QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

Roberto Esposito, Istituzione_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Roberto Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 163, € 12,00

La concezione e l’uso corrente del termine “istituzione” non lo correla alla vita e al mutamento. L’autore ritiene invece che “Compito primario delle istituzioni non è solo quello di consentire a un insieme sociale la convivenza in un dato territorio, ma anche di assicurare la continuità nel mutamento, prolungando la vita dei padri in quella dei figli…le istituzioni rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita – della propria morte – prolungando, per così dire, la prima nascita nella seconda”; e continua sottolineando le antinomie del concetto. Ad esempio tra movimento (momento istituente) e stabilità dell’istituzione. La logica dell’istituzione “tiene insieme movimento e stabilità, mutamento e permanenza, innovazione e conservazione”. Ma così è anche per altre antitesi: libertà e necessità, soggetto ed oggetto, interno ed esterno. L’autore analizza le concezioni di filosofi, sociologi, pensatori politici e, ovviamente, giuristi, essendo il concetto (e il termine) familiare soprattutto a quest’ultimi. Esposito ritiene (a ragione) che “I primi, e più influenti, teorici dell’istituzionalismo giuridico sono il francese Maurice Hauriou e l’italiano Santi Romano” e brevemente riassume i tratti fondamentali del loro pensiero (come – anche – di quello di Cesarini Sforza).

Andando a qualificare i caratteri più importanti del pensiero istituzionista, questo è vitalistico e realistico. Ed essendo la vita carica di contraddizioni, la funzione dell’istituzione è di tenerle insieme (eliminarle o sopprimerle non è nella possibilità umana). Ad esempio la contraddizione tra movimento e stabilità: Hauriou li sintetizza paragonando l’istituzione (nella specie lo Stato) ad un agmen: ad un esercito in marcia. Il quale si muove, cambia anche – in parte – posizione e compiti dei suoi reparti, ma conserva sempre l’ordine. In alcuni periodi il movimento si accelera, in altri rallenta: così si passa dai gouvernements de fait (emergenti da colpi di Stato o rivoluzioni) con trasformazioni veloci ed estese, ai gouvernements de droit consolidati, accettati e quindi meno innovativi, ma più stabili. Ma è l’ordine (nel senso dell’agmen) il loro comune denominatore.

Così nella rivoluzione (e nel partito rivoluzionario) cui dedicò una voce dei Frammenti di un dizionario giuridico, Santi Romano. Il partito rivoluzionario, pur essendo un soggetto politico non statale (ossia “movimento”) è già istituzione, anche se in fieri, fluttuante, dagli incerti confini. Ma già ha delle strutture, un vertice, una base; e delle regole, e quindi una certa effettività e più ancora un “tasso” di ordine: è un “ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”. Del pari, quando Romano individua i tratti fondamentali dell’instaurazione di un ordinamento statale, fa riferimento non a caratteri normativi come la conformità alle regole legalmente poste, allo Stufenbau, ma a elementi fattuali (o meglio non normativi), come l’effettività, la legittimità, il riconoscimento (dei sudditi) cioè la disponibilità ad obbedire. In definitiva “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale, ma altresì la vitalità”: il nuovo regime deve avere, per essere tale, stabilità e quindi durata. È vero, anche se riduttivo, quanto scrive Esposito che “l’istituzionalismo italiano – da Romano a Mortati – ha ricondotto il diritto alla sua radice vivente”; perché vitalismo e realismo sono caratteri tipici anche dell’istituzionalismo non italiano (come in Hauriou, Schmitt, Smend). Anche se spesso rinvenibili in giuristi non considerati istituzionalisti, ma semplicemente realisti.

Scrive l’autore nell’epilogo che “La prassi istituente reinterpreta in maniera inedita la relazione tra continuità e discontinuità, lasciandosi alle spalle sia lo storicismo progressista sia la tradizione rivoluzionaria della creazione ex nihilo”. E che la concezione de “l’ordine in movimento” sempre presente in giuristi come Hauriou e Santi Romano (e non solo) possa essere il criterio per capire le trasformazioni oggi in atto appare, in larga misura, probabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA PARITÁ DELLE ARMI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA PARITÁ DELLE ARMI

Comincia male l’annunciata riforma della giustizia tributaria. C’informa il comunicato congiunto dei Ministeri interessati che, in Cassazione “il contenzioso tributario rappresenta una delle componenti principali dell’arretrato accumulato (50.000 i ricorsi pendenti stimati a fine 2020, con una percentuale di riforma delle decisioni di appello del 45%)”, per concludere che la riforma della giustizia tributaria è “coerente con le indicazioni dell’Unione Europea”, la quale notoriamente non ha un’opinione lusinghiera della giustizia italiana in genere.

Ciò che preoccupa è che si sia iniziato col consueto richiamo alla pletora di ricorsi e all’arretrato, ossia guardando il problema non dall’angolo visuale dei contribuenti, ma da quello dell’amministrazione. Prendere le mosse dal quale, come scriveva Marx, è logico per una visuale burocratica, tendente naturalmente a confondere l’interesse dell’ufficio o dei burocrati allo stesso addetti con quello, generale, dello Stato. Il quale non è solo e tanto la deflazione del contenzioso, ma che il diritto sia applicato (con giustizia) e lo sia in tempi e modi appropriati.

Ancor più nel caso dell’Italia contemporanea dove la “deflazione” è stata (asseritamente) realizzata a dispetto dei diritti dei cittadini e dell’interesse generale, percorrendo le strade di espedienti rivolti a rendere più difficoltoso l’esercizio delle azioni giudiziarie e la realizzazione delle domande nei confronti delle P.P.A.A. (non solo di quella finanziaria): dall’aumento dei costi alla prescrizione di norme volte a rendere più complicato e defatigante l’esecuzione di sentenze e giudicati, a prassi finalizzate a scoraggiare il ricorso alla giustizia contro atti e comportamenti delle PP.A.A. (come l’uso della condanna alle spese dei cittadini come deterrente alla proposizione delle azioni giudiziarie).

Dato che ci si aspetta la ripetizione sui media mainstream delle usuali giustificazioni accompagnate dalle ovvie argomentazioni da causidico (del tipo se aumento i costi e ne riduco l’utilità le cause calano) e senza voler ripetere, a tale proposito, quanto scriveva Jhering in quel best-seller che fu “La lotta per il diritto”, è utile ricordare brevemente quel che è scritto nella Costituzione e, parimenti, ciò che pensava M. Hauriou.

