UNIVERSO E PLURIVERSO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIVERSO E PLURIVERSO

Sullo scorcio del secolo scorso, appariva sicuro, a seguire la comunicazione imperante, che l’assetto del pianeta era avviato all’uniformità, dato che era diventato unipolare dopo l’implosione del comunismo e dell’U.R.S.S., onde l’unica potenza egemone erano gli U.S.A. Così la prospettiva che iniziava era che la politica – e il suo scenario – si trasformavano dal pluriverso, cui alcuni millenni di storia ci hanno abituati, all’universo. Una (sola) potenza egemone; uno il contesto (il pianeta globalizzato); una la conseguenza, la pace; una avrebbe dovuto essere la forma politica ossia la democrazia più liberal che liberale; una l’ideologia, il rispetto dei diritti umani; uno il nemico, chi a tanto bene si opponeva. E via unificando.

Poco tempo dopo, con l’attentato dell’11 settembre, tale costruzione già presentava vistose e sanguinarie falle: un’organizzazione più terroristica che partigiana aveva colpito duramente il territorio U.S.A. A parte l’incrinarsi (a dir poco) delle prospettive rosee, era evidente che il problema reale, che quelle avevano più che sottaciuto, occultato, era ciò che millenni di pensiero politico avevano considerato: le differenze tra gli uomini, il loro voler vivere in comunità (relativamente) omogenee, in spazi costituenti il limite (anche giuridico) tra interno ed esterno. Così chi afferma l’universo e l’uniformità non riduceva il numero dei (possibili) nemici, ma lo incrementava di tutti coloro che non concordavano né con l’egemonia di una potenza, né con quella di una forma politica, né di un uguale “tavola dei valori” per tutti i popoli del pianeta e via distinguendo.

Di guisa che quello che con espressione involontariamente strapaesana la stampa nazionale chiamava l’“ulivo mondiale” si è rivelato un moltiplicatore (o almeno un non-riduttore) di zizzania planetaria. Abbiamo avuto guerre etniche, partigiane, religiose oltre a quelle più “tradizionali” di competizioni per la potenza e l’appropriazione (politica ed economica).

A questo hanno contribuito due elementi, l’uno consistente in una regolarità politica, quindi ineliminabile: il conflitto. Da Machiavelli a Schmitt passando per Hobbes e (tanti) altri lotta, conflitto e amico-nemico sono stati considerati intrinseci alla natura umana. Per cui è impossibile eliminarli; ed è difficile ridurli, anche se non impossibile.

In fondo sia la teologia politica cristiana che il diritto internazionale westphaliano erano volti a realizzarlo. In particolare la riduzione dei legittimi contendenti agli Stati sovrani (justi hostes) diminuiva il numero di guerre limitando chi ne poteva far uso, garantendo così lunghi periodi di pace e comunque di guerre limitate (guerres en dentelles) alle nazioni europee. A ciò concorrevano altri precetti fondamentali del diritto pubblico (internazionale e interno): il monopolio della violenza legittima e della decisione politica, le frontiere (conseguenti al carattere territoriale delle comunità sedentarie), le distinzioni giuridiche (romanistiche) tra nemico e criminale e carattere pubblico della guerra. Il diritto di ciascuna comunità di vivere secondo le proprie scelte e consuetudini, ovviamente all’interno del proprio territorio, ne garantiva il pluralismo ed il rispetto da parte delle altre.

L’universo non è in linea con tale metodo sperimentato nella storia, che è poi, come scriveva de Maistre, la politica applicata. Buona parte dell’armamentario di propaganda spiegato, da ultimo (ma non solo) nella guerra russo-ucraina è il contrario di quanto efficacemente praticato in qualche secolo di storia d’Europa. Il nemico è un “criminale, macellaio, pazzo”. Le sue pretese sono quelle di un malato grave, a Putin hanno fatto anche delle visite psichiatriche via televisione con diagnosi tutte infauste (dal tumore alla demenza).

