LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE, il SOTTOSTANTE ed altro _ di Pierluigi Fagan

LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE. MIT qui sta non per il noto istituto tecno-scientifico americano, ma per Multidisciplinare-Interdisciplinare-Transdisciplinare. La forma della conoscenza MIT-disciplinare è una necessaria evoluzione della forma della nostra conoscenza.
Da quando abbiamo fonti scritte sufficienti, quindi più o meno da soli duemilatrecento anni e solo per alcune selezionate aree del mondo (Occidente, India, Cina), rileviamo gli sforzi conoscitivi umani in senso allargato e precisato. Al tempo dei Greci, la prima rivoluzione fu quella del logos, l’approccio logico-razionale che sfidava il precedente dominio dello spirito mitico-religioso-superstizioso. La conoscenza è ancora un tutto, diviso al suo interno ma indiviso nel suo intero. Lo testimoniano l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico in cui c’erano studiosi che pur condividendo una filosofia comune, seguivano poi linee di ricerca specifiche, dalla aritmo-geometria alla fisica, dalla politica alla grammatica/retorica. La forma “scuola” risaliva a Pitagora e Parmenide ed era condivisa dagli atomisti, poi dagli stoici e dagli epicurei a modo loro anche dai cinici e megarici, infine pure dagli scettici e zetetici. Il tutto culmina in ambiente alessandrino.
Coi Romani, si eclissa il ruolo collante dell’impostazione filosofica comune e si sviluppano saperi pratici, giuridici, ingegneristici, storici. Dopodiché c’è una presa di potere epistemico della religione cristiana che sormonta l’ordinatore filosofico e lo sottomette nel cortile logico mentre a valle si aprono le scuole del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia) ma anche i saperi artigiani e le prime università.
Nel Rinascimento c’è un ritorno della filosofia (e della forma “scuola”) anche in seguito ad alcuni fallimenti concreti della conoscenza religiosa nel secolo che seguì la Peste Nera. Qui si manifesta uno spirito diverso, “olistico”, da “hòlos” ovvero “totale-globale” che ha in Pico della Mirandola il suo profeta.
Ma essendo epoca di transizioni, accanto a questo movimento, si sviluppano i saperi pratici del mondo. Dall’artigianato esplorativo olandese viene fuori il cannocchiale, Galileo incuriosito se ne fabbrica uno suo (con prime nozioni di ottica) e lo puntò su Giove. Copernico aveva già proposto una rivoluzione del punto di vista ponendo il Sole al centro con tutto il resto attorno, cosa per altro proposta già da alcuni Greci, ma a volte le idee non sono importanti solo in sé ma per la posizione che occupano nel contesto.
Da qui inizia un doppio corso della conoscenza. Una linea sviluppa di nuovo la filosofia generale e sempre più diramata nel particolare, che dialoga con la religione con sorti alterne. Dall’altra inizia il percorso delle scienze moderne. Nel XIX secolo accade un terremoto, alcuni sguardi che erano ancora pensati in filosofia (antropologia, cosmologia, psicologia razionali) si emancipano e si fondano come “scienze” propriamente dette. Compare la geologia e la moderna geografia, l’economia si emancipa dalla filosofia morale e si mette in proprio, la grande espansione coloniale porta l’antropologia a contatto con nuovi modi e nuovi mondi concreti. La “società” diventa un ente che merita un suo studio e così la sociologia. La chimica si emancipa dall’alchimia e la biologia prende ramificazioni sempre più complesse. Lingua e linguaggio abbandonano la culla della logica e si mettono in proprio anch’esse. Il movimento all’arborizzazione dei saperi continua lungo tutto il XX secolo, mentre nascono ulteriori sguardi, tra cui l’ecologia e le scienze cognitive mentre lo sviluppo tecnico, dopo il big bang del secolo precedente, arriva a livelli di inimmaginabile potenza e precisione accompagnato da linguaggi e logiche geometrico-matematiche sempre più sofisticate.
Qui, va segnalato lo sconcerto filosofico. Aggrediti da una forma filosofica detta “positivismo” che poi arriva ad occuparsi anche di conoscenza con il “positivismo logico” da cui promanano i presupposti della successiva “svolta linguistica” e l’intero approccio della filosofia anglosassone analitica, i filosofi sembrano perdere ogni oggetto. Ogni oggetto, ogni fenomeno sembra correre verso un suo proprio pensiero.
Ne rimangono smarriti e risentiti. Si creerà una frattura che crescerà sempre più tra gli umanisti che disdegnano il potere epistemico scientifico e quest’ultimo che si autonomina paradigma primo retrocedendo la filosofia e musica per musicisti senza armonia. E dire che sul frontone dell’Accademia platonica, leggenda vuole ci fosse scritto “Non entri chi non è geometra” e del resto l’aritmosofia pitagorica era la base delle famose “dottrine segrete” di Platone, eredità ben conosciuta dall’ultimo “mago”: Newton.
Arriviamo così all’oggi. Oggi i saperi sono esplosi in un albero ormai ampio almeno quanto le sue radici, con saperi, saperi di saperi, specializzazioni che tendono a sapere tutto di niente mentre, sempre più, si sa niente del tutto. Ognuno ha la sua lingua, le sue pratiche, i suoi metodi, la sua gelosa specificità e la presunzione -come le monadi leibniziane- di poter osservare l’universo dalla propria regionalizzata e temporizzata specificità. In effetti, questo corso è parallelo a quello sociale-produttivo della fabbrica, ne riflette la forma.
Due enti, nel frattempo, hanno avuto il loro pari sviluppo di complessità. L’uomo che dal “bipede implume” dei platonici sfottuti dai filosofi delle altre scuole che andavano e gettare polli spennati al di là del muro di cinta della loro comunità di studio e pensiero, ha oggi descrizioni in: fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia, sociologia, linguistica, scienze politiche e giuridiche, economia, storia ed ovviamente filosofia, più qualche disciplina intermedia. Ogni studioso di campo, che è finito in una facoltà a volte per puro caso, si è formato a lungo, è diventato un esperto e coltiva il suo sguardo pensando che questo spieghi tutto ed il suo contrario. Oggi poi ogni sguardo disciplinare ha al suo interno svariate teorie per cui lo studioso non pensa solo che con quello sguardo può spiegare tutto ma in particolare con la sua versione teorica. L’altro ente esploso è il mondo la cui complessità è diventata ingovernabile per il pensiero aggiungendovi le forme di conoscenza e pensiero aliene, quelle asiatiche per esempio.
Eccoci qui allora a segnalare il bisogno di una nuova evoluzione della forma della conoscenza umana. Non si tratta, per una volta, di dire questo è meglio di quello, ma di cucire tutti i questi e tutti i quelli, o almeno tendere a…, per affiancare a questo albero sempre più ramificato di particolari, nuove visioni generali composte dal portato delle particolari più la riflessione generale su tutto questo nuovo intero. Una sorta di dialettico ritorno all’olismo, ovvero ritornare all’aspirazione naturale ed umana al sapere qualcosa del tutto o di enti molto complessi, ma con il portato dello sviluppo di tutti i saperi più specifici che nacquero in risposta alle vaghezze quasi sempre a destinazione mistica dell’olismo rinascimentale.
Questo è il sapere complesso, formato dai tanti sguardi specialistici, interrelazioni concettuali tra questi, osservazione dei punti ciechi e parziali che la divisione disciplinare ha creato, messa a dinamica nel contesto storico-sociale, pensando il tutto con le facoltà logico-razionali riflessive e parimenti pensando a come lo pensiamo.
Ne vengono così gli approcci transdisciplinari che cioè attraversano più discipline. Ad esempio, la nozione di “sistema” lavora in fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia (in cui per complesse vicende epistemiche lo rinominano “struttura”), linguistica, sociologia, economia, giurisprudenza, scienze politiche, storie e naturalmente filosofia. Cosa ci dice questa applicazione di una forma a priori dello sguardo in così tanti campi, che utilità mostra, che ricchezza esplicativa ha portato, come si fa a mettere assieme tutta questa varietà in una sintesi utile poi per ogni studioso specifico di campo che usa il concetto?
Gli approcci interdisciplinari convergono due o tre discipline sullo stesso oggetto a fenomeno. In biologia è la norma, ma ne nasce anche la geopolitica (geoeconomia), la sociobiologia, l’antropologia economica e molto altro. Si tratta poi di stabilire il metodo, i linguaggi e le logiche comuni di questi approcci che mutuano forme contigue ma diverse.
Infine, il modo multidisciplinare vale soprattutto per gli enti generali e più complessi, l’uomo ed il mondo più di ogni altro. Si tratta “semplicemente” di metterli in osservazione da tutti i punti di vista che pensano di aver qualcosa di utile da dire su quegli oggetti o fenomeni. Questa è, in grande e grossolana sintesi, l’evoluzione MIT-disciplinare, affiancare agli studiosi specifici, studiosi generalisti e farli dialogare per rimettere assieme lo specchio infranto delle nostre immagini di mondo.
Naturalmente questo è solo un post, non mi sfugge il riflesso socio-politico che oppone attrito a tutto questo “facile a dirsi”, solo che lo spazio è già da me abusato. Se ne riparlerà.
Da questo punto di vista si osserva il vociare scomposto degli scientifici contro gli umanistici e viceversa, con scoramento. Si osserva l’ignoranza spesso assai presuntuosa di ogni specializzato o seguace di teorie regionali che ambisce a dire cose significative ed ultime sui campi più vasti, con triste perplessità. Si osserva la patologica proliferazione dicotomica, ad esempio, tra fare e pensare, tra particolare e generale, tra contemporaneo e storico, tra razionale ed emotivo e così via, scuotendo il capo sempre più affranti. Si vede l’eterno ritorno del dogmatismo che è sintomo della fase troppo disordinata del pensiero e la sua pronta antitesi ovvero l’impeto scettico e zetetico, cose viste e riviste nella storia del pensiero ma che ogni volta accadono senza che noi se ne abbia memoria e se ne colga la sintomatologia, il problema sottostante. Tuttavia, proprio dalla conoscenza della storia del pensiero, si sa che è proprio da queste fasi di crisi profonda e necessaria che nasce la fase rifondativa successiva.
Al culmine della modernità abbiamo cambiato radicalmente il mondo, ora si tratta di capire come adattarci a questo nuovo contesto. Impossibile farlo senza considerare le società sistemi complessi, che hanno interrelazioni vitali con altri sistemi complessi, tutti immersi in un contesto o ambiente che perturbiamo, avendo a che fare con qualcosa di radicalmente nuovo sorto in brevissimo tempo e che ci dà pochissimo tempo per trovare la soluzione adattativa.
Occorre rivedere le basi logiche ed aggiornare l’antica dicotomia tra intero e parti, facendo pace col fatto che ogni intero è fatto di parti ed ogni parte dipende da un intero fatti di parti che a sua volta è parte di altri interi nel tutto diveniente. Questo è l’oggetto “mondo”, la sua immagine dovrebbe rifletterne la complessità, altrimenti l’adattamento sarà fallito e le conseguenze saranno assai problematiche, come da più parti e per più motivi stiamo vedendo.
IL SOTTOSTANTE (post di eco-geo-teologia). L’immagine di mondo è il complesso sia del come funziona una mente, sia di ciò che produce, sia di ciò che crede vero o utile. Dell’idm esistono versioni individuali (ognuno ne ha una), di un certo periodo storico, di una certa classe sociale (anche se il concetto di “classe” si è assai complicato da quando veniva usato da Marx), di un certo sesso o genere, di una certa età, di una certa etnia-nazione-civiltà, di vari orientamenti ideologici. Oggetto massimamente complesso, poco indagato, ai più sconosciuto.
Il fatto sia sconosciuto porta spesso a molto tempo buttato nel dibattito pubblico. È praticamente inutile discutere con qualcuno che ha una idm molto diversa dalla nostra, bisognerebbe discutere l’idm non i suoi portati. Discutere i portati è come litigare parlando due lingue diverse e reciprocamente incomprensibili, si capisce che stiamo litigando ma non si capisce su cosa.
Vorrei indicare un sottostante che presto diventerà protagonista delle tempeste polemiche su questo ed altri social.
Il 4 ottobre, papa Francesco (per correttezza voglio specificare che chi scrive non ha credenze religiose) rilascerà la seconda puntata della sua enciclica Laudato sì (2015), nelle intenzioni non una enciclica ma una esortazione. A sue parole: “E’ necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile” pronunciate nel viaggio di ritorno di quello che pare esser il suo ultimo viaggio apostolico, in Mongolia. Sebbene si chiami Francesco ed il 4 ottobre sia la festa di San Francesco, Bergoglio è gesuita.
Nel XVII secolo, i Gesuiti fecero enormi sforzi coordinati per portare il cristianesimo in Cina. Esemplificativo del movimento, fu Matteo Ricci. I gesuiti prima vissero in Cina per un po’ per capire meglio come funzionava da quelle parti. Conosciuto l’ambiente, cominciarono a tessere le loro reti per cercar di arrivare alla corte imperiale. Capivano che lì bisognava andare alla testa per produrre qualche effetto, ma capivano anche che quella testa era molto complessa ed ereditava credenze secolari difficili da cambiare oltretutto in un auspicato movimento di auto-riforma. Contavano su un set di conoscenze tecno-scientifiche che promettevano di condividere in modo da invogliare ad accettarli a corte, in pratica cercavano di sedurre la casta dei funzionari confuciani stante che il sapere e la conoscenza era centrale nell’idm confuciana.
Nel far ciò si trovarono nel difficile problema della traduzione concettuale e rituale ovvero come rendere compatibili i sistemi di immagine di mondo e rito di celebrazione della sua condivisione, tra confucianesimo e cristianesimo. L’idm confuciana ha al vertice il Cielo che è un concetto di ordine-armonia naturale. L’imperatore -ad esempio- ha o non ha il “mandato celeste” ovvero agisce in armonia all’ordine naturale o meno. Dire che l’imperatore ha perso il “mandato celeste” è metafora del fatto che non va bene, sta deragliando, è fuori il novero dell’armonia naturale. Delle nostre élite contemporanee, potremmo ben dire che hanno perso il mandato celeste anche se per ora vediamo solo la triste collezione degli effetti e non ancora una auspicata loro sostituzione.
I gesuiti pensarono (la faccio facile quindi riduco parecchio la storia) che questo era un buon punto di partenza, il cielo era la casa di Dio, certo tra cielo e Cielo cambia non solo la maiuscola ma il concetto, tuttavia ci si poteva lavorare. Forse però sottovalutarono il problema dei Riti, centrale nella tradizione confuciana. Per mantenere l’obiettivo grosso (la Cina già ai tempi era demograficamente ben più popolosa dell’intera Europa e centrale nell’Asia), si mostrarono molto accomodanti con il problema dei riti che erano immodificabili per i confuciani.
Nella Chiesa, l’ordine gesuita ha un suo concorrente totale, totale significa irriducibile, cani e gatti, juventini ed interisti, progressisti e conservatori, i simmetrici contrari. Questo altro specchiato sono i domenicani. Impegnati in Asia, i gesuiti trascurarono le faide vaticane a cui invece si dedicarono attivamente i domenicani. Così, dal 1704, iniziò la resa dei conti che vide domenicani e francescani prevalere sull’elasticità gesuita, fino a che nel 1742, Benedetto XIV mise la parola fine condannando ogni sincretismo. Qualcuno forse si ricorderà l’omelia di Benedetto XVI la notte in cui stava morendo Giovanni Paolo II in cui chiarì il programma teologico del suo futuro papato puntato prioritariamente contro il “relativismo ed il sincretismo”. “Sincretismo” è quando tenti di mischiare ed amalgamare due cose che c’azzeccano poco una con l’altra. Come si noterà nomi papali e temi ideologici sono collegati ed hanno longeve tradizioni ideologiche. Diventati per ordine papale rigidi sulla faccenda dei nomi e dei Riti, i sacerdoti cristiani vennero espulsi dalla Cina, il progetto gesuita era fallito.
Non è quindi un caso che non potendo andare in Cina, Francesco sia andato almeno in Mongolia lanciando messaggi di pace ed amore verso i cinesi (sono anni ed anni che si lavora per un viaggio del papa in Cina, invano), l’ultimo viaggio, l’ultima missione, l’ultimo onore a Matteo Ricci ed al sogno di portare Cristo e Pechino.
Questa è metà della storia, l’altra metà è l’impegno del papa per la giustizia sociale ed ambientale, da cui sorgerà l’esortazione a sua volta fondata sull’enciclica. Penso sarà il suo ultimo atto significativo per cui prepariamoci per le complesse procedure per avere un nuovo papa, Francesco ha più volte fatto capire che non gliela fa più e da quando Benedetto ha sdoganato le dimissioni papali (atto invero rivoluzionario per un papa ritenuto ultraconservatore, ma Benedetto è anche filosofo e coi filosofi le cose non sono mai semplici), il papa può rimettere il suo mandato celeste. Ratzinger ci ha lasciati l’anno scorso e quindi il ruolo di ex-papa è libero, non si potevano avere due ex-papi quindi Bergoglio ha resistito, ma a fatica.
Visto che andremo prima o poi a nuovo papa, aspettiamoci la guerra dei mondi vaticana ovvero le grandi manovre per spingere un po’ di qui ed un po’ di là, il Conclave. Conclave che Francesco ha riempito di suoi eletti, per pilotare la successione, un po’ come fanno i presidenti americani con le nomine dei giudici della Corte Suprema (analogia stiracchiata ma di qualche utilità per capire le dinamiche dei poteri nelle loro istituzioni).
Grande battaglia sarà svolta con i commenti all’esortazione, soprattutto per quanto riguarda la sensibilità eco-ambientale mostrata in Laudato sì. Tanto per render chiaro il sottostante, il prode Franco Prodi che molti ammirano per le sue sfuriate contro l’ingiustificato allarmismo climatico, è tendente domenicano. Il più anziano dei Prodi, Giovanni, fondò il gruppo Scienza, Fede e Società oggi condotto da padre Sergio Parenti, domenicano, come si evince dal filmato che allego nel primo commento. Secondo questo punto di vista, è impossibile e forse anche un po’ blasfemo pensare che l’uomo possa davvero alterare il clima e l’atmosfera, un ardire prometeico ed al contempo un’ombra su Dio stesso che avrebbe creato una creatura in grado di rovinare la Sua creazione. Un Dio che fa tali errori è un po’ un orrore secondo questa linea deduttiva. Come per altro il simpatico e folkloristico Zichichi, la sciiiiensa, deve dimostrare l’infondatezza di questa assunzione checché ne dicano quelli dell’IPCC ed altri creatori ingiustificati di panico a fini di profitto. Altresì, i gesuiti pensano all’opposto che proprio perché la creazione è di Dio e quindi sacra oltreché vitale, l’uomo deve darsi una regolata se non vuol bruciare prima che nelle fiamme dell’Inferno, in quelle dell’effetto serra e visto che ci siamo, della guerra mondiale a pezzi.
Da dopo il 4.10, quindi, preparatevi alla pioggia di post che ignari del tutto del sottostante confronto tra immagini di mondo tra due longevi ed influenti ordini religiosi cristiani in lotta per l’egemonia della dottrina, inonderanno il social allietandoci per una settimana e passa quando poi verrà fuori un altro Vannacci, Giambruno o un colpo di stato ad Andorra che non è Africa ma come coi virus, quando iniziano i contagi si sa come si va a finire.
Fra un mese potrete sfoggiare le vostre conoscenze sul sottostante teologico tra ordini cattolici facendo un figurone che vi eleverà dalla suburra delle opinioni combattenti.
INIZIARE LE PRATICHE DI DIVORZIO OCCIDENTALE. Abbiamo da una parte società complesse e dall’altra un mondo sempre più complesso a cui queste debbono adattarsi.
Il mondo non è in uno stato omogeneo quindi non possiamo usare il concetto di società complesse come un universale, dobbiamo socio-storicamente determinarle. Altresì, la complessità del mondo è invece un universale, vale per tutti anche se con aspetti e declinazioni diverse.
La determinazione socio-storica che qui ci è propria è inquadrare le società complesse della sfera occidentale. Ma, a sua volta, la sfera occidentale non è un omogeno. Gli interi Stati Uniti hanno pari popolazione ai 20 Paesi dell’euro e per Pil assoluto, UE (27 Paesi) è solo l’80% del Pil americano, UEM (20 Paesi) è solo il 70% del Pil americano.
UE ed Unione europea monetaria sono aggregazioni non sovrane quindi sono imparametrabili, al di là della dimensione (imparametriabile), con una entità sovrana come gli US. Non sono sovrane nel senso che non hanno unità giuridica e politica oltreché fiscale ed economica interna ad una unica sovranità.
Sono profondamente differenti in storia e geografia, gli US, addirittura, sono su un altro continente e la loro superficie totale, quindi l’insieme delle proprie risorse naturali, è il doppio di quello dell’Unione che è comunque una collezione di 27 diversi soggetti.
Sistematicamente, le aziende, il complesso di ricerca, il sistema militare, quello commerciale oltreché industriale, ancora di più quello banco-finanziario americani, hanno molta più massa di ogni pari comparabile europeo vista la diversa demografia. Gli statunitensi sono tra l’altro autonomi energeticamente, gli europei no.
Con il 4,2% della popolazione mondiale, gli americani fanno il 25% del Pil globale mentre con il 5,6% della popolazione mondiale, l’Unione (che è un aggregato statistico) fa solo il 20%, sono quindi e di nuovo condizioni imaparametrabili.
Ne consegue che il problema adattativo per gli americani, per quanto siano “occidentali”, è ben diverso da quello europeo, ammesso esista un soggetto definibile Europa cosa che non è in tutta evidenza.
Onto-politicamente (quindi giuridicamente e militarmente i due fondamentali della sovranità), gli Stati Uniti sono un soggetto, l’Europa è tra una collezione statistica ed una debole e parziale confederazione di soggetti autonomi ed i due comparati, come detto, sono ampiamente difformi e reciprocamente disomogenei, oltre a trovarsi in condizioni di contesto del tutto differenti. Se su taluni aspetti parziali del problema adattativo, questi due diversi mondi possono trovare comune intesa e finalità particolari, sul problema adattativo nel suo complesso non può usarsi la categoria “occidentali” poiché contiene oggetti troppo eterogenei sotto più punti di vista fondamentali.
Non abbiamo ancora invocato altre variabili quali la religione, il pluripartitismo e spesso meccaniche elettive proporzionali, il welfare state, la geografia che vede l’Europa essere una propaggine del continente euroasiatico dirimpetta il continente africano ed il non avere due immensi oceani che la isolano e la difendono dal resto del mondo, la pluralità etno-linguistica, la demografia anagrafica e l’indice di riproduzione, la metafisica. Alcuni, per altro, potrebbero ritenere questo parziale ultimo elenco di tratti soft, anche più decisivi in descrizione di quelli hard prima esposti, tuttavia rimaniamo nelle scansioni logiche quantitative dominanti.
“Occidente” è una categoria parziale e vaga che rischia di dare un senso di unità a qualcosa che non ce l’ha e non può avercela nel profondo. Non ce l’ha a livello descrittivo e non può avercela a livello prescrittivo. Europa è in tutt’altro contesto, ha tutt’altri problemi, ha tutt’altra potenza per poterli affrontare, ha tutt’altra mentalità. Oltre a non essere a sua volta un soggetto ma una categoria in cui infiliamo a forza poco meno di trenta soggetti altamente disomogenei tra loro.
Poiché ogni problema adattativo presuppone un soggetto con una per quanto complessa identità, facoltà e potenza relativa che è colui che deve adattarsi, ne consegue che il principale problema della nostra fase storica ovvero l’adattamento ad un mondo di 8 miliardi di persone che usano i metodi dell’economia moderna per cercare di vivere il più a lungo ed al meglio possibile nel contenitore planetario finito, va affrontato ognun per le proprie condizioni. Ne consegue, in via prioritaria poiché ontologica, che riguarda le fondazioni di ciò che si è, la necessità di prevedere una separazione degli occidenti. Separarsi non è esser contro, è passare da una inesistente comunione ad una possibile e variabile cooperazione o meno.
Chi non segue questo imperativo, presceglie una posizione subordinata del minore (collezione europea) al maggiore e quindi si troverà in condizioni adattative ancora peggiori che non quelle in cui si troverebbe data la sua per altro assai problematica composizione, si troverà cioè strutturalmente in condizione di dipendenza.
La sfida adattiva ha contorni terribili per quantità e qualità delle problematiche, dei cambiamenti, della gestione e dei tempi coinvolti e presupposti, giocarla senza aver capito che l’Occidente è una costruzione fallace e disfunzionale, è condannarsi a fallirla prima ancora di giocarla.
COMPLESSISSIMI NODI. Simpatica intervista a Cacciari che ci illustra temi di dibattito intellettuale italico in quel di Mestre, su cosa ne sarà della globalizzazione in un mondo globalizzato. A me Cacciari sta pure simpatico, quindi nulla di personale, dimentichiamoci il riferimento, seguiamo gli argomenti o meglio le opinioni sugli argomenti. Gli argomenti trattati esistono a prescindere il come e da chi verranno discussi in quel convivio.
C. ha gioco facile a segnalare che il sogno americano del mondo piatto con loro al centro non teneva conto dell’eterogeneità del mondo stesso e della multidimensionalità politico-culturale, ma se è per questo anche economica e finanziaria. Ma fu questo a muovere la prima globalizzazione, quella iniziata col WTO-1994? Questo è quello che hanno raccontato, ma questo “racconto” veniva prima o dopo i fatti? Nel senso, era una strategia pensata o una narrazione posta a dar veste razionale a spinte incoerenti e di breve respiro? Credo che il vero problema di questa storia non stia nel fatto che il racconto s’è rivelato basato su un calcolo sbagliato, ma che è stato steso sopra i fatti “dopo” o “durante” non prima. Non era una vera strategia, in Occidente non si fanno strategie serie da decenni e per l’ottimo motivo che si incontrano difficoltà letteralmente “insormontabili”, si “compra tempo” come ebbe felicemente a notare W. Streeck.
Forse non è ai più chiaro che siamo davvero in un mare di guai sotto diversi aspetti che riguardano potenti e complesse dinamiche storiche, epocali, inedite in senso assoluto. La critica è facile, a seconda di quanto siamo colti sarà più o meno ficcante e precisa, ma il problema sono le soluzioni, non ci sono soluzioni che non implichino fatti che fanno tremare le vene dei polsi, comunque la si pensi in ideologia.
Il personaggio che qui più che filosofo fa il critico letterario cioè tratta narrazioni, passa poi all’UE che -mannaggia- non ha saputo saltare al gradino superiore di unione politica rimanendo in un limbo di vaga struttura economico-monetaria-normativa. Io non so se davvero chi fa questi discorsi crede a quello che dice, sarebbe allarmante. Sono letteralmente anni, più di un decennio che quando sento questi discorsi trasecolo “ma ci fanno o ci sono?”. Non sto dicendo che sono contro o a favore di Europa A o B o C, sto dicendo che sono anni o un decennio che quando sento questa storia dell’unificazione politica dell’Europa rimango allibito come se qualcuno si lamentasse seriamente del fatto che gli asini non volano. Ma c’è qualcuno che davvero dopo l’enunciazione del titolo “Uniamo l’Europa!” ha mai fatto non dico un chilometro, ma almeno qualche metro avanti nella proiezione dell’enunciato? Come? Perché? Con chi? Quando?
Immaginate un parlamento della zona euro, la Germania avrebbe in proporzionale il 25% del parlamento, anche si portasse appresso i voti di Austria, Finlandia, Paesi Bassi ed i tre baltici, arriverebbero scarsi al 35%. Secondo quale razionale questi popoli con loro tradizioni e cultura dovrebbero esser felici di unificarsi col restante 65% che ha tutt’altre tradizioni, culture, modi di intendere l’economia, i valori immateriali e quelli materiali?
Alla prima seduta del parlamento democratico (si spera che questi sognatori dell’Europa Unita vogliano immaginarsela se non davvero democratica quantomeno demo-rappresentativa), il primo ordine del giorno sarebbe la riforma della moneta e l’emissione di debito comune ed i nordici stabilirebbero il primato continentale dei cento metri scappando inorriditi. Da qui, una sfilza interminabile di questioni divisive assolutamente non componibili, sotto nessun aspetto o invocazione di buona volontà. Neanche l’idealista più sfrenato potrebbe davvero prender sul serio una cosa del genere, a meno non sia psicotico. Qui si tratta di avere o non avere in testa minime nozioni di: storia, geografia, demografia, sociologia, economia, finanza, analisi approfondita delle strutture, delle istituzioni e delle culture di tre decine di paesi che vanno dai 400.000 maltesi (fieri di esserlo) agli 80 milioni di tedeschi, cattolici, protestanti, atei, con trenta e più lingue e tradizioni millenarie o secolari divergenti tra cui sistemi giuridici, di educazione, militari, sanitari etc.. Ma di cosa stiamo parlando? Di letteratura e di critica letteraria, appunto.
E di contro, pensate andrebbe meglio riconquistando la piena sovranità (“piena”, si fa per dire, provate gentilmente ad andare a dire a gli americani che dopo la Via della Seta, volete uscire anche dalla NATO) di un paese che perderà altri 5 milioni di abitanti nei prossimi trenta anni? Un paese dipendente strutturalmente ed inevitabilmente su molti aspetti, di 55 milioni di persone con un terzo di anziani, in un mare agitato con americani (330 mio), russi (150 mio ma con 5000 testate nucleari), cinesi, indiani (1,4 mld cad.), arabi e nel 2050, 2,5 miliardi di giovani africani davanti casa?
E la guerra in Ucraina? Come se ne esce? Non come se ne esce, come ci siamo entrati!? È mai possibile che nessuno si domandi come diavolo è possibile che trenta e passa paesi con centri strategici, servizi, think tank, ministeri degli esteri, dell’economia e del commercio, non abbiamo minimamente osservato quale immane casino si stava creando al bordo ucro-russo da almeno sette anni prima che la guerra scoppiasse? È mai possibile che nessuno abbia chiesto il perché di questo immane fallimento predittivo ai propri governi? Ma qualcuno pensa davvero che USA, Russia, Cina, India ma anche molti altri come i sauditi che fanno piani strategici a trenta anni, campino così? Ah oggi, guarda un po’, è scoppiato un conflitto al confine ucro-russo, strano, sarà quel pazzo di Putin che s’è svegliato male, che dici mandiamo un cannone, ma no io sono pacifista. Ma davvero c’è qualcuno che pensa normale pensare che il mondo funzioni così?
E la Cina? Be’ lì c’è il “pazzesco casus belli di Taiwan” dice il nostro. Ma quale diavolo “casus belli”? I cinesi, parecchio tempo fa, avevano annunciato che Taiwan sarebbe tornata in amministrazione cinese entro il 2049. Dopo che l’anno detto nulla è successo, chi mai si occupa di cose così vaghe e lontane nel tempo? Non gliene è fregato niente a nessuno. Ma dopo un bel po’, un secondo dopo l’inizio del conflitto ucro-russo, gli americani hanno cominciato a starnazzare isterici che i cinesi stavano pensando di invadere Taiwan. Prove? Nessuna, non potevano esserci perché era tutto palesemente inventato. Lo stanno creando loro il casus belli, con due anni di continue provocazioni. Queste non sono opinioni, sono fatti, non c’è alcun fatto alternativo che dimostri che i cinesi avrebbero voluto e potuto invadere Taiwan anche perché non sono così dissennati da pensar di fare una cosa del genere, né oggi, né domani. Taiwan al massimo si manipola per qualche decennio fin quando risulterà “naturale” il suo ritorno al limite con vari caveat di statuto più o meno speciale come Hong Kong o Macao. Per i cinesi, ne va della loro reputazione in Asia e nel mondo, prima che preoccuparsi delle nostre paturnie.
Qui il punto è sempre lo stesso, di cosa stiamo parlando di letteratura o realtà? Perché passi l’amore per il genere fantapolitica o fantageopolitica, ma qui il punto, l’urgenza, è che ci stiamo perdendo il mondo, siamo su un binario morto, andiamo a schiantarci e se non parliamo di realtà, finiremo spiaccicati tutti contro spessi muri di fatti duri.
E così arriviamo all’ultima domanda che cita i “complessissimi nodi” di cui il forum discuterà. Ma da questi presupposti i fatti sono esclusi, sono tutti e solo raccontini, desideri, immaginazioni, sarebbe bello che, oh ma guarda come il mondo si sta incasinando eh? Ma a me piacerebbe così e tu? Ah, a me invece anche un po’ così! Eh sì magari hai ragione, dove andiamo a cenare dopo?
Più che discutere il disordine globale, urge discutere il nostro disordine mentale.
Ripeto, non si tratta di un problema Cacciari a cui anzi va riconosciuta almeno una sensibilità politica non banale (almeno in politica interna) e senz’altro un pensiero altrimenti corposo e ben formato (avercene!), è che questo è lo standard intellettuale contemporaneo, a livello europeo direi, non solo italiano. Questo è il modo ed il livello in cui discutiamo di noi, del mondo e della terribile fase storica. L’Europa tutta rifugge la realtà perché troppo complesse le questioni da leggere ed ancor più stretti e radicali i nodi se non da sciogliere almeno da ridurre. E tutti con popolazioni sideralmente lontane dalla corretta percezione dei pericoli che sempre più corriamo e correremo. Vale per il mainstream ma ahinoi anche per molto pensiero critico, vale per gli intellettuali come per la gente comune, passando per politici e giornalisti. Tutti questi strati sono strati di una stessa cosa, non s’è mai visto che al declino di una civiltà ci fosse uno strato (esclusi i visionari individuali che comunque, da soli, possono sì e no andare verso qualche intuizione grezza) che sa quello che gli altri non sanno, vede quello che gli altri non vedono, siamo tutti embedded gli uni con gli altri, siamo tutti nello stesso sistema.
La realtà ci è aliena, siamo tutti seguaci di Calderon de la Barca (La vida es sueño 1635) e siamo in una barca che è “come nave in tempesta” in cui si sogna altri mari, altri tempi, altri futuri o più spesso, passati.
Segue dibattito… (su dove andiamo a cena, s’intende)
[Grazie a G. Passalacqua per lo screenshot, lo posto solo per corredo non è poi così interessante leggerlo davvero]