Nella “costituzione più bella del mondo” è stata inserita (da decenni) una modifica implementativa dell’art. 111 della Costituzione (al fine, tra l’altro, anche di adeguarsi alla giurisprudenza europea). Attualmente il secondo comma dispone che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. È tale condizione di parità, la quale per esserlo deve comprendere anche alcuni diritti sostanziali – e non solo processuali – ad essere, anche se non l’unica, quella più disattesa nella normativa (e nella prassi) vigente. Sia in maniera manifesta che indiretta e non apparente, ovvero con norme che di fatto si applicano quasi sempre solo alla parte privata e non a quella pubblica, come quelle che limitano i mezzi di prova. Altre prevedono esplicitamente un trattamento differente: ad esempio l’esecuzione esattoriale, onde l’esattore può pignorare i beni senza rivolgersi a un giudice (applicazione estensiva del principio dell’esecutività degli atti); il che oltre alla disparità di trattamento comporta la realizzazione immediata del credito, mentre, nel caso inverso la perdita di almeno uno-due anni. O quelle che escludono la possibilità di esecuzione avverso le PP.AA., o che la rendono assai difficile aggiungendovi oneri e obblighi del privato e prevedendo termini più lunghi, tutti inesistenti tra privati. E potremmo continuare per qualche pagina, solo a citare articoli e commi istituenti privilegi, deroghe, alterazioni delle parità, di converso sempre vigente tra parti private.

Ma qualcuno potrebbe obiettare che la parità tra poteri pubblici e diritti dei privati verso questi è impossibile. Ed ha pienamente ragione, Un grande giurista come Hauriou distingueva, già oltre un secolo fa, due diritti (e due giustizie correlative). Il primo, il diritto comune, conseguente alla sociabilité umana, generato al di fuori delle istituzioni, e che comunque comporta  una giustizia tra parti in condizioni di parità (Dike). L’altro, quello istituzionale, disciplinare, interno, caratterizzato dall’essere gerarchico e che di fronte ai Tribunali le parti non sono uguali l’una all’altra (Temi). E la cui sorgente (source) è l’organizzazione sociale. Senza questa disparità di trattamento, sostanziale e processuale, nessuna istituzione, soprattutto lo Stato, può stare in piedi, e ciò non è altro che un aspetto, il principale, della giudiziarizzazione del presupposto politico del comando-obbedienza. Ma di questo ho scritto già ed evito di ripetermi.

Quello che è sicuro è che negli ultimi decenni l’ambito di Temi è stato esteso a dismisura e applicato a materie non connotate da un interesse pubblico impellente e prevalente, ma semplicemente finalizzato a non pagare debiti, ad esigere crediti, di eliminare diritti d’ostacolo e semplificare, a loro scapito, la realizzazione di pretese infondate. Per cui la proposta più semplice per riformare la giustizia tributaria è quella di ridurre la disparità. Far crescere Dike e dimagrire Temi. Così se è impossibile far prevalere  sempre giudizi in condizione di parità, è auspicabile ridurne la disparità: parafrasando Orwell, se non sempre si può essere uguali, almeno si può essere meno disuguali.

Teodoro Klitsche de la Grange

AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI_di Teodoro Klitsche de la Grange

AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI

Tra i (modesti) vantaggi che le emergenze politiche, economiche e sociali possono arrecare, c’è quella di chiarire e porre in evidenza caratteri (e funzionamento) di regolarità politiche già evidenziate dalla dottrina. Così è per il Covid 19.

I sostegni dispensati dal governo Conte-bis – e in parte anche dall’attuale – dividono il grosso della popolazione italiana in tre macro-gruppi: coloro che vivono di uno stipendio pubblico/pensione, garantiti al 100%. Anzi tenuto conto delle chiacchiere sullo smart working pubblico (così diverso da quello privato), anche caratterizzato da una sostanziale identità di retribuzione a fronte di una prestazione più comoda, spesso ridotta e talvolta inesistente. Poi i dipendenti privati, con garanzie inferiori ai pubblici (tuttavia estese – causa pandemia – a quelli che non l’avevano). Infine i lavoratori autonomi, rimasti , in gran parte o totalmente senza tutela o con ristori minimi (Conte) ovvero con modesti (ma più diffusi) sostegni (Draghi).

A giustificare trattamenti così radicalmente differenziati, la retorica mainstream si è servita di tutti gli espedienti. Il primo, l’oscuramento (non parlarne e gonfiare le altre notizie). Poi la mistificazione – come enfatizzare le regole e dimenticare le (vastissime) eccezioni. Così ad esempio, i ristori ai lavoratori autonomi che non si applicavano ai pensionati (o agli iscritti) degli enti di previdenza privati (cioè a quasi tutti). Anche le usuali litanie: ce lo chiede l’Europa… siamo i più bravi ad affrontare l’emergenza (se non fosse per…qualche migliaia di morti in più degli altri) hanno trovato la propria consueta collocazione nei discorsi di propaganda.

È mancata invece totalmente l’applicazione generale e omogenea (se non identica) di quello che è uno dei principi costitutivi di qualsiasi comunità politica, ancor più se democratica, quello di solidarietà politica, sociale, economica collocato nell’art. 2 della Costituzione “più bella del mondo” (ossia tra i doveri fondamentali).

Ancorché il dovere di solidarietà abbia una funzione costitutiva delle comunità, non è quel che qui m’interessa considerare, ma è la conferma della teoria (da ultimo espressa) da Gianfranco Miglio su classe, organizzazione (e sintesi) politiche. Scrive Miglio che se configuriamo la sintesi politica come una sfera “abbiamo un nucleo centrale costituito dalla classe politica, mentre intorno si ha una classe dirigente con certi rapporti di osmosi rispetto ai ‘seguaci indifferenziati’ e, dall’altra parte, rispetto al nucleo che costituisce la classe politica stessa” e prosegue “i politologhi ritengono che fra classe politica in senso stretto e seguaci in senso lato si situi una fascia che alcuni chiamano «classe dirigente» e altri «classe politica secondaria»”; “oltre alla guerra contro il nemico, la classe politica svolge una funzione verso i propri seguaci… nei riguardi del nemico ci si attende una ‘rendita politica’ il vivere a sue spese”.