Il fatto che quanto fatto da Putin somigli assai alla politica dei suoi predecessori negli ultimi secoli (da Pietro il grande a Caterina la grande passando per Alessandro I e II, Nicola I), rivolti a guerreggiare per acquisire la supremazia nel (e intorno al) Mar Nero, può avere due risposte: o che, per interessi, in primo luogo geopolitici, la Russia tende a conquiste ed accessi ai “mari caldi” tra cui in primis, il Mar Nero, e di tale tendenza occorre tener conto; ovvero che la Russia da Pietro il Grande ad oggi è stata governata per gran parte dalla sua storia, da dementi (tuttavia due dei quali fregiati dagli storici con l’appellativo di “grande”). La lotta sarebbe tra democrazia contro autoritarismo – argomento che ricorda assai quello del “mondo libero” contro il “totalitarismo comunista” – solo che nel primo caso, aveva fondamenti ben più seri. L’autoritario è ovviamente Putin (ma anche Erdogan, Xi-Jin-Ping, Orban, Modi ecc. ecc.). Dimenticando che, se per difendere la democrazia fosse necessario propiziare la guerra a Russia, Cina, India, ecc. ecc., il confronto risulterebbe assai problematico. Argomenti che hanno tutti i connotati comuni: a) di non riconoscere l’avversario come nemico giusto; b) di considerare le frontiere come intollerabile limite d’influenza; c) e di discriminare essenzialmente in base a “tavole di valori” nelle quali i “diritti umani” rivestono un ruolo fondamentale.

Ora se è vero che vivere in una democrazia liberale (reale, meno in quelle parlate come purtroppo – in parte – è l’Italia) è molto meglio che vivere in uno Stato autoritario e forse anche in una democrazia illiberale, è parimenti vero che altro è tenersi il proprio modo di esistenza e rispettare quello degli altri, altro è cercare di esportarlo con inopportune ingerenze, e ancor più con guerre (dirette o per procura).

Ancor più quando il fondamento è la diversità di valori, la cui conseguenza è, come scriveva Schmitt, che valorizzarne alcuni significa comunque dis-valorizzare altri, collocarli in una “scala” da quello superiore a quello inferiore. E quindi discriminare coloro che condividono quelli “in basso”..

Come sosteneva Max Weber la competizione tra valori crea una lotta dove non è possibile “nessuna relativizzazione e nessun compromesso”. Onde Schmitt riteneva: “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi… nel dibattito sulla questione della guerra giusta” perché crea così il nemico assoluto “Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per la imposizione del valore supremo”[1].

Soprattutto per questo il pluriverso è preferibile all’universo – in politica, e specialmente nei rapporti tra popoli. E l’inclusione dell’orbe nell’urbs, capacità di cui i Romani erano maestri, richiede secoli e rispetto delle differenze. Tempo carente ed attitudine assente tra i globalizzatori. Onde il pluriverso, fondato sul rispetto della diversità tra i popoli, possiede un’attitudine pacificatrice superiore all’ “alternativa” universalista.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] E prosegue: “Tutte le categorie del diritto di guerra classico del jus publicum europaeum – nemico giusto, motivo di guerra giusto, proporzionalità dei mezzi e condotta conforme alle regole, debitus modus – cadono vittime, inesorabilmente, di questa mancanza di valore”, v. Carl Schmitt, La tirannia dei valori, A. Pellicani Editori, Roma 1987, p. 72.

SANZIONI ED ETEROGENESI DEI FINI, di Teodoro Klitsche de la Grange

Dall’inizio del conflitto russo-ucraino i mass-media mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..

Questo toccandone ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista, che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può – l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.

Certo sanzionare le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.

D’altra parte nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.

A partire da quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato il proprio regime nemico degli Yanquis; permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani, e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.

La prima: che la guerra reale è condizionata, limitata ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.

La seconda: per essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero parzialmente e distrattamente. Lo zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati satelliti.

Al contrario l’embargo deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941 era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in primo luogo.

I militari giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).

Cambiando angolo visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di fattori, fattori di potenza. Ossia idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo, anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna – riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé – hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo. Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza). Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace, quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.

Teodoro Klitsche de la Grange

Grammatica del costituzionalismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

  1. a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
  2. b) li si applica alla situazione concreta
  3. c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass – quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

NEBBIA DELLA GUERRA E FAKE-NEWS, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEBBIA DELLA GUERRA E FAKE-NEWS

Scriveva Clausewitz che la guerra è caratterizzata dalla “nebbia” che non consente o consente con poca chiarezza e distinzione la percezione della situazione effettiva.

Tale nebbia non è però solo quella di Austerlitz, cioè un fenomeno naturale, ma è dovuta ad attività (ed errori) umani: alla confusione, allo scarso o contraddittorio afflusso d’informazioni, agli espedienti del nemico volti ad ingannare. Le informazioni, scriveva il generale prussiano, sono la base per le “nostre idee ed azioni… base fragile ed oscillante, e si comprenderà ben presto quanto pericolosa sia l’impalcatura della guerra, con quanta facilità possa crollare, e schiacciarci sotto le sue macerie”. Le informazioni perciò “in guerra sono in gran parte contraddittorie, in maggior parte ancora menzognere, e quasi tutte incerte”. Tale difficoltà è già importante per chi deve decidere, cioè i comandanti politici e soprattutto militari, gli esperti. Ma è assai peggiore “la cosa per colui che non ha esperienza…ed invece le notizie successive si sostengono, si confermano, s’ingrandiscono, aggiungono”. E il “pubblico” cioè coloro che osservano le descrizioni belliche, sono il massimo della non-esperienza, e non si rendono conto o in misura minima che “la maggior parte delle informazioni è falsa… Ciascuno è disposto a credere più il male che il bene, ciascuno è tentato di esagerare un poco il male: ed i pericoli fittizi che vengono segnalati, in tal modo, pur dissolvendosi in se stessi come le onde del mare, si affacciano, al pari delle onde, senza una causa visibile”. Il capo ha così il difficile compito di valutare e selezionare tra le tante che gli giungono, le notizie più attendibili.