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ARCANA IMPERII, di Pierluigi Fagan

ARCANA IMPERII. (Il post parte da Ustica ma non è un post su Ustica) Giuliano Amato, figura che condensa in sé il “senso” delle istituzioni dello Stato tanto da aver avuto ed ancora avere incarichi istituzionali di grande importanza, nonché esser stato più volte “l’uomo della disperazione” ovvero il possibile solutore di stalli politici nelle elezioni delle cariche istituzionali, tra cui varie elezioni per la Presidenza della Repubblica, ha fatto outing. Dopo quarant’anni dalla tragedia di Ustica, ci dice quello che già molti sapevano senza dirlo o poterlo dire o dicevano non creduti: l’aereo fu colpito per sbaglio da un missile francese in cerca dell’aereo di Gheddafi. Convenienze dei rapporti Italia-Francia e contesto NATO, hanno seppellito il fatto dentro ingrovigliate matasse di false verità, il tipico bosco in cui la diritta via va smarrita. Qui però non ci interessa il fatto in sé, ci interessa un altro aspetto della faccenda.
L’altro giorno leggevo un articolo di Domenico Quirico sulla Stampa del gruppo GEDI, in cui il giornalista che vanta una lunga e profonda conoscenza della politica internazionale, diceva pane al pane e vino al vino riguardo il Gabon o meglio riguardo la presenza francese in quell’area geografica che si definisce post-coloniale come se il colonialismo fosse un processo terminato. In realtà si è solo trasformato. I francesi, ad esempio, controllano l’essenziale di ciò che succede da quella parti non apparendo direttamente ma tramite dei pupazzi locali, ora resi giustificabili da men che formali votazioni che simulano una “democrazia”. Per chi non lo conosce Quirico non è uno strano è solo un giornalista “vecchia scuola”, quando i giornalisti facevano il loro lavoro di intermediare le notizie con i contesti alle persone che i contesti non li conoscono.
Su Repubblica (sempre gruppo GEDI), lo stesso giorno, una giornalista che ho poi verificato sul profilo LinkedIn si presenta come “editor” specializzata in comunicazione digitale (quindi dalle competenze quantomeno incerte visto l’argomento) faceva un ritratto pop della dinastia al potere in Gabon, mettendoci dentro di tutto incluso un disco registrato da un rampollo della famiglia al potere con James Brown. Il profilo “colorato” accompagnava la notizia più seriosa del colpo di stato militare riconducendolo ad una “epidemia” di sovversione africana innescata dai russi. I cinesi portano i virus, i russi colpi di stato. Riguardo il testo di Quirico mi tornava in mente quando i 5Stelle in modo naif, ebbero l’ardire di sollevare la questione del colonialismo travestito dei francesi in Africa, venendo travolti dallo sdegno per l’impudenza frutto di impreparazione ed eccesso ideologico.
Il fatto è che, semplicemente, certe cose non si possono dire.
Dal segreto di Stato alla pubblica esecuzione del portatore di punti di vista alieno che oggi ha anche le reprimende addirittura del the Guardian britannico sulla questione della guerra in Ucraina, (l’Italia è piena di filorussi!) certe cose non si possono dire. Perché non si possono dire? Semplicemente perché le opinioni pubbliche potrebbero esser traviate da queste supposte verità o alternative verità. Le opinioni pubbliche sono bambine, non hanno metro di giudizio autonomo, debbono esercitarlo solo entro i parametri dati. Sia sottoponendo loro certe notizie e non altre, certe opinioni e non altre, presentando i fatti e accluse le opinioni giuste, salvo qualche rara eccezione come nel caso di Quirico. L’eccezione conferma la regola, per cui vedi che siamo effettivamente “liberali”? Mica come in Russia!
Ma che differenza c’è tra queste forme repressive delle opinioni e l’Index Librorum Prohibitorum della Santa Inquisizione medioevale operante nella Chiesa Cattolica Romana dal 1560 (e fino al 1966)? Nessuna, le “democrazie” occidentali liberali e le teocrazie medioevali curano il flusso delle opinioni allo stesso modo, certe cose non si possono dire. Va notato, che l’Index, così come l’Inquisizione, sono istituzioni che si fa fatica a definire medioevali. In effetti, compaiono in quel strano secolo, il XVI (Inquisizione romana, Paolo III, 1542), che si può dire di transizione, non più del tutto medioevale, non ancora del tutto moderno.
Ne consegue che questi irrigidimenti repressivi, com’è psico-sociologicamente ovvio, compaiono quando c’è il rischio che qualcuno cominci a pensare in maniera divergente. Gli irrigidimenti sono sempre sintomo di fragilità, dove c’è il rischio che si formi una diversa immagine di mondo, dove le cose temi ti sfuggano di mano (perché in effetti ti stanno fuggendo di mano come poi scopri sfogliando il libro della Storia), dove non controlli più tutto, dove perdi credibilità. Alzano la voce le persone deboli, insicure. Tutta la fenomenologia dell’illiberalismo cognitivo degli ultimi decenni che procede a gradi sempre maggiori di isteria, denota la progressiva fragilità dell’immagine di mondo dominante perché è sempre più fragile il sistema ordinativo dominante.
Tornando alla espressione di Tacito (Historiae, Annales I e II secolo d.C.) tanto cara a Bobbio, il Potere fa cose necessarie, ma che non si debbono sapere altrimenti i sottomessi a quel Potere ne verrebbero turbati. Visto dalla parte dei “normali” questo fatto accende una fantasia morbosa ed inquieta, ci sono forse “trame”? Complotti? Cospirazioni? Ci sono i “non-ce-lo-dicono”? Fatti scabrosi e peccaminosi? Immorali? Anti-etici? Visto dalla parte dei funzionari del Potere che i normali scambiano per potenti (in effetti lo sono ma solo perché sono funzionari di un sistema, è il sistema che è potente ma il sistema è immateriale mentre i normali pensano sia un tavolo con cinque incappucciati con capacità sovraumane e diaboliche), la gente normale non sa che certe cose sono normali, necessarie, comuni, ovvie, “così-fan-tutti”, è semplicemente un piano della realtà a cui i normali non hanno e non debbono avere accesso, non solo nella cronaca, nella Storia, da secoli, millenni.
Studiosi di relazioni internazionale di scuola realista (Machiavelli, Hobbes, Carr etc.) ed in genere geopolitici se sono studiosi e non pupazzi-video, sanno perfettamente tutti come stanno le cose in Ucraina, possono però poi divergere sul come giudicano queste cose, come le giudicano dal punto di vista pragmatico, non ideologico o etico-morale. Applicare l’etica-morale alla Politica, viepiù quella internazionale, è come pensare che i bambini nascono sotto i cavoli. Dispiace dire ad un bambino o bambina come stanno davvero le cose in camera da letto, si capisce. Certo, dà da pensare che si faccia lo stesso nelle c.d. “democrazie” e per giunta “liberali” (dove cioè l’atteggiamento dovrebbe essere di manica larga, concessivo, la preistoria dei liberali è nei libertini, proprio nel XVI secolo dell’Index e della Santa Inquisizione, le due cose erano collegate “dialetticamente”), con le opinioni pubbliche.
Intendiamoci, l’analista realista non si meraviglia affatto di questo, conosce Tacito, in fondo non si meraviglia altrettanto realisticamente vedere le “prese-in-giro-della-verità” che animano il pubblico dibattito, si rimane solo dispiaciuti nel vedere quanti simili e concittadini siano ignari della realtà, quanto si balocchino coi sogni, coi “valori”, quanta servitù volontaria ci sia dopo secoli e secoli di presunto progresso e teorica emancipazione culturale supposta. Lì dove la parola “supposta” ha due significati in cui il secondo denota la lunga fase anale (o forse orale-anale) delle opinioni pubbliche infantili che si reputano adulte ma reclamano ancore il conforto delle favole.
Così, volevo solo segnalare il punto da aggiungere a lungo elenco di imputazioni che ormai si accumulano al dossier “perché continuiamo a chiamare “democrazia” una cosa che non lo è in maniera palese”? A volte, qui, alcuni si domandano perché io dico e scrivo certe cose, sembra quai mi diverta a torturare le emozioni cognitive di chi legge con queste cose ansiogene, crudeli, scabrose. Il fatto è che ogni scrittore, di narrativa, di poesia o teatro o di saggistica, in fondo scrive pensando a qualcuno anche se poi verrà letto anche da altri. Non sempre, ma assai spesso, il mio lettore immaginario è un collega, uno studioso, un intellettuale.
Idealmente, vorrei invitare i colleghi a pensare una buona volta a quanto è improprio si lasci passare questo utilizzo improprio del termine “democrazia”. Le parole sono importanti, è dalla loro precisazione e correzione di utilizzo che chi lavora con le parole ed i concetti può aiutare l’innesco di un cambiamento sociale. Siamo chierici, abbiamo i nostri Libri, lavoriamo parole, è quello il campo in cui si estrinseca la funzione intellettuale. Poiché sono radicalmente democratico, dico ciò in pubblico anche se non sempre mi rivolgo al “pubblico” in senso ampio.
Noi non siamo, né siamo mai stati, democratici. Già dirlo aiuterebbe tutti a capire cosa c’è da fare nel comune interesse. Solo un grado almeno minimo di democrazia permetterebbe poi di rendere attuale e significativa la discussione su come ci piacerebbe la nostra società fosse, se conservatrice, progressista, socialista, sovranista, liberale (autentica), tradizionalista, così o cosà.
Fare quella discussione senza democrazia minima concreta, non ha alcun senso se non avvalorare una cosa che non corrisponde alla sua parola. Noi non abbiamo un “giuramento di Ippocrate”, ma far passare questi slittamenti tra parole e cose è il nostro peccato mortale, è il nostro tradimento più grave.