Il primo servizio reso  dalla classe politica, dopo la protezione dal nemico, “è una funzione di tutela della pace interna, che consente la sopravvivenza, mediante lo scambio, degli aggregati. Ogni aggregato vive dello scambio ‘privato’, del rapporto di ‘contratto-scambio’, di mercato ed è in attesa di rendite politiche”; il criterio di distinzione tra le une e le altre è che “nella rendita di mercato è elevata l’aleatorietà. Mentre la ragione per la quale vengono appetite le rendite politiche è data dal fatto che sono garantite”; il mezzo per approvigionarsene è la costrizione “All’esterno abbiamo le rendite politiche vere e proprie, costruite mediante un prelievo coercitivo: tutti i cittadini devono pagare le imposte, devono corrisponderle secondo un criterio proporzionale”; tali tributi “ vengono riversati come paghe pubbliche ai partiti politici, cioè a coloro che vivono al loro interno, quindi nella pubblica amministrazione”. Nella quale “Interessa piuttosto ottenere la paga pubblica. Quando si sente dire: «È meglio andare a fare il pubblico funzionario, perché almeno non ti licenziano mai», è perché la paga è garantita”: le rendite pubbliche (e così le paghe pubbliche) tendono alla garanzia assoluta del reddito, anche se “si tratta di paghe modeste in genere nel caso di paghe pubbliche garantite, laddove il sistema politico funzioni”. Basse ma non aleatorie, invece nel caso dei redditi di mercato, non c’è (teoricamente) un “tetto”, ma c’è l’aleatorietà. Nel dividere le prestazioni all’interno della sintesi politica occorre distinguere: vi sono cittadini che prestano una fedeltà passiva (scrive Miglio), cui vengono (di solito) erogati una prestazione generica, l’assicurazione dell’efficacia dell’obbligazione necessaria a “scambiare beni e prestazioni e quindi a sopravvivere”. Doveri fondamentali che, specie il secondo, sono assai compromessi dalla sgangherata burocrazia della Repubblica.

C’è poi una seconda categoria “che si crea nel caso dei seguaci attivi, cioè gli ‘aiutanti’ del potere politico. Costoro prestano ai capi politici una fedeltà attiva, ossia atti e comportamenti continuati, per far sì che coloro che detengono il potere lo conservino”, ai quali è garantita, almeno, una paga pubblica[1].

Ma, scrive il politologo lombardo “c’è una terza categoria (terza fascia) di seguaci: quelli ai quali si estorcono le risorse per erogare le paghe politiche. Sono i seguaci che potremmo definire dominati…A costoro normalmente la classe politica dà una protezione che possiamo definire ‘negativa’. È la protezione nei riguardi di se stessi: consiste nel garantire la sopravvivenza… Costoro, in cambio della sopravvivenza, devono prestare un tributo. Nei sistemi politici dei giorni nostri c’è la possibilità di un’osmosi continua fra questi due strati, tra la prima e la terza fascia, per cui di volta in volta il seguace ‘non attivo’, quello che non fa politica, può diventare temporaneamente un seguace dominato soggetto a tributo” (il corsivo è mio).

Cosa, della situazione attuale, può ricondursi, con qualche adattamento alla tripartizione di Miglio? Nel lungo periodo (cioè prima dell’emergenza pandemica) i connotati della divisione erano più sfocati (a parte le nebbie della propaganda, che contribuiscono a ciò). Così l’inefficienza della burocrazia, parte necessaria dell’aiutantato (anche se spesso non ritenuta tale), che invece ora è evidenziata perfino da coloro che hanno contribuito a renderla tale, con nomine, norme e direttive, per cui le rendite dalla stessa percepita appaiono ancor più sproporzionate alla produttività della stessa. Così per le prestazioni rese ai seguaci non attivi, come (ancora) quelle delle pubbliche amministrazioni e della giustizia. A tale proposito nel celebrare l’anno giudiziario 2021 i responsabili dei principali uffici giudiziari hanno informato che la già scarsa produttività della giustizia italiana è calata, causa pandemia, di quasi un terzo. Ma ancor più, le misure prese per fronteggiarla, hanno confermato l’intenzione ostile verso i lavoratori autonomi almeno di una frazione della classe politica; quella che si autorappresenta come “sinistra” o “centrosinistra”. La combinazione di chiusure forzate (per lo più necessarie) e ristori minimi o inesistenti, mostra (almeno) il totale disinteresse verso le condizioni di vita di buona parte degli italiani, e la (radicale) differenza rispetto agli altri, il cui trattamento, rispetto all’emergenza, è di gran lunga più favorevole.

Tale contestazione consente da un lato di confortare le considerazioni del politologo lombardo che le rendite politiche sono fattore decisivo della collocazione e dal trattamento delle classi all’interno della sintesi politica; dall’altro che la regolarità dell’amico-nemico non è limitata al campo esterno alla sintesi (cioè al rapporto con altra sintesi, ovvero, per lo più Stati esteri), ma si proietta anche all’interno, come d’altra parte, rilevato già da Schmith, e, più in generale, dal pensiero politico, soprattutto realista (Machiavelli compreso).

In conclusione: se ora appare evidente che buona parte del popolo italiano scende in piazza per affermare il proprio diritto all’esistenza economica e sociale (se non addirittura fisica), questa non è che la reazione ad una intenzione ostile (v. Clausewitz) che parte della classe politica, quella che è stata quasi sempre al governo negli ultimi dieci anni, ha manifestato e praticato, prima più occultamente e misuratamente, ora in modo più evidente e smisurato. Per cui se a tale intenzione ostile, si reagisce da parte dei dominati in modo più energico e manifesto, non se la possono prendere con i dissidenti attivi.

In fondo vale per ogni conflitto quel che Francisco Suarez pensava per la guerra: bellum defensivum semper licitum; chi si difende e difende la propria esistenza politica, economica e sociale non fa nulla di illecito.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. “Quale migliore, più concreta, immediata e palpabile garanzia esiste se non quella di una paga pubblica, di uno stipendio garantito politicamente? Comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta. Al limite, la garanzia verrà assicurata anche stampando moneta non sorretta da un corrispettivo di valore e quindi si estorceranno risorse all’intera comunità per poter disporre  dei segni monetari necessari al pagamento della paga politica” Lezioni di politica, Scienze della politica, Bologna 2011, p. 334.

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI

A seguito delle manifestazioni contro le chiusure del Covid, per la sopravvivenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, siamo tornati a intervistare il nostro Machiavelli che ci ha ricevuto con la consueta gentilezza.

Caro Segretario, che ne pensa delle manifestazioni contro le restrizioni?

Che è poco crederle dovute (solo) alla pandemia e che nuocciano alla libertà: gli è che i tumulti fanno bene alle repubbliche, almeno a quelle ben ordinate, come era Roma, sicché ho scritto “coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano”.