Quando poi le informazioni generosamente distribuite sono dirette al pubblico radio-televisivo e dei media in genere, la nebbia s’infittisce e si amplifica l’interesse a produrle, anche quando la saggezza le rende improbabili. Con ciò si passa alla “guerra psicologica”, definibile come l’insieme delle iniziative volte a controllare l’opinione pubblica e i di essa giudizi ed azioni, agendo – prevalentemente – sul sentimento  e l’emotività. Se indirizzato al nemico (in atto o in potenza) lo scopo assolutamente prevalente è di condizionarne e fiaccarne la volontà, inducendolo alla trattativa (a perdere), se la guerra è in atto, o a non farla (o a non intervenire) se è in potenza. Questo è ovvio, perché da un lato la guerra è un mezzo per affermare la propria volontà e potenza, onde il miglior nemico è quello poco determinato a combattere; dall’altra la prima regola dell’agire strategico è ridurre il numero (o almeno la potenza) dei nemici, come ben sapevano i romani. Il generale prussiano, tuttavia, in un’epoca in cui la stampa quotidiana muoveva i primi passi non era in grado di prevedere quanto si sarebbe intensificata col progredire dei media.

La guerra russo-ucraina è connotata, ancor più che le precedenti del XX e XXI secolo, da essere una guerra telematica, combattuta sui media, non meno – anzi di più – che sul campo. Ma sempre caratterizzata dallo scopo, ovvero fiaccare la volontà del nemico e indurlo a sottomettersi – e dei mezzi all’uopo spiegati: una massa d’informazioni false, artate, contraddittorie. Che non reggono, o sono del tutto improbabili una volta verificate o valutate.

Ad esempio il ruolo di Putin, elevato – in mancanza di più acconci interpreti – ad incarnazione del male assoluto. È lo stesso statista che fino a pochi mesi fa interloquiva con tutti i grandi della terra, che stringevano accordi e facevano affari con lui. Mostrandosi così, almeno, un po’ ingenui, facenti parte della razza dei Chamberlain, non dei Bismarck. E anche dimentichi che il nemico non è solo quello cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si conclude la pace. Onde è meglio, come nel diritto (romano) e internazionale classico non demonizzarlo, o anche solo criminalizzarlo, perché così si rende ancora più difficile concludere la pace. E la stessa pace diventa così una tregua di briganti.

Altra notizia non falsa, ma costante, è quella sui “danni collaterali”, ossia sui civili morti a causa delle operazioni belliche. É cosa vera, semplicemente perché da millenni a far le spese della guerra sono (anche) gli innocentes (come scrivevano i teologi-giuristi del ‘600). Ancor più nelle guerre moderne dove la straordinaria forza distruttiva delle armi ne ha reso l’uso limitato spesso impossibile, Con la conseguente violazione del principio del diritto “in guerra” di risparmiare gli innocentes, ossia i non combattenti.

Solo che a distinguere tra crimine di guerra e “danni collaterali” è, molto spesso, la natura dell’obiettivo e l’intensità (e potenza) dell’attacco. Ad esempio non risulta che i russi abbiano impiegato l’aviazione per bombardamenti terroristici, tipo quelli di Dresda, Amburgo e Tokio (e di tante altre città dell’Asse) della seconda guerra mondiale. In cui i morti, nella più modesta delle valutazioni furono alcune decine di migliaia (a bombardamento). E dove furono largamente impiegate le bombe al fosforo per causare incendi difficilissimi da spegnere. Cioè proprio ordigni fatti con lo stesso elemento che tanto tiene banco tra le atrocità russe praticate in questa “operazione militare speciale”. Peraltro anche in tal caso qualcuno s’è impancato a docente di chimica bellica, confondendo fenomeni e norme. Le bombe al fosforo sarebbero armi “chimiche” perché… basate su una reazione chimica (produrre la combustione). Ma essendo una reazione chimica altresì l’esplosione causata dalle bombe convenzionali, anche queste, ragionando come certi esperti, sarebbero delle armi chimiche. Sul piano giuridico invece le bombe al fosforo sono classificate armi convenzionali e, per questo, vietate dalla Convenzione di Ginevra del ’98, ma tenute ben distinte dalle armi chimiche vietate da altra convenzione. Per cui reagire all’uso di ordigni al fosforo con un bombardamento di gas nervini sarebbe una rappresaglia sproporzionata.