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Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Pierluigi Fagan

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Pierluigi Fagan. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 PIERLUIGI FAGAN

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

  • Nella categoria “occidentali” distinguerei americani (anglosfera a traino) ed europei. Non credo di possa dire che questi secondi hanno deciso alcunché, forse si è persa memoria dei primi giorni di conflitto. Gli europei non davano proprio l’idea sapessero cosa stava succedendo e cosa sarebbero stati costretti a fare pur poi rivendicandola come propria volontà. La natura stessa delle decisioni che hanno fatto finta esser frutto della loro volontà, dice di quanto in effetti non lo fosse affatto vedi vari suicidi energetici. Quanto agli americani, il decisore ha tenuto conto certo di aspetti militari, tanto quanto politici ed economici; tuttavia, l’ordinatore dell’impianto di decisione è stato geopolitico, ovvero strategico. Sul fatto che si sia rivelato fallace ho però un diverso giudizio da quello contenuto implicitamente nella domanda. Gli americani avevano almeno quattro obiettivi come ho scritto dai primi giorni del conflitto: 1) coinvolgere la Russia in una lunga e defatigante guerra sul modello appreso con la Guerra fredda vs URSS. Il motivo ed obiettivo era vario, si poteva sperare (da parte loro) una implosione nel medio-lungo termine o quantomeno depotenziare l’unico vero competitor militare che hanno per via dell’ultima arma, l’arsenale nucleare. Si pensi all’intervento russo verso la fine del conflitto siriano. Ciò in vista di futuri, possibili, conflitti tra cui quello diretto e decisivo nelle regioni artiche dove, tra l’altro, i russi hanno un vantaggio forte, ad oggi. È più probabile che il vero obiettivo di questo primo punto fosse il secondo aspetto qui declinato ovvero sgonfiare un po’ o un po’ tanto il principale competitor militare impegnandolo un una lunga e costosa guerra, in quanto il primo confligge con la semplice numerica delle possibili truppe russe ed ucraine impiegabili nel medio-lungo periodo; 2) lo metto per secondo punto ma secondo me, in termini strategici era il primo ovvero la veloce annessione egemonica dell’intera UE. È il più importante perché se l’ottica è stata geopolitica, il gioco geopolitico dei prossimi trenta anni è Occidente (o G7 allargato) vs Resto del mondo. Se ti devi preparare a quel gioco, è congruo sia creare massa al tuo comando, sia evitare che gli europei vagheggiassero un ruolo speculativo nel nuovo assetto multipolare come già stavano facendo. Questo obiettivo è stato pienamente raggiunto, in poco tempo, senza se e senza ma, contro ogni evidente interesse obiettivo di Germania, Francia, Italia. Inoltre, hanno ben mosso le pedine euro-orientali e scandinave accerchiando ogni velleità euro-occidentale, il che peserà anche nei destini futuri della stessa UE e dell’euro. Questo punto è quello che mi fa dubitare più di ogni altro sul giudizio di fallimento che date nella domanda; 3) il terzo punto era iniziare, vertendo sullo sdegno per l’invasione russa, il gioco di ripartire il mondo tra stati per bene e stati canaglia o come dicono loro tra “democrazie” ed “autocrazie”. Questa ultima è una partizione debole sul piano strategico, lì dove certi consiglieri hanno esagerato nel credere il mondo dei valori e delle idee così importante fuori della propaganda occidentale e pure con ampie contraddizioni come sappiamo relativamente a vari rapporti scabrosi che gli stessi americani hanno in giro per il mondo. Ha avuto o potrebbe avere una funzione ideologica per il pubblico interno occidentale, proprio per i prossimi conflitti, tra cui quello con la Cina che sappiamo essere il principale e decisivo. Tuttavia, sembra anche ci abbiano davvero creduto visto che il concetto era già stato lanciato in campagna elettorale da Biden ed hanno comunque portato al voto l’ONU su due risoluzioni cercando di imporre inutilmente il format “o con noi o contro di noi”, una ri-bipolarizzazione per giocare al gioco che conoscono meglio; 4) infine, molti ragionano di geopolitica dimenticandosi che è strutturalmente collegata alla politica interna. Gli Stati Uniti sono stati in una qualche guerra per quasi tutta la loro storia, oltreché per eredità antropologica barbarica (T. Veblen), perché il loro ordinamento ha fisiologico bisogno di farla. Il sistema militar-industrial/commerciale-tecnologico-congressuale, sa che la guerra è la fonte principale sia di sfide tecniche le cui soluzioni hanno poi vaste ricadute, sia di fondi. Fondi che l’americano medio è renitente a concedere. Biden promise alle elezioni il ritiro dall’Afghanistan (per altro promesso anche da Trump a cui poi hanno spiegato come vanno le cose nel mondo reale) anche perché l’americano medio, ignaro di questa vocazione necessaria ad una qualche guerra, non vede di buon’occhio tali impegni. Impegni, nonostante la grande spesa storica, che crescono nel tempo come l’apparente ritardo nelle armi ipersoniche e gli aggiornamenti del complesso atomico. La violazione del principio sacro alla sovranità da parte di Putin, è stato uno splendido motivo (coltivato) per ridare all’America il suo conflitto ed esuberare nel finanziamento all’industria che poi sviluppa il ciclo. Sapendo che il punto regge e non regge nella mentalità media americana, Biden darà l’impressione di volerlo sospendere, tempo di fare le elezioni. Quindi il 2) e 4) sono stati perseguiti, il 3) è agli inizi e vedremo come continueranno a giocarselo anche se ormai il tema si è trasferito in Oriente, sul 1) vedremo come finisce, quando e se finirà.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

  • Non vedo quindi errori strategici, forse qualcuno d’inciampo tattico, dal punto di vista americano. Il terzo punto prima espresso, in particolare, mostra una decisa mancanza di realismo in termini di conoscenza del mondo e sue profonde dinamiche. Errori del genere, solitamente, provengono dall’area ideologica che veste il conflitto di valori e temi morali, cose che notoriamente non hanno nulla a che fare con la geopolitica e la strategia. Ma è tipico della scuola liberale di “relazioni internazionali” che in US è più rilevante del realismo in genere e dell’approccio geopolitico. Vedremo come e se finirà o continuerà, un trattato di pace lo vedo impossibile, la guerra congelata sarà collegata alle elezioni americane. Se vincerà Biden, poi riprenderà. Se fosse davvero fino all’ultimo ucraino, potrebbe durare qualche anno sempre che i russi accettino questo tipo di gioco. Mi permetto di aggiungere un altro aspetto. Gli americani non hanno poi così tante strategie possibili, la loro contrazione è fisiologica ed irrimediabile, la loro capacità di adattarsi positivamente a questo destino, che ben gestito sarebbe poi tutt’altro che funesto dato che hanno parecchi fondamentali positivi, sembra molto scarsa. Non se ne vede traccia in nessun aspetto della cultura americana, anche quella “alta”. Dovrebbero al contempo cambiare modo di vivere e di pensare nei grandi numeri e data l’indisponibilità delle loro élite tanto repubblicane che democratiche, non mi pare possibile. È ormai un sistema che s’è solidificato negli ultimi settanta anni, molto complesso cambiarlo stante che nessuno ne mostra la volontà, neanche teorica. Quanto agli europei, non mi sembrano in grado neanche di porsi davanti l’argomento, élite ed opinioni pubbliche con gli intellettuali in mezzo. La crescente anzianità media congiura a retrocedere il tema futuro ad argomento con poco pathos.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

  • Be’ il tema è un po’ troppo vasto per una risposta ad una domanda in questo formato. La crisi è ontologica, teoricamente affrontabile ma in pratica pare di no. I perché li rimandiamo perché dovremmo dettagliare “crisi” di cosa, da quando, in quale prospettiva ed anche per chi, gli Stati Uniti sono una cosa, lo stato-nazionale di taglia europea un’altra. L’Ue poi, non ne parliamo proprio. Propriamente è un argomento di categoria “storica” quindi assai complesso, irriducibile a poche battute.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

  • Mah, Russia e Cina amalgamano modernità e tradizione, siamo noi ad aver schematicamente assunto modelli semplificati basati solo sulla storia europea dando di modernità un certo concetto e di tradizione anche. Segnalo però che la Cina non ha mai, di fatto, abbandonato il confucianesimo, ci sono passi del libretto rosso di Mao che sono copia-incolla da Confucio propriamente detto (che attenzione, non è -sic et simpliciter- il “confucianesimo”), semmai ne ha sottomesso provvisoriamente parte del complesso ideologico al maoismo. È stato quindi molto semplice togliere alcuni eccessi di Mao per far risplendere l’antico impianto, direi che non credo sia proprio possibile avere una immagine di mondo in Cina che non risenta profondamente del confucianesimo. La cultura cinese è intrisa di vari tipi confuciani tanto quanto la nostra di platonici, magari a loro insaputa. Il problema è conoscere il confucianesimo che al suo interno è tanto plurale quanto lo è la tradizione di pensiero europea (o quasi). La categoria “reazionario” è europea ed applicare etichette europee a culture non europee non è sempre possibile. Per la Russia il discorso è differente ma poi neanche così tanto, tuttavia trattare problemi “storico-culturali” di questo tipo e di altri mondi, qui, non è possibile. La revisione delle posture e delle ideologie europee per adattarsi ai nuovi tempi comporta ben altre complessità che non essere un po’ meno “moderni” ed un po’ più “tradizionali”.

COMPLESSI PARTI MULTIPOLARI, di Pierluigi Fagan

COMPLESSI PARTI MULTIPOLARI. È terminato il summit dei BRICS in Sud Africa. Star dell’incontro il presidente indiano Modi. Putin era in remoto e sappiamo in quali altre faccende affaccendato, Xi ha saltato senza dare ragioni il primo incontro pubblico dei leader, Lula si è preoccupato di rilasciare dichiarazioni che spegnessero l’impeto competitivo del gruppo contro l’Occidente cui è legato anche in ragione di recenti incontri ed accordi (USA ed UE). Per dire, era stato proprio Lula che aveva annunciato nei mesi scorsi la volontà di varare la valuta alternativa al dollaro. Occorre che s’impari a leggere questa complessa trama delle nuove relazioni mondiali, a volte fai una dichiarazione prima di certi incontri per ottenere qualcosa, è “politica”.
Il vertice, come spiegato nel nostro scorso post, aveva al centro un punto, la questione dell’allargamento del gruppo ad altri partner, una ventina in esplicita richiesta di ammissione, un’altra ventina interessati a seguire. Poiché molti seguono la geopolitica come seguono il calciomercato ovvero seguendo “storie”, s’erano prematuramente eccitati immaginando roboanti annunci di valute alternative al dollaro, ma nessuno aveva anticipato tale intenzione nella preparazione del vertice, anzi era stato esplicitamente escluso da indiani e sudafricani. Prima si fanno i soggetti, poi i soggetti deliberano le proprie comuni intenzioni, semmai vi riescono.
I primi due giorni, a parole, erano tutti entusiasti ed uniti nel dichiarare la volontà di allargamento. Mercoledì notte, riuniti a specificare i dettagli, si sono incagliati su punti presentati da Modi, fresco di gloria spaziale. Come detto, Modi gioca una complessa partita in cui occorre tener conto anche del fatto che l’anno prossimo va ad elezioni per il terzo mandato, con alta frizione interna che ha portato addirittura ben 26 diversi partiti, che più eterogenei non si possono immaginare, a creare un cartello unico contro di lui sotto la bandiera del terzo Gandhi, Rahul.
La complessa partita sulla politica estera di Modi è relativa a molti punti: 1) ottenere il prestigioso seggio al Consiglio di Sicurezza (India è il più grande paese del pianeta ed è -al momento. La quinta economia, ma la quarta più o meno l’anno prossimo); 2) calibrare i delicati rapporti con la Cina, sia localmente (confini), che arealmente (Asia), che dentro i BRICS dove l’India vuole presentarsi come reale capofila dei Global South dicendo la Cina è ormai un paese non più “in via di sviluppo”. Da segnalare come il successo lunare dia all’India una immagine assai attraente dal punto di vista tecnologico, chiave importante per le ambizioni di sviluppo di terzi; 3) combattere proprio contro Cina e Russia sul senso da dare ai BRICS ovvero una unione economica e non una unione geopolitica o non del tutto. L’India, infatti, intrattiene ottime e proficue relazioni con il Giappone, l’Unione europea e soprattutto gli Stati Uniti d’America (anche militari e nel Pacifico), senza per questo trascurare la vecchia amicizia con la Russia; 4) in subordine al punto 2), una crescente attenzione all’Africa che l’India ha per il momento colonizzato con una apparentemente innocua diaspora di sarti e commercianti per la parte sudorientale. C’è anche, poco notato, un crescente problema di rapporti con certo mondo musulmano, problema etnico interno piuttosto sensibile, che però ha riflesso su i codici di fratellanza islamica che è un mondo altrettanto complesso.
Modi allora, mercoledì sera, si presenta con due nuovi criteri limite per accettare le domande di ammissione dei nuovi candidati: a) non esser sotto sanzioni; b) avere un Pil PPP di un certo livello. Entrambi, vanno in direzione di dar ai BRICS il senso di unione di cooperazione economia e meno geopolitica. Non vuole trovarsi annegato in una pletora di paesotti senza senso imbarcati da cinesi e russi solo per far “massa”, non vuole trovarsi in imbarazzo nel suo gioco su più tavoli con gli occidentali. È probabile che -in parte- avesse anche dalla sua parte il Brasile altrettanto sensibile a non urtare troppo gli occidentali. Il Sud Africa ha giocato il ruolo di mediatore, padrone di casa interessato al successo del vertice, a sua volta orientato a rappresentare gli interessi continentali. Modi, sapendolo, ha stabilito in un incontro bilaterale, che si farà promotore dell’annessione dell’Unione Africana al G20 e forse poi, nel più generale riassetto del Consiglio di Sicurezza, anche lì.
Si può immaginare come la seconda richiesta possa esser stata valutata forse contrattabile dai cinesi (i russi, in questo momento, non hanno un grande peso o meglio lo hanno comunque e per varie ragioni, ma non sono proprio nel miglior loro momento di far geopolitica), la prima no. A parte escludere a priori le candidature di Iran e Venezuela, avrebbe creato anche un imbarazzo palese con la Russia stessa e forse domani con la Cina stessa. Non solo, avrebbe dato agli americani l’arma perfetta per mettere sotto sanzioni chiunque a loro piacimento pur di interdire le politiche interne lo stesso BRICS. Era evidente Modi avesse presentato il punto per ottenere qualcos’altro, il punto non era realistico ma contrattualistico.
Com’è finita la battaglia nelle segrete stanze?
Si è deciso di non decidere i principi ma procedere pragmaticamente. Così s’è deliberata l’ammissione dell’Arabia Saudita (che per altro sta giocando una sua propria partita con Iran da una parte, Israele dall’altra e gli Stati Uniti a chiudere il quadrato, anche AS come l’India va sul multi-allineamento), l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Seguono Argentina (sponsorizzata da Lula) e l’Iran che alla fine Modi ha dovuto ingoiare anche perché s’era messo in imbarazzo da solo visto anche i più che ottimi rapporti bilaterali diretti. Infine, l’Etiopia leader storico del senso africano. Pare che l’Indonesia si sia chiamata fuori per il momento, ci sarà da capire meglio perché e per quanto. Quindi i BRICS passano da cinque a undici, da 01.01.24, da verificare con quali prerogative tra fondatori ed associati.
Solo dichiarazioni congiunte in favore dell’ulteriore esplorazione di una valuta comune da concordare e definire tecnicamente a seguire mentre si riafferma l’impegno a nuove cooptazioni.
Modi ha poi dovuto dichiarare di essere strafavorevole all’allargamento, ma forse sovraeccitato dalla conquista lunare, non ha calcolato che le sue uscite all’undicesima ora ieri notte, si sono sapute. Difficile rendersi credibili nella difesa di interessi terzi, quando ha dimostrato che più che altro si stava facendo i fatti propri.
Segnale finale? Da una parte la volontà strategica c’è ed è confermata, dall’altra quando si passa dalla volontà ai fatti, emerge tutta la delicata complessità di questo progetto e siamo solo alle ammissioni, poi sarà la volta delle decisioni e degli impegni fattivi. In sostanza, BRICS si avvia a diventare qualcosa che ha la forza ed in parte la debolezza dell’Unione europea, forza economica ed in parte finanziaria, geopolitica un po’ maggiore, ma da verificare caso per caso e tavolo per tavolo.
Dall’altra G7 con ancora alta forza finanziaria e geopolitica, in declino quella economica e demografica. USA/G7 potrà aggredire paese per paese la unione BRICS offrendo qualcosa in cambio di qualcos’altro. Paese per paese ci si barcamenerà tra interessi a breve ed a medio-lungo. Di fatto, come nel caso del presentarsi nel mercato di un concorrente che limita i privilegi del precedente monopolista, l’intero processo spingerà USA/G7 a doversi preoccupare della propria postura ed immagine (concreta non pubblicitaria), che però sconta decenni e secoli di protervia difficilmente cancellabili. Biden ha già annunciato importanti revisioni nella composizione dei diritti, voti e rappresentanze in World Bank e International Monetary Fund, mentre affila le armi per nuovi “divide et impera”.
Certo, da oggi è chiaro che “tutto il mondo ti osserva” e se predichi bene e razzoli male, gli spettatori diventeranno attori e non a tuo favore.
Partita lunga e complessa che però arriverà inevitabilmente ad una nuova configurazione di ordine mondiale, anzi che è già arrivata anche se molti faticano a comprenderlo, tra ironie sui “sogni di gloria alternativi” e gli eccessivi entusiasmi che non tengono contro delle tante complessità e contraddizioni di processo. Il mondo cambia, le nostre mentalità arrancano.

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IL GIOCO DEI REGOLAMENTI DI GIOCO, di Pierluigi Fagan

IL GIOCO DEI REGOLAMENTI DI GIOCO. (Intro al summit BRICS che inizia domani). Con “gioco” (qui nella forma di gruppo) s’intende l’insieme delle azioni compiute entro un quadro di regole per un determinato fine. Il fine è -in genere- vincere al gioco, ma nel gioco geopolitico del mondo, questo fine è posto sempre sull’orizzonte che si muove quanto più i giocatori avanzano nel suo perseguimento ovvero lungo la storia. Si tratta quindi di osservare prevalenze relative o -più in generale come spettatori terzi- dinamiche di fasi di gioco. A sua volta, il gioco può esser oggetto di un gioco ovvero quando i giocatori debbono concordare le regole comuni prima di iniziare a giocarlo o debbono o vogliono cambiarle mentre si sta giocando. È questo ultimo il caso in oggetto.
Domani inizia la tre giorni del summit BRICS in Sud Africa, Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa. Ci sarebbero circa 40 paesi, 20 espliciti più o meno altrettanti a seguire che ambiscono ad entrare nel gruppo. Il gruppo BRICS ristretto e fondatore pesa 3,2 mld di persone, il 26,6% del Pil nominale ed il 32,5% del Pil PPP.
Hanno un fine comune ovvero mettere sul tavolo di gioco il loro peso aggregato per giocare al gioco della contrattazione delle regole del gioco planetario per i prossimi trenta anni. La loro dimensione aggregata, e per demografia, e per ricchezza e quindi per potenza, è in linea ascendente, viepiù se si allargassero alle nuove richieste di adesione. Quelle dell’altro giocatore, il padrone del gioco da tempo, i G7/USA, è invece in discesa con più o meno pessimistiche previsioni a trenta anni.
Dei cinque, la Cina è senz’altro la più favorevole all’allargamento, la Cina è il peso massimo del gruppo e quindi risulta guida implicita. Ma deve agire con prudenza perché il gruppo non ha alcuna intenzione di passare dal dominio occidentale al dominio orientale, il gruppo vorrebbe passare da un dominio verticale singolare ad una forma orizzontale e dinamica plurale.
La Russia concorda con la Cina, anche per allargare il gruppo di nazioni se non amiche quantomeno non nemiche nell’altro gioco imposto -via guerra in Ucraina- dagli Stati Uniti che tentano l’ostracismo planetario verso i russi.
L’India è ben consapevole sia del valore della possibile crescita di massa, dove lei potrebbe giocare un ruolo di contrappeso delle temute mire egemoniche cinesi, sia dei pericoli visto che nei fatti, è meno potente della Cina stessa. Preoccupazione questa, condivisa in parte anche dagli altri due soci, Sud Africa e Brasile.
Ma il Sud Africa ha anche l’appetito regionale di mettersi a capo di fatto degli interessi continentali africani (molto appetiti da Cina e forse anche india) ed è quindi aperta, con giudizio, all’allargamento.
Il Brasile sembra il meno entusiasta temendo un ridimensionamento di ruolo una volta entrassero in gioco altri africani, arabi, asiatici. Ognuno dei cinque, ha poi alterni rapporti con il gruppo G7 che diciamo per brevità “occidentale” anche se c’è Il Giappone ed è riferimento anche per altre entità estremo orientali.
Il fine di costituirsi gruppo alternativo o meglio competitivo è chiaro e condiviso; tuttavia, ci sono interessi e sensibilità diverse su quanto decisa sia la contrapposizione ed i tempi del gioco. Almeno Brasile, India e Sud Africa, mantengono relativamente buoni rapporti coi G7 e con gli Stati Uniti. Questi ultimi giocano su queste relazioni per cercare di frenare l’accorpamento strategico alternativo, in particolare facendo pesare l’imbarazzo per il comportamento russo (che formalmente è una espressione di egoismo strategico il che non va esattamente in direzione del senso cooperativo e condiviso del gruppo) e soprattutto il timore di egemonia cinese.
Questo però, è un timore che il resto del mondo legge dal suo punto di vista. Il timore c’è, è obiettivo, ma molto dipende e dipenderà dal comportamento di fatto dei cinesi. Che siano grandi e grossi, in diretta competizione con gli USA, competizione che gli Stati Uniti stanno alzando di livello ogni giorno che passa e così già si sa nell’immediato futuro, è chiaro a tutti. Tuttavia, dipende molto dal se e come i cinesi faranno pesare come interesse di gruppo quello che un interesse solo loro e soprattutto, come si comporteranno nelle relazioni bilaterali ed in quelle dentro il gruppo a livello di peso delle intenzioni e modalità strategiche.
Il perno di questa difficile ricerca di equilibrio è l’India, la più esposta geopoliticamente (ovvero per riflesso politico della geografia visto che sono confinanti coi cinesi) ai timori di egemonia cinese e tuttavia, dentro i BRICS, l’alternativa bilanciante naturale alla Cina stessa. Per questo l’India ha lanciato il suo concetto di “multi-allineamento”. L’India punta a diventare una potenza in proprio quindi non assimilata ad alcuna altra potenza, amica di tutti ed aperta a buone relazioni con tutti. Tuttavia, sa anche molto bene che in questa fase del gioco, dove si andranno a ricontrattare i regolamenti del gioco generale, al peso USA-G7 va contrappesato il peso BRICS altrimenti da sola non va da nessuna parte. Un po’ come la navigazione in barca a vela, si spostano i pesi dei naviganti un po’ di qua ed un po’ di là a seconda degli equilibri, del vento, delle manovre, di quello che fanno gli altri equipaggi.
Tutto qua, volevamo solo introdurre l’argomento ed invitare a seguirne lo svolgimento. L’incontro ovviamente è stato lungamente preparato da tempo dalle diplomazie incrociate, ma è a queste riunioni che si svelano le vere intenzioni, si mettono le carte sul tavolo da gioco. Ci sono oltre al sudafricano, Xi, Modi, Lula e Putin no perché il SA aderisce alla CPI e quindi per ragioni giuridiche dovrebbe arrestarlo per crimini di guerra.
L’incontro è delicato per le ragioni esposte. Sottolineiamo, in particolare, il fatto del tutto inedito storicamente parlando (Il caso Bandung non è assimilabile), di come si possa formare un gruppo con più nazioni autonome che vogliono perseguire un fine comune che ha rilievo di “ordine mondiale”, quindi estremamente rilevante, si potrebbe dire guardando la cosa da una certa prospettiva un fatto potenzialmente “storico”. E’ in gioco il concetto di cooperazione strategica, l’unica vera alternativa al conflitto strategico ( guerre di vario tipo) per giocare e regolare il più ampio gioco della convivenza planetaria. Una contrattazione collettiva di questo gioco di come ordinare il nuovo giocatore che possa andare a discutere col suo peso rilevate e prospettive ancor maggiori i regolamenti del gioco principale, è di grande importanza per tutti.
Naturalmente ci sarà nebbia sull’evento, quella critica occidentale pronta a segnalare ogni frenata, incertezza, frizione malcelata e quella degli stessi BRICS che mostreranno dentature perfette nei sorrisi, grandi abbracci e pacche sulle spalle, invocazioni al futuro condiviso.
Alla fine, posata la nebbia e quindi fine di questa settimana o poco dopo, ci saranno i risultati concreti e quel po’ di dietro le quinte che uscirà per ragione di chi vorrà farlo uscire. Quindi ne riparleremo alla fine dell’evento stante che l’incontro è assai rilevante, ma i tempi di questa più ampia transizione multipolare non sono quelli del cinema in cui succede tutto in un’oretta e mezza. A poi.
NOTA: Il summit è stato anticipato dall’incontro di cui alla foto, ai primi dello scorso giugno sempre in Sud Africa. Il gruppo detto “Amici dei BRICS” era formato oltreché dai cinque soci da rappresentanti di Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Cuba, Repubblica Democratica del Congo, Comore, Gabon e Kazakistan. Egitto, Argentina, Bangladesh, Guinea-Bissau e Indonesia, seguivano da remoto. Rilevante capire, se verranno presi impegni chiari e fattivi, di che tipo di associazione si tratterà ovvero quale rimarrà il ruolo dei fondatori e quale quello degli associati, quali i requisiti di ammissione, i tempi. Si parlerà anche di guerre, sviluppo, carbonio, valute, ma il cuore dell’incontro sarà lo statuto che si vorranno dare a livello di composizione.
[Il commento è mio, i dati sono presi tutti e solo da Reuters, così la foto]