Ma i manifestanti hanno fatto dei danni, rimosso le transenne, resistito alla polizia.

E con ciò? A Roma facevano anche di peggio ed hanno comunque conquistato il mondo, mantenendo la loro libertà: “i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi”.

Ma li accusano di essere degli incompetenti e di far politica con la pancia e non con il cuore. Di essere fuorviati da demagoghi e da fake news.

E per tutelare la verità, vogliono impedirne la diffusione! Come dicono a Vinegia “pezo el tacon del buso” E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ci s’ingannano. Gli è che non essendo i vostri vecchi governanti degni di fede, non potendo convincerle con le loro parole cercano d’impedire agli altri di parlare. Sanno bene che il popolo non chiede loro neppure l’ora, perché s’aspetta che cerchino anche in ciò di truffarlo.

E come biasimare il popolo: negli ultimi trent’anni è stato il più impoverito d’Europa e forse del pianeta. Dove stavano i vostri governanti? Su Marte o al potere?

Ma i governanti avevano fatto i piani per la ricostruzione, per la next-generation, per una nuova ripartenza.

E sono gli stessi – o i loro, meno degni, successori – che hanno lasciato quello che si fa per quello che si dovrebbe fare; sono andati dietro all’immaginazione della realtà, piuttosto che alla verità effettuale. Parlo dei comunisti. Volevano cambiare la natura umana ma gli uomini sono sempre gli stessi: per questo nei miei scritti ho ragionato sulle cose d’Italia prendendo a criterio le azioni degli antiqui. E non ho errato: i Romani che non s’illudevano sugli uomini e avevano tanta virtù, hanno costruito  un impero durato in occidente cinque secoli, e in oriente assai di più. I vostri post – o neo-comunisti sono arrivati – al massimo – a governare settant’anni, e il loro  impero è crollato da solo. Bel risultato! Invece della fine della storia, ne hanno realizzato un caso unico. Un misero esito per un vasto programma. Onde quanto sostengono, deve tener conto della loro credibilità – modestissima.

Ma almeno certe illusioni servono a temperare la crisi, a  evitare sconvolgimenti dolorosi.

Come se le crisi non facciano parte della storia, la quale è, come diceva un mio allievo mezzo francioso, il cimitero delle élite. Le vostre, pensano alla crisi come il loro cimitero. E dato che hanno di mira il loro particolare, ne sono terrorizzati. Ma la crisi non significa solo fine: ma anche nuovo inizio, come scrivevo nei Discorsi. Se un ordinatore di repubblica fonda uno Stato, lo fonda per poco tempo perché nessun rimedio può farci a fare che non sdruccioli nel suo contrario. Credere d’ordinarla in eterno è opera non umana, ma divina. Ma il Padreterno non ha voluto mai realizzarla. Rassegnatevi: come scrisse un filosofo, le costituzioni nascono dal sangue e dalla lotta. Cercate di evitare se possibile il sangue. Ma non lo è schivare la lotta. Chi sostiene ciò vuole evitare la lotta, quella dei suoi nemici. E lui vuol fare la guerra, ma spuntando le armi dell’avversario.

Bisogna quindi “ritornar al principio”?

Anche, ma soprattutto, più la fortuna batte, più occorre virtù, più uomini che ne sono dotati hanno l’occasione per emergere.

La crisi è l’opportunità per domare la fortuna; e gli uomini e le comunità virtuose non la possono tralasciare. A trascurarla si prolunga solo la decadenza e se ne ampliano gli effetti. Voi è almeno da trent’anni che decadete. E tutti i Paternostri recitati dai vostri governanti servivano solo ad occultarla; col solo risultato di prolungarla. Ma per batterla occorre tanta virtù: più in basso siete caduti più ne occorre per rialzarsi. Ma la troverete? Ai miei tempi no, Spero che i vostri siano più fausti.

Teodoro Klitsche de la Grange

DISTRUZIONE E PROTEZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISTRUZIONE E PROTEZIONE

Si sente sempre più spesso ripetere quanto sosteneva (tra gli altri) Schumpeter che il capitalismo induce un processo di distruzione creatrice selezionando gli imprenditori più efficienti ed espellendo gli altri. L’occasione per incentivare questa selezione – un aspetto di darwinismo sociale – sarebbe la pandemia: le imprese che riescono a superare la crisi sono le più efficienti, mentre quelle che non sopravvivono, meritano di essere chiuse.

Anche se il ragionamento ha una sua validità e in Italia spesso si è fatto il contrario – con risultati deludenti – invocarlo in relazione alla pandemia è errato per due motivi, che poco hanno a che fare con l’efficienza economica.

Il primo è che l’uomo non è solo homo aeconomicus ma, tra l’altro – Aristotele docet – zoon politikon: e per l’appunto tale caratteristica lo porta a costituire gruppi politici il cui fondamento è, come scriveva Hobbes, lo scambio tra protezione e obbedienza: si deve obbedire a chi da protezione e, in cambio, si ha il dovere di proteggere chi obbedisce. Se però tale rapporto diviene impossibile, viene meno sia il dovere d’obbedienza che quello di protezione, come scriveva il filosofo di Malmesbury. Ne consegue che ciò che economicamente è condivisibile può essere politicamente da evitare (e viceversa). Anzi tante politiche di sostegno a imprese, e ancor più, a settori economici poco efficienti sono state motivate con argomentazioni di carattere politico, nel senso suddetto.

Ad esempio la politica europea di sostegno all’agricoltura (a cominciare dal MEC), molto costosa, era volta al sostegno della produzione, tesa anche (e probabilmente soprattutto) ad evitare che la carenza alimentare fosse utilizzata da altre potenze per motivi ostili. Come capitato agli Imperi centrali nella prima guerra mondiale.

Ed è meno evidente, ma d’importanza considerevole che politiche economicamente valide, specie nel breve periodo, in una visione più ampia e di lungo periodo, siano controproducenti sul piano politico. Così la distruzione di piccole aziende, tenuto conto che i piccoli imprenditori, e, in genere i ceti medi, sono il sostegno sociale decisivo, oggi, delle democrazie liberali.

E, a tale proposito, non è detto che la “distruzione creatrice” di tante piccole imprese, vada a favore di un migliore “funzionamento” del mercato. La concentrazione del capitale in poche grosse aziende, rende assai più facile gestire il mercato in funzione non della libera concorrenza e del favor consumatoris, ma di accordi oligopolistici tendenti a limitarlo o eluderlo.