Soprattutto non si può confondere il nemico con il criminale come fa la propaganda argomentando che l’uno e l’altro uccidono e danneggiano. La Russia – e così l’Ucraina – ha, come qualsiasi Stato lo jus belli, e quindi il diritto di servirsene. Chi la governa non è un animale, un essere non-umano, né un delinquente. Già lo sapevano i romani. Nel Digesto (L, 16, 118) si legge “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”; e traducendo “i nemici sono coloro che a noi, o noi a loro,  abbiamo dichiarato pubblicamente guerra: gli altri sono briganti o pirati”. Caso mai Putin ha, secondo una moda invalsa da quasi un secolo, fatto la guerra chiamandola diversamente (operazione militare speciale). Ma in ciò è stato preceduto da tanti altri – Nato compresa – che ha condotto guerre denominandole “operazioni di polizia internazionale” (ecc. ecc.). L’ipocrisia non è una pratica peculiare a un contendente ma appare estesa a tutta un’epoca che, vagheggiando un pacifismo integrale, ha cominciato a  realizzarlo dal vocabolario. Purtroppo non andando oltre.

Resta da vedere se, diversamente dalle buone intenzioni esternate, una pratica siffatta non faccia crescere d’intensità lo scontro bellico: anzi la creazione del male, del nemico assoluto porta proprio a quello: ad intensificare il sentimento ostile (Clausewitz);e così a popolarizzare la guerra.

Le vie dell’infermo sono lastricate di buone intenzioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Gustave Le Bon, Come nascono le opinioni e le credenze, di Teodoro Klitsche de la Grange

Gustave Le Bon, Come nascono le opinioni e le credenze, Oaks editrice, pp. 461. € 28,00.

 

Pensatore positivista “tipico”, Gustave Le bon fu psicologo, sociologo, antropologo. Ed anche epistemologo, come dimostra questo saggio. Ammirato all’epoca, in particolare dai grandi dittatori, al cui rapporto con il “seguito” non furono estranee le concezioni di Le Bon, come appare dalle loro capacità e modi di persuasione delle masse.

La ricerca delle regolarità di comportamento dei gruppi sociali, anche e soprattutto se caratterizzati da una inesistente o minima  organizzazione/strutturazione – in pratica senza reale potere e “diritto” – è uno dei percorsi di ricerca di Gustave Le bon, probabilmente il principale.

Prima che nell’azione collettiva, il comportamento dei gruppi sociali deriva dalle opinioni e credenze diffuse negli stessi. Nella prefazione Francesco Ingravalle scrive che ciò “equivale a fare della fede (che è opinione e credenza eretta a norma direttiva della nostra vita) la chiave degli eventi storici prodotti dall’interazione fra gli uomini”. La fede è connotata da una logica affettiva che non è – meglio va al di là – della logica razionale; Ingravalle sostiene che, secondo Le Bon, “la logica affettiva intride di sé le collettività e le folle: non c’è da stupire che il misticismo attecchisca nelle masse, mentre la logica razionale, prodotto tardivo dell’evoluzione umana, trova il proprio maggiore dispiegamento negli individui”.

Passioni e suggestioni sono le più feconde generatrici di opinioni e credenze collettive. Consegue da ciò, dalle diversità delle logiche razionale/individuale e affettiva/collettiva, e dalla “pressione” dell’ambiente sociale che “non soltanto nei fenomeni collettivi la logica affettiva fagocita la logica razionale”. E questo non solo nei secoli passati.