FLY ME TO THE MOON, di Pierluigi Fagan

FLY ME TO THE MOON. I motivi dell’assalto spaziale che ha nella Luna il suo più immediato obiettivo (è appena partita una missione russa) sono, come sempre, molteplici, non ci si avventura mai in cose complesse per un solo motivo. Il pacchetto è che il tendere a… qualcosa del genere, traina al contempo sviluppo scientifico, tecnico, economico, geopolitico, strategico in senso più ampio.
Le ricadute dello sviluppo tecno-scientifico nel cimentarsi in cose del genere sono enormi. L’incedere è buttarsi nell’ignoto sapendo che si incontreranno problemi e nel risolverli si scopriranno nuove cose o nuovi modi di fare cose. Le ricadute sono molto più ampie del solo spazio, saranno terrestri ed umane in senso più ampio e arriveranno ai corsi economici, finanziari, militari, conoscitivi allo stadio che la conoscenza avrà domani. Il modo migliore di affrontare il futuro non è solo prevederlo, ma anche costruirlo.
Il risvolto economico è indiretto per via delle ricadute citate, ma anche diretto per l’estrazione mineraria ed energetica, ad esempio l’elio-3 (raro sulla Terra, abbondante sulla Luna). Estrazione minerale lunare diretta ma anche utilizzo di una base Luna per lo sfruttamento degli asteroidi. In termini di finitezza delle risorse, i minerali sono gli elementi che stanno più vicini alla rarità sulla Terra, il che annuncia conflitti e impennata dei prezzi, urge aprire nuove miniere.
C’è anche un aspetto economico-finanziario di modello. Europa, Giappone, India, Russia, Cina e chiunque altro, agiscono con enti statali (o comunitari). Gli Stati Uniti, invece, aprono la strada con lo Stato, ma subito a ruota segue il privato il che aumenta l’impatto di massa e diffonde i benefici al loro sistema economico in modo più largo e più in fretta. La favoletta del “più mercato meno Stato” è un osso lanciato ai cani economici mossi da menti semplificate figlie di qualche idealismo d’antan (in genere europei) che ci si avventano rabbiosi, il pragmatico sistema americano è invece perfettamente organico e coordinato tra i due aspetti.
L’aspetto geopolitico è evidente. Sebbene qui sulla Terra ci si avvii ad una partizione molteplice di entità piccole-medie-grandi detto “nuovo sistema multipolare”, tanta varietà tende a diminuire quando si tratta di puntare ad imprese così impegnative sul piano tecno-scientifico ed economico. Lo spazio è ambiente per potenze, non ci si va con tre sgangherate caravelle alla “che dio me la mandi buona e che la fortuna ci assista”.
India e Brasile, ad esempio, pur stando nei BRICS ed altre istituzioni di ispirazione neo-multipolare, in questa prospezione spaziale stanno anche con il gruppo capeggiato dagli USA, al momento. Ma non escluderei che queste potenze seconde non NATO-G7, possano poi fare qualcosa anche coi russi o i cinesi, in futuro. Gli EAU già oggi stanno un po’ di qua ed un po’ di là. Il principio del multipolare è il multi-allineamento ed è la speranza insista in questo nuovo modello. Avere una “rete” di interessi di ognuno con qualcun altro è l’unico modo di stabilizzare -pur dando dinamica- l’ordine mondiale, evitando quelle “esclusive” che finiscono con il cedere sovranità e riformare due blocchi.
Riformare due blocchi e quindi semplificare riducendo la molteplicità complessa alla logica di potenza è infatti il tentativo strategico americano, il come gli americani pensano di gestire il problema multipolare. In questo senso, lo “spazio” è utilissimo. Va infine aggiunto che, fino ad oggi, la Cina ha operato con grande riservatezza ed un po’ per conto suo.
Infine, l’aspetto strategico più ampio riguarda il rapporto tra umanità-Terra e spazio in generale, cioè il “futuro”. Tra decenni e secoli, non v’è dubbio che la nostra “sfera” di umanizzazione si allargherà allo spazio almeno del sistema solare. Non sappiamo dire se, quando e come riguarderà la presenza umana diretta, ci sono al momento profondi problemi irrisolti e di cui non si parla per non disturbare le grandi narrazioni futurologhe che poi servono a sostenere i molto terrestri corsi azionari di Musk, Bezos & Co, puro advertising.
Ci sono gravi problemi a vivere in assenza di gravità per lungo tempo e ci sono più ancora problemi con le protezioni dalle radiazioni, solari e viepiù cosmiche, là fuori è un ambientaccio. Le stazioni spaziali attuali stanno entro il campo magnetico terrestre, appena metti il nasino fuori (per più di una settimana, diciamo) son problemi seri. La soluzione a questi problemi passa in primis attraverso la possibilità di costruire navi spaziali fuori dalla Terra cioè con meno o assenza di gravità, qui da noi c’è un problema di massa e spinta per eludere la gravità che il problema delle protezioni non farebbe altro che aggravare. Ma vale anche per le dimensioni generali delle navi e composizione dell’equipaggio per viaggi più lunghi di quelli verso la Luna.
Tuttavia, al di là delle poesie sull’uomo che mette piede qui e lì, sonde automatiche governate da sempre più evoluta A.I. risolverebbero molti problemi con molte positive ricadute secondo quanto prima espresso. Ecco allora che la “base Luna” potrebbe esser un nodo essenziale, in sé e come avamposto. Chi scrive pensa che il futuro sarà di missioni automatizzate viepiù queste sapranno, com’è facile prevedere, mimare la performance umane molto più costose, rischiose, dalla logistica -al momento- impossibile. Un singolo astronauta morto per radiazioni fermerebbe i programmi spaziali per anni se non decenni e la stretta utilità dell’umano, in queste cose, tende al nulla.
Al momento, c’è una legislazione internazionale e livello ONU che regola alcune cose. Ma è di qualche decennio fa e quando venne firmata si era lungi dallo stato attuale delle prospettive e complessità di progetto. Gli USA, ad esempio, stanno già prevedendo di aggirare alcune norme poiché affideranno certe operazioni ai privati e quando sono state firmate quelle convenzioni, il “privato” non era previsto. Si potrebbe facilmente mettersi intorno ad un tavolo ed aggiornare le carte, ma lo si sarebbe potuto fare anche per il problema dei rapporti NATO-Russia via Ucraina e non solo. Non lo si è fatto perché non lo si voleva fare, c’è il momento Congresso di Vienna e c’è il momento Far West che agli USA piace molto, per tradizione. Lo chiamano “libertà” e da quelle parti il concetto è sacro. Comunque, è tradizione storica che il momento Congresso di Vienna vanga sempre dopo l’esito del momento Far West.
Guerre, conflitte, scaramucce, sgarbi, nello spazio, trappole, provocazioni, non avranno testimoni e saranno del tutto manipolabili, quindi: “à la guerre comme à al guerre” e “chi mena per prima mena due volte”. Chi scrive pensa che le missioni Apollo ci siano state; tuttavia, a titolo d’esempio di ciò che si potrà fare in termini di informazioni spaziali future è ben reso dalla recente validazione del fatto che gli americani sulla Luna ci sono stati davvero da parte della sonda indiana. Terzi che testimoniano che tu sei l’invaso e non l’invasore avranno un prezzo, magari gli darai qualcosa su un altro tavolo, sarà una bella partite neanche sotto il tavolo, sopra le nostre teste dove l’occhio e l’orecchio non “istituzionalizzato” non arriva.
Così, i cinesi, previdenti, se ne sono andati sì sulla Luna ma dalla parte opposta a quella in cui vanno tutti gli altri, la faccia nascosta alla Terra che non è affatto “dark (side of the moon)” essendo illuminata la metà del tempo esattamente come l’altra. Tra l’altro lì potrebbero esserci anche più minerali e quasi in superficie. Si sono così potuti impegnare a risolvere anche loro un problema auto-procurato ovvero come mandare e ricevere segnali Terra-Luna e viceversa, rimbalzando il segnale tra più di un satellite. Tecnologia utile, soprattutto quando si attaccheranno gli asteroidi. Da segnalare che già oggi articoli americani paventano l’invasione cinese dei “loro” spazi, “loro” in che senso non è chiarito. Altresì, problemi “lassù” potrebbero muovere a soluzioni “quaggiù”.
Oggi, il censimento della corsa lunare segna americani, russi e cinesi, i primi ci mandarono anche umani, tutti e tre ci sono atterrati. Poi c’è l’India che proverà per la seconda volta ad atterrare a giorni. Europei e coreani, in proprio ed a traino degli americani. Giapponesi, israeliani ed EAU. Questi altri per ora vanno in orbita, fanno fly-by o ci si schiantano.
Insomma, a tema “futuro” questa variabile diventerà ordinativa, non in forma unica ma assieme alle altre. Pochi anni fa si discuteva con alcune anime semplici del problema della “sovranità”. Che problema c’è, basta stampare moneta, un po’ più di autarchia, alziamo i confini et voilà, dicevano. A parte che già questo non è affatto semplice e si può anche dubitare funzionerebbe, le nostre idee vanno sempre messe in contesto, la complessità è nel come componiamo il contesto.
Fra trenta anni, al problema demografico-anagrafico, migratorio, ambientale-ecologico, climatico, militare, tecnologico, scientifico, culturale, sociale, economico, finanziario e politico si aggiungerà anche questa dimensione. Adattarsi a questo contesto sarebbe tema di grande ed urgente dibattito, ma non essendo qui in Italia in grado di farlo, facciamoci una cantatina … alla fine Sinatra era pur sempre mezzo italiano.

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IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO, di Pierluigi Fagan

IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO. Il termine “ideologia” nasce in Francia nella prima parte dell’Ottocento ad opera di alcuni filosofi materialisti che intendevano sviluppare una conoscenza (logos) su come nasce, si compone e funziona il sistema di pensiero (idee). Cercavano cioè di pensare al come pensiamo. Non a cosa pensiamo, il “cosa” viene dopo, prima c’è il come.
Vennero chiamati “ideologues” e su loro si abbatté l’ira di Napoleone: “È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia” (1812). Insomma, a Napoleone questa ricerca su come pensiamo e quindi poi agiamo non piaceva, bisognava agire e basta, naturalmente come piaceva a lui.
Da Vilfredo Pareto a Francis Fukuyama via Popper, il pensiero liberale ha da sempre mostrato vivo fastidio per le ideologie e ne ha celebrato la fine eccitandosi per il crollo dell’ideologia marxista al passaggio tra anni ’80 e ’90. Finalmente, non c’erano più ideologie, era rimasta solo la loro. In effetti, già Destutt de Tracy, l’animatore degli “ideologues” francesi, aveva segnalato come la morale utilitaristica e la conseguente politica liberalistica non avessero nulla di oggettivo e naturale e fosse appunto una “ideologia”. Ma i liberali sono così, irriflessivi, se c’è più di un sistema di pensiero oltre al loro danno condanne di “ideologia!” a qualsiasi altra forma del pensare, quando rimane solo il loro sono felici, le ideologie sono morte, la natura oggettiva delle cose ha trionfato.
Arriviamo così ad un articolo de Il Foglio che è un giornale di ideologia liberale. Qui, un giornalista con le idee chiare e distinte titola contro il “dogma” della complessità. Poi declina l’occhiello con “La complessità è diventata ideologia, rifugio d’intelligenze vanitose, benintenzionati smarriti e professori cialtroni”. Sta recensendo il saggio di una giovane filosofa francese, Sophie Chassat, “contro questo mito culturale odierno”, il mito della complessità. Wow!
Dopo aver segnalato che il saggio della francese è “favoloso”, continua con abuso di aggettivi squalificativi. Quello della “complessità” è “un mito” che porta ad esser “inebetiti dal caos”, “in bilico tra solennità e supercazzola”, “un rifugio dell’ignoranza”. Chiude alla grande con: “Il suo è un invito a ritrovare il senso del “cruciale”. Il mondo è complesso? A maggior ragione è necessario scegliere: modelli -di vita, di valori, di produzione-. Sapendo che decidere è inevitabilmente semplificare. […] L’alternativa, è vivere complessati.”. Bella la chiusura, maschia, decisa, pragmatica.
Viene così curiosità di andarsi a leggere questa intemerata della francese contro la complessità. Ma poiché di questi confusi tempi capire chi emette il discorso è la prima cosa da fare per capire come pensa chi poi ci dice cosa pensa, scopriamo che il suo piccolo saggio contro il pensiero della complessità è ospitato dal sito di un think tank “liberale, progressista, europeista” che ovviamente sono verità di natura, non ideologie.
Wikipedia, di questi signori, riferisce che: “Per quanto riguarda l’economia, la Fondazione auspica, […] una riduzione della tassazione, un rilancio delle privatizzazioni, una riduzione della spesa sanitaria e la non sostituzione un funzionario su due. Secondo la Fondazione, [… ] “lo Stato non ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze” e dovrebbe “rinunciare ad alcune aree di competenza” a vantaggio del settore privato”.
Agatha Christie, grande Maestra della logica abduttiva, diceva che due indizi sono una coincidenza per cui che il giornale liberale si esalti per un articolo sul sito di un think tank ultraliberale è, appunto, solo una coincidenza, al momento. Andiamo allora alle tesi.
Le tesi della francese sono varie e non riassumibili in un articolo breve. In parte sono quelle del virgolettato riportato da Il Foglio, impresa privata liberale che prende circa 1 milione di euro l’anno (2021) di sovvenzioni statali altrimenti sparirebbe dal mondo del visibile. Qualcuno l’ha chiamato, “il reddito di giornalanza”, utilissimo per tenere in piedi i megafoni contro il reddito di cittadinanza la cui negatività è lampante, non è certo un giudizio ideologico.
In pratica, la filosofa imputa al pensiero della complessità, il farla sempre più difficile del necessario, tanto da portare ad un tedioso smarrimento inattivo, irresponsabile, troppo intellettualizzato, paralizzante. Essendo filosofa conosce i trucchi del mestiere (Retorica, Aristotele) ad esempio la cattiva categorizzazione, quella della “complessità” per lei è una “ideologia” e sappiamo che ideologia è male, la Verità è il Bene, quale poi sia la Verità non conviene domandarselo.
Segnalo solo che nel riferire dell’archeologia dei concetti, su “ideologia” passa da Destutt de Tracy a Marx, dimenticandosi di Napoleone che diceva del pensiero del filosofo “ideologue” le stesse cose che lei imputa oggi al pensiero complesso. Ce l’ha anche con l’approccio complesso al problema climatico e guarda un po’, anche con l’IPCC e la COP27, ma non perché è negazionista sul fatto che c’è un problema, ma perché si perde troppo tempo a non fare le poche, chiare cose che andrebbero fatte, le cose “oggettive”. La Signora poi ha fatto di necessità virtù e visto che di sola filosofia non si campa, ha messo su una società di consulenza su “filosofia e branding”, marketing, comunicazione. Tra i suoi clienti Total. Immagino che lavorando con Total abbia appreso le giuste cose da fare sul problema climatico, cose semplici vivaddio!
Leggetevelo l’articolo, è davvero fantastico, sarebbe puro piacere rintuzzare argomento per argomento notando gli slittamenti logici e di inferenza, cioè in sostanza la voluminosa confusione che l’adepta delle idee “chiare e distinte” fa a proposito della cultura della complessità. Ma qui non abbiamo lo spazio sufficiente. Le conclusioni sono chiare, siamo in una epoca speciale: “Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono quindi di stabilire delle priorità, di scegliere le giuste battaglie, di porci obiettivi chiari e, per farlo, di porci le giuste domande. Cosa è in definitiva essenziale? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni primari? In quale direzione vogliamo andare?” Ecco le giuste domande! Sicura?
Vado per grandi sintesi, semplifico. Nel lungo Paleolitico, ci svegliavamo la mattina e ci domandavamo “oggi che si mangia?”, ci davamo da fare e più o meno davamo la risposta concreta agendo. Nel tardo Neolitico, quando arrivammo a vivere in 40.000 ad Uruk, non potevano farlo più perché non avremmo trovato da mangiare per così tanti coi vecchi metodi. Cominciammo così a prevedere i bisogni, coltivando ed allevando fonti di cibo. Ne nacque la civiltà e le società che i sociologi di ogni ordine, grado ed ideologia chiamano “società complesse”. Società complesse in un mondo ancora sostanzialmente abbastanza semplice in cui potevi sfruttare la natura a piacimento e massacrare i vicini fastidiosi che magari avevano fatto un colpo di stato locale e non ti volevano vendere più l’uranio per le tue centrali nucleari che, quelle sì, risolvono bene il problema climatico. Oggi non solo le società sono sempre più complesse, lo è diventato anche il mondo! Siamo 8 miliardi con 200 Stati e la natura non ci dà cinque Terre per vivere tutti come gli americani e gli europei e gli americani e gli europei non vogliono certo abbassare il loro tenore di vita per diventare compatibili. Anche perché la colpa di questo disequilibrio non è certo loro ma di quegli umani di seconda fascia che sono gli asiatici, gli africani ed i sudamericani che vogliono stare meglio facendo saltare il banco. Da cui numerosi problemi sul piano economico, finanziario, logistico, migratorio, culturale, sociale, politico ed in definitiva geopolitico.
Insomma, prima agivamo, poi prevedevamo ed agivamo di conseguenza, oggi dovremmo agire prevedendo non solo i nostri voleri e soddisfazione di questi bisogni ma i controeffetti di questo agire rispetto al mondo naturale abitato da 8, prossimi 10 miliardi di gente come noi, ora anche con le bombe atomiche e la tecnologia prima nostra esclusiva. Ciò porta a domandarci quali dovrebbero adattivamente essere le forme del nostro pensare stante che certo alla fine dobbiamo agire. Questa è la domanda giusta che la filosofa-consulente aziendale non ha fatto e non vuole che si faccia, lei come il think tank che ne ospita la requisitoria, pubblicizzata qui dal giornale ultra-liberale. Farsi questa domanda è ideologia!
Il pensiero moderno da Galileo e Descartes ad oggi ha avuto quattro secoli di sviluppo. Il pensiero della complessità è giovane, ha solo settanta anni (anche meno) è ancora in formazione, ampliamento, delucidazione. Il pensiero della complessità, tecnicamente parlando, è una onto-gnoseologia ma non vi impressionate sul termine oscuro, si tratta di pensare a come pensiamo per poi agire, il fine del pensiero umano è sempre agire, è definito tale da tre milioni di anni di evoluzione dell’umano, nessuno contesta questo. Noi non siamo l’Homo faber come continua a ripetere la signora e non pochi altri attardati al XIX secolo, secolo di potenti ideologie (liberali-marxiste etc.), siamo l’Homo cognitivus, che pensa prima di fare. Oggi è adattivamente l’epoca in cui dobbiamo pensare bene prima di agire e questo pensar bene non è pensare questo o quello, questo o quello verranno pensati e promossi dai loro portatori, come sempre è accaduto e sempre accadrà.
Pensare bene è pensare prevedendo nei limiti del possibile, gli effetti del nostro agire scelto dopo aver ben analizzato i fatti, i bisogni, le forme della vita associata ed il contesto. Per far questo, secondo il pensiero della complessità, aiuta l’inquadrare le cose, oggetti, fenomeni, come sistemi. Non perché ci piace, ma perché letteralmente “tutto” è descrivibile come tale, non ci sono eccezioni se non per entità metafisiche come le singolarità o Dio. Ogni oggetto del nostro pensare è scomponibile in parti che hanno interrelazioni tra loro, a volte non lineari, ogni sistema ha interrelazioni con altri sistemi e tutti stanno in un contesto su cui hanno influenza e da cui sono influiti e tutto ha una durata, sta nel tempo, in un certo tempo che è storia. Così per la cascata di portati gnoseologici che vanno dai feedback alle emergenze, dalla multi-inter-trans-disciplinarietà alla logica abduttiva e parecchio altro ancora da sistematizzare, almeno un po’ meglio di quanto non sia ad oggi possibile.
Per questo Morin ha chiamato il suo magnum opus Il Metodo (cito Morin ma non è detto aderisca sempre ed in toto al suo pensiero, come per altro non mi capita di far con qualsiasi altro pensatore da Aristotele a Kant a Marx, ho ambizioni di pensatore in proprio), per indicare che il luogo nativo del pensiero complesso non è l’ideologia ma il come le costruiamo, le giustifichiamo, le rendiamo utili a dirigere l’azione che rimane il fine di ogni pensiero umano che non sia dedicato -appunto- a pensare a come pensiamo che ne è la propedeutica.
Nel primo commento una piccola bio della simpatica filosofa, un piccolo quadretto de “Il mondo di Sofia”, dal quale si evince l’allineamento ideologico tra Il Foglio, il think tank, la signora in questione. Agatha Christie avrebbe abduttivamente detto che sì due indizi fanno una coincidenza, ma tre fanno una prova. La prova che tra questi scadenti ideologi liberali ed il pensiero della complessità c’è conflitto sul come pensiamo o forse solo, raccogliendo l’invito a semplificare, sul “se” pensiamo prima di agire. Domande che non vanno fatte.
Complessità. Critica di un’ideologia contemporanea

Il paradigma della complessità ha ormai invaso tutti i nostri discorsi e le nostre rappresentazioni della realtà. Nessuna situazione può sfuggire a questo presupposto: “è complessa”. Ma non c’è nulla di neutro in questo filtro applicato al mondo. Altera la nostra capacità di comprendere, prendere decisioni e agire, così come erode il nostro senso di responsabilità.