Il secondo: per quale ragione qualche milione di piccoli imprenditori dovrebbe essere a favore di politiche che non garantiscono protezione? Al punto che coloro che le sostengono tendono a vagheggiare l’opportunità della loro distruzione?

Se Hobbes si era sforzato di dimostrare la razionalità del potere (e dell’associazione) politica proprio per lo scambio protezione-obbedienza, per quale ragione l’individuo razionale del filosofo inglese dovrebb’essere diventato un Tafazzi, tutto contento di soffrire e insieme mantenere e votare governanti intenzionati – e giulivi nel manifestarlo – a farlo morire socialmente ed economicamente (e talvolta, complice la pandemia, anche fisicamente)?

In realtà la tesi criticata è frutto di due postulati: che ciò che è economicamente valido esaurisce il “bene” (sociale e individuale). Come se l’uomo fosse solo un essere economico. E non anche economico. La storia prova che non è così: vi sono state nazioni non disponibili a barattare il benessere economico con l’indipendenza politica.

Anche perché nel lungo periodo, è questa a garantire quello, più che l’inverso.

De Bonald scriveva che durante la Rivoluzione e le guerre napoleoniche gli svizzeri, un popolo (all’epoca) di “pastori e frati” avevano difeso la propria indipendenza assai meglio dei Paesi Bassi che “contavano i più ricchi uomini d’affari del mondo” (forse è anche per quello che gli svizzeri sono diventati assai più ricchi dei pur benestanti olandesi).

In secondo luogo c’è il (consueto) modo di ragionare consistente nel confrontare una “legge” generale e soprattutto astratta (anche tendenzialmente valida), applicandola a una situazione specifica e concreta, senza adeguarla. Con il risultato che l’abito confezionato da pensatori (talvolta neppure da talk-show) vesta male chi l’indossa, magari non per colpa del sarto, ma perché l’abbigliando ha la gobba. E l’abilità del politico, come diceva Giolitti, è quella del bravo sarto che confeziona il vestito adatto a chi lo deve portare. Chi pensa il contrario è, come donna Prassede, troppo affezionato alle proprie idee (con la conseguenza di non cambiarle e spesso neppure di adattarle): è un puro “ragionare” ideologico.

E non può quindi pretendere che venga condiviso, perfino con entusiasmo, da coloro che ne pagano il conto.

Avv. Teodoro Klitsche de la Grange

 

EMERGENZA E VIRTÚ, di Teodoro Klitsche de la Grange

EMERGENZA E VIRTÚ

Ho già scritto (Per qualche migliaio in più) che l’emergenza pandemica è stata l’occasione perché le élite decadenti cambiassero, in parte, le loro litanie abituali, aggiungendovi la strofa sull’inefficienza delle pubbliche amministrazioni, alla quale peraltro avevano concorso – e non poco – attraverso nomine e norme. Aggiungevo che più che salmodiare litanie avrebbero dovuto agire in modo conseguente in primo luogo nominando per affrontare la pandemia, funzionari efficienti e nuovi, (perché dalle vecchie pecore esce sempre lo stesso latte) e in secondo luogo – cosa in parte fatta – promulgando normative d’emergenza. Ma quanto al primo, più importante aspetto, abbiamo dovuto attendere il governo Draghi: ad affrontare l’emergenza pandemica sono stati i soliti. Quando è stato nominato un commissario come il dr. Arcuri, si è scelto un “boiardo di Stato” da quasi quindici anni alla guida di Invitalia, ente, pardon Agenzia, o meglio Agency che dovrebbe promuovere lo sviluppo d’impresa, e che, purtroppo per noi italiani risulta dai dati statistici che non vi riesce granché

Ma non vogliamo insistere su colpe, professionalità, responsabilità concrete, perché preme valutare se l’emergenza richiede, per essere affrontata, dati e attitudini diverse a quanto richiesto in una situazione normale.

E per far ciò è utile – come sempre per gli affari politici – vedere che ne pensa Machiavelli.

Secondo il segretario fiorentino l’azione del governante dev’essere adatta ad affrontare la situazione; sono le caratteristiche di quest’ultima a determinare la condotta ed il soggetto stesso designato a governarla. Il fatto che l’emergenza sia punto (o poco) prevedibile, si presenti la prima volta o no, che ne siano ignote le cause (se naturali) che la creano od oscura ed irragionevole la volontà umana che l’ha generata (ove ne sia la causa), fa si che fronteggiarla sia difficile e richieda (tanta) virtù.

Che cosa sia secondo Machiavelli la virtù è argomento assai frequentato dagli studiosi, con esiti molto diversi, tenuto conto che il segretario fiorentino non la definisce mai (come, d’altra parte, gli altri concetti fondamentali del suo pensiero).

Per lo più la si ritiene la capacità politica di affrontare le situazioni, ossia la fortuna, con successo.

A cercare qualche ulteriore specificazione è connotabile più che in se, in relazione al suo antagonista, cioè la fortuna. La quale va governata e anche sfruttata, usando le occasioni che crea sia per l’interesse della comunità che per quello del Principe, evitandone gli effetti deleteri[1].

Anche se la virtù è necessaria al governante (ed ai popoli) in ogni situazione, nel pensiero di Machiavelli lo è particolarmente nelle situazioni di emergenza, fino a quelle che inducono cambiamenti epocali[2].

E non è detto che sia sufficiente, d’altra parte, a battere la fortuna, anche per gli uomini che il Segretario fiorentino reputava più virtuosi, come Cesare Borgia. Il quale aveva preparato tutto per assicurarsi il potere alla morte del padre, ma non aveva previsto d’essere gravemente malato in quel momento, il che ne provocò la caduta[3].

Proprio l’imprevedibilità, la novità, l’inconoscibilità delle situazioni d’emergenza rende necessario per affrontarle, delle doti che in frangenti normali non avrebbero alcuna rilevanza, e di converso, rende incongrue le altre, utili in quelli.

Compito di chi governa l’emergenza è di raggiungere un risultato concreto: vincere il nemico, ricostruire una città distrutta dal terremoto, superare un’epidemia.

A tal fine osservare delle norme generali può essere d’impedimento (e spesso lo è). Anche nella tranquilla prima Repubblica italiana i commissari nominati per il sisma campano-lucano del 1980 avevano il potere di porre in essere ordinanze anche contra legem, col limite dell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento giuridico[4] allo scopo di soccorrere le popolazioni terremotate. In una situazione normale un simile potere, peraltro conferito ad un organo amministrativo straordinario, sarebbe considerato – ed è – incostituzionale,  essendo l’Italia uno Stato legislativo-parlamentare.

Consegue da ciò che, in qualche misura il funzionario (inteso lato sensu) incaricato di superare l’emergenza oltre che a non essere più vincolato alla norma, e così un mero esecutore della norma (perché ne può – almeno in parte – farne a meno e porne di nuove), ha minore bisogno anche delle doti professionali relative. Scrive Max Weber che “il tipico detentore del potere legale… mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisce all’ordinamento impersonale in base al quale prende le sue prescrizioni…”[5] e prosegue “le categorie fondamentali del potere razionale sono pertanto: a) un esercizio continuativo, vincolato a regole di funzioni d’ufficio…”. “Le regole secondo le quali si procede possono essere regole tecniche oppure norme”[6]. Invece, nell’emergenza, l’importanza delle regole e della loro osservanza passa in secondo piano, al punto di poter rivelarsi d’impaccio al raggiungimento dello scopo. E così consigliare il conferimento di un generale potere di deroga (v. anche art. 25 D.lgs. 1/2018). L’antico detto di Publilio Siro divenuto una massima giuridica (da Graziano a Santi Romano): necessitas non habet legem sed ipsa sibi facit legem, è ancora diritto vivente ed applicato. La necessità è come la guerra secondo Clausewitz: dove sono i nemici ad imporsi mutualmente legge. Così è la necessità a determinare le misure opportune a contrastarla.

Se quindi è di nessuna utilità (nel migliore dei casi) l’applicazione della legge, l’essere doctor in utroquo jure (diverso – in parte – è per le regole di altro genere) quali sono le doti più adatte a fronteggiarla? Coraggio, propensione al rischio, audacia hanno indubbiamente un ruolo accresciuto. E la virtù machiavellica?

Machiavelli tiene la virtù in grande considerazione, al punto da attribuirle il potere di piegare la fortuna (batterla); in particolare nelle situazioni di crisi, quando le cose peggiorano “Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la “virtù” di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro”[7]. Alla virtù è connotato essenziale (anche) la capacità di prevedere, oltre quella di decidere e comandare. Come scrive Fusaro “Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La “virtù” di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico… in secondo luogo dalla capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la “virtù” del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte”. A metà del secolo scorso un acuto giurista tedesco, Ernst Forsthoff scrisse un breve saggio su “Lo Stato moderno e la virtù”, facendo il punto sull’importanza (o meno) della virtù nello Stato costituzionale del XX secolo. Notava Forsthoff (che non considera il pensiero di Machiavelli e il di esso concetto di virtù, ma prende in esame quello di Platone ed Aristotele) che nel pensiero classico (cioè fino al XVIII secolo) era considerata la virtù (v. Montesquieu) nella dottrina dello Stato “Solo nel periodo più recente, certo come chiara ripercussione della rivoluzione francese, la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù… Come dottrina del sistema istituzionale e funzionale dello stato, la moderna dottrina dello stato non considera più l’uomo… Essa è divenuta una dottrina dello stato senza virtù”. Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, l’attitudine è cambiata ma “Per quanto sia importante collegare di nuovo la concezione dello stato alle qualità umane, ed in particolare alla virtù… è impossibile ignorare o cancellare con un colpo di penna due secoli di continua evoluzione”[8] (coincidenti con il XIX e, in parte, il XX secolo). Lo Stato di diritto del positivismo giuridico classico sarebbe stato impossibile senza l’alto livello di virtù specifiche della burocrazia professionale tedesca, la quale era il “vero legislatore” del Reich bismarckiano. Ovviamente tra virtù del Segretario fiorentino e quella che Forsthoff vede nella burocrazia del Secondo Reich c’è poco in comune. Quest’ultima è assai prossima a quella individuata da Max Weber nell’etica del funzionario.

Ma è altrettanto sicuro che anche lo Stato moderno non può fare a meno della virtù, come scrive Forsthoff: “il vero problema dello stato di diritto di fronte all’attuale sfacelo etico e morale, e così la nostra riflessione sbocca nella problematica attuale della teoria dello Stato moderno… uno stato le cui funzioni devono inevitabilmente aumentare in misura notevolissima, può evitare a lungo andare la intensificazione della coazione solo rafforzando la virtù – sia la sua che quella dei suoi cittadini. Solo uno stato moderno sostenuto dalla virtù può essere uno stato liberale”.

E tanto meno può prescinderne nelle situazioni d’emergenza e da una virtù che va coniugata più alla concezione machiavellica che a quella “classica”. E ne serve tanta. Per cui pensare che uno Stato sgangherato come la Repubblica italiana, governato nell’ultimo trentennio da élite decadenti possa farne a meno è del tutto incredibile. Ancor più se gli apparati sono sempre gli stessi. Come scriveva Machiavelli dei principi italiani suoi contemporanei non avendo previsto né avuto sentore degli impeti della fortuna, non dovevano accusare questa, ma la loro ignavia[9].

[1] Due passi – tra i tanti delle opere di Machiavelli – descrivono gli  aspetti ricordati. Il primo è quello notissimo del cap. XXV del Principe col paragone della fortuna al “fiume rovinoso” e della virtù ai “ripari ed argini” che lo possono evitare o limitare i danni; l’altro nel cap. XX quando discorre della grandezza dei governanti “Senza dubio e principi diventano grandi quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, maxime quando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che un ereditario, gli fa nasce de’ nemici e fagli fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle e, su per quella scala che gli hanno porta li inimici suoi, salire più alto”; onde la fortuna può diventare un’occasione favorevole.

[2] Come scrive nel XXVI capitolo del Principe “B”; è più vero che l’antitesi fortuna/virtù non è solo vista in funzione dell’azione di singoli individui ma anche dei popoli (v. Discorso, II, 1).

[3] V. Il Principe cap. VII.

[4] V. art. 1 D.L. 26/11/1980 n. 776.

[5] Economia e società, Milano 1980, p. 212.

[6] Op. cit., p. 213.

[7] V. D. Fusaro Nicolò Machiavelli in rete.

[8] E prosegue “Il superamento di una dottrina dello stato, impantanata nel formalismo e nel funzionalismo, è possibile solo sulla base di un’analisi di questa evoluzione e della situazione creatasi con essa… La constatazione che la dottrina dello stato ha perduto, nel secolo XIX, il contatto con le qualità umane, ed in particolare con la virtù, non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli stati… Essa è impensabile senza una certa dose di virtù. Lo stesso vale per il diritto – inteso nel suo vero significato etico. L’emancipazione del positivismo giuridico dal diritto (inteso in questo senso) e l’emancipazione della dottrina dello stato dalla virtù sono strettamente connesse fra loro”.

[9] V. “Pertanto questi nostri principi, e quali erano stati molti anni nel loro principato, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne’ tempo quieti pensato ch’e’ possino mutarsi – il che è comune difetto degli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta” (v. Principe, cap. XXIV).

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ, di Teodoro Klitsche de la Grange

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ

È degno di nota l’attaccamento delle élite decadenti e dei loro mezzi di comunicazione alle parole d’ordine e agli idola con cui cercano di rappresentare una situazione che non è quella reale e che, in ogni caso, non intendono cambiare, se non in un senso di loro gradimento.

Fino a qualche tempo fa, dopo l’inizio dell’emergenza Covid, si erano accorti, con grande clamore, che in Italia la pubblica amministrazione funziona poco e male. Era ora! Ma tanto ed insistente  lamento non induceva a procedere con qualche misura coerente ed incisiva, come la rimozione di dirigenti inetti (o altro), ovvero la prescrizione di sanzioni serie per inadempimenti, ritardi, ostruzionismi delle P.P.A.A. e così via.

Misure legittimate, anzi prescritte, tra l’altro, dagli artt. 28 e 97 della “costituzione più bella del mondo”, ma di fatto inattuati o meglio sabotati dall’entrata in vigore ad oggi. Fa piacere che Draghi, oltre ad annunciare qualche riforma (vedremo), ha esordito mettendo alla porta alcuni dei responsabili amministrativi della gestione della pandemia. Si resta in attesa per i politici.

La gestione sanitario-amministrativa del Covid riporta alla mente quanto scriveva un economista sulfureo come Milton Friedman, sul controllo (anche) dei farmaci esercitato negli USA della FDA (Food and Drug Administration).

Il pezzo di Friedman, che fa parte di un libro scritto con la moglie Rose, è una succinta ma persuasiva argomentazione di come delle buone intenzioni ed istituzioni finiscono poi per funzionare male, ottenendo, complessivamente, risultati meno positivi delle attese e spesso negativi.

Il controllo della FDA fu esteso ai farmaci nel 1938. Dopo la tragedia del talidomide (1962) furono approvati degli emendamenti i quali “al test di sicurezza previsto nella legge del 1938 aggiungevano un test di efficacia e abolivano i limiti di tempo a disposizione della FDA per decidere sulle richieste di autorizzazione dei nuovi farmaci”. Il risultato fu che i controlli più estesi e volti a tutelare il consumatore/paziente andarono a detrimento dell’interesse “che i nuovi farmaci siano resi disponibili a coloro che possano riceverne un beneficio il più presto possibile. Come spesso avviene, due obiettivi validi si contraddicono a vicenda. Sicurezza e prudenza in una direzione possono significare morte in un’altra”. E Friedman proseguiva “Una mole considerevole di dati accumulati indica che la regolamentazione della FDA è controproducente, cioè che ha fatto più male (perché ha ritardato il progresso nella produzione e nella distribuzione di farmaci validi) che bene (perché ha impedito la distribuzione di farmaci dannosi o inutili)”. E ne spiega la ragione “Provate a mettervi nella posizione di un funzionario della FDA, responsabile dell’approvazione o del rifiuto di un nuovo farmaco. Potreste fare due errori diversi”: approvare un farmaco nocivo alla salute o, al contrario impedire (o dilazionare) la disponibilità di un salva-vita. Ma se commettete il primo errore “il vostro nome sarà sulle prime pagine di tutti i giornali. Sarete coperti di infamia. Se cadete nel secondo errore, chi lo verrà a sapere?”. Non l’industria farmaceutica che voleva produrlo (il solito pescecane!); non i morti non risparmiati, perché non possono manifestare; e neppure le loro famiglie che non hanno “modo di sapere che i loro cari hanno perso la vita per la «prudenza» di uno sconosciuto funzionario della FDA”.

Le considerazioni dell’economista americano sono emblematiche di come l’eterogenesi dei fini sovverte anche le istituzioni e le attività pubbliche non contrassegnate da inutilità evidente e/o da bulimia predatoria. E così la guerra italiana alla pandemia, condivisibile nel fine, nella necessità e nell’urgenza, ma nei modi assai meno.

Parte delle misure prese dai poteri pubblici è stato connotata spesso più dell’esigenza di fare qualcosa, e di evidente, che dalle reali necessità; molti ripetono che sono state bloccate attività non particolarmente pericolose, se esercitate con attenzione e prudenza igienico-sanitaria. Tuttavia il timore per le critiche di non essere stati abbastanza determinati nella guerra al Covid, ha indotto alla soluzione più drastica (e anche contraddittoria, con quelle adottate per situazioni simili, come il trasporto pubblico). Altre sembravano scelte più per beneficiare qualche tax-consommers e qualche green-dipendente (come monopattini, biciclette, banchi a rotelle) che alla volontà di pugnare col virus.

Quanto alla battaglia decisiva – i vaccini – anche qua l’atteggiamento – in genere – delle autorità, nazionali ed europee – è stato spesso connotato più da esigenze d’immagine che da esigenze reali. Il ritardo nella campagna vaccini soprattutto rispetto a quanto fatto in Gran Bretagna, Israele, USA (e anche altrove), soprattutto. L’approvazione dei vaccini da parte di enti di controllo è stata lunga, rispetto a quanto fatto altrove. E non è finito, come dimostra il caso Astrazeneca.

E non è stato messo in conto quante migliaia di morti sia costata l’accuratezza dei controlli. Il numero dei decessi per abitanti in Gran Bretagna, nella settimana corrente, è circa un terzo di quelli in Italia. In Israele ancor meno.

Ma chi chiederà il conto per qualche migliaia di morti?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

INSEGNA CREONTE?, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

INSEGNA CREONTE?

Luciano Violante, Insegna Creonte, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 158, € 12,00.

Nell’Antigone i due protagonisti Antigone e Creonte sono da millenni simboli di polarità contrapposte: tra diritto naturale e positivo; tra legge divina ed umana; tra principio femminile e maschile (Hegel); tra diritto tradizionale e diritto “moderno”, razionale-legale e statuito dall’autorità politica (Von Seydel). Nel secolo scorso era Antigone a suscitare più consenso ed interesse: Creonte era considerato l’archetipo del tiranno.

Nel XXI, almeno tra i giuristi italiani, è stato (in parte) rivalutato. Probabilmente ha contribuito a ciò quanto notato (nel XX) da Max von Seydel: che Creonte impersona il diritto (e lo Stato) moderno, weberianamente “razionale-legale”.

Violante che nel libro Giustizia e mito aveva notato la “modernità” di Creonte, in questo ne sottolinea gli errori (politici) che lo portano all’autodistruzione. In ogni capitolo il comportamento di Creonte è considerato esempio di quanto un leader non debba fare: essere arrogante, non saper gestire i conflitti, sopravvalutare se stessi. E porta esempi di errori (analoghi a quelli del Re di Tebe) fatti da uomini di Stato contemporanei: da De Gasperi a Renzi, da Craxi a Cossiga.

Ne consegue che già la tragedia greca indicava 25 secoli fa delle regolarità e delle regole della politica (e dell’esistenza umana) le quali anche a distanza di millenni sono confermate.

E quanto alle “costanti” è anche un terzo personaggio della tragedia, Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone ad esprimerne, e forse quella decisiva. Emone, parlando col padre, lo invita a tener conto dell’opinione del popolo che non considera meritevole Antigone della condanna; onde prega il padre di “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro… Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe… Non esiste la città di un solo uomo… Certo tu regneresti bene da solo su una terra deserta”. Ma Creonte non è scosso: convinto di essere dalla parte della ragione, non tiene conto della diffusa (e opposta) opinione del popolo. Non comprende che comanda con successo il governante che può contare sull’obbedienza dei governati. Per aversi la quale occorre che le opinioni di governanti e governati non siano in contrasto: anzi si fondino su un idem sentire de re publica. È (o è anche) il principio d’integrazione (del tipo “materiale”) che Smend pone a fondamento della costituzione “come principio del divenire dinamico dell’unità politica” (Schmitt). E il contrasto tra ritenere che il legislatore sia divino o umano è ovviamente tra i più acuti e non mediabili.

L’autore, come detto, ricorda fatti contemporanei di governanti che hanno ripetuto gli errori di Creonte: vuoi per arroganza, vuoi per disprezzo del popolo, vuoi per convinzioni radicate.

Viene così ridimensionato l’errore più diffuso nell’ultimo trentennio e in particolare (ma non solo) in Italia: la mancanza di sintonia con la volontà popolare, anche attraverso la prassi di scegliere governanti mai eletti neppure in un condominio, e la cui rispondenza alla scelta democratica è inesistente.

Giustificata con concezioni diverse (tecnocrazia, aristocrazia, moralbuonismo), ma aventi in comune il considerare i governanti capaci di giudizi migliori dei governati, e quindi in espresso contrasto con il principio democratico o con quello, più limitato, dell’idem sentire; lo stesso che porta il re di Tebe alla rovina.

Dato che tale errore è tra i più frequenti e ripetuti, in particolare dalla parte politica cui l’autore apparteneva, se ne consiglia (loro) la meditazione. E la lettura a tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARNASCIALATA E L’IMPEACHMENT DI TRUMP

Le vicende successive all’irruzione a Capitol Hill ci hanno indotto a tornare ad intervistare Machiavelli, sempre così premuroso e disponibile.

Ecco cosa ci ha detto.

Cosa pensa dell’irruzione dei sostenitori di Trump al Congresso?

Che è stata una gran carnascialata. Ai tempi miei per fare un golpe s’usavano pugnale e veleno. Nel secolo scorso fucili e carri armati. A parlare, come fa la vostra stampa, di colpo di stato, Cile e così via si entra nella comicità. Ma tant’è: vi vogliono prendere tutti per grulli.

Ma è stato violato il tempio della democrazia… Ai tempi nostri si ammazzava in quello di Dominenostro, dove i Pazzi assalirono i Medici in una delle più belle chiese del mondo, e spensero Iuliano. A pugnalate e non in costume e con le corna.

Ma è stato violato qualcosa di sacro…

Voi il senso del sacro lo celate così bene che l’avete perso. A forza di negarlo non sapete più dove sta. Il che non vuol dire che non ci sia. Solo che lo tirano fuori solo quando serve ad abbindolare il popolo. Utile a legittimare il potere nell’occasione opportuna, e dimenticato in tutte le altre. Guardate come rispettano, a casa vostra, la volontà del popolo: negli ultimi dieci anni avete cambiato sette governi, uno solo dei quali poteva vantare di avere la maggioranza dei suffragi popolari espressi nelle elezioni. Spesso i capi del governo non erano stati eletti neppure in un’assemblea di condominio, e poco o punto conosciuti al popolo. Anche perché, visti i risultati, a conoscerli li avrebbe accuratamente evitati.

A cosa è dovuta, secondo Lei, quest’abitudine a prendere per grandi e decisivi eventi di scarsa rilevanza. E così a promuoverli da carnascialate a eventi storici?

Gli è che voi non volete vivere nella storia né studiarla, ma ne avete una nostalgia nascosta, che spesso vi sollecita non la ragione, ma la fantasia. Così credete di vivere eventi epocali, mentre invece state assistendo, appunto, a carnascialate. D’altra parte vivete rischiando poco, assai meglio che in qualsiasi altra epoca, ma vi annoiate parecchio. Compensate così la piattezza del reale con l’eccitazione del fantastico. Noi avevamo a che fare con le picche svizzere e le spade spagnole, e dovevamo stare ben attenti a guardarci da entrambe. Voi spade e picche le dovete creare e così vi limitate ai giochi da computer.

E che ne pensa del processo a Trump per, come dice lei, la carnascialata?

Che tutti sapevano come sarebbe andata, mancando al Senato i numeri per la condanna ed essendo evidente che la carnascialata non era nulla di preoccupante, oggi.

Ma è un sintomo per il futuro. Scriveva Lenin che non si combattono le battaglie che si sanno perse in partenza. Ed è vero come regola, ma talvolta posso esserci delle eccezioni.

Solo che le cause profonde della carnascialata non si eliminano con i processi: né quelli che si vincono e ancor più se si sanno persi.

Lei ha scritto che i processi politici sono utili alla Repubblica.

Purché si concludano con una giusta valutazione dei fatti per cui si accusa “le accuse giovano alle repubbliche quanto le calunnie nuocono”.

Il buon senso ha fatto sì, che, seguendo gli ordini, sia stato conseguito il risultato meno dannoso. Hanno dato sfogo agli omori senza attizzarne altri, contrapposti.

Allora meritano la sua approvazione?

Per ora si. Per il futuro, vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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