Scrive Le Bon che “La questione della fede, a volte confusa con quella della conoscenza, è ben distinta dalla seconda. Conoscere e credere sono cose diverse e non hanno la stessa origine. Dalle opinioni e dalle credenze derivano, insieme alla concezione della vita, il nostro comportamento e, di conseguenza, la maggior parte degli eventi della storia, Essi sono, come tutti i fenomeni, governati da certe leggi, ma queste leggi non sono state pienamente comprese”; e contrariamente all’opinione di Cartesio la fede “non è né volontaria né razionale”; ne consegue che gran parte dei comportamenti collettivi non lo è. E la fede ha un potere enorme, come provano gli eventi che induce, specie nel periodo iniziale: espansione araba, civiltà cristiana medievale, rivoluzione francese lo sono tutti. Le credenze sono atti di fede che ci “costringono ad ammettere un’idea, un’opinione, una spiegazione, una dottrina”. Se “la conoscenza è un elemento essenziale della civiltà, il grande fattore del suo progresso materiale”, la fede guida i pensieri, le opinioni e quindi la condotta. Un tempo si pensava che le credenze fossero di origine divina. “Oggi sappiamo che sono create da noi stessi; eppure, continuano a prevalere sulla ragione”. E l’età moderna, malgrado la sua (apparente) razionalità “contiene tanta fede quanto i secoli che l’hanno preceduta. Nei nuovi templi si predicano dogmi dispotici come quelli del passato e che hanno altrettanti seguaci”. Il libro di Le Bon fu pubblicato nel 1911: la storia successiva ha mostrato quanto le analisi del pensatore francese fossero valide.

D’altra parte era (ed è) convinzione diffusa, anche tra i pensatori contemporanei di Le Bon, che la fede non è sostituibile; se ne possono sostituire i dogmi ma questi restano oggetto della stessa fede di quelli che li hanno preceduti “nuovi dei vengono sempre a sostituire quelli che sono morti o stanno per morire”. L’introduzione e il saggio conclusivo di Andrea Prestigiacomo aprono e chiudono il libro.

In un’epoca come la contemporanea, caratterizzata da un relativismo (contraddittorio) e dal dominio dell’“economia”, il pensiero di Le Bon ha ancora una validità; occorre tuttavia riscontrare in che modo si formeranno non tanto le credenze, quanto le azioni conseguenti, ora che le folle – oggetto del più famoso saggio di Le Bon – non stanno in piazza, ma davanti al computer.

Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERA NOS A MALO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

LIBERA NOS A MALO….

La pandemia (ma non solo) ci ha riempito di bonus: per le facciate, l’energia alternativa, i monopattini, le bici elettriche, ecc. ecc. Con gli italiani in gran parte contenti nel vedere come dai funebri ritornelli – dei governi Monti e post-Monti – con cui s’accompagnavano tasse nuove e innovative (nel senso dell’aumento), si fosse passati al carnevale, con lo Stato che, invece di ripartire carichi, distribuisce sovvenzioni.

Da qualche settimana tuttavia lo spartito è cambiato: i bonus, questa risorsa di sollecitudine paterna dello Stato-provvidenza sono stati pervertiti dai soliti italiani profittatori: risulterebbe che una consistente quota dei bonus finanziati da Pantalone sarebbe stata percepita da chi non ne ha diritto. Per cui sarebbe opportuno fare marcia indietro. Ci permettiamo però, al riguardo, di prendere esempio da quanto sosteneva Lenin: fare si un passo avanti ma per farne due indietro. Vediamo come.

Cos’è che hanno in comune la funzione predatoria-parassitaria di appropriazione/controllo delle risorse private da parte del settore pubblico e quella distributiva dell’erogazione di sovvenzioni pubbliche ai privati? La risposta è semplice: è lo stesso potere incaricato di fare l’uno e l’altro, in particolare quello amministrativo. Il quale (sempre) giustifica la prima attraverso la seconda: devo togliere dei quattrini (e non solo) ma per darli a voi. Anzi ai meno fortunati di voi come i migranti, gli indigenti, ecc. ecc.

Dato che a “dare le carte” è sempre lo stesso croupier, tuttavia manifesta in ambedue le attività le stesse tendenze (e difetti). Ossia sarà tardigrado; spesso parziale, non poco corrotto e così via, Tutto l’insieme di mende legate alle pubbliche amministrazioni italiane saranno tali, sia che prendano, sia che spendano. Quando poi si cerca di rimediare alla tardività (spesso indotta dagli stessi uffici), riducendo pareri, visti, concertazioni, passaggi (ed altro) il risultato può essere che anche qualche suddito furbo ci guadagna.

Per cui, anche se la politica dei bonus è sicuramente migliore di quella della tassazione a gogò con tanto di miserere e tua culpa cui ci hanno abituato i governi italiani eurodemomontidipendenti non è il percorso preferibile.

Meglio dell’erogazione dei bonus è evitare il malum, come una saggezza millenaria suggerisce dal Pater noster: il malum è il pubblico funzionario, onorario o burocrate che sia.

Del quale non occorre ricordare quanto sia stato scritto dai teorici (e pratici) dello Stato borghese, quello che normalmente chiamiamo liberal-democratico. E quanto fosse temuta la continua espansione della burocrazia, naturale nello Stato moderno. Basti, per tutti ricordare quel che scriveva Giustino Fortunato: “la tendenza al dominio universale della burocrazia, il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica”. Perché per un liberale l’espansione della burocrazia è, in primo luogo, una questione di potere e di libertà. Una burocrazia pervasiva e dotata di poteri crescenti significa meno spazio e libertà per i governati. Lo stesso principio della tutela dei diritti fondamentali – che è uno dei due dello Stato borghese, l’altro essendo quello della distinzione dei poteri (à la Montesquieu) – è stato considerato da Schmitt come “significa il riconoscimento del fondamentale principio di divisione dello Stato borghese di diritto: una sfera di libertà del singolo in linea di principio illimitata ed una possibilità d’intervento dello Stato in linea di principio limitata, misurabile e controllabile” ossia la divisione degli ambiti tra Stato (governanti) e società civile (governati).

Ma la possibilità d’intervento dei poteri pubblici può essere duplice, sia nel togliere che nel dare.

Dato che, in particolare nell’ultimo trentennio (ma non solo) il potere dello Stato è ulteriormente accresciuto – e le statistiche del PNL e del PIL mostrano quanto inutilmente – ci permettiamo di suggerire che meglio dei bonus, e assai più economicamente per le finanze statali, cioè per tutti noi, si proceda ad una radicale sfrondatura di gran parte di quei poteri di impedire, autorizzare, controllare attività private che più che finalizzati a tutelare interessi pubblici (asseriti) lo sono a salvaguardare i privatissimi interessi di coloro i quali – burocrati e non – traggono benefici (e redditi) dalla loro vigenza.

Teodoro Klitsche de la Grange

A COLPI DI GROSSRAUM, di Teodoro Klitsche de la Grange

 A COLPI DI GROSSRAUM

Diversamente dalla crisi pandemica e dai DPCM, quando molti ricordavano – e ricorrevano – alla teoria di Schmitt sullo stato d’eccezione, per quanto spesso cercando di amputarla dall’essere un criterio d’identificazione del sovrano, che fa troppo Salvini – non mi risulta che la crisi ucraina sia stata inquadrata in un’altra delle idee di Schmitt, così utili ad interpretare la situazione contemporanea: quella del Grossraum (grande spazio). Per connotare tale concetto occorre premettere che s’iscrive nella concezione di decadenza dello Stato moderno, cui Schmitt contrapponeva l’insopprimibilità del “politico”, quale essenza (Freund).

Onde se lo Stato non “fa” politica (o si autolimita in ciò) a colmare tale assenza ci pensano altri soggetti (dai partiti, alle chiese, agli imperi e così via). Dopo di che, atteso che un limite spaziale, nelle civiltà sedentarie (Hauriou) è necessario, come lo è un soggetto (e principio) ordinatore, il Grossraum può essere considerato come uno spazio delimitato, organizzato intorno ad un’egemonia di comando, in grado di governare una pluralità di sintesi politiche (cioè in primo luogo, gli Stati), escludendone le potenze esterne allo stesso.

In un’interpretazione post-Huntington tale spazio può somigliare alle “civiltà” i cui componenti sono affini per un patrimonio di idee, tradizioni, valori comuni. A tale tesi si può tuttavia replicare che il Grossraum, anche se non esclude – anzi è favorito – (dalle) affinità non vi trova un elemento essenziale. Questo perché lo sono, invece l’egemonia e la delimitazione spaziale, possibile anche in spazi di popoli non omogenei né affini. Come d’altra parte in altre sintesi politiche, come gli imperi, per lo più multi-etnici, multi razziali, multi religiosi            [1]. Più vicino al concetto di Grossraum è quello di “sfera d’influenza” e altre consimili, che designano l’effettività di un comando egemonico (e relativa pretesa) su più sintesi politiche. Che questo emerga da millenni fa parte della storia. Ogni (aggregato di) potenza si circonda, ove possibile – di stati-clienti, gli obblighi dei quali vanno dal massimo di fornire risorse – anche militari – alla sintesi politica egemone, al minimo di conservare una neutralità in caso di guerra tra quella e le altre, in effetti una rinuncia a muover guerra alla potenza egemone.

Già la storia romana e bizantina ci danno esempi di tale tipo di rapporto. Lacmidi e Gassanidi erano stati – clienti degli imperi persiano (sassanide) e romano. Gerusalemme, qualche secolo prima era stata  assediata dall’esercito di Tito, formato in buona parte da soldati forniti dai tre vicini stati – clienti dell’impero romano.

È chiaro che tali limitazioni assunte o imposte agli Stati clienti costituiscono  altrettanti paletti alla sovranità; questa, in senso giuridico ha il significato di non tollerare alcun limite (Romagnosi, Orlando tra i tanti). Onde al contrario di quanto succede in altri casi, gli strenui difensori dell’Ucraina lo sono diventati (forse a malincuore) anche della sovranità della medesima.

Più che alle incoerenze tra atteggiamenti concreti e affermazioni ideali, tuttavia la riflessione sul punto non dovrebbe prescindere da quanto pensava Spinoza: che la sovranità è illimitata in diritto, ma è limitata in fatto dalla possibilità reale di azione: tantum juris, quantum potentiae. Il sovrano non è colui che puote quel che si vuole, ma è chi è libero nel decidere tra alternative possibili. Questo vale in modo – ovviamente – assoluto per l’impossibile ontologico, e in modo relativo per l’impossibile concreto. Del pari per le scelte azzardate o, al limite insensate (Aron). Come quella del Principato di Monaco che intendesse muovere guerra alla Francia. Una scelta dall’esito positivo impossibile, in particolare per la sproporzione dei mezzi a disposizione e quindi (altamente) inopportuna. É la disparità delle forze tra le potenze aderenti e quelle egemoni (sostanzialmente, di converso, pari tra loro) della Nato e del Patto di Varsavia che ha conservato, dopo Yalta, la pace in Europa, e l’egemonia nei rispettivi blocchi degli USA e dell’URSS.

Dopo l’implosione dell’URSS, che è equivalsa ad una guerra perduta, la Russia ha dovuto rinunciare all’egemonia sulle nazioni dell’Europa orientale, e tollerare la perdita dell’unità politica delle repubbliche federate nell’URSS. Analogamente a quanto praticato e deciso a Yalta per gli imperi giapponese, italiano e il Reich tedesco. Tuttavia l’enorme estensione territoriale e la popolazione della Russia hanno conservato alla stessa nello spazio eurasiatico un primato dovuto allo squilibrio dei rapporti di forza con le vicine repubbliche ex sovietiche: l’Ucraina che è la più popolosa, ha comunque una popolazione pari o poco più di un quarto di quella russa; il PNL ucraino è circa 10 volte inferiore. Questo tralasciando altri fattori di potenza, dalla proporzione simile, e senza andare alla storia dei due paesi.

L’unica possibilità per l’Ucraina è una violenta guerra partigiana, che pare assai remota e comunque portatrice di enormi danni a ucraini, russi, nonché (almeno economici) agli europei occidentali. Qualcuno forse spera che gli aspiranti guerriglieri ucraini ripetano, per Putin, l’impresa dei loro predecessori della seconda guerra mondiale, che uccisero il generale Vatutin che aveva appena riconquistato l’Ucraina alla Russia.

Per cui l’avvertimento dato più volte negli anni trascorsi da politici e politologi come Kissinger, il nostro Prodi (ed altri – non molti) di non cercare di estendere la Nato a Stati ex-sovietici, appare come un consiglio assai azzeccato, e il più idoneo a conservare la pace e l’ordine internazionale. Come intuito da Schmitt con la sua dottrina del Grossraum. Questa è il contrario di quanto sbandierato nell’ultimo trentennio, di una visione del mondo propiziata della “fine della storia” (la quale si è affrettata a ricominciare), e fondata sulla condivisione di valori che per quanto apprezzabili, hanno il limite, politicamente decisivo, per essere efficaci  d’esser condivisi: se non lo sono, non servono a creare coesione politica e sociale, ma solo ad attizzare conflitti.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Per gli imperi è (quasi) la regola. Riguardo all’Ucraina proprio Huntington sostiene che “la linea di faglia” tra civiltà cristiana occidentale e cristianesimo orientale, attraversa l’Ucraina.

LA “NOVITÁ” DELLA RESPONSABILITÁ DIRETTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA “NOVITÁ” DELLA RESPONSABILITÁ DIRETTA

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici” (art. 28 della Costituzione italiana)

Dopo la “bocciatura” da parte della Corte costituzionale del referendum sulla responsabilità dei giudici, sui teleschermi si è visto un fiorire di dichiarazioni sul fatto che non è ammissibile la responsabilità diretta del magistrato, che l’Italia è l’unico paese che l’avrebbe prevista, ecc. ecc. In genere a sostenere tale tesi (o similari) erano coloro che omaggiano la Costituzione come “la più bella del mondo”; pare che il Presidente della Corte costituzionale abbia affermato che “l’introduzione della responsabilità diretta avrebbe reso il referendum più che abrogativo, innovativo”: Ma di cosa se è già prevista la responsabilità diretta del funzionario dall’art. 28 della “più bella del mondo”?

Anzi occorre ricordare – a conferma che la responsabilità diretta era quella che volevano e si compiacevano di aver prescritto – alcuni interventi alla Costituente. All’uopo riportiamo affermazioni del costituente prof. Codacci Pisanelli “si ha al riguardo una notevole innovazione, perché gli impiegati non sono soltanto responsabili nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico da cui dipendono, ma sono responsabili nei confronti dei terzi, ai quali siano derivati danni dalla loro attività. È un principio dalle gravi conseguenze, senza dubbio, ma la gravità delle conseguenze deve essere valutata in relazione al fatto che non si tratta di una innovazione radicale. Anche per altri impiegati esiste già qualcosa di simile. Non dobbiamo dimenticare che per i dipendenti dello Stato, i quali esplicano la funzione giurisdizionale, cioè per i magistrati, per i cancellieri e per gli stessi ufficiali giudiziari, è stabilita anche oggi la responsabilità personale… Col nuovo sistema non bisogna pensare che venga abbandonato il principio delle responsabilità dello Stato o della pubblica Amministrazione per atti compiuti dai suoi dipendenti; viceversa, il principio viene integrato con l’altro della responsabilità estesa anche alle persone fisiche preposte ai pubblici uffici”. Quanto all’asserito “solipsismo” della responsabilità diretta , Codacci Pisanelli diceva “In Inghilterra da secoli si applica questo principio, fin da quando, nel 1763, ci fu il famoso contrasto tra Giorgio III ed uno dei deputati, il Wilkes, il quale scrisse un articolo contro il re. Il re dispose, attraverso il primo ministro, perquisizioni domiciliari e arresti; il Parlamento insorse; l’autorità giudiziaria dichiarò la incostituzionalità della esecuzione dell’ordine impartito di eseguire quei sequestri e condannò colui il quale aveva eseguito l’ordine al risarcimento dei danni. Risale a questo tempo l’affermazione del principio della responsabilità personale dei pubblici impiegati per gli atti da essi compiuti” (v. V. Carullo, La Costituzione della repubblica italiana, Bologna 1950, pp. 77-78). Anche in altri ordinamenti, e da secoli, la responsabilità diretta del funzionario era tutt’altro che sconosciuta. Scrive Tocqueville che nell’ancien régime le azioni proposte in giudizio contro i funzionari pubblici erano sistematicamente avocate al conseil du roi. La rivoluzione istituì la “garanzia amministrativa” con la L. 16-24 agosto 1790; la quale, aggiungeva Tocqueville, ebbe un grande successo, dato che passati tanti diversi regimi politici, nessuno l’aveva cambiata. Anche in Gran Bretagna prima del Crown Proceedings Act del 1947 in linea generale a rispondere alle azioni giudiziarie era il funzionario che aveva preso la decisione o commesso il fatto. Quindi la responsabilità diretta, da secoli praticata, non è una novità se non per qualche politico o giurista dalla memoria corta. Ne è l’espediente rozzo di quei cavernicoli di Salvini e Meloni. C’è da chiedersi perché la responsabilità diretta trovi così tanti avversari, malgrado, alla fin fine non sia tanto diversa dalla cugina carnale, cioè quella indiretta? A favore della quale bisogna aggiungere che, pagando lo Stato, si ha una ben superiore garanzia della solvibilità del debitore.

Gli è che nel primo caso il funzionario deve vedersela con la parte lesa, che ha un diretto interesse alla riparazione richiesta e quindi è un avversario ben più motivato e temibile; nel secondo caso a recuperare il risarcimento corrisposto dallo Stato alla vittima, è un funzionario anch’esso, spesso svogliato, se non, come può succedere, complice e, soprattutto, che non combatte per un proprio interesse come il danneggiato.

E magari qualche dato statistico, più o meno segretato ce lo confermerebbe.

Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Sotto scacco_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Sotto scacco, Liberilibri, Macerata 2022, pp. 115, € 14,00.

Il profilo più interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie, intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende d’attualità.

Così è per la pandemia. Il libro esordisce “Il potere politico si fonda sulla paura. E il caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e naturalmente il riferimento è, in primis, a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che “secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere, in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali paure sopire e quali far circolare”.

L’inconveniente, noto, è che per farlo, necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello necessario a forme politiche meno impegnative.

Anche se esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque rimesse all’autorità di esperti, illuminati dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e sulla capacità di prevedere del superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).

Ciò sarebbe anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è il risultato). Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società “c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in una macchina e la politica in ingegneria”.

Da questa e da altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire Hauriou, le fond è il medesimo. Con la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali, nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritatismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza a quello pandemico”.

Con la prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”.

Castellani ne individua i connotati già nella nota profezia di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a forme di delegittimazione ed esclusione dell’avversario. L’auctoritas prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia sull’inimicizia, la rule of law sul potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.

Teodoro Klitsche de la Grange

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