni serie per inadempimenti, ritardi, ostruzionismi delle P.P.A.A. e così via.

Misure legittimate, anzi prescritte, tra l’altro, dagli artt. 28 e 97 della “costituzione più bella del mondo”, ma di fatto inattuati o meglio sabotati dall’entrata in vigore ad oggi. Fa piacere che Draghi, oltre ad annunciare qualche riforma (vedremo), ha esordito mettendo alla porta alcuni dei responsabili amministrativi della gestione della pandemia. Si resta in attesa per i politici.

La gestione sanitario-amministrativa del Covid riporta alla mente quanto scriveva un economista sulfureo come Milton Friedman, sul controllo (anche) dei farmaci esercitato negli USA della FDA (Food and Drug Administration).

Il pezzo di Friedman, che fa parte di un libro scritto con la moglie Rose, è una succinta ma persuasiva argomentazione di come delle buone intenzioni ed istituzioni finiscono poi per funzionare male, ottenendo, complessivamente, risultati meno positivi delle attese e spesso negativi.

Il controllo della FDA fu esteso ai farmaci nel 1938. Dopo la tragedia del talidomide (1962) furono approvati degli emendamenti i quali “al test di sicurezza previsto nella legge del 1938 aggiungevano un test di efficacia e abolivano i limiti di tempo a disposizione della FDA per decidere sulle richieste di autorizzazione dei nuovi farmaci”. Il risultato fu che i controlli più estesi e volti a tutelare il consumatore/paziente andarono a detrimento dell’interesse “che i nuovi farmaci siano resi disponibili a coloro che possano riceverne un beneficio il più presto possibile. Come spesso avviene, due obiettivi validi si contraddicono a vicenda. Sicurezza e prudenza in una direzione possono significare morte in un’altra”. E Friedman proseguiva “Una mole considerevole di dati accumulati indica che la regolamentazione della FDA è controproducente, cioè che ha fatto più male (perché ha ritardato il progresso nella produzione e nella distribuzione di farmaci validi) che bene (perché ha impedito la distribuzione di farmaci dannosi o inutili)”. E ne spiega la ragione “Provate a mettervi nella posizione di un funzionario della FDA, responsabile dell’approvazione o del rifiuto di un nuovo farmaco. Potreste fare due errori diversi”: approvare un farmaco nocivo alla salute o, al contrario impedire (o dilazionare) la disponibilità di un salva-vita. Ma se commettete il primo errore “il vostro nome sarà sulle prime pagine di tutti i giornali. Sarete coperti di infamia. Se cadete nel secondo errore, chi lo verrà a sapere?”. Non l’industria farmaceutica che voleva produrlo (il solito pescecane!); non i morti non risparmiati, perché non possono manifestare; e neppure le loro famiglie che non hanno “modo di sapere che i loro cari hanno perso la vita per la «prudenza» di uno sconosciuto funzionario della FDA”.

Le considerazioni dell’economista americano sono emblematiche di come l’eterogenesi dei fini sovverte anche le istituzioni e le attività pubbliche non contrassegnate da inutilità evidente e/o da bulimia predatoria. E così la guerra italiana alla pandemia, condivisibile nel fine, nella necessità e nell’urgenza, ma nei modi assai meno.

Parte delle misure prese dai poteri pubblici è stato connotata spesso più dell’esigenza di fare qualcosa, e di evidente, che dalle reali necessità; molti ripetono che sono state bloccate attività non particolarmente pericolose, se esercitate con attenzione e prudenza igienico-sanitaria. Tuttavia il timore per le critiche di non essere stati abbastanza determinati nella guerra al Covid, ha indotto alla soluzione più drastica (e anche contraddittoria, con quelle adottate per situazioni simili, come il trasporto pubblico). Altre sembravano scelte più per beneficiare qualche tax-consommers e qualche green-dipendente (come monopattini, biciclette, banchi a rotelle) che alla volontà di pugnare col virus.

Quanto alla battaglia decisiva – i vaccini – anche qua l’atteggiamento – in genere – delle autorità, nazionali ed europee – è stato spesso connotato più da esigenze d’immagine che da esigenze reali. Il ritardo nella campagna vaccini soprattutto rispetto a quanto fatto in Gran Bretagna, Israele, USA (e anche altrove), soprattutto. L’approvazione dei vaccini da parte di enti di controllo è stata lunga, rispetto a quanto fatto altrove. E non è finito, come dimostra il caso Astrazeneca.

E non è stato messo in conto quante migliaia di morti sia costata l’accuratezza dei controlli. Il numero dei decessi per abitanti in Gran Bretagna, nella settimana corrente, è circa un terzo di quelli in Italia. In Israele ancor meno.

Ma chi chiederà il conto per qualche migliaia di morti?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

INSEGNA CREONTE?, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

INSEGNA CREONTE?

Luciano Violante, Insegna Creonte, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 158, € 12,00.

Nell’Antigone i due protagonisti Antigone e Creonte sono da millenni simboli di polarità contrapposte: tra diritto naturale e positivo; tra legge divina ed umana; tra principio femminile e maschile (Hegel); tra diritto tradizionale e diritto “moderno”, razionale-legale e statuito dall’autorità politica (Von Seydel). Nel secolo scorso era Antigone a suscitare più consenso ed interesse: Creonte era considerato l’archetipo del tiranno.

Nel XXI, almeno tra i giuristi italiani, è stato (in parte) rivalutato. Probabilmente ha contribuito a ciò quanto notato (nel XX) da Max von Seydel: che Creonte impersona il diritto (e lo Stato) moderno, weberianamente “razionale-legale”.

Violante che nel libro Giustizia e mito aveva notato la “modernità” di Creonte, in questo ne sottolinea gli errori (politici) che lo portano all’autodistruzione. In ogni capitolo il comportamento di Creonte è considerato esempio di quanto un leader non debba fare: essere arrogante, non saper gestire i conflitti, sopravvalutare se stessi. E porta esempi di errori (analoghi a quelli del Re di Tebe) fatti da uomini di Stato contemporanei: da De Gasperi a Renzi, da Craxi a Cossiga.

Ne consegue che già la tragedia greca indicava 25 secoli fa delle regolarità e delle regole della politica (e dell’esistenza umana) le quali anche a distanza di millenni sono confermate.

E quanto alle “costanti” è anche un terzo personaggio della tragedia, Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone ad esprimerne, e forse quella decisiva. Emone, parlando col padre, lo invita a tener conto dell’opinione del popolo che non considera meritevole Antigone della condanna; onde prega il padre di “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro… Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe… Non esiste la città di un solo uomo… Certo tu regneresti bene da solo su una terra deserta”. Ma Creonte non è scosso: convinto di essere dalla parte della ragione, non tiene conto della diffusa (e opposta) opinione del popolo. Non comprende che comanda con successo il governante che può contare sull’obbedienza dei governati. Per aversi la quale occorre che le opinioni di governanti e governati non siano in contrasto: anzi si fondino su un idem sentire de re publica. È (o è anche) il principio d’integrazione (del tipo “materiale”) che Smend pone a fondamento della costituzione “come principio del divenire dinamico dell’unità politica” (Schmitt). E il contrasto tra ritenere che il legislatore sia divino o umano è ovviamente tra i più acuti e non mediabili.

L’autore, come detto, ricorda fatti contemporanei di governanti che hanno ripetuto gli errori di Creonte: vuoi per arroganza, vuoi per disprezzo del popolo, vuoi per convinzioni radicate.

Viene così ridimensionato l’errore più diffuso nell’ultimo trentennio e in particolare (ma non solo) in Italia: la mancanza di sintonia con la volontà popolare, anche attraverso la prassi di scegliere governanti mai eletti neppure in un condominio, e la cui rispondenza alla scelta democratica è inesistente.

Giustificata con concezioni diverse (tecnocrazia, aristocrazia, moralbuonismo), ma aventi in comune il considerare i governanti capaci di giudizi migliori dei governati, e quindi in espresso contrasto con il principio democratico o con quello, più limitato, dell’idem sentire; lo stesso che porta il re di Tebe alla rovina.

Dato che tale errore è tra i più frequenti e ripetuti, in particolare dalla parte politica cui l’autore apparteneva, se ne consiglia (loro) la meditazione. E la lettura a tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP

Le vicende successive all’irruzione a Capitol Hill ci hanno indotto a tornare ad intervistare Machiavelli, sempre così premuroso e disponibile.

Ecco cosa ci ha detto.

Cosa pensa dell’irruzione dei sostenitori di Trump al Congresso?

Che è stata una gran carnascialata. Ai tempi miei per fare un golpe s’usavano pugnale e veleno. Nel secolo scorso fucili e carri armati. A parlare, come fa la vostra stampa, di colpo di stato, Cile e così via si entra nella comicità. Ma tant’è: vi vogliono prendere tutti per grulli.

Ma è stato violato il tempio della democrazia… Ai tempi nostri si ammazzava in quello di Dominenostro, dove i Pazzi assalirono i Medici in una delle più belle chiese del mondo, e spensero Iuliano. A pugnalate e non in costume e con le corna.

Ma è stato violato qualcosa di sacro…

Voi il senso del sacro lo celate così bene che l’avete perso. A forza di negarlo non sapete più dove sta. Il che non vuol dire che non ci sia. Solo che lo tirano fuori solo quando serve ad abbindolare il popolo. Utile a legittimare il potere nell’occasione opportuna, e dimenticato in tutte le altre. Guardate come rispettano, a casa vostra, la volontà del popolo: negli ultimi dieci anni avete cambiato sette governi, uno solo dei quali poteva vantare di avere la maggioranza dei suffragi popolari espressi nelle elezioni. Spesso i capi del governo non erano stati eletti neppure in un’assemblea di condominio, e poco o punto conosciuti al popolo. Anche perché, visti i risultati, a conoscerli li avrebbe accuratamente evitati.

A cosa è dovuta, secondo Lei, quest’abitudine a prendere per grandi e decisivi eventi di scarsa rilevanza. E così a promuoverli da carnascialate a eventi storici?

Gli è che voi non volete vivere nella storia né studiarla, ma ne avete una nostalgia nascosta, che spesso vi sollecita non la ragione, ma la fantasia. Così credete di vivere eventi epocali, mentre invece state assistendo, appunto, a carnascialate. D’altra parte vivete rischiando poco, assai meglio che in qualsiasi altra epoca, ma vi annoiate parecchio. Compensate così la piattezza del reale con l’eccitazione del fantastico. Noi avevamo a che fare con le picche svizzere e le spade spagnole, e dovevamo stare ben attenti a guardarci da entrambe. Voi spade e picche le dovete creare e così vi limitate ai giochi da computer.

E che ne pensa del processo a Trump per, come dice lei, la carnascialata?

Che tutti sapevano come sarebbe andata, mancando al Senato i numeri per la condanna ed essendo evidente che la carnascialata non era nulla di preoccupante, oggi.

Ma è un sintomo per il futuro. Scriveva Lenin che non si combattono le battaglie che si sanno perse in partenza. Ed è vero come regola, ma talvolta posso esserci delle eccezioni.

Solo che le cause profonde della carnascialata non si eliminano con i processi: né quelli che si vincono e ancor più se si sanno persi.

Lei ha scritto che i processi politici sono utili alla Repubblica.

Purché si concludano con una giusta valutazione dei fatti per cui si accusa “le accuse giovano alle repubbliche quanto le calunnie nuocono”.

Il buon senso ha fatto sì, che, seguendo gli ordini, sia stato conseguito il risultato meno dannoso. Hanno dato sfogo agli omori senza attizzarne altri, contrapposti.

Allora meritano la sua approvazione?

Per ora si. Per il futuro, vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO ARISTOTELE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO ARISTOTELE

Tra le tante cose che ci ha portato il Covid, v’è l’analisi/prospettiva/auspicio della riduzione/depotenziamento/annichilimento dei ceti medi e del loro ruolo nelle comunità umane. Sembra che le decadenti élite globalsinistre esorcizzino il proprio declino auspicando quello degli strati sociali meno ben disposti verso di loro. Pomposi accademici, elzeviristi mainstream, economisti di regime (e anche non di regime) profetizzano che dopo la scossa del Covid lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, quadri del settore privato (e anche di quello pubblico) diverranno pochi, inutili e miseri. Qualcuno sostiene idee del genere basandosi sul darwinismo sociale, altri sulle profezie marxiste, altri scomodano la “mano invisibile”.

Tutti sembrano contenti dell’auspicato evento: ma non tengono conto di quanto “pesino”, soprattutto se si passa da criteri economici a quelli politico-sociali i ceti medi; perché questi sono stati spesso considerati l’ossatura della società, i garanti dell’equilibrio politico-sociale sul quale ogni comunità durevole – ma soprattutto quelle democratiche – si fonda.

Già Aristotele – sostenitore dello Status mixtus, cioè di costituzioni che tenessero insieme elementi di più forme “pure”1 – lo sosteneva; si chiede infatti qual è la costituzione migliore, quale “forma di vita partecipata”, e fa ricorso al “giusto mezzo”2. Dove non c’è il giusto mezzo dei “ceti intermedi” ma prevalgono i troppo ricchi o i più poveri, si creano, per così dire, problemi di governabilità “Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di genere che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada” (il corsivo è mio) e conclude che questo è l’ordinamento migliore: “È chiaro dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere ben amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi, se no, di una delle due, ché in tal caso aggiungendosi a una di queste, fa inclinare la bilancia e impedisce che si producano gli eccessi contrari”3.

Nell’età moderna il rapporto tra ricchezza e istituzioni è spesso considerato analogamente4. Una particolare menzione merita Gaetano Mosca che nell’analisi della classe politica e del regime liberale (lo “Stato rappresentativo”) scrive che “il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche”5.

Marx ed Engels vedono invece i ceti medi, classi superate dallo sviluppo capitalistico; non si pongono il problema della democrazia (in senso classico) perché questa come ogni regime politico è destinata a sparire con la realizzazione della società comunista6.

È un pensiero ricorrente quindi che, ai fini dell’ordine politico sociale, ancor più in comunità democratiche, è decisiva l’esistenza di un ceto medio che garantisca l’equilibrio politico e sociale (e così moderi la lotta politica) e da cui viene reclutata (parte) della classe dirigente.

Ed è quindi quanto mai curioso che non sia considerata la funzione politica del “giusto mezzo” nelle società umane e di come la decadenza di questo apra a scenari di lotta aspra e dissoluzione istituzionale. Probabilmente va ascritto, almeno in buona parte – alla tendenza a pensare il criterio economico per valutare il buon governo prevalente su ogni altro; ed ancor più che un risultato quantitativamente “pagante” per tutti debba essere apprezzato anche da parte di coloro che pagano il conto. Ma in politica non è così: vale ancora il giudizio di Friederich List (da me spesso citato) che giudicava la propria come economia politica perché teneva conto dell’interesse della comunità, mentre quella di Adam Smith era economia cosmopolitica perché considerava quanto giovava all’homo aeconomicus, astratto e distaccato da ogni legame d’appartenenza politica e sociale.

In effetti è proprio del pensiero politico che l’interesse della comunità organizzata in Stato e non quello dell’umanità sia da conseguire. In primo luogo riguardo all’equilibrio del sistema, senza il quale quello all’esistenza viene, prima o poi, ad essere compromesso.

Teodoro Klitsche de la Grange

1“Diciamo di seguito a quanto s’è trattato in che modo sorge, oltre la democrazia e l’oligarchia, la cosiddetta politia, e in che modo bisogna costituirla. Insieme risulterà chiaro anche come si definiscono la democrazia e l’oligarchia, perché si deve fissare la distinzione tra queste due forme e poi metterle insieme, prendendo per dire un contributo da ciascuna delle due” i passi sono ripresi da Aristotele, La politica, IV, 9, 1294 a-b e ss. trad. it. di R. Laurenti.

2 Scrive “In tutti gli stati esistono tre classi di cittadini, i molto ricchi, i molto poveri, e, in terzo luogo, quanti stanno in mezzo a questi. Ora, siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo, è evidente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tutti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione” e prosegue “Oltre ciò, quelli che hanno in eccesso i beni di fortuna, forza, ricchezza, amici e altre cose del genere, non vogliono farsi governare né lo sanno… mentre quelli che si trovano in estrema penuria di tutto ciò, sono troppo remissivi. Sicché gli uni non sanno governare, bensì sottomettersi da servi al governo, gli altri non sanno sottomettersi a nessun governo ma governare in maniera despotica” (il corsivo è mio) op. cit., 1295 b..

3 Op. cit., 1296 a.

4 Per sintetizzarlo v. la voce Buon governo di P. Silvestri nel Dizionario del liberalismo “Con la progressiva emersione della sfera pubblica moderna, e in vista di un nesso più stretto tra governati e governanti, sotto forma di equilibrio delle forze sociali. In questo senso, e secondo l’idea sette-ottocentesca di «civilizzazione» che individuava un circolo virtuoso tra tra borghesia e progresso, il ceto medio era chiamato a svolgere un ruolo cruciale nell’ideale del governo misto. L’idea di «civilizzazione» supponeva che nella misura in cui lo sviluppo economico-sociale avrebbe allargato i fianchi del ceto medio (inteso come fulcro della società civile), a sua volta l’espansione del ceto medio avrebbe dovuto assorbire e mediare la lotta sociale e l’antagonismo fra le classi, anche in virtù di una maggiore osmosi tra sfera della proprietà e sfera pubblica” ed autori lì citati.

5 Ovviamente di Stato liberale si tratta. Ma nel discorso di Mosca per liberale lo s’intende non tanto in senso ideal-tipico, ma come assetto concreto che i poteri pubblici (ormai democratico-liberali) avevano all’inizio del XX secolo. E aggiunge “Al di sotto del primo strato della classe dirigente ve ne è sempre, e quindi anche nei regimi autocratici, un altro più numeroso, che comprende tutte le capacità direttrici del paese. Senza di esso qualunque organizzazione sarebbe impossibile, perché il primo strato non basterebbe da solo ad inquadrare e dirigere l’azione delle masse. Sicché dal grado di moralità, d’intelligenza e di attività di questo secondo strato dipende in ultima analisi la consistenza di qualunque organismo politico” v. Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 412 ss.

6 “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato” Manifesto del partito comunista.

LE MANI SPORCHE E LA LEGA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE MANI SPORCHE E LA LEGA

Le recenti vicende della crisi politica hanno provocato il solito rosario di spiegazioni basate su ideali, coerenza, ecc. ecc., aventi tutte in comune: a) la funzione propagandistica, di favorire gli amici (globalsinistri) e denigrare i nemici (sovrandestri) b) ciò che più interessa, usando argomenti di contorno, secondari, ed eliminando (perché scomodi e spesso estranei al loro modo di pensare) quelli principali.

Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” del realismo politico l’interpretazione delle mosse degli attori in gioco è diversa.

Il primo caso è la “conversione” europeista di Salvini onde – secondo i media mainstream lo stesso sarebbe: un voltagabbana traditore e/o sconfitto da Draghi e dalle panzerdivisionen europee.

In realtà la prima regolarità della politica è la ricerca del potere (e del dominio), e la conversione della Lega deve valutarsi alla luce di quella regolarità assai più della quantità (e qualità) degli improperi anti-europei lanciati da Salvini e rilanciati dagli euroglobalisti (per lo più dai loro araldi); anche perché i nemici sono sì quelli con cui si conduce la guerra, ma anche coloro con cui si fa la pace.

All’uopo è bene ricordare il dramma di Sartre “les Mains sales”, in cui il protagonista, estremista dissidente uccide il segretario del partito comunista Hoederer perché ha realizzato un accordo con il regime collaborazionista filotedesco, contro il quale comunisti e i loro alleati conducevano una guerra civile. La scena del negoziato tra i leaders è un insieme di topos realistici a favore del capovolgimento di fronte, la spartizione del potere e i fattori di potenza.

Senza alcun problema Hoederer propone un accordo – accettato dal nemico, il capo dei filonazisti, ma rifiutato dal leader degli alleati borghesi – nel quale il partito comunista ha un ruolo preponderante nel nuovo organo di governo (3 membri su 6); la ragione di ciò è l’avanzata delle armate sovietiche, e la necessità dei conservatori d’ingraziarseli, nonché quella di tutti di far cessare le lotte interne e la guerra (esterna). Come dice il Principe, capo dei filonazisti “è necessaria una visione realistica della situazione”; Karsky, il capo degli antinazisti non comunisti, che ricorre (anche) ad argomenti moralistici, rimane isolato e perdente.

Di accordi come quello rappresentato nel dramma da Sartre, nella storia ne sono stati realizzati infiniti, anche in una guerra fortemente “ideologizzata” come la seconda guerra mondiale.

Ma perché in un contesto istituzionale come quello italiano, la partecipazione al governo, anche con forze opposte, ha tale importanza, tenuto conto che la Lega rischia di pagare un prezzo in termini elettorali alla coerenza della Meloni? Qua occorre ricorrere a due pensatori del ‘900. Il primo, Carl Schmitt sostiene che in una Repubblica parlamentare (com’è l’Italia) “Chi detiene la maggioranza fa anche le leggi ed inoltre è in grado di far rispettare le leggi che esso stesso ha fatto. Ma la cosa più importante è che il monopolio di far valere le leggi in vigore gli conferisce il possesso legale degli strumenti di potere statali e di conseguenza anche un potere politico assai più ampio della semplice «validità» delle norme”. Il giurista di Plettemberg chiama ciò “un plusvalore politico addizionale che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale: un premio super legale al possesso legale del potere legale ed alla conquista della maggioranza”.

Entrando nel governo la Lega (e Forza Italia) ottengono due vantaggi: fruire di detto “plusvalore” e sottrarne (una parte) agli avversari.

E qua occorre ricordare Gramsci, per cui “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catene di fortezze e casematte”: ma in uno Stato amministrativo, “sociale”, distributivo e soprattutto ben più esteso di quello liberale di un secolo fa, una parte di quelle casematte, che il pensatore sardo vedeva nella società civile, sono ora collocate (e dirette) nel e dal settore pubblico. Occupare – almeno in parte – la direzione di (gran parte) di quelle casematte è un passo – più che notevole – verso il potere.

D’altra parte anche se Draghi è, per storia e curriculum personale tutt’altro che un sovran-popul-identitario, ma un euroglobalista, lo stesso realismo consiglia: a) di tener conto che la maggioranza del popolo italiano è dall’altra parte b) che seguire una politica che non ne tenga conto è indebolire il governo sia in termini di consenso che di potenza. I cattivi risultati ottenuti dai governi italiani degli ultimi dieci anni con l’Europa (e non solo) sono stati determinati – in buona parte – dal fatto che i poteri “forti” (statali e non) sapevano di avere a che fare con governanti deboli, carenti di consenso e anche perciò poco affidabili. Utilizzabili nell’immediato, ma controproducenti per gli sponsor nel futuro.

Il governo Monti, con l’enorme e rapido aumento dell’opposizione anti-sistema, l’ha provato.

Pensare che Draghi (e i leaders europei) voglia ripetere quel colossale errore, è far torto alla prudenza e alle indubbie capacità dell’ex capo della BCE. Certo, il futuro è incerto e, come sempre, saranno i risultati a dire se la manovra è riuscita o meno. Ma è sicuramente un errore giudicare vinta o persa la partita prima che l’arbitro ne fischi l’inizio, sulla base, magari, del colore delle magliette dei giocatori. Così si fa tifo da stadio, non analisi politica.

Teodoro Klitsche de la Grange

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020, pp. 224, € 18,00

La globalizzazione dell’ultimo trentennio ha generato non soltanto la propria opposizione politica, ma anche, specie negli ultimi anni, una vasta letteratura critica, che insiste su uno o più caratteri negativi del processo (sociologici, religiosi, politici, economici); l’autore, economista e marxista, ne vede (prevalentemente ma non solo) la causa economica. E lo fa riandando alla legge di riproduzione e tendenza del capitale, la quale genera non sono un’ingiustizia crescente (il divario tra ricchi e poveri), ma una serie di contraddizioni che minano la sostenibilità del sistema.

La principale delle quali è “quella tra l’originaria struttura decentrata del mercato capitalistico e il progressivo accentramento dei poteri finanziari che operano in esso”; onde “la centralizzazione contribuisce ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere le condizioni di riproducibilità del capitale e a moltiplicare gli inneschi della crisi. Dove poi questa tendenza possa condurci, magari verso una moderna e civile logica di piano o piuttosto verso la barbarie, è una questione che resta drammaticamente aperta”.

La centralizzazione da un lato causa polarizzazione sociale, come già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”. Secondo Brancaccio questa è un’opposizione all’interno del capitalismo, di guisa che “Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali, che venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti”; peraltro il capitalismo odierno, al contrario di quello descritto da Marx ed Engels, è stato soverchiato dai suoi stessi sviluppi. Se quello accresceva lo sviluppo sociale e la sua ripartizione, quello odierno li ha persi “Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalismo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini”.

Il compromesso socialdemocratico (o fordista) del secolo breve era stato determinato dal freno delle guerre e del bolscevismo. Crollato il quale la legge di riproduzione e tendenza è tornata a spiegare i suoi effetti. Il tutto influisce anche sulla sovrastruttura politica, in senso negativo sui valori e istituti del liberalismo. “La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace”; “Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui si reggono le democrazie liberali contemporanee”.

Quale rimedio alla crisi l’autore propone la pianificazione collettiva “Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo”. Tuttavia, ammette Brancaccio “la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare”.

In sintesi il volume presenta analisi difficilmente contestabili, ma soluzioni assai discutibili. A partire dall’ultima: come conciliare libertà e pianificazione se la costante del (fu) socialismo reale è stata di limitare al massimo libertà e democrazia? in questo senso è facile prevedere che il relativo percorso sia una strada tutta in salita.

Quanto alle conseguenze politiche della legge di riproduzione, già un pensatore controrivoluzionario come de Bonald, in un saggio/recensione pubblicato l’anno in cui Marx nasceva (1818) valutava realisticamente le conseguenze del costituzionalismo liberale e del potere ascendente della borghesia.

Secondo il controrivoluzionario l’effetto del nuovo ordine, in particolare col voto censitario e ristretto è “la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico”; e sotto un altro profilo, così si crea una classe con un enorme potere, perché non basata, come la vecchia noblesse sulla proprietà fondiaria, per sua natura limitata, ma sulla ricchezza mobiliare, altrettanto naturalmente senza limiti “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei)”. Mentre “ grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e uniformatore. Si noti che la critica del controrivoluzionario è rivolta più agli aspetti “istituzionali” cioè dell’organizzazione dello Stato che a quelli relativi ai diritti individuali di libertà.

Peraltro, individuava la classe (il soggetto) rivoluzionaria, “generata” dalle contraddizioni del capitalismo, ossia il proletariato. Solo che i proletari, nel senso di Marx (cioè operai dell’industria allora in espansione) se ne contano, nei paesi sviluppati, sempre meno.

A questo punto, e tenuto conto che come scriveva il filosofo di Treviri, e conferma l’autore, a essere proletarizzati, uniformizzati e, in definitiva sfruttai sono proprio quelle classi a vocazione “reazionaria”, non sarà che proprio tra queste e nella loro unione emergerà il soggetto rivoluzionario? Anche perché la sinistra “classica” pensa ad altro che a tutelare gli interessi dei lavoratori?

Il saggio, curato da Russo Spena – che ne ha scritto anche l’introduzione – è interessante; ma lo sarebbe stato ancora di più se l’autore avesse trattato l’incidenza sulla situazione odierna degli apparati amministrativi, della finanza pubblica e dell’imposizione fiscale. Tutt’altro che “neutre” (o di scarsa rilevanza) rispetto alle contraddizioni ed ai conflitti già in atto e che ci aspettano, anzi coadiuvanti la concentrazione di ricchezza e la “riduzione” dello Stato sociale.

In attesa e nella speranza di un altro saggio che ne tratti, consigliamo la lettura di questo.

Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA

L’“insorgenza” del 6 gennaio a Washington ripropone una questione sui poteri del popolo in una democrazia.

Problema antico. Già Tucidide nel riportare il celebre discorso di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso, narra che il demagogo fa un elenco di diritti, doveri, funzioni e sul modo in cui il “popolo” ateniese le esercita, per connotare il concetto di democrazia dell’Atene di (circa) duemilacinquecento anni fa: la democrazia ha tale nome – diceva Pericle “perché la città è affidata non a una oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; le leggi sono uguali per tutti (isonomia); tutti hanno diritto di esercitare le cariche pubbliche (accesso); la povertà non è un limite a ciò”. La difesa di tutti (la guerra) è dovere di ogni cittadino; morire in guerra rivela il valore dell’uomo1.

Così Polibio, evidenziando l’elemento democratico della Costituzione romana (repubblicana) ne elencava i poteri esercitati dal popolo2.

Cosa succede quando è introdotto il concetto di sovrano? Bodin riferendosi al sovrano (per un francese del ‘500, il re), ne delinea due connotati decisivi: che il sovrano è tale perché la sua volontà non dipende da altri e perché è sopra il diritto, almeno nel caso d’eccezione. Nella situazione eccezionale il sovrano decide se e come infrangere il diritto, vigente in quella normale. Poi elenca i poteri che competono al sovrano per essere tale anche nei frangenti normali. Il giurista francese li denomina “les vraies marques de la souvreraineté” (nominare le alte cariche, decidere la pace e la guerra, dare la grazia e così via)3; e ritiene essere i connotati che servono ad identificare, tra gli organi pubblici, quello sovrano4.

Gli elementi decisivi (indipendenza da altri e potere non limitato dal diritto) indicati da Bodin successivamente erano spesso ripetuti. Anche Thomas Hobbes, dopo aver argomentato sulla istituzione del corpo politico – e così del Sovrano – enumerava i poteri che allo stesso competono per esercitare la funzione (di protezione), in modo simile a quanto scriveva Bodin5.

Carré de Malberg scriveva che la nozione della sovranità non ha che un significato negativo: e questa negatività è soprattutto data dalla possibilità per il sovrano di non essere obbligato a dover riconoscere volontà allo stesso superiori né limiti inderogabili6.

Max von Seydel sottolinea in particolar modo che per il concetto di Stato uno dei requisiti essenziali è d’esser “dominato da un supremo volere… lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato7. Onde è un errore logico confondere dominatore e dominato, concepirlo come da von Stein quale “tutto unico, come risultante dell’oggetto del dominio (Stato) e dell’investito del dominio. Quest’ultimo concetto si trova del resto già in Grozio: Imperium, quod in rege ut in capite, in populo manet ut in toto, cuius pars est caput. E questo è erroneo per ciò, che il sovrano essendo quello che effettua l’unità, non può esso stesso insieme con lo Stato formare l’unità”. Ne consegue che “Il volere sovrano è quindi sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato, e nel disconoscimento di questo rapporto sta l’errore di rappresentare lo Stato come personalità”. D’altra parte nella rivoluzione francese Sieyès aveva già collegato il sovrano alla volontà assoluta, creatrice di forme politiche: il pouvoir constituant, dove il rapporto tra volontà nazionale e diritto costituito corrisponde a quello che avrebbe, circa un secolo dopo (della sovranità), scritto von Seydel «“La nazione – scrive infatti Sieyès – è preesistente a tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, è la legge stessa. Prima e sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Poco più avanti prosegue: “Sarebbe ridicolo supporre la nazione vincolata anch’essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione le fosse stata necessaria una forma positiva essa non sarebbe diritto naturale […]. La nazione è tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere. Non dipende dalla sua volontà attribuirsi più diritti di quanti ne abbia […]. Alla volontà nazionale basta (invece) soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità8.

Con questo, l’abate confermava e sviluppava quanto scriveva Rousseau che “Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere9

Tuttavia, quale conseguenza del dominio sullo Stato, il Sovrano esercita un’attività nello Stato: legislazione, amministrazione, giurisdizione sono le branche (i poteri costituiti) in cui si articola (e si esercita) la sovranità attraverso decisioni e nomine.

Anche Carl Schmitt distingue il popolo “davanti” e “al di sopra” della Costituzione e il popolo “entro” la Costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con leggi costituzionali10.

Senza voler ripetere quel che è affermato da tanti, è necessario ricordare che, se pure il concetto di sovrano è stato per così dire spersonalizzato, in particolare nella formula della sovranità dello Stato, è sempre esistita l’opinione che il popolo abbia, quanto meno laddove eserciti il pouvoir constituant, il potere di fare tutto, perché è “ciò che deve essere per il solo fatto di esistere”: e ciò anche per creare, modificare, trasformare la forma politica (Sieyès). Accanto al popolo che elegge, vota ai referendum, esercita l’iniziativa legislativa popolare, esiste un popolo sovrano perché sovrasta l’ordinamento. Ossia che è potere costituente, e non solo partecipazione/esercizio a e di poteri costituiti.

Il problema è come il popolo possa agire se non è potere costituito “in forma”. Scrive Matteucci a tale proposito che “il potere costituente del popolo conosce ormai consolidate procedure (assemblee ad hoc, ratifiche attraverso un referendum), capaci di garantire che il nuovo ordine corrisponda alla volontà popolare…il potere costituente del popolo è una sintesi di potere e diritto, di essere e dover essere, di azione e consenso, perché basa la creazione della nuova società sul iuris consensu11. Al contrario di tanti, lo studioso scomparso non vede nel potere costituente del popolo una negazione della democrazia ma, a determinate condizioni, la sua espressione culminante. Va da se che la contraria opinione non spiega la trasformazione (di fatto) dell’ordinamento e, al limite, finisce anche per contestarne il carattere democratico, pur se rispettoso delle procedure sì straordinarie (extra legem) ma rispettose della volontà popolare.

Accanto a queste c’è anche il carattere pubblico, sempre connesso al popolo12, e che ne fa, se riunito, una “grandezza politica”13; ma la cui disamina eccede i limiti di questo breve scritto14.

4. Limitandoci quindi al popolo dentro” la Costituzione, occorre concludere valutando quale sia la pratica “democratica” di coloro che sostengono il popolo solo come agente “in forma”, titolare della sovranità ma che la deve esercitare “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Quanto all’essere il popolo “al di sopra” della costituzione nelle dichiarazioni di esponenti politici e culturali dell’establishment non se ne parla se non per lanciare anatemi; sulla base (prevalente) che tale concezione è contraria alla democrazia liberale. I media mainstream, disciplinati e allineati (come l’intendenza) seguono.

Resterebbe al popolo, per essere considerato (rispettosamente) costituzionale, legalitario e disciplinato, almeno di agire “dentro” la Costituzione ad esercitare quei poteri, e determinare così coerenti comportamenti degli organi pubblici, che la Costituzione gli attribuisce.

Ma anche questo pare, ai “democratici” (anti-populisti) eccessivo e inopportuno.

Alcuni (tra i tanti esempi che si potrebbero fare) lo provano.

Quando il popolo inglese stava per votare nel referendum consultivo sulla Brexit, i commenti dei demo-globalisti erano prossimi al razzismo bio-etico: il popolo è inferiore, culturalmente, intellettualmente e moralmente e quindi non deve votare su argomenti che solo i “tecnici” (leggi le èlite) possono capire e valutare.

Il sen. Monti si distinse (pochi giorni prima che gli inglesi dessero la (decisa) delusione ai globalisti), sia per aver rimproverato duramente Cameron per aver indetto il referendum, sia per essersi rallegrato che la costituzione italiana sottraesse alla decisione popolare la materia dei trattati internazionali. Bisogna dar atto al sen. Monti di essere coerente nella vita e nelle idee: in effetti non risulta sia stato mai eletto dal popolo (quindi dal basso) né in Parlamento né altrove; ogni incarico l’ha ottenuto per nomina (dall’alto). Per cui si capisce il motivo della considerazione che nutre dei cittadini elettori.

Del pari non fu chiesto affatto agli elettori italiani nel 2011 se gradivano che il governo Berlusconi, il quale aveva ottenuto nel 2008 la maggioranza degli eletti in Parlamento, dovesse essere sostituito, come fu, dal Governo Monti, così nuovo Premier, sponsorizzato (anche) da leaders stranieri, e mai eletto, forse neppure in un condominio. Si disse (e poi si ripeté) che la fiducia “la davano i mercati”. Ma in una democrazia consenso e fiducia (non tanto in senso tecnico-parlamentare, quanto d’integrazione, consonanza, corrispondenza tra governanti e governati) devono esistere tra popolo e governo indipendentemente dai mercati. E non solo formalmente: perché formalmente il Governo Monti ebbe la fiducia del Parlamento: ma il seguito con i “flop” elettorali di qualsiasi cosa (coalizione, partito, lista) richiamasse Monti e il suo governo, ne ha sempre confermato i livelli modestissimi di gradimento.

Anche i governi successivi a quello di Monti (tranne – in parte – il Conte 1) non hanno rispettato il nesso, anche indiretto, tra decisione dei cittadini e formazione del governo. All’alba della seconda repubblica si sosteneva che la legge elettorale maggioritaria a quello (soprattutto) serviva. Il seguito della storia dimostra che non era(è) sufficiente. Comunque nessun Presidente del consiglio, da Monti in poi, è quello plebiscitato (e quindi gradito) dagli elettori. Quello che non doveva essere, o al massimo essere eccezione, è diventata la regola, una “convenzione costituzionale”. Neppure la conformità all’orientamento dell’opinione pubblica, che è, in qualche misura (anche se modesta) il surrogato dell’Agorà è stata osservata. Ad esempio il Governo Conte-bis, nato dal patto tra due partiti aventi la maggioranza parlamentare, e teoricamente la maggiormente dei suffragi dei votanti alle elezioni politiche del 2018 (circa il 20% il PD e oltre il 30% il M5S), l’aveva persa, già prima di nascere (v. elezioni europee 2019). Più che i numeri dei sondaggi (comunque registranti un consenso ai partiti di governo intorno al 40%, mentre l’opposizione di centrodestra è di circa 8-10 punti superiore) contano gli esiti delle elezioni regionali, per lo più perse dai partiti di governo, Ma la nuova situazione non ha cambiato alcunché: con la votazione di fiducia al Senato del 19 gennaio 2021 l’ultima delle preoccupazioni dell’establishment è stata lo iato tra volontà popolare da un lato e maggioranza parlamentare e governo, dall’altro. Quanto al rispetto della volontà popolare nei referendum, c’è una letteratura sulla di essa “elusione” con la legislazione sostitutiva di quella abrogata.

L’idem sentire de re publica, il consenso, la legittimità, l’integrazione sono necessari per produrre e mantenere l’unità e la capacità di agire e durare di qualsiasi regime politico. Come scriveva Smend, a proposito della costituzione “La costituzione non è semplicemente uno statuto organizzativo… Essa è nello stesso tempo un ordine vitale che comprende anche il processo di vita politico fondamentale dello Stato, in cui esso diviene reale attraverso l’inclusione continua e dinamica del singolo”; che si realizza anche attraverso diversi “processi della vita costituzionale” il cui senso è anche “stimolare il processo di vita politico, la formazione di opinioni, partiti e maggioranze, la coscienza politica complessiva, l’opinione pubblica, la realtà politica attiva della comunità in generale”15.

Smend vede una “crisi di realtà” dove venga meno l’adesione dei governati e la loro partecipazione al “gioco politico costituzionale”; questo in qualsiasi regime politico. A ratione majus in una democrazia, dove la sovranità del popolo è già nel nome (potere del popolo). Se poi nei fatti questo non c’è, non significa che perciò il popolo è governato da sofarchi, santi, angeli, oggi da tecnici, ma solo che non lo è – o non lo è abbastanza – dalla volontà popolare. Non vuol dire che c’è qualità, cultura, intelligenza al governo, ma solo che c’è maggiore ipocrisia. A decretare che un governo è capace sono i risultati non i titoli (o presunti tali). Purtroppo i risultati, ancorché mediaticamente manipolati anch’essi, hanno comunque l’handicap di poter essere giudicati solo a posteriori.

Come il suddetto governo tecnico italiano, che nato manifestando l’intenzione di ridurre il debito, è stato quello che più l’ha aumentato. Con la logica conclusione che il popolo italiano ne ha tratto in termini di consenso (a posteriori). Non avendo interpellato il popolo prima di fare il governo, questo ne ha almeno tenuto conto dopo.

In conclusione – e in termini di realismo politico, il popolo può sbagliare, come possono sbagliare i governi: l’infallibilità è un attributo del Papa (e solo se parla ex cathedra). Così come scritto nel Federalista, nei governati sono angeli, né lo sono i governanti. Quel che tuttavia è sicuro è che per aversi un governo in grado di governare, e al minor costo possibile16 è necessario che abbia (quanto più possibile) consenso e fiducia dei governati.

Cosa quanto mai difficile se i comportamenti dei governanti non sono conformi alle opinioni dei governati.

Se invece, questo non c’è, l’èlite di governo diventa un’ “isola” socio-politica17, con un solco orizzontale che la divide dal resto della comunità, rendendo difficile, un rapporto che non sia quello di mero comando/obbedienza.

Quello di cui scriveva il citato R. Smend e tanti altri. Ma un governo che si regge solo sul comando e sulla legalità delle procedure è un governo che cammina su una gamba sola: è un governo debole. Alla prima seria crisi rischia di andare all’aria. Ancor più e come gli italiani hanno potuto constatare soprattutto negli ultimi decenni, ma poche possibilità di far valere la propria volontà, ma tante di dover subire quella degli altri, poteri forti o Stati che siano. Ai quali perciò i governi deboli sono i più graditi.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Oltre a molte altre consuetudini, di carattere sociale più che politico v. La guerra nel Peloponneso, II 35-46.

2 V. Le storie, Lib. VI, cap. 14, anche se l’elenco dello storico non è esauriente.

3 v. Six livres de la Rèpublique, I, cap. X.

4 Op. cit., trad. it, di M. Isnardi Parenti, Torino rist. 1988, p. 480.

5 v. Elements of law natural and politics, trad. it. di A. Pacchi, Firenze 1968, pp. 169 ss.; De cive trad. it. di T. Magri, Roma 1981, pp 132 ss.

6 v. R. Carré de Malberg Contribution à la théorie général de l’État, Paris 1920, Tome 1, p. 70 ss.

7 E prosegue: “Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e sovrano sono diversi, così come proprietà e proprietario…”

8 I corsivi sono miei.

9 v. Du contrat social, Lib. I, cap. 7 (il corsivo è mio).

10 v. «Il popolo è, nella democrazia, soggetto del potere costituente. Secondo la concezione democratica ogni costituzione, anche nel suo elemento proprio dello Stato di diritto, si basa sulla concreta decisione politica del popolo capace di agire politicamente. Ogni costituzione democratica presuppone un simile popolo capace di agire» e subito dopo «Il popolo “entro” la costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con legge costituzionale. Nel quadro e sulla base di una costituzione il popolo come elettorato o cittadinanza con diritto di voto può esercitare determinate competenze disciplinate con legge costituzionale» Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 313.

11 Dizionario di politica voce Sovranità.

12 “Questa grandezza determinata negativamente, il popolo è nonostante la negatività della sua determinazione, non meno significativa per la vita pubblica. Popolo è un concetto che diventa esistente solo nella sfera della pubblicità. Il popolo appare solo nella pubblicità, esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”, v. C. Schmitt, op. cit., p. 319.

13 “Appena il popolo è effettivamente riunito, non importa a quale scopo, purché non appaia come gruppo di interessi organizzati, press’a poco come nelle dimostrazioni di strada, nelle feste pubbliche, nei teatri, all’ippodromo o allo stadio, questo popolo acclamante è presente ed è almeno potenzialmente una grandezza politica”, C. Schmitt, op. cit., p. 320.

14 Una delle espressioni più chiare e decise della concezione “immanente” del popolo (e anche la prima, che mi risulti) è quella espressa da Thomas Müntzer nella “Confutazione ben fondata” (delle tesi di Martin Lutero). Scrive Müntzer, parlando dell’amministrazione della giustizia (sempre “in cima” alle preoccupazioni dei teorici politici, almeno fino a metà del XVI secolo): “l’intero popolo deve avere il potere della spada, il potere di legare e di sciogliere, come dice il testo di…; i principi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada… ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio… E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” v. Scritti politici pp. 192-193, Torino 1978 (il corsivo è mio) il popolo quindi controlla ed esegue. Poche righe dopo il capo della rivolta dei contadini prosegue adducendo anche un’altra ragione “i signori e i principi sono l’origine di ogni usura, d’ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, degli alberi della terra… E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: «Non rubare». Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente”. Così Müntzer esprime in modo estremista la diffidenza verso chi esercita il potere politico, tipica del pensiero politico borghese. Questo troverà una formulazione altrettanto estremista nel progetto di Costituzione giacobina (poi non approvato). Tuttavia anche il testo approvato dalla Convenzione con l’atto costituzionale del 24/06/1793 (notoriamente la Costituzione “dell’anno I” non è mai andato in vigore a causa dello stato di guerra) è pieno di affermazioni riconducibili, in diversa misura, a una concezione “estremista” delle funzioni del popolo in una democrazia. Ad esempio l’art. 26 (volontà del popolo riunito); l’art. 27 (pena di morte per gli individui usurpatori); art. 31 (delitti dei “governanti”); artt. 33-34 (diritto di resistenza); art. 35 (diritto d’insurrezione del popolo).

15 v. voce Integrazione in Costituzione e diritto Costituzionale, Milano 1988, p. 285; in effetti continua ricordando, ciò che è concezione ricorrente nella distinzione tra tipi di istituzioni: mentre molte “dispongono tuttavia di garanzie di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni” lo Stato, sovrano, per definizione non vi può ricorrere (altrimenti non è sovrano, ma tutt’al più un protettorato) “esso riposa in ultima istanza non sul suo diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti; e cade nella più profonda crisi di realtà se questi cessano di sorreggerlo” (il corsivo è mio) op. cit., p. 286.

16 Intendendo costo come comprendente tutti i vari costi: politico, sociale, economico, presente, futuro.

17 Ci si riferisce alla terminologia di Christopher Lasch nel suo ben noto saggio “La ribellione delle masse”; trad. it. II ed. Milano 2009.

MORTO UN CAPO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

MORTO UN CAPO…

L’intrusione nel Campidoglio di Washington ha ravvivato il coro di litanie con il quale le élite decadenti (politiche e altro) cercano di esorcizzare il probabile avvento in Italia di un governo sovran-popul-identitario, del tutto verosimile atteso il risultato delle elezioni regionali del 2019-2020 e, confermato (addirittura!) dai sondaggi sempre così benevoli verso i (desideri dei) globalisti.

Il denominatore comune dei discorsi di deprecazione, riprovazione, condanna, anatema, scomunica (ecc. ecc.) di Trump è che: a) a sobillare i manifestanti e per qualcuno, perfino a creare il populismo sia stato Trump. Il corollario di ciò è che sconfitto Trump il populismo dovrebbe seguire la sorte del creatore.

b) Che è stato violato il “tempio della democrazia” dai populisti brutti e coatti: ergo i populisti non sono democratici. La conseguenza è che non lo sono, per proprietà transitiva, anche Salvini e la Meloni.

Si sa che la sinistra italiana, nei suoi anatemi ha il golpe sempre a portata di mano. Ma, in altri casi (ad esempio il golpe del principe Valerio Junio Borghese) almeno erano golpe fatti con armi e organizzazione, diretti ad obiettivi paganti (Ministeri dell’Interno e della Difesa, RAI, Quirinale), perché la loro conquista avrebbe disarmato e soprattutto disorganizzato l’avversario (come insegnava Malaparte quasi un secolo fa). Nel caso dei trumpiani l’obiettivo era quello sbagliato; le armi (quelle idonee) del tutto mancanti; anche l’abbigliamento dei golpisti era improbabile, più adatto all’imminente carnevale che alla conquista del potere. L’ormai celebre “sciamano” italo-americano sembrava uscito da un fumetto fantasy.

Ciò non toglie che le deprecazioni dei globalisti abbiano, a dispetto degli enormi mezzi di cui dispongono, non molte speranze di fermare la marea sovran-populista crescente. E ciò per due errori di valutazione (a volerli considerare errori). Il primo: legare il successo del sovran-populismo a Trump è invertire, nello spazio e nel tempo, la successione dei fenomeni. La realtà è che è la crescita dell’opposizione sovran-populista al potere globalizzatore a creare i Trump; in America, ma – è decisivo – anche altrove. La tesi globalista non spiega perché tanti leaders politici, i quali spesso godono della maggioranza elettorale nel loro paese, sono emersi già assai prima dell’ex Presidente USA. Certo non si può ricondurre al potere (e all’esempio) di questo aver suscitato preventivamente gli “imitatori” europei e sudamericani.

I cattivissimi Orban e Kaczinsky sono al governo da parecchi anni prima di Trump; l’FN francese gode di un vasto seguito da oltre vent’anni e per due volte ha sfidato nel ballottaggio il Presidente (poi) eletto; Farage aveva da anni un larghissimo seguito in Gran Bretagna, così come Boris Johnson, diventato premier subito dopo Trump. Tanto per fare qualche esempio. Che una tendenza così diffusa e duratura sia dovuta a Trump (e in ogni caso a un solo “centro”) è solo una speranza di anime più paurose che belle.

La seconda: l’apparenza dell’insorgenza del sei gennaio denota un carattere spontaneo e non riconducibile a qualcosa di organizzato da organi dello Stato. Un acuto giurista come Mortati vedeva in ciò la distinzione tra colpi di stato e rivoluzioni. Vedremo se inchieste ed altro chiariranno il contrario. Ma c’è di più: la spontaneità, il ricondursi a un sentimento politico diffuso – assai più esteso numero degli intrusori – ne prova la consistenza e la “solidità” politica e ne può determinare, a lungo andare, il successo. Se la Storia è piena di colpi di Stato riusciti (e non riusciti), a differenziarli dalle rivoluzioni è non solo quanto scriveva Mortati, ma il fatto che un sentimento politico, diffuso nella comunità dava loro solidità e persistenza. Il Levantamiento spagnolo del 1936 era fallito come golpe, ma riuscì a vincere la guerra civile, sostenuto da parte degli spagnoli. È quindi il sentimento politico, cioè l’intensità della contrapposizione al nemico, a determinare principalmente durata e consistenza dell’insieme politico. Che le ripetute sconfitte dell’FN in Francia non abbiano sottratto un voto al movimento è segno che è radicato, e in grado di reggere ai “passi indietro”. Alla sconfitta ad opera di Macron, è seguito un movimento di contestazione diffuso (dei gilet gialli), che ha condizionato e condiziona evidentemente le decisioni dello stesso Presidente francese. Staremo a vedere.

Teodoro Klitsche de la Grange

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