Questo articolo esplora le ramificazioni semantiche, i presupposti teorici e le conseguenze pratiche del modello del “pensiero complesso”, promosso in particolare dal sociologo Edgar Morin, come ideologia contemporanea.

Per uscire dall’impasse in cui questo nuovo pensiero unico ci sta intrappolando, vengono esplorate altre strade, tra cui quella che prevede la riscoperta del senso del “cruciale”.

Sophie Chassat,

filosofa, socia fondatrice di Wemean, dirigente d’azienda, membro del consiglio di sorveglianza della Fondation pour l’innovation politique.

Introduzione

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1

Note
1. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
2. Il libro di Edgar Morin Introduction à la pensée complexe, pubblicato nel 1990 e riedito da Seuil nel 2005, espone i principi fondamentali del pensiero complesso.
3. Si veda “La ‘post-vérité’, nouvelle grille de lecture du politique”, Letemps.ch, 18 novembre 2016.+.
4. “Nel 1972, il meteorologo Edward Lorenz tenne una conferenza all’American Association for the Advancement of Science intitolata “Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set off a Tornado in Texas?”. “Prevedibilità: il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?
5. Edgar Morin, La Méthode, Éditions du Seuil; i sei volumi de La Méthode sono stati pubblicati tra il 1977 e il 2006.
“Come tutti gli esseri viventi, le idee hanno sempre bisogno di essere rigenerate, ri-generate, per conservare la loro interezza e la loro vitalità1”. Edgar Morin ha ragione. Per mezzo secolo ha esortato le nostre società occidentali ad aprire gli occhi sulla complessità del mondo e ha visto questa idea diffondersi così efficacemente che il suo paradigma del “pensiero complesso “2 ha ormai preso il sopravvento su tutto.

La semantica che usiamo ogni giorno lo testimonia: nulla è diventato “sistemico”, “ibrido”, “globale”, “liquido” o addirittura “gassoso”, sia nel campo della politica che in quello dell’economia, della scienza o dei media, che tengono lo specchio dell’opinione pubblica. Ovunque si guardi, il mondo della volatilità, dell’incertezza, della complessità e dell’ambiguità (VUCA) è diventato il nostro orizzonte ultimo e definitivo.

Da idea fertile che ha permesso alle società umane di progredire nella comprensione di se stesse e del mondo circostante, la complessità si è gradualmente trasformata in ideologia. Ormai indiscutibile e indiscusso, il dogma della complessità è diventato il presupposto di tutti i nostri pensieri e azioni.

Se è stato utile per riflettere sul XX secolo – e in particolare per contrastare ideologie riduttive e distruttive – non è più lo strumento concettuale di cui abbiamo bisogno per agire nel XXI secolo. Questo perché, applicato a qualsiasi situazione, il dogma della complessità riduce la nostra comprensione, il nostro potenziale di azione e il nostro senso di responsabilità.

Innanzitutto, riduce la nostra comprensione, e quindi la nostra capacità decisionale, perché impone una rappresentazione barocca del mondo in cui tutto è ingarbugliato, incerto e intrinsecamente contraddittorio. Relegando la ricerca della verità a un approccio mutilante alla realtà, incoraggia il relativismo e accentua le carenze dell’era della post-verità3.

C’è poi la perdita dell’azione, perché quando tutto è complesso, come evitare il panico e la paralisi? Da dove cominciamo se, appena muoviamo un dito, possiamo scatenare una catastrofe all’altro capo del mondo, per “effetto farfalla “4? Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questa rappresentazione del problema.

“È complesso” diventa rapidamente una scusa per l’inazione. Se da un lato lo stato attuale del mondo ci chiede di impegnarci più che mai, dall’altro stiamo assistendo a un fenomeno di grande disimpegno, percepibile sia in ambito civile che aziendale. Il dogma della complessità, che si riferisce agli effetti sistemici, sta togliendo responsabilità agli individui: il mondo è così complesso, tutto è così sistemico, che “che senso ha” agire?

Tutti questi effetti perversi e deleteri sono in contrasto con lo spirito umanista del “metodo” originale di Edgar Morin 5. Oggi la complessità non è più un concetto liberatorio. È diventato un concetto inibitorio che deve essere superato.

Dobbiamo quindi mostrare i limiti del pensiero complesso e ricordarci le virtù della semplicità, persino della semplificazione. Ma il ritorno alla semplicità non può essere l’ultima parola nel nostro rapporto con il mondo contemporaneo. Stiamo entrando nell’era del “cruciale”, perché siamo a un “bivio”: abbiamo sfide da affrontare, battaglie da combattere, decisioni da prendere. È arrivato il momento di decidere.

I
Parte
Complessità: un’ideologia senza nome

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1
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Preso in prestito dal latino complexus (che significa ciò che è tessuto insieme), participio passato del verbo complectere (assemblare, abbracciare), il termine “complesso” caratterizza un tessuto fatto di elementi diversi e interconnessi.

Ma il tessuto ha finito per diventare una ragnatela, catturando tutti i nostri discorsi e le nostre pratiche – i nostri complessi, per usare la parola che è diventata un sostantivo in psicologia – fino a diventare l’unico orizzonte. La complessità, infatti, è ormai un luogo comune, il presupposto della maggior parte delle nostre rappresentazioni del mondo, o peggio: un dogma, un principio indiscusso e indiscutibile. Sostenuta da tutta una serie di nozioni che fanno sistema e si alimentano da sole per sostenere una visione del mondo proliferante, come un pensiero unico (l’ultima goccia per una dottrina della complessità), l’idea è diventata un’ideologia che non dice il suo nome.

1
L’inflazione semantica della complessità

Note
6. Alain Pérez, “Bienvenue dans un monde complexe”, Les Echos, 28 novembre 2002.
7. Éric Bertin, Olivier Gandrillon, Guillaume Beslon, Sebastian Grauwin, Pablo Jensen, Nicolas Schabanel, “Les complexités: point de vue d’un institut des systèmes complexes”, in Hermès, La Revue, 2011/2 (n° 60). La teorizzazione della complessità deve molto all’ambito militare, un’origine tutt’altro che neutrale. Rappresentare il mondo come un campo di battaglia è una rappresentazione possibile, ma – diciamolo – non insignificante.
8. Daniel Durand, La systémique, Que sais-je? 1979-2021.
9. Ferdinand de Saussure, 1931 (citato da Durand), ibid.
10. Pauline Verge, “Une étudiante obtient 18 à son mémoire sur ” la méta-complexité chez Emmanuel Macron ” “, Le Figaro Étudiant, 16 gennaio 2019.+.
11. Muriel Jasor, “Toujours plus de rencontres pour phosphorer entre leaders sur des sujets complexes”, Les Échos, 24 novembre 2022 +.
12. Mickaël Réault, “Devenir une entreprise vivante pour faire face à la complexité et l’incertitude”, Forbes.fr, 8 gennaio 2021.
13. IBM Global CEO Study, “Leveraging complexity”, 2010. Questo studio è la quarta pubblicazione della serie biennale “IBM Global CEO Study” condotta dall’IBM Institute for Business Value e da IBM Strategy & Change.+.
14. “Ad esempio, maggiore è la volatilità, più velocemente un sistema cambia e più complesso e imprevedibile può diventare rapidamente, e quindi… ambiguo. E viceversa, o il contrario”. (Benjamin Chaminade, “VUCA, Management de la Complexité”, benjaminchaminade.com, 1 febbraio 2021).
15. Nassim Taleb, Il cigno nero: The Power of the Unpredictable, Les Belles Lettres, 2012.
16. Si veda ad esempio Julia Posca, William Mansour, “Qu’est-ce que le racisme systémique?”, IRIS, 4 giugno 2020; Ariane Nicolas, “Racisme systémique : mais de quel ” système ” parle-t-on?”, Philosophie Magazine, 16 aprile 2021; Fabrice Dhume, “Du racisme institutionnel à la discrimination systémique. Reformuler l’approche critique”, Migrations Société, 2016/1 (n. 163), p. 33-46.+
17. Si veda ad esempio Camille Zimmermann, “Petit précis de culture du viol (et autres évidences troubles)”, Nouvel Obs, 22 dicembre 2017; Véronique Nahoum-Grappe, “Culture contemporaine du viol”, Communications, 2019/1 (n. 104); cfr. Jérôme Blanchet-Gravel, “L’invention de la culture du viol”, Causeur, 18 gennaio 2018.+
18. “Risque systémique”, La Finance pour tous, 27 novembre 2019.
19. Vedi sotto, Parte III, 3: “Le complexe à la source du désarroi climatique?”.
20. Dal “sostegno multiforme” per affrontare la “crisi multiforme” del mondo, della democrazia, dell’ospedale, del Sahel, ecc. alla “governance multiattoriale” nella sfera pubblica e privata, passando per le “valutazioni multi-fonte” e il riconoscimento delle “multi-potenzialità” nel mondo professionale.
21. Gabrielle Halpern, Tous centaures! Éloge de l’hybridation, Le Pommier, 2020.
22. Robert Maggiori, “Zygmunt Bauman, il avait vu la ‘société liquide’”, Libération, 11 gennaio 2017.+
23. Solenn de Royer, “Emmanuel Macron, président “liquide” au cœur d’une campagne fantôme”, Le Monde, 8 marzo 2022.+ 24.
“Benvenuti in un mondo complesso “6

La causa è chiara. Con la globalizzazione del mondo, la moltiplicazione esponenziale dei flussi di persone, merci e informazioni sotto l’effetto combinato della globalizzazione degli scambi economici e dell’accelerazione tecnologica, l’internazionalizzazione dello spazio politico, la responsabilizzazione dell’individuo rispetto alla collettività e la consapevolezza ambientale, le nostre società contemporanee sono entrate nell’era della “complessità”.

Promosso a partire dagli anni ’70 con l’affermarsi delle scienze della complessità negli Stati Uniti e poi in Europa, questo concetto deve molto alla teoria dei sistemi che si stava sviluppando da due decenni. Con l’avvento dei computer, oltreoceano nacquero discipline come la ricerca operativa, la teoria dei giochi e la cibernetica (la scienza della macchina sviluppata da Norbert Wiener), frutto di una nuova collaborazione tra fisici, matematici e ingegneri che, utilizzando la modellazione al computer, cercavano di ottimizzare l’efficacia delle operazioni militari7. La loro ricerca ha prodotto un nuovo strumento concettuale, in grado di aiutare a risolvere problemi complessi in una grande varietà di campi: dalla creazione di strumenti di guida per il fuoco aereo alla comprensione del funzionamento del cervello umano, dalla gestione di grandi organizzazioni industriali – i famosi “complessi industriali” – alla produzione dei primi computer su larga scala8. La nozione strutturalista di “sistema”, aggiornata dal biologo Ludwig von Bertalanffy, è arrivata a designare “un insieme organizzato, costituito da elementi interdipendenti che possono essere definiti in relazione gli uni agli altri solo in funzione della loro collocazione in questo insieme “9 e che, nelle parole di Edgar Morin, sono “reciprocamente interrelati”. Con Edgar Morin, la sociologia utilizza questo strumento per comprendere la società come un intreccio di sistemi multipli (sociali, culturali, economici, politici, ecc.).

Interazione, globalità, organizzazione e complessità diventano così i quattro concetti fondamentali di una nozione tentacolare che dalla visione meccanicistica dell’ingegneria e della fisica si sta gradualmente estendendo al mondo biologico e sociale.

Dallo sciame di storni agli alti e bassi della quotazione in borsa, dalle dipendenze umane alla vita di una cellula, dall’insorgere di un terremoto alla formazione di un ingorgo stradale, l’obiettivo è ora quello di studiare, all’interno del tessuto del mondo fenomenico, questi insiemi organizzati che sono “più della somma delle loro parti” e in cui le informazioni vengono costantemente scambiate, favorendo l’emergere di effetti che non erano prevedibili a priori. Gli organismi viventi, le società umane, le organizzazioni politiche ed economiche sono tutti “sistemi complessi” che sono diventati il fulcro della scienza contemporanea.

Inevitabilmente, più si moltiplicano gli elementi costitutivi e le interazioni di questi sistemi, più complessa appare la realtà di cui fanno parte. Da questo punto di vista, il nostro mondo non poteva che diventare più complesso man mano che diventava più connesso e, soprattutto, man mano che progredivamo nella sua comprensione, avendo più parametri da prendere in considerazione – e più informazioni a cui accedere – per capirlo sempre meglio. Il pregiudizio è inevitabile: più conosciamo il mondo, più sembra difficile da abbracciare. La complessità è il nostro orizzonte, ma si allontana sempre di più quando ci avviciniamo ad essa.

Il vocabolario del complesso ha quindi invaso la nostra retorica quotidiana per esprimere il nostro rapporto con questa realtà aumentata, per non dire satura di informazioni e connessioni. Questa inflazione semantica ha finito per svuotare il concetto del suo significato originario.

Il campo della politica è particolarmente colpito, situato all’incrocio tra geografia e cultura, economia e demografia, collettivo e individuale, universale e particolare, globale e locale, in un momento in cui le società diventano sempre più plurali e la struttura dello Stato-nazione è minacciata. Non c’è discorso politico che non deplori la complessità delle relazioni tra i livelli comunale, intercomunale, dipartimentale, regionale, nazionale, europeo e internazionale, la crescente complessità dell’azione diplomatica, le missioni dei nostri eserciti in tempi di guerra ibrida, la lotta al cambiamento climatico, le sfide di una politica sanitaria pubblica, la riforma delle pensioni, la gestione delle conseguenze di “#metoo”, per non parlare della complessità dell’amministrazione francese. Applicato a tutti i temi, il discorso di Emmanuel Macron ai prefetti del 15 settembre 2022 è caratteristico di questa invasione della complessità nel discorso politico contemporaneo: dal “tema delle politiche pubbliche per l’infanzia, che è così complesso perché spesso è stato diviso […] …] tra le autorità giudiziarie, i dipartimenti, le amministrazioni”, il Presidente francese passa a “queste grandi transizioni digitali, demografiche e climatiche” che “sono così complesse e così intrecciate che ci impongono di riunire attorno a un tavolo attori che finora hanno parlato separatamente”, Ha poi parlato di “un modello che accumula una serie di complessità e protezioni che pongono la Francia molto indietro rispetto ai suoi vicini”, prima di affrontare “la complessità” dei casi nelle mani dei tribunali, “la complessità amministrativa che abbiamo”, e infine il sistema sanitario “che è diventato troppo ingombrante e complesso per elaborare risposte standardizzate a livello nazionale”. Non sorprende che nel 2019 una studentessa dell’Università Paris Descartes abbia dedicato la sua tesi di laurea in semiologia e comunicazione a “La méta-complexité chez Emmanuel Macron: une forme de vie partagée entre la complexité, la dualité et la neutralité “10 (La metacomplessità in Emmanuel Macron: una forma di vita divisa tra complessità, dualità e neutralità).

Si pensi anche all’appetito con cui il mondo imprenditoriale ha moltiplicato negli ultimi anni “gli incontri per i leader per un brainstorming su questioni complesse”, rispondendo a “un bisogno crescente, in un mondo turbolento e imprevedibile come il nostro, di cogliere l’opportunità di riflettere insieme sui temi di attualità più spinosi “11 . Oppure l’interesse mostrato dalle aziende per la “gestione della complessità”, che è l’unico modo per sopravvivere e svilupparsi nel bel mezzo di un XXI secolo “ricco di sfide e segnato da una crescente incertezza”, un mondo “impegnato in un movimento complesso e in perenne accelerazione “12 .

Nel mondo degli affari, la complessità è diventata l’assioma di tutti i discorsi, che si tratti di innovazione, risorse umane, metodi organizzativi o dell’azienda stessa. Uno studio dell’IBM Institute for Business Value e dell’IBM Strategy & Change13 , che afferma di basarsi su interviste a più di 1.500 manager in tutto il mondo, riflette chiaramente questa vampirizzazione del mondo economico da parte del pensiero complesso. È ormai assodato che ci stiamo evolvendo in “un sistema globale di sistemi” (Samuel J. Palmisano, Presidente e CEO di IBM Corporation), che i leader devono ora affrontare “un mondo [non] lineare” (Julian Segal, Presidente e CEO di Caltex Australia Limited) e che la complessità è “un catalizzatore e un acceleratore dell’innovazione” (Juan Ramon Alaix, Presidente di Pfizer Animal Health).

Infine, la complessità è diventata mainstream, il termine è ormai utilizzato da tutti per riferirsi potenzialmente a qualsiasi argomento. Il discorso dei media ne è un chiaro riflesso. Così, quando alcuni minacciano, durante uno sciopero nel settore energetico, che “se i datori di lavoro non daranno soddisfazione, l’inverno sarà molto complesso”, altri evocano il “complesso smistamento dei bagagli” all’aeroporto di Roissy, altri ancora “un complesso dibattito” alla corte d’assise “sul movente di una donna accusata di omicidio coniugale”, un incendio “fuori dall’ordinario per la sua velocità, scala e complessità”, quando non si tratta della “complessità della formazione del PSG”. Le grandi notizie non vengono tralasciate: dopo la pandemia di Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina ha fornito ai media abbastanza “elementi di complessità” da alimentare le notizie senza sosta: Tra questi, la “complessità di ciò che accade nella testa di Vladimir Putin”, la “complessa costruzione dell’identità ucraina”, i negoziati “più complessi che mai” sotto la minaccia di una terza guerra mondiale nucleare, la “complessità del fenomeno della disinformazione” e una crisi energetica che sta provocando uno “shock di portata e complessità senza precedenti”. Non si tratta di negare le difficoltà che dobbiamo affrontare in queste situazioni, ma di mettere in discussione l’uso costante del vocabolario della complessità per descriverle. Insistendo sulla complessità di un evento, dimentichiamo la brutale semplicità dei rapporti di forza e il posto di questi eventi nella lunga storia dell’umanità: le invasioni del passato erano meno complesse di quelle di oggi?

Le parole della complessità in rete

In un mondo in cui la complessità è diventata non solo un luogo comune, ma l’unico modo di rappresentare i fenomeni, tutta una serie di parole si riferiscono ad essa, chiamandosi per nome e diventando alla fine intercambiabili – il che può anche essere visto come un sintomo della nostra crescente pigrizia intellettuale, che ci porta a esprimerci sempre più in parole chiave e nuvole di parole.

Il solo acronimo VUCA è un sistema. Introdotto dalle forze armate statunitensi negli anni ’90 per descrivere il mondo post-sovietico, dove il multilateralismo aveva sostituito la binarietà della Guerra Fredda, VUCA è diventato, a partire dagli anni 2000, un termine pronto per le organizzazioni che cercavano di descrivere il “nuovo ambiente” in cui dovevano operare. Un ambiente descritto dalla “volatilità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità”, derivante dalla proliferazione di leggi e norme, fonti di informazione e stakeholder che devono essere presi in considerazione; e infine dall'”ambiguità”, dovuta all’accumulo di informazioni contraddittorie e alla confusione di ruoli e responsabilità in organizzazioni sempre più interfunzionali. La rete semantica del VUCA ha invaso soprattutto le aziende.

Nel nuovo mondo VUCA, i concetti sono interconnessi e interdipendenti: “se cambia un elemento, cambiano anche tutti gli altri “14 . Dopo la crisi finanziaria del 2008, lo shock della Brexit nel 2016 e prima dell’invasione dell’Ucraina, la pandemia Covid-19 ha rafforzato i fan di questo acronimo che è diventato una bussola (ma che bussola è quando non c’è più un polo stabile?) in un mondo circondato dall’imprevedibile. Dal VUCA è facile passare alla metafora del “cigno nero”, coniata dal saggista Nassim Taleb15 per indicare un evento catastrofico quasi statisticamente impossibile, ma che si verifica lo stesso. Un “cigno nero” ha tre caratteristiche: non era previsto, le sue conseguenze sono importanti ed è possibile spiegare perché si è verificato dopo l’evento. L’ascesa di Internet, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la crisi economica del 2008 sono stati i grandi “cigni neri” dell’era moderna, prima che arrivasse Covid-19 a spodestarli.

Poco lontano, l’aggettivo “sistemico” viene usato per descrivere una realtà che non può essere compresa senza inserirla in un sistema globale: tutto è collegato, nulla può essere pensato in modo isolato. Dire “è sistemico” per trasmettere l’idea che non possiamo semplicemente afferrare qualcosa perché tutto è collegato ben oltre quello che immaginiamo, è diventato un tic linguistico. La cultura di un’organizzazione? “È sistemica”. Il cambiamento climatico? “È sistemico”. Discriminazione e razzismo? “È sistemico “16. Cultura dello stupro? “È sistemica “17. Il conflitto russo-ucraino? “È sistemico”. Il termine “rischio sistemico” viene utilizzato anche per indicare il “rischio che un particolare evento provochi una reazione a catena” con notevoli effetti negativi sul sistema nel suo complesso, portando potenzialmente a una crisi generale del suo funzionamento18. Questo rischio, che è insito nel sistema bancario e finanziario “a causa delle interrelazioni” che esistono tra le varie istituzioni e i mercati di questo settore, viene prontamente evocato anche di fronte alla “minaccia cibernetica” e al “pericolo climatico”, e ora all’inflazione, che “alimenta il rischio di una crisi sistemica dell’economia”. Alcuni prevedono addirittura che questa “nuova fase della crisi del capitalismo” sarà “totale e multidimensionale”, portando a una “crisi di civiltà”. Senza parlare della Cina, ufficialmente indicata dagli Stati Uniti e dall’Europa come “rivale sistemico”. In realtà, il prestito dalla “teoria generale dei sistemi” di von Bertalanffy è molto più ampio: l'”approccio sistemico” (e i suoi satelliti semantici come la “causalità circolare”, il “loop di amplificazione” e la “riflessione sistemica”) è diventato un totem in molti campi, dalla psicologia, che sta incorporando sempre più spesso i “terapeuti dei sistemi”, alle politiche pubbliche, che trovano in questo approccio un aiuto per “comprendere la complessità della loro valutazione”.

“Sistemico” chiama “olistico” (dal greco holos, che significa il tutto): molto popolare nelle scienze umane e in alcuni consulenti, l'”approccio olistico”, che consiste nel prendere in considerazione “tutto”, è favorito anche per affrontare le questioni ambientali19.

Un altro concetto centrale del pensiero complesso è la “rete”, con la sua serie di nodi interconnessi da percorsi di comunicazione e la sua capacità di interconnettersi con altre reti o di contenere sottoreti, e tutte le potenziali interazioni che ne derivano. I composti del prefisso “multi-” non sono mai lontani20 , così come quelli del prefisso “co-” (dal latino cum: “con”, “insieme”), che è emerso come un faro di speranza in questo mondo di complessità dove l’individuo può cavarsela solo attraverso la collaborazione, la cooperazione, la co-creazione, il codesign, le coalizioni e l’intelligenza collettiva.

“Trasversale” è un’altra parola per indicare la complessità, che tocca la sua dimensione “interdisciplinare”, con l’insegnamento trasversale e i team interdisciplinari nelle aziende. Dopo la crisi sanitaria, tuttavia, “trasversale” è stato detronizzato da “ibrido” – ciò che è misto, contraddittorio, eterogeneo – che è diventato il concetto centrale del “mondo prossimo”: un mondo in cui siamo tutti “centauri “21 , e in cui la flessibilità è diventata la virtù essenziale. Poiché abbiamo deciso che l’ultima parola della realtà è la complessità, possiamo minare le fondamenta su cui sono state costruite le nostre pratiche, culture e organizzazioni. Insensibilmente, ci immergiamo nella “società liquida” teorizzata negli anni Novanta da Zygmunt Bauman per caratterizzare la modernità, dove “le situazioni in cui le persone si trovano e agiscono cambiano prima ancora che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in procedure e abitudini “22 . Dopo l’era solida dei produttori, l’era liquida dei consumatori ha reso la vita stessa più fluida, trasformandola in una vita frenetica, incerta, “mutevole e caleidoscopica”. Dopo la “società ibrida”, era naturale che la società diventasse “liquida”, prima che il mondo politico e mediatico si impadronisse del concetto nel 2022 per deplorare la spoliticizzazione del dibattito in Francia attraverso “Emmanuel Macron, il presidente ‘liquido’ al centro di una campagna elettorale fantasma “23 . Jean-Luc Mélenchon non ha esitato a compiere questo passo, definendo il suo movimento come La France Insoumise (LFI). Secondo il leader di LFI, il suo partito è un movimento “né verticale né orizzontale” ma “gassoso”, con punti che “si collegano trasversalmente” e la sperimentazione di “nuove forme organizzative”.

Infine, “gassoso” è inseparabile dal pensiero complesso reinterpretato dai teorici del management, che nell’arte della pianificazione distinguono, ad esempio, tra attività “solide” (ripetitive e non sorprendenti), attività “liquide” (note e integrabili in una pianificazione flessibile) e attività “gassose” (imprevedibili e quindi non pianificabili). Ciò non sorprende, dato che la parola “gas”, che si riferisce allo stato fisico della materia in cui le molecole sono poco legate e animate da movimenti disordinati, è un termine coniato dalla parola greca e poi latina per caos.

2
Dal metodo all’ideologia

Note
24. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
25. Ibidem, vol. 6, Etica.
26. Si veda la definizione del CNRTL; si veda anche Louis Althusser, Pour Marx, 1965: “Un’ideologia è un sistema (con una sua logica e un suo rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, a seconda dei casi) dotato di un’esistenza e di un ruolo storico all’interno di una determinata società”.
27. Si veda l’articolo di Wikipedia “Ideologia”; si veda anche la lettera di Friedrich Engels a F. Mehring, del 14 luglio 1893: “L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio consapevolmente, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo mettono in moto gli restano sconosciute, altrimenti non sarebbe un processo ideologico “+.
28. Louis Althusser, op. cit. L’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che la sua funzione pratico-sociale prevale sulla sua funzione teorica (o di conoscenza) “+.
29. Il “nuovo paradigma” della complessità si basa quindi su una regola fondamentale: “Distinguere senza disgiungere e associare senza identificare o ridurre” (Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.).+.
30. Carl Mennicke, assistente sociale tedesco, citato nel Philosophisches Wörterbuch di Heinrich Schmidt e Justus Streller, 1951.
31. Si veda più avanti, Parte II, 2, lo sviluppo sulla complessificazione delle norme.
32. Definizione del termine “ideologia” da parte del CNRTL.
33. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
34. Espressione del filosofo Étienne Balibar: un “significante pratico” designa un involucro verbale privo di contenuto (senza significato corrispondente) che è molto pratico utilizzare quando si parla per non dire nulla.
35. Réda Benkirane, La complexité, vertiges et promesses, Le Pommier, 2002.
Le deviazioni del “metodo Morin

Quando negli anni ’70 Edgar Morin iniziò a promuovere il “pensiero complesso” in Francia, fu soprattutto per la frammentazione delle conoscenze scientifiche e per la necessità di collegare diversi livelli di analisi e discipline per affrontare in modo più efficace i problemi umani contemporanei. Per il filosofo e sociologo, la nozione di complessità aveva una funzione strategica: doveva “scuotere” una certa “pigrizia mentale”.

Si trattava innanzitutto di una questione di “metodo” (titolo dato da Morin all’opera in più volumi che dedicò all’argomento24 ): l’obiettivo era quello di sostituire l’approccio mirato, analitico, quantitativo e assoluto della scienza moderna con una comprensione globale, olistica, qualitativa ed evolutiva, facendo tesoro degli insegnamenti dell’approccio quantistico, tenendo conto del posto dell’osservatore nell’osservazione e integrando l’incertezza, l’irrazionale e la contraddizione. In questo modo, Morin ha cercato di riabilitare una cultura scientifica umanista, aperta a un approccio interdisciplinare, contro un certo dogmatismo scientista che aveva chiuso gli occhi sulla “multidimensionalità” e sull’irriducibilità degli esseri e delle cose alla pura razionalità.

Ma l’approccio complesso che egli ha contribuito a diffondere ha finito per confondere il mezzo con il fine: a forza di brandire questo pensiero demistificante come un modo per decompartimentare e arricchire la conoscenza del mondo, il pensiero complesso è diventato l’unica porta d’accesso ad esso. Non si tratta di negare l’esistenza dei sistemi complessi, ma di mettere in discussione la tendenza a farne il filtro sistematico di interpretazione della realtà, l’alfa e l’omega del nostro rapporto con il mondo. Ma è proprio questo che è successo: la complessità è diventata l’unica lente attraverso cui guardare tutto ciò che ci circonda.

Il problema è che la complessità, da strumento critico e idea fertile, è diventata un’ideologia, un sistema di credenze condivise che non viene più messo in discussione, che ha le caratteristiche di una falsa scienza e che funge da autorità legittimante per un certo tipo di potere.

Un sistema di pensiero con le tre caratteristiche dell’ideologia

Secondo le parole di Edgar Morin, ogni pensiero deve essere capace di autocritica25. Ma se dobbiamo offrire una critica al “pensiero complesso”, il concetto che ci viene in mente per primo è quello di “ideologia”.

L’ideologia è infatti un sistema di rappresentazioni “specifico di un’epoca, di una società “26 . Si tratta quindi di un insieme di credenze storicamente situato, che diventa dominante nel momento in cui è diffuso e onnipresente, “ma generalmente invisibile alla persona che lo condivide, per il fatto stesso che questa ideologia costituisce la base del modo di vedere il mondo “27 . L’inflazione semantica della complessità nella nostra retorica contemporanea e il modo in cui è diventata un presupposto – e quindi un impensato – del nostro pensiero, la collocano chiaramente in questa categoria.

Coniato da Destutt de Tracy nel 1796 per proporre una scienza delle idee, il termine ideologia perse rapidamente il suo significato originario quando Marx lo utilizzò nel XIX secolo per denunciare un sistema di credenze contrario alla scienza28. Edgar Morin può presentare il suo “paradigma della complessità” come una “scienza nuova”, ma ciò che abbiamo qui è più simile a una “pseudoscienza”, nel senso dato ad essa dall’epistemologo Karl Popper: una conoscenza derivata da un approccio speculativo piuttosto che da un approccio scientifico, che deve basarsi su teorie che possono essere confutate: questo è il criterio di “falsificabilità” della scienza. Secondo questo criterio, deve essere possibile immaginare esperimenti o dispositivi che possano mettere in discussione una teoria. Con le “pseudoscienze”, questo è impossibile perché ogni contraddizione è incorporata nel sistema. Per Popper, la psicoanalisi freudiana e il marxismo sono entrambe false scienze, poiché ogni obiezione alla prima deriva dalla “resistenza dell’inconscio” (dato che l’inconscio non può mai essere dimostrato come falso) e alla seconda dall'”interesse di classe” (poiché ogni attacco è situato e quindi parziale). Con il suo “principio dialogico”, che “permette di mantenere la dualità all’interno dell’unità” associando “due termini che sono allo stesso tempo complementari e antagonisti” (come ordine e disordine) “senza cercare di cancellare le contraddizioni “29 , il sistema complesso è inconfutabile: incorpora tutte le obiezioni che gli si possono muovere e ne esce rafforzato. Se si oppone all’idea di semplicità, può sostenere che la complessità include la semplicità perché abbraccia tutto. Il sistema di pensiero è diventato sistematico.

Infine, nella critica marxista, l’ideologia assume il significato di una mistificazione voluta dalla classe dominante per garantire la conservazione del potere, promuovendo più o meno consapevolmente false credenze: è “l’espressione intellettuale storicamente determinata di una situazione di interessi “30 . In altre parole, è uno strumento per legittimare un ordine sociale esistente. Nel caso dell’ideologia della complessità, potrebbe trattarsi di mantenere il monopolio sulla direzione dell’azione (o dell’inazione) collettiva, limitando l’autonomia individuale. Certo, nessuno lo vuole veramente, ma possiamo solo osservare che le soluzioni di “complessificazione” che rispondono all’osservazione di situazioni cosiddette “complesse” finiscono per confiscare la possibilità di qualsiasi iniziativa individuale a favore di una forma di potere tecnico ed esperto anonimo31. Mentre doveva essere una leva di movimento e di apertura, il pensiero complesso che è diventato il nostro unico orizzonte appare così come l’emanazione di un vecchio mondo che non vuole cambiare e cerca scuse per mantenere lo status quo.

Le falle del sistema

In un’accezione più comune, l’ideologia è una “teoria vaga e nebulosa, basata su idee vuote e astratte, senza alcun rapporto con i fatti reali “32 . Alcune delle falle del sistema di Edgar Morin mostrano le stesse falle del pensiero che è importante individuare per non farsi ingannare dall’illusione del dogma. A forza di accogliere la “vaghezza, l’incertezza, l’ambiguità” e la “contraddizione”, in contrapposizione alla “semplificazione del pensiero”, che doveva essere “superiore in rigore” fino a diventare “rigido e quindi inferiore “33 , il pensiero complesso si nutre in definitiva di confusione e di scorciatoie. Si può quindi sottolineare la sua pretesa di abbracciare tutti gli aspetti della realtà e della conoscenza, di farne una griglia di lettura applicabile a tutto. Ma, come dice il proverbio, chi abbraccia troppo poco abbraccia troppo. A forza di invocare tutti i punti di vista, di gettare ponti tra fenomeni di ordine molto diverso, per non dire sproporzionato, di voler essere utile tanto alla matematica, alla termodinamica, alla biologia e all’informatica quanto all’ecologia, alla sociologia, all’economia, al management e alla politica, il pensiero complesso porta alla dispersione, alla confusione e all’approssimazione di tutto.

Che cosa diciamo esattamente quando descriviamo una situazione come “complessa”? Non è forse un “significante pratico “34 che ci permette di dare un nome alla nostra incomprensione e impotenza? Michel Serres ha descritto la complessità come un “falso concetto filosofico “35 , così vasto e onnicomprensivo che i suoi contorni diventano sfocati e mal definiti.

Il fallimento delle “scienze della complessità” nell’affermarsi come nuova disciplina
“Sebbene l’influenza culturale della complessità sia innegabile, la generalizzazione di un idioma o di un insieme di metafore come “sistemi adattivi complessi”, “reti”, “margine del caos”, “punto di ribaltamento”, “emergenza”, ecc. non implica che ci troviamo di fronte a un campo scientifico in senso bourdieusiano. Ricordiamo che se “la funzione centrale dell’istituzionalizzazione della comunità disciplinare consiste nel preservare la permanenza dell’attività disciplinare attraverso la riproduzione del suo potenziale”, allora le Scienze della complessità non possono essere considerate una disciplina. Gruppi dedicati allo studio dei sistemi complessi sono molto comuni nelle facoltà di fisica e matematica di tutto il mondo – un po’ meno nelle scienze della vita e nelle scienze cognitive. Ma sono pochissimi gli istituti e i corsi di laurea, le scuole estive, i master e i dottorati che rientrano esplicitamente e principalmente in questa etichetta”.

Estratto da Fabrizio Li Vigni, Histoire et sociologie des sciences de la complexité, Éditions matériologiques, 2022.

Note
36. Jean Zin, “La complexité et son idéologie”, 1 maggio 2003: “Sebbene esistano delle analogie tra organismi e organizzazioni, le società umane non possono essere identificate con un corpo biologico”.
37. Edgar Morin, relazione presentata al Congresso internazionale “Quale università per domani? Verso un’evoluzione transdisciplinare dell’Università” (Locarno, Svizzera, 30 aprile – 2 maggio 1997); testo pubblicato in Motivation, n. 24, 1997.
Molto si potrebbe dire anche sul modo in cui i promotori della complessità hanno sistematizzato la sistemica, estendendo la visione meccanicistica della cibernetica al mondo vivente e poi al mondo sociale. Non c’è nulla di neutro in questo sviluppo. La “teoria generale dei sistemi”, formulata da von Bertalanffy, che vedeva sistemi nella maggior parte degli oggetti della fisica, dell’astronomia, della biologia e della sociologia (atomi, molecole, cellule, organismi, società, stelle, ecc. ), ha aperto la porta a numerose confusioni tra ciò che, nei sistemi cosiddetti “complessi”, rientra nella matematica (incompletezza, sequenze casuali), nella fisica e nella comprensione del caos (sensibilità alle condizioni iniziali, frattali, probabilità, salti quantici, ecc.), nella biologia e riguarda gli organismi (anelli di regolazione, reazioni condizionate, scambi di informazioni), e infine nella complessità umana (che “non deve essere ridotta al biologismo “36).

Promosso da Edgar Morin, il “principio ologrammatico” è ad esempio fuorviante, in quanto suggerisce che ogni parte contenga l’intero mondo e che vi siano corrispondenze tra tutti i piani della realtà: “[…] in un sistema, in un mondo complesso, non solo una parte si trova nel tutto (ad esempio, noi esseri umani siamo nel cosmo), ma il tutto si trova nella parte. Non solo l’individuo è all’interno di una società, ma la società è dentro di lui, poiché fin dalla nascita gli ha inculcato lingua, cultura, divieti e norme; ma ha anche dentro di sé le particelle che si sono formate all’origine del nostro universo, gli atomi di carbonio che si sono formati nei soli precedenti al nostro, le macromolecole che si sono formate prima che nascesse la vita. Abbiamo in noi i regni minerale, vegetale e animale, i vertebrati, i mammiferi, ecc.37 In realtà, tutto sarebbe come un ologramma in cui ogni punto dell’immagine comprende l’intera immagine. Tuttavia, mentre si può sostenere che ogni parte contiene tutte le informazioni nel caso delle cellule del corpo che condividono lo stesso DNA (il che rende teoricamente possibile ricostruire un corpo a partire da una qualsiasi delle sue cellule, come si cerca di fare con la clonazione), gli individui che compongono una popolazione non condividono le stesse informazioni o la stessa capacità di sfruttarle. Mettere insieme discipline diverse (biologia e sociologia, per esempio) è eticamente problematico. E questo non è l’unico effetto perverso dell’ideologia della complessità.

II
Parte
Gli effetti perversi dell’ideologia della complessità

https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-2
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Pretendendo di non toglierci nulla, la complessità eretta a sistema finisce paradossalmente per sminuire tutto, a partire da noi stessi. Forse non è altro che una rappresentazione del mondo, ma precludendo il nostro rapporto con la realtà, ci blocca in convinzioni limitanti che influenzano le nostre decisioni, le nostre azioni e il nostro senso di responsabilità. Alla fine, la complessità ci dà così tanti complessi che la comoda formula “è complesso” diventa la giustificazione di molti dei nostri errori contemporanei.

1
La complessità, il rifugio dell’ignoranza

Note
38. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
39. Ibidem.
40 Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit.
41. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
42. Ibidem: “Viviamo sotto l’impero dei principi di disgiunzione, riduzione e astrazione, che insieme costituiscono quello che io chiamo il “paradigma della semplificazione”. Cartesio ha formulato questo paradigma, maestro dell’Occidente, disgiungendo il soggetto pensante (ego cogitans) e la cosa estesa (res extensa), cioè la filosofia e la scienza, e ponendo come principio di verità le idee “chiare e distinte”, cioè il pensiero disgiuntivo stesso.
43. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
44. Per tutto il pensiero filosofico classico del XVII secolo, si trattava di sostituire le idee “oscure e confuse” con idee “chiare e distinte”: una duplice sfida di verità e libertà per la mente umana.
45. “Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere”: è la prima frase della Metafisica di Aristotele.
46. Così David Hume, che metteva in dubbio l’esistenza oggettiva della causalità, ne fa tuttavia una tendenza innata dell’immaginazione: non possiamo non dedurre legami causali tra impressioni che si susseguono in modo congiunto e costante. Creare nessi causali è un “bisogno” naturale della mente umana.+
47. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
48. Frédéric Dupin, “Descartes et la morale de la certitude”, Le Philosophoire, 2009/2 (n. 32).
49. Alain Berthoz, La Simplexité, Odile Jacob, 2009.
Un vettore di caos mentale

Il pensiero complesso che avrebbe dovuto arricchire la nostra visione del mondo sta finendo per portare a una perdita di comprensione, imponendo una rappresentazione barocca della realtà in cui tutto è interconnesso e ingarbugliato: dove non solo la parte è nel tutto come il tutto nella parte, ma “il tutto è sia più che meno della somma delle sue parti “38 , secondo il “principio ologrammatico”; dove le cause di un evento sono indeterminabili e soggette agli effetti di retroazione delle loro stesse conseguenze, secondo il “principio di causalità circolare”; dove “non esiste più un’alternativa inesorabile tra entità antinomiche” e dove si può dire qualsiasi cosa e il suo contrario senza dover prendere una decisione, secondo il “principio dialogico”; dove nulla può essere spiegato o qualificato in ultima analisi, secondo il “principio di irriducibilità “39 . In questo caos mentale, in questo “pensiero a loop” come lo descrive lo stesso Edgar Morin40 , in questo abisso nell’abisso indefinito, alla fine non si riesce a sentire granché.

Inevitabilmente, quindi, il complesso diventa complicato, con grande disappunto dei teorici e degli operatori della complessità che insistono nel distinguere i due termini sulla base di una differenza di natura e non solo di grado. La complessità sarebbe quindi la caratteristica essenziale di una realtà irriducibile alla semplificazione, mentre il complicato sarebbe dell’ordine dei nodi del cervello. Ma dissociando sistematicamente le due nozioni, dimentichiamo di interrogare il complesso. È come se fosse assolto in anticipo da ogni male. La complessità è un presupposto totemico: è impossibile da criticare. Eppure ci sembra che complichi molte cose…

La rinuncia alle “idee chiare e distinte

Come scrive lo stesso Edgar Morin, senza le operazioni di distinzione compiute dall’intelligenza, “la complessità si presenta con le caratteristiche inquietanti del disordine, dell’inestricabilità, del disordine, dell’ambiguità e dell’incertezza “41 . A forza di denunciare la naturale tendenza della comprensione umana a scomporre, analizzare, selezionare e classificare per comprendere meglio il mondo e acquisire i mezzi per influenzarlo, a forza di demonizzare “il paradigma della semplificazione “42 come un approccio “mutilante” alla realtà e persino “la specifica barbarie della nostra civiltà “43 , l’ideologia della complessità ha propagato tra i nostri contemporanei la sfiducia nel semplice, nel chiaro e nell’inequivocabile. Fino al punto di lasciarci disorientati.

Basti pensare alla violenza degli attacchi dei sostenitori del pensiero complesso contro Aristotele e la sua logica, e contro Cartesio e il suo metodo analitico, i “colpevoli” artefici della tradizione razionalista su cui è stata costruita la scienza occidentale. Edgar Morin può anche ripetere che bisogna “distinguere e collegare”, ma la chiarezza che scaccia “l’oscuro e il confuso “44 è diventata sospetta. Favorire le “idee chiare e distinte”, facendone una garanzia di verità, è diventato un crimine di lèse-réalité. Perché l’ex-plication (l’esatto contrario del pensiero complesso – explicare significa dispiegare, togliere le pieghe, rendere chiaro) è una mutilazione inflitta alla realtà, un’intollerabile operazione di riduzione. La vaghezza, l’approssimazione, la contraddizione e l’interpretazione sono preferibili al rischio di un punto fermo.

Ossessionati dalla disgiunzione di Cartesio tra mente e corpo, che descrivono come una “dicotomia schizofrenica”, i pensatori della complessità non danno più credito al metodo dell’inventore della filosofia e della scienza moderne: privilegiando la distinzione concettuale e l’elaborazione del pensiero a partire da idee chiare e distinte, il metodo di Cartesio ha probabilmente ancora molto da offrirci. Ma il pensiero complesso non la vede così. Al contrario, ha stilato un’intera lista di divieti: divieto di analisi (ridurre il complesso al semplice); divieto di verità (definita come oggettiva e assoluta); divieto di causalità lineare (attribuire una causa a un effetto); divieto di universale (e di universalismo); divieto di gerarchia di opinioni e valori (perché ora tutto è uguale).

Ad esempio, al principio esplicativo della causalità lineare (che lega una causa a un effetto), dobbiamo ora preferire sistematicamente il “principio di ricorsione” (detto anche “causalità circolare”, “retroazione” o feed-back): poiché l’effetto agisce anche sulla causa, ogni causa è anche una conseguenza, il che rende impossibile definire con precisione il ruolo di A su B o di B su A. Il risultato è l'”equifinalità”: più cause possono produrre lo stesso effetto, rendendo impossibile sapere quali effetti derivano da quali cause. È come se la causalità classica fosse diventata stravagante, dato che i sistemi complessi, con le loro causalità circolari e i fenomeni ricorsivi e ingarbugliati che li rendono ampiamente instabili, imprevedibili e quindi difficilmente controllabili, hanno preso il sopravvento sulla nostra rappresentazione del mondo come un’irruzione e un nesso di crisi permanenti. Ma a forza di sottolineare l’impossibilità pratica della minima determinazione, non stiamo forse mantenendo la pericolosa illusione di un mondo senza possibili spiegazioni? Ma comprendere45 e collegare un effetto a una causa46 sono tendenze innate della mente umana. Opporsi a queste tendenze rende il nostro pensiero fuori controllo e genera confusione.

Ma è proprio questo il risultato che il paradigma della complessità pretende di ottenere. Non si tratta più di soddisfare il nostro desiderio di capire o di assegnare. Poiché “il pensiero complesso aspira a una conoscenza multidimensionale”, sa fin dall’inizio “che una conoscenza completa è impossibile” e che l’incertezza sarà sempre la sua sorte47. Ma non è forse salutare tenere presente che “la certezza va conquistata da chi vuole capire, [che] non è ciò che abbiamo, ma ciò che desideriamo, non ciò che siamo, ma ciò che dobbiamo essere”? Esiste quindi una “morale della certezza “48 che è pericoloso dimenticare.

Il terreno di coltura e la legittimazione delle “post-verità”.

L’ideologia della complessità finisce per incoraggiare lo scetticismo, l’equivalenza delle opinioni e il relativismo epistemologico, culturale e morale – tutti i difetti dell’era della “post-verità” che ha contribuito a creare. In un mondo complesso, tutto finisce per essere uguale: certezza e incertezza, conoscenza e opinione, razionale e irrazionale. L’assiologia (l’idea che esista un discorso o una razionalità dei valori) non è più rilevante e nemmeno le gerarchie tra di essi. Di conseguenza, l’individuo contemporaneo è “come Teseo smarrito in un labirinto, senza il filo di Arianna che lo aiuti a ritrovare la strada”: “può allora tornare alle antiche credenze e cadere nell’oscurantismo49 “.

2
La complessità, un pretesto per l’inazione

Note
50. Secondo il “principio di irriducibilità”, ibidem.
51. Il concetto di “effetto farfalla” deriva dalla ricerca meteorologica, in particolare dal lavoro di Edward Lorenz, che “si rese conto che per condizioni iniziali quasi identiche, le previsioni del computer sul tempo (temperatura, ecc.) divergevano notevolmente” (John Gribbin, Chaos, Complexity and the Emergence of Life, Flammarion, 2010). Questa immagine è entrata nel discorso popolare suggerendo che il nulla può creare il tutto. Ma quale nulla? Per quale tutto? Non lo sappiamo. Quindi è meglio non muoversi affatto.+
52. Fabien de Geuser, Michel Fiol, “Le contrôle de gestion entre une dérangeante complexité et une indispensable simplification”, Normes et Mondialisation, maggio 2004.
53. “Naturalmente prenderemo una decisione quando avremo preso in considerazione tutti i 5.243 fattori”. Didascalia di una vignetta che illustra un articolo sul fenomeno della “paralisi da analisi”.
54. Si veda, ad esempio, la “Proposta di risoluzione per rendere la responsabilità sociale e ambientale un asset delle imprese” presentata dai senatori il 3 gennaio 2023, che si basa sulla constatazione di uno “shock di complessità” legato ai nuovi standard di rendicontazione della direttiva europea CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
55. Catherine Thibierge et alii, La Densification normative. Découverte d’un processus, Mare & Martin, 2014; si veda anche Sophie Chassat, Norme et Jugement, Institut Messine, 2014.
56. Ibid.
57. David Lisnard, Frédéric Masquelier, De la transition écologique à l’écologie administrée, une dérive politique, Fondation pour l’innovation politique, maggio 2023.
58. Si veda il rapporto informativo dell’Assemblea Nazionale su “l’applicazione pratica delle leggi” (21 luglio 2020): “In un contesto sempre più standardizzato, in cui le fonti del diritto si moltiplicano, così come i settori soggetti a regolamentazione, diversi fattori possono portare a problemi di applicazione pratica fin dalla fase di progettazione. Ad esempio, la complessità della legislazione può ostacolarne l’attuazione, favorendo applicazioni lontane dalle intenzioni del legislatore o causando problemi di incompatibilità con altre norme. Per gli enti locali più piccoli è particolarmente difficile gestire “+”.
59. Discorso del Presidente Georges Pompidou al Consiglio di Stato, citato da Gaspard Koenig e Nicolas Gardères in Simplifions-nous la vie, Éditions de l’Observatoire, 2021.
Un ostacolo all’azione

Rifugio dell’ignoranza, l’ideologia della complessità è anche un pretesto per l’inazione e il disimpegno. Perché quando tutto è complesso, come evitare la paralisi, il senso di impotenza e il rifiuto di accettare le conseguenze delle nostre azioni?

In questo mondo “liquido”, non c’è più nulla di stabile o di solido su cui poggiare. Come possiamo decidere, quando siamo invitati a “sospendere il giudizio, a non pronunciare un verdetto definitivo “50 – in breve, a non prendere una decisione, perché sarebbe un peccato disfare un “tessuto” così bello? E perché mai dovremmo voler agire se questo sfugge al nostro controllo e potrebbe finire per “ritorcersi contro di noi”? “È qui che entra in gioco la nozione di ecologia dell’azione. Non appena un individuo intraprende un’azione, qualunque essa sia, inizia a sfuggire alle sue intenzioni. Questa azione entra in un mondo di interazioni e alla fine è l’ambiente che se ne appropria in un modo che può diventare contrario all’intenzione iniziale. Spesso l’azione si ritorce contro di noi”, scrive Edgar Morin. Come possiamo quindi superare la paura di agire, quando sappiamo che in un sistema complesso un evento insignificante può portare a una grande catastrofe, come la favola del battito d’ali di una farfalla che, in Brasile, può generare un uragano dall’altra parte del mondo51? Come possiamo osare alzare un dito se, appena tiriamo un filo dal tessuto della realtà, l’intera bobina rischia di aggrovigliarsi ancora di più? Come possiamo assumerci una responsabilità se, in nome della causalità circolare e degli effetti dell’imprevedibilità, invochiamo la complessità incomprimibile della realtà? La complessità agisce come un nuovo “argomento pigro”. Si tratta di un attacco al pensiero stoico, che pone l’idea di un determinismo assoluto: se tutto è scritto in anticipo, non c’è bisogno di fare nulla. Paradossalmente, lo stesso argomento può essere fatto contro l’incertezza complessa: se tutto può accadere secondo giochi di ricorsione sconosciuti, non fare nulla o fare qualcosa è equivalente. Quindi tanto vale non fare nulla.

Più apprezziamo la complessità di una situazione, più siamo propensi a scegliere lo status quo. Sfuggendo all’obbligo di prendere una decisione rimandandola, complichiamo ulteriormente l’analisi cercando ulteriori informazioni, nuovi consigli o la ricerca di un consenso assoluto, che alla fine rende l’analisi inutilizzabile52. Nel mondo anglosassone esiste un’espressione che coglie perfettamente questa situazione: “analysis paralysis”. In altre parole, la paralisi che deriva dall’eccesso di analisi. Quando si hanno troppi dati da prendere in considerazione o troppe possibili opzioni da considerare, diventa più difficile fare delle scelte. “Certo che prenderemo una decisione, una volta considerati i 5.243 fattori “53. Immaginando una qualsiasi situazione come complessa, cioè che comporta un gran numero di parametri da prendere in considerazione e da collegare tra loro, aumentiamo le probabilità di non arrivare in fondo.

“A che serve?” diventa rapidamente il ritornello del fatalismo imperante di fronte alla presunta vanità o incoscienza di qualsiasi tentativo di azione. È complesso” si rivela la risposta ideale per evitare di rispondere alle domande (la “langue de bois”), per evitare di prendere decisioni (l’astensione elettorale), per evitare di osare (il trionfo del principio di precauzione), per evitare di proiettarsi (arrendersi al breve termine perché è impossibile prevedere), per evitare di impegnarsi (atteggiamento attendista, smobilitazione), per evitare di assumersi responsabilità (il costante ricorso a competenze esterne o la constatazione che le proprie azioni sono “equifinalità”): tutto è uguale, quindi non importa quello che faccio). E non sarà la deliziosa (ma preoccupante) ultima frase dell’Introduzione al pensiero complesso di Edgar Morin a rassicurarci: “Aiutati, il pensiero complesso ti aiuterà”. Questo aiuto provvidenziale arriverà solo come ultima risorsa.

La complessità come tentazione permanente

Di fronte a questo vuoto abissale, la tentazione di aggiungere complessità in continuazione è grande. La complessità è tanto più dannosa per l’azione perché, quando porta ad agire, spesso è per rendere la situazione ancora più complessa. I problemi complessi richiedono soluzioni complesse. Le risposte alla complessità sono spesso “shock da complessità” ancora più grandi. Le formule utilizzate dalla stampa ne sono la testimonianza: “La complessità dell’assegno energetico è individuata”; “La ritenuta alla fonte: uno shock di complessità”; “Il sistema delle quote non deve aumentare la complessità amministrativa dell’assunzione di lavoratori stranieri”; “La riforma delle pensioni apre un’era di cinquant’anni di incertezza e complessità”; “I contorni della riforma rimangono molto vaghi. L’unica cosa certa è che si preannuncia un’impresa di una complessità senza precedenti”.

Questa è la logica stessa della “densificazione normativa “55 , che risponde a una situazione complessa aumentando la complessità delle norme. Questo fenomeno di densificazione normativa è stato descritto molto bene dalla studiosa di diritto Catherine Thibierge, che ne attribuisce diversi indicatori. In primo luogo, l’aumento quantitativo del numero di norme: c’è “proliferazione”, “accumulazione”, “inflazione”, “movimento esponenziale”. In secondo luogo, la moltiplicazione delle fonti di norme, e quindi la coabitazione di norme che possono talvolta contraddirsi. Questa è “l’idea di complessificazione: la sovrapposizione, la sedimentazione di norme, il groviglio normativo, la compressione delle norme”, il “restringimento delle maglie normative”. E il campo della normatività si sta estendendo a tutti i settori e a sempre più aspetti della vita quotidiana56.

Moltiplicando norme complesse per rispondere a problemi complessi, finiamo non solo per sovraccaricare la vita di procedure e formalità che fanno perdere tempo ed energia a tutti, ma anche per privare individui e organizzazioni del loro buon senso e della loro capacità di azione. Intrappolate nella trappola della burocrazia, le aziende annegano in innumerevoli indicatori, relazioni e comitati direttivi. Di fronte alle complesse procedure per l’ottenimento dei fondi europei, i nostri sindaci sono stremati dalle incombenze amministrative57. Secondo David Lisnard, sindaco di Cannes e presidente dell’Association des maires de France (AMF), con differenze di complessità a seconda delle culture nazionali, i compiti amministrativi rappresentano il 3,7% dell’orario di lavoro in Germania e il 7% in Francia, ovvero l’equivalente di un punto del PIL. Affetti dalla “patologia della legge”, i nostri parlamentari stanno perdendo il discernimento nel loro lavoro legislativo, producendo testi sempre più incomprensibili a causa della loro stesura frettolosa in risposta all’attualità – e sempre più inapplicabili58. “Per quanto riguarda il cittadino che la legge dovrebbe proteggere e aiutare, spesso è con qualche ragione che afferma di non riuscire più a capirla o ad applicarla59″. La crescente complessità della legislazione incoraggia gli individui e le organizzazioni a rivolgersi all’iper-esperienza per ottenere una guida. È qui che si chiude il circolo vizioso: l’esperto di complessità finisce per fare delle materie un proprio appannaggio in nome della loro tecnicità, confiscando il dibattito e la titolarità democratica”. La consapevolezza della complessità, che dovrebbe impedirci di agire alla cieca, finisce per espropriarci delle nostre stesse capacità.

La “crescente complessità” degli standard di rendicontazione “extra-finanziaria” per le imprese di fronte alla “complessità” delle sfide ambientali e sociali
A livello europeo, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) imporrà a un numero sempre maggiore di aziende di produrre rapporti ESG (Environment – Social – Governance) estremamente densi e dettagliati entro il 2025. Se da un lato non possiamo che lodare l’integrazione della sostenibilità nel concetto di performance aziendale, dall’altro il sistema di reporting previsto lascia perplessi: sono previsti centinaia di criteri, molti dei quali altamente tecnici. Le aziende dovranno lasciar fare agli esperti. Il corollario della complessità normativa è spesso la confisca del significato.

3
La complessità è la fonte del disordine climatico?

Note
60. Questo è il titolo dato, ad esempio, al primo capitolo, terza parte, I, del Rapporto OPECST n. 224 (2001-2002) di Marcel Deneux, presentato il 13 febbraio 2002, “La portata del cambiamento climatico, le sue cause e il suo possibile impatto sulla geografia della Francia nel 2005, 2050 e 2100 (Volume 1)”. Nella sua introduzione, l’autore commenta: “Le prime due parti di questo rapporto hanno cercato di mostrare la complessità del fenomeno del cambiamento climatico. È emerso che il clima è un fenomeno globale variabile, complesso, contrastante, scarsamente compreso e al di fuori del controllo dell’uomo “+.
61. “Cambiamenti climatici”, savoirs.ens.fr, 22 ottobre 2018.
62. “La complessità del sistema climatico”, corso online su Kartable.fr.
63. Laurent Clerc, “La consapevolezza del rischio climatico e la sua dimensione sistemica”, in Annales des Mines – Responsabilité et environnement, 2021/2 (n. 102).
64. Federico Turegano, Global Head of Natural Resources and Infrastructure, in wholesale. banking.societegenerale.com, 1 giugno 2021.
65. Discorso di Frédérique Vidal, ministro dell’Istruzione superiore, della ricerca e dell’innovazione, all’Assemblea nazionale francese il 21 settembre 2020: “La complessità della questione climatica impone di riunire tutte le discipline in un approccio olistico, e gli strumenti e i metodi delle scienze umane e sociali in particolare si rivelano indispensabili “+.
66. GoodPlanet Mag, “Le climatologue Hervé Le Treut : ” étant donné la complexité du défi de civilisation que représente la réduction des émissions de gaz à effet de serre, aucune discipline ne peut se prévaloir du monopole des solutions”, 14 settembre 2022.
67. Sophie Cayuela, “Preservare o distruggere la natura? La grande complessità della compensazione del carbone”, Natura Sciences, 12 novembre 2021.
68. EEA, “Understanding and acting on the complexity of climate change”, Europa.eu, 17 ottobre 2018.
69. Robin Rouger, Banque J. Safra Sarasin, “La complexité de l’investissement climatique”, Allnews, 19 marzo 2020.
70. Hervé Le Treut, “GIEC: des solutions plus complexes que jamais”, Les Échos, 8 aprile 2022.
71. Guillaume Simonet, “L’adaptation, un concept systémique pour mieux panser les changements
climatici”, Note de recherche Norois 6252, OpenEdition Journals, 2017.
72. Joël Cossardeaux, “Les messages de plus en plus brouillés du GIEC”, Les Échos, 14 ottobre 2015: “L’azione globale sui cambiamenti climatici è gravemente ostacolata perché i pareri dell’organo scientifico dell’IPCC, che è un punto di riferimento nel settore, sono così difficili da comprendere che è necessario almeno un dottorato di ricerca per afferrare le sue raccomandazioni”, sostiene Ralf Barkemeyer, docente-ricercatore presso KEDGE BS, che ha guidato lo studio. […] I risultati mostrano che le informazioni sintetiche dell’IPCC hanno perso leggibilità nel tempo”. Si tratta di un problema serio, dato che “questi documenti fungono da bussola per i governi, che hanno bisogno di stime scientifiche affidabili prima di prendere posizione nel dibattito globale sul clima, soprattutto sotto forma di impegni a ridurre le emissioni di gas serra”. In risposta a queste critiche, l’IPCC si è riorganizzato e ha affidato alla climatologa francese Valérie Masson-Delmotte il compito di comunicare in modo più comprensibile.+.
73. Armond Cohen, Lee Beck, “La complessità del mondo sarà in mostra alla COP27; la leadership climatica deve essere all’altezza della situazione”, Clean Air Task Force, 26 ottobre 2022.
Nebbia climatica

La retorica contemporanea ha talmente inglobato la questione climatica nel presupposto della complessità che non sappiamo più come affrontare il problema in altro modo. Nel nostro discorso, “la complessità del cambiamento climatico” è un dato di fatto60 . È addirittura la caratteristica di un problema “senza precedenti nella sua complessità e talvolta difficile da prevedere “61 , basato su quel “complesso insieme dinamico” che è il sistema climatico62. Esperti e decisori chiedono quindi di “prendere coscienza del rischio climatico e della sua dimensione sistemica “63 , e di “abbracciare la complessità ora, per il bene del clima “64 . Ma queste sono spesso pie speranze, perché riflettono un modo di pensare che gira in tondo.

Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questo approccio ossessivamente “sistemico” o “olistico” al problema, a questo presupposto che il problema climatico è così complesso che non sappiamo più come affrontarlo e che il minimo tentativo di risolverlo pone altri problemi ancora più gravi. La comprensione finale di un sistema complesso rimanda l’iniziativa, nella consapevolezza che questa comprensione finale non avverrà mai, poiché la minima variazione di una variabile porta a un cambiamento completo del sistema, e quindi alla necessità di ricominciare lo sforzo di comprensione da zero. Dal lato dell’azione, sapere che toccando una variabile si rischia di mandare in tilt l’intero sistema, ci spinge a procrastinare all’infinito. Come possiamo decidere e agire di fronte a questo pozzo senza fondo? Analisi della paralisi.

La sfida climatica, specchio della nostra impotenza contemporanea

Con il pretesto che la lotta al cambiamento climatico coinvolge molti sistemi complessi come l’agricoltura, l’energia, l’acqua, i trasporti, le abitazioni, l’economia e la biosfera, intreccia dimensioni scientifiche, politiche ed etiche e richiede un’azione a molti livelli (da quello aziendale a quello politico, collettivo e individuale, globale e locale, a lungo termine e a breve termine) adottando “un approccio olistico “65 , e poiché nessuno ha il monopolio della soluzione66 , tutti finiscono per passarsi il quid e pretendere che l’altro agisca per primo, o che compensi la propria mancanza di conoscenza prima di agire.

Tra la “grande complessità della compensazione delle emissioni di carbonio “67 , che sta dando origine a dibattiti che dividono governi e associazioni per la conservazione della natura, la traduzione dell'”obiettivo globale” di ridurre le emissioni in “misure concrete”, che richiede “la comprensione di un sistema complesso “68 , “la complessità degli investimenti climatici “69 e le “soluzioni più complesse che mai” proposte dall’IPCC70 , non siamo mai molto avanti nel sapere a quali azioni dare priorità. E rendere l’adattamento “un concetto sistemico per affrontare meglio i cambiamenti climatici” non ci porterà più avanti in questa direzione71. Potrebbero poi entrare in gioco tutti gli effetti perversi che derivano dall’intraprendere la minima azione o dal rispondere rendendo le cose ancora più complesse.

L’immagine del “rompicapo” ha quindi invaso la nostra retorica climatica e i nostri schemi di pensiero, bloccando sul nascere qualsiasi dibattito pubblico sull’argomento, come dimostra la sua evidente assenza dalla campagna presidenziale del 2022 in Francia. La comunicazione dell’IPCC negli ultimi trent’anni non ha certo aiutato, se dobbiamo credere ai docenti e ai ricercatori europei che si lamentano del fatto che le “sintesi per i responsabili politici” tratte dai suoi voluminosi rapporti sono “sempre più incomprensibili “72 . E nemmeno il “ritorno della storia”, come testimoniano gli osservatori della COP27, che si è svolta “nel contesto di una policrisi globale, con la complessità del mondo e una nuova serie di linee di frattura geopolitiche “73 .

Se a questo si aggiunge l’inflazione della paura e della retorica apocalittica, è facile capire come la forza di volontà finisca per essere disarmata e la rassegnazione si unisca alla rabbia distruttiva.

III
Parte
Le virtù della semplicità, la necessità del “cruciale”.

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E se, di fronte agli effetti deleteri di un pensiero complesso che si è trasformato in pensiero unico, prescrivessimo una dieta di semplicità, o addirittura qualche scossa di semplificazione? A meno che non ci serva un nuovo concetto – il “cruciale” – per pensare e agire efficacemente nel XXI secolo. In ogni caso, dobbiamo uscire dalla routine del tutto complesso.

1
Imparare a vedere il semplice

Note
74. John Gribbin, op. cit.
75. Ibidem.
76. Ibidem.
77. Ibidem.
78. Ibidem: “La scoperta di Murray che non solo le macchie del leopardo, ma anche quelle della giraffa, le strisce della zebra e persino l’assenza di marcature sul manto di un topo o sulla pelle di un elefante sono il risultato di un processo molto semplice. Si tratta infatti di stimolatori e inibitori chimici che si diffondono sulla superficie dell’embrione in un momento chiave del suo sviluppo “+.
79. Charles Sanders Peirce, La logica della scienza, 1879.
Il semplice dietro il complesso

Invece di parlare dell’inestricabilità del “tessuto” del mondo, ricordiamo che ci sono regole semplici alla base della sua composizione: il complesso non è la fine della storia.

Come sottolinea lo scienziato britannico John Gribbin nel suo illuminante libro sulle teorie scientifiche della complessità, un sistema complesso non è mai veramente “qualcosa di più di un sistema formato da diversi componenti semplici che interagiscono tra loro “74 . Quello che i fisici chiamano caos è l’emergere di fenomeni complessi da elementi semplici (una pentola di acqua bollente). E quando il sistema è costituito da elementi complessi, è perfettamente in grado di produrre comportamenti semplici (come il corpo che, per compiere il semplice gesto di alzare il braccio, attiva tutta una serie di meccanismi complessi come la rete neurale).

La “complessità” emerge perché “un sistema è sensibile alle sue condizioni iniziali e ha un effetto retroattivo “75 . Stabiliti questi principi, dobbiamo continuare a tornare all’idea che “il caos e la complessità sono governati da leggi semplici – fondamentalmente, quelle che Isaac Newton ha scoperto più di 300 anni fa”. “Lungi dal mettere in discussione quattro secoli di scienza, come alcuni vorrebbero far credere, i recenti progressi dimostrano al contrario che le semplici leggi del nostro patrimonio scientifico permettono di far luce (ma non di prevedere) il comportamento a priori inspiegabile del tempo, dei mercati azionari, dei terremoti o persino delle popolazioni”, insiste John Gribbin76. Il verificarsi del caos è quindi tanto più “organizzato e deterministico: ogni fase segue la precedente in una catena ininterrotta governata dal principio di causa ed effetto, e quindi, in linea di principio, sempre prevedibile “77 . La causalità circolare, quindi, non esclude affatto le logiche esplicative che si basano sulla causalità lineare. Allo stesso modo, è la combinazione di casualità e di una regola semplice che dà origine, per semplice iterazione, a strutture negli esseri viventi complesse come le felci o le macchie di leopardo, come ha dimostrato James Murray sulla base del lavoro di Turing78.

Complessità”: il nome dato al semplice che non (ri)conosciamo

La “complessità” non è forse, il più delle volte, il nome che diamo a fenomeni di cui non riusciamo a identificare le semplici leggi di organizzazione? Henri Bergson ha mosso una critica simile all’idea di “disordine”: il disordine è un ordine che non ci aspettiamo, un ordine che non vediamo perché non lo stiamo cercando o stiamo cercando un altro ordine. Se il mondo ci sembra così complesso, non è forse soprattutto per la nostra incapacità di individuare la semplicità che lo organizza, o per la nostra tendenza a imporgli un modello di semplicità che non è quello giusto? Il trionfo del paradigma della complessità si spiega quindi con il periodo di mutazione, di interregno, che è il nostro: lasciandoci alle spalle un certo ordine del mondo, non abbiamo ancora individuato il nuovo ordine che sta alla base della nostra epoca. Chiamiamo questa confusione “complessità”. Questo non dice nulla del mondo, ma piuttosto del nostro caos mentale.

Il filosofo americano Charles S. Peirce ha sottolineato che la complessità “percepita” è spesso solo complessità “proiettata”: “Un errore di questo tipo, che si verifica frequentemente, consiste nel considerare l’effetto stesso dell’oscurità del nostro pensiero come una proprietà dell’oggetto a cui stiamo pensando. Invece di rendersi conto che questa oscurità è soggettiva, si immagina di considerare una qualità essenzialmente misteriosa dell’oggetto. [Finché questo equivoco persiste, è un ostacolo insormontabile alla chiarezza del pensiero”.79

2
Elogio della semplificazione

Note
80. Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit. Il pensiero semplificatore confonde il semplificato con il semplice. Il semplificato è il prodotto della disgiunzione, della riduzione e dell’estrazione. Ma non è il semplice. La semplificazione produce il semplificato e crede di aver trovato il semplice “+.
Le virtù del semplificato

Ma andiamo oltre. A differenza di Edgar Morin, che attacca il “pensiero semplificatore” e distingue tra semplice e semplificato80 , assumiamo che anche quest’ultimo abbia un valore. Così come abbiamo suggerito che il complesso e il complicato non sono diversi in natura, assumiamo che la semplicità porti alla semplificazione e che anche la semplificazione abbia le sue virtù.

La semplificazione è essenziale nella scienza, ad esempio. Come ricorda John Gribbin, fin dai tempi di Galileo e Newton, “la scienza ha fatto i suoi più grandi progressi scomponendo sistemi complessi in elementi semplici per studiarne il comportamento – anche se questo significa semplificare ulteriormente le cose, inizialmente”, grazie ai suoi indispensabili modelli. Questa ricerca di semplificazione ha dato all’umanità conoscenze e capacità di azione sempre più emancipanti. È questo desiderio di non lasciare che la complessità abbia l’ultima parola che ha portato gli scienziati di tutte le epoche a cercare di progredire nella comprensione e nella padronanza del mondo – e a provare gioia nel farlo.

La scienza, l’arte di scomporre i sistemi complessi in elementi semplici
Galileo inventò e Newton perfezionò il metodo scientifico, “basato sull’incontro tra la teoria (il modello) da un lato e l’esperimento e l’osservazione dall’altro” (quest’ultima permette di apportare le necessarie correzioni ai modelli matematici, che descrivono il comportamento di oggetti “ideali”, per tenere conto delle imperfezioni della realtà). “Prendiamo la fisica dell’atomo: considerare gli atomi come sistemi solari in miniatura, con elettroni che orbitano attorno a un nucleo centrale, può sembrare ridicolmente semplicistico. Sappiamo che gli atomi sono più complicati. Tuttavia, questo modello molto semplice, proposto da Niels Bohr negli anni Venti, è perfettamente in grado di prevedere l’esatta lunghezza d’onda delle righe osservate negli spettri di diversi elementi. È quindi un buon modello, anche se sappiamo che gli atomi non sono proprio così (…) Certo, per tenere conto di aspetti più complicati del comportamento degli atomi, dobbiamo aggiungere alcuni dettagli al modello di Bohr; ma questo non lo scredita affatto!

Estratto da John Gribbin, Chaos, complexity and the emergence of life, Flammarion, 2010.

Note
81. Il romanzo deve la sua ascesa nel XIX secolo proprio alla sua capacità di descrivere “esseri singolari nei loro contesti e nel loro tempo”, come sottolinea Edgar Morin (ibidem).
82. Henri Bergson, Le Rire, 1900.
83. Gaspard Koenig e Nicolas Gardères, op. cit.
84. Potremmo pensare all’espressione “l’arte del bracconaggio” coniata da Michel de Certeau in L’Invention du quotidien, per designare un uso sovversivo delle norme, un uso che non si fa ingannare e non si lascia ingannare: “Il bracconaggio, il tendere una trappola nella norma, è in effetti un modo di voltare le spalle alla norma che ci fa essere. La vita quotidiana si inventa nei diversivi che la gente comune produce quando, per realizzarli, volta necessariamente le spalle alle norme “+.
85. Brice Couturier, “L’éco-modernisme: prôner la technologie au service de l’environnement”, Radio France, 18 ottobre 2019.
La semplificazione è fondamentale anche per chi intende agire nel cuore della realtà. Henri Bergson ci ricorda che l’intelligenza pratica (quella che comanda l’azione) ha bisogno di semplificare, di categorizzare, senza la quale sarebbe impossibile garantire la nostra sopravvivenza. L’homo faber non può lasciarsi distrarre troppo dal singolare, dalla molteplicità del diverso, dall’intuizione del flusso, che sono i soggetti privilegiati di filosofi e artisti. Per quanto fertile possa essere per questi ultimi la complessità del mondo81 , essa è altrettanto deleteria nel campo dell’azione. Per vivere, dobbiamo agire e quindi semplificare costantemente. Per tagliare la realtà, per definire categorie, per nominare le cose con termini generici, per apporre etichette alle cose in modo da non doverci pensare all’infinito. “Vivere è agire. Vivere è accettare dagli oggetti solo le impressioni utili e rispondere ad esse con reazioni appropriate. […] I miei sensi e la mia coscienza mi danno quindi solo una semplificazione pratica della realtà”, dice Henri Bergson82. I dogmatici della complessità possono aborrire la “disgiunzione” e la “riduzione”, ma non possiamo vivere senza.

Alcuni shock salutari della semplificazione

Per ritrovare la gioia di capire e di agire, sarebbe utile concedersi qualche salutare “shock da semplificazione”. Se “è complesso”, a maggior ragione bisogna semplificare.

Prima di tutto, dobbiamo semplificare le norme, per porre fine alla densificazione delle norme. Il filosofo Gaspard Koenig lo ha promosso con il suo movimento “Simple”, lanciato in concomitanza con la campagna presidenziale del 2022. Già Montaigne aveva questa ambizione: “Le leggi più desiderabili sono le più rare, le più semplici e le più generali”. Ed è anche ciò che la Rivoluzione francese ha realizzato con Portalis, incaricato da Bonaparte di redigere un Codice Civile comprensibile a tutti. “Il suo obiettivo era chiaro: “semplificare tutto”. I suoi principi erano luminosi: “Le leggi sono fatte per le persone, non le persone per le leggi”. Il suo atteggiamento era moderato: “Abbiamo evitato la pericolosa ambizione di cercare di regolare e prevedere tutto”. È tempo di tornare a questo metodo, comprendendo che “meno leggi” significa “più diritti, libertà e giustizia” per i cittadini83.

Senza dubbio non riusciremo ad annullare completamente la tendenza a rendere più complesse le norme, tendenza di cui siamo tutti più o meno complici, tanto da proteggerci da rischi che non siamo più disposti a correre, individualmente e collettivamente. Ci vorrebbe un profondo cambiamento culturale per farci abbandonare questa logica di asservimento. Ma siamo ancora in tempo per denunciarle, per resistere quotidianamente84 e per continuare a pensare ad altri modelli più desiderabili: anche nel terreno più ostile, i semi possono sempre fiorire.

Questo principio di semplificazione gioverebbe anche al nostro approccio alla sfida climatica. Se la descriviamo solo in termini di “complessità”, con il pretesto dell’interconnessione generale di questioni e sistemi, perdiamo il nostro pragmatismo. Ecco perché gli “ecomodernisti”, una corrente di pensiero che si considera una terza via “realistica” tra i sostenitori della decrescita e gli scettici del clima, sostengono la necessità di “affrontare i problemi ambientali uno per uno “85 , per trovare le soluzioni più efficaci per ciascuno di essi. Si tratta del cosiddetto “disaccoppiamento”: separare i problemi per agire in modo più efficace, dimostrando che, lungi dall’essere inesorabilmente interconnesse, alcune dimensioni possono essere affrontate indipendentemente l’una dall’altra. Per affrontarle e andare avanti.

Contrariamente alla doxa attuale, che affronta il problema del clima solo da un punto di vista “olistico” e “sistemico”, l’obiettivo è quello di svelare le infinite connessioni tra i fenomeni per affrontare il problema in modo concreto e con un approccio unilaterale ma assertivo: spezzare il legame tra prosperità economica (generazione di reddito, crescita economica) e consumo di risorse e di energia (con i suoi impatti ambientali negativi e le emissioni di gas serra), puntando sull’aumento dell’efficienza delle risorse naturali attraverso l’uso delle tecnologie più produttive, piuttosto che attraverso tecniche premoderne. Questo perché le tecnologie più moderne dovrebbero consentire di risparmiare risorse massimizzandone gli effetti, preservando così vaste aree del pianeta di cui non avremmo più bisogno per la nostra sussistenza. Oltre al fatto che questo approccio non è né di crollo né di contrizione, è ancora più interessante considerare che aiuta a rimobilitarsi offrendo una chiara tabella di marcia per il futuro. Una volta sciolta la matassa, possiamo immaginare di essere finalmente in grado di tirare di nuovo i fili.

3
Riscoprire il senso del cruciale

Oggi si tratta di fare le scelte giuste. E abbiamo bisogno di prendere decisioni per andare avanti. Quindi mantenere le cose semplici potrebbe non essere più sufficiente. È arrivato il momento di concentrarsi sul “cruciale”.

Siamo a un bivio: dobbiamo fare delle scelte sui nostri modelli (di vita, di valori e di produzione) in questo momento di grandi cambiamenti. Cruciale è proprio “ciò che si trova a un bivio” (dal latino crucis, la “croce”) e, per estensione, ciò che è “importante perché decisivo”. Ed è proprio questo che caratterizza il nostro tempo: un momento critico in cui le scelte e le non scelte che faremo nel prossimo futuro avranno conseguenze decisive per il futuro dell’umanità.

Al bivio, dobbiamo scegliere la nostra strada e, in parte, restarci, per uscire dalla giungla oscura in cui ci troviamo – proprio come i viaggiatori smarriti di Cartesio si districano nella foresta “camminando il più dritto possibile verso la stessa parte”. Perché agire è sempre decidere. E decidere significa prendere una decisione, come la spada di Alessandro che taglia il nodo gordiano (una rete complessa) che nessuno era riuscito a sciogliere con le dita. Significa scegliere tra le possibilità. Significa rinunciare, inevitabilmente semplificare. Significa rifiutare di mantenere la complessità così com’è. Un certo numero di cose non può più tollerare il nostro procrastinare con la scusa che “è complesso”. Cruciale” è quel punto nello spazio e nel tempo in cui è necessario prendere una decisione.

Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono di stabilire delle priorità, di scegliere le battaglie giuste, di fissare obiettivi chiari e di porci le domande giuste. Che cosa è essenziale, in fin dei conti? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni più importanti? Dove vogliamo andare? L’importante è non perdere di vista i nostri obiettivi, per non annegare. Imparare a estrarre le informazioni rilevanti dalla marea di informazioni che arrivano continuamente. Non lasciarsi disperdere da ogni tipo di ingiunzione. Concentrarsi sull’essenziale. Sapere che la complessità è un certo modo di rappresentare il mondo, ma non la sua realtà ultima. Riscoprire il senso della concretezza. Abbiamo più che mai bisogno di panettieri che facciano il pane.

Per raggiungere questo obiettivo, potremmo aver bisogno di inventare “esperimenti cruciali” che ci aiutino a determinare, nel mezzo del bivio in cui ci troviamo, quale strada prendere piuttosto che un’altra. Nella scienza, un esperimento cruciale (instantia crucis o experimentum crucis) è un esperimento che, di fronte a diverse ipotesi in grado di spiegare lo stesso fenomeno, ne scredita una e mantiene l’altra, al contrario, come migliore. Francis Bacon definì l’instancia crucis nel suo Novum Organum (1620). L’osservazione e il calcolo della distanza tra il pianeta Marte e la Terra, così come l’esperimento del pendolo di Foucault, sono due esempi che hanno contribuito a distinguere il geocentrismo dall’eliocentrismo. Applicata alle nostre sfide contemporanee, questa nozione ci inviterebbe a immaginare modi che ci permettano di scegliere certe strade (etiche, politiche, economiche, estetiche) piuttosto che altre. In breve, a fare del tessuto del mondo un abito su misura per il nostro tempo. In ogni caso, uscire dalla favola di una realtà inestricabile. Demistificare la complessità.

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POCO DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE, di Pierluigi Fagan

POCO DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE. Nei primi giorni del conflitto russo-ucraino, poco meno di un anno e mezzo fa, scrivemmo il nostro punto di vista sulla questione delle intenzioni americane. Ritenevamo che il conflitto ruotasse intorno a queste poiché erano gli americani ad aver progressivamente influito sui già precari equilibri interni della disgraziata Ucraina, già a partire da Euromaidan nel 2013.
Avevano continuato con una lenta ed inesorabile penetrazione costante in termini di consiglieri militari e finanziari, think tank e varie propaggini tentacolari che arrivarono a prendere il coniglio scappato dal cilindro Zelensky, a suo tempo eletto su onda populista stanca di corruzione, malaffare e continua tensione con la Russia sgradita ai più di quel Paese, quantomeno i residenti della parte centro-orientale, trasformandolo in Capitan Ucraina. Ma non c’era solo questo. C’era una più ampia strategia di pressione sul confine orientale e caucasico russo e c’erano stati diversi segnali di ritiro da trattati internazionali sui missili a medio raggio ed altro relativamente il bilanciamento atomico. Già a dicembre e poi a gennaio del ‘22, i russi richiesero perentoriamente un tavolo di confronto a Ginevra per chiarirsi su questo che rappresentava la più minacciosa rottura degli equilibri tra le due potenze atomiche planetarie dalla fine della IIWW (a cui s’era aggiunto un fallito tentativo di rivoluzione colorata in Kazakistan a gennaio), equilibrio che aveva retto anche lungo tutta la Guerra fredda. i russi non ricevettero risposta e ne trassero le conseguenze a fine febbraio.
Tutto ciò è stranoto a qualsiasi analista non sia arruolato negli effettivi della propaganda atlantista, inclusi i pochi “realisti” americani che ogni tanto ed invano vengono da qualcuno postati per mostrare ai propri contatti che c’è ancora qualcuno col barlume della ragione. Il fatto è che la politica internazionale o geopolitica (non sono la stessa cosa per quanto si occupino della stessa cosa) è un campo di studi come un altro, con le sue convenzioni, le sue scuole, i suoi metodi, la sua storia, una vasta e complicata serie di informazioni che i più non conoscono affatto. I più, sono stati convocati davanti ai fatti del febbraio ’22 come se il mondo iniziasse quel giorno e si riducesse a quello che i media occidentali (che ovviamente sono strumenti del conflitto com’è ovvio che sia) mostravano e non mostravano, dicevano e non dicevano, secondo logiche di primo livello (dicotomie semplificanti) condite da toni strappa-emozioni di rabbia e indignazione a cui era impossibile resistere.
In quei primi giorni, scrivemmo più volte quale fosse, secondo il nostro punto di vista, la razionale della strategia americana. Gli Stati Uniti d’America erano e sono in una curva di potenza calante e con loro l’intero mondo occidentale. Basta prendere le percentuali di valore del Pil o degli indici demografici, piuttosto che la cartina delle influenze ed egemonie di vario livello su i 200 e passa Stati del mondo del 1950 (allora erano poco più di 60), quelle di oggi, le proiezioni al 2050 e tracciare le curve. I numeri certo non dicono tutto, infatti ci sono studiosi che si occupano di queste cose apposta, perché oltre alle quantità c’è da conoscere vasti e complessi discorsi sulle qualità (tecnologiche, culturali, prossimità geografiche, stabilità sociale etc.) per fare una diagnosi. La diagnosi è inequivoca, ovunque il nostro cuore batta emotivamente, gli USA dovranno fare i conti con una contrazione di potenza. Si tratta solo di definire meglio la quantità (e qualità) ed i tempi.
Stante questa situazione è ormai noto che: 1) l’ordine (approssimativo e dinamico) planetario transita da un sistema rigido con a capo gli USA e area occidentale da una parte e un gruppo di pochi ma cattivi ragazzi dall’altra con una vasta platea di prede per occasionali egemonie ad un ordine più complesso in cui compaiono un gran numero di soggetti di diverso peso ed interesse, il c.d. ordine multipolare che secondo alcuni (in genere, americani) non è per niente ordinato in quanto fluttua.
Per capire questo ordine fluttuante non c’è miglior soggetto da indagare che l’India. L’India ha da un po’ proclamato il proprio stile di relazione internazionale ovvero il multi-allineamento che poi è, in pratica, il rifiuto stesso del concetto di “allineamento”. Se uno punta a diventare un “polo” va da sé che non è allineato che a sé stesso. Gli indiani sono BRICS ed anche SCO ed AIIB ma flirtano anche con il tentativo americano di fare una NATO dell’indo-pacifico (flirtare non comporta fare sesso), non vogliono la nuova moneta BRICS ma promuovere la propria rupia, comprano armi russe tanto quanto americane, comprano energia dai russi ed aprono a nuove joint venture tecnologiche con Washington, sono buoni amici dell’Iran e penetrano silenziosamente in Africa. L’anno scorso hanno aumentato il trading commerciale con gli USA che ora supera di poco quello con la Cina, mentre UAE-SA sommati (il 3° e 4° Paese per volumi di commercio) superano gli uni e gli altri. Oggi l’India è la 5a potenza economica, tra due anni sarà 4a, intanto si dilettano in viaggi sulla Luna, Chandrayaan-3 è partita l’11 luglio ed andrà in cerca di acqua ghiacciata nel sud lunare. Gli indiani stanno cercando di diventare un polo autonomo e fanno in più piccolo quello che già da tempo fanno più in grande i cinesi. Così per molti altri soggetti a vari livelli (esclusi i paesi europei invano stimolati da Macron con la sua “autonomia strategica”, che voleva pure farsi invitare al vertice BRICS di agosto);
2) dal punto di vista americano, i soggetti più temibili di questo riassetto mondiale sono la Cina per ragioni demo-economiche e la Russia per ragioni geo-militari;
3) normalmente, uno stratega consiglierebbe a gli USA di dividere i due competitor come pensava di fare Trump, l’area neo-con che detiene le leve della strategia dell’attuale presidenza Biden, invece, pensa che prima bisogna depotenziare la Russia rendendola un rottame di basse pretese, per poi dedicarsi alla Cina;
4) parallelamente e fondamentale, l’accorpamento stretto in termini di egemonia semi-imperiale di tutte le schegge occidentali, quella già orbitanti a livello naturale (la Fratellanza Anglosassone CAN-AUS-NZ-UK) e quella da mettere in ordine ovvero l’Europa e gli alleati pacifici orientali come il Giappone ed altri (Sud Corea, Filippine ed in maniera più ambigua anche altri da contendere alla Cina).
Ecco quindi chiaro cosa muoveva gli americani verso il confine russo: a) provocare l’invasione dell’Ucraina (a cui i russi non potevano sottarsi anche volendo come per altro lo stesso Putin ha tentato di fare negli ultimi anni sebbene spinto da parti interne che poi sono le stesse che oggi l’accusano di combattere con la mano legata dietro la schiena mentre altri non vogliono proprio il conflitto con l’Occidente in quanto si dedicano all’economia -soprattutto personale- e non alla geopolitica);
b) obbligare l’Europa a recidere ogni legame (energetico, commerciale, turistico e financo culturale) con la Russia, usando l’Europa dell’est contro quella dell’ovest;
c) rilanciare NATO e spesa militare europea (tanto all’inizio ne saranno loro i diretti beneficiari visto che gli europei non hanno una industria militare di livello e comunque diffidano gli uni degli altri per atavici motivi);
d) portarsi a casa nuove pedine utili per il prossimo e strategico conflitto dell’Artico (Svezia e Finlandia);
e) stabilire su questo quadrante i due paradigmi imaginari (cioè che valgono a livello di “valori” nelle immagini di mondo) della loro nuova strategia globale: democrazie vs autocrazie, ordine basato sulle regole (decise a loro, controllate da loro, sanzionate da loro e vale anche per la riformulazione della globalizzazione ex-WTO).
Verso la Russia nello specifico, il loro obiettivo è la consunzione ovvero coinvolgerla in un conflitto in Ucraina lungo, oneroso, sfibrante, generatore di contraddizioni interne. L’unico conflitto operato dagli USA nel dopoguerra vinto “senza se e senza ma” è stato la Guerra fredda che si basava proprio su questa strategia di lungo periodo.
Ne scrivemmo un anno e mezzo fa, non vediamo ragioni per modificare l’analisi.
L’attualità recente ci ha portato al vertice NATO di Vilnius. È incredibile quanto irriflessivo sia il discorso pubblico. Zelensky si è dispiaciuto per non esser stato ammesso nella NATO? Ma solo un giornalista di cappa e spada che scrive per i pesci rossi irriflessivi della sua bolla poteva credere realistico che l’Ucraina in guerra accedesse ad una alleanza basata sull’articolo V°. L’Ucraina, dice Biden, entrerà quando sarà finita la guerra che è, dal punto di vista russo, l’ottimo motivo per non farla finire mai che è poi proprio quello che vogliono gli americani. Forse poi un giorno finirà e del trattato di pace, ovviamente, farà parte la promessa di non accorparla nell’Alleanza atlantica, ma siamo lontani da quel giorno perché l’interesse americano è farla durare il più a lungo possibile quella guerra. Ora danno missili sempre più a lunga gittata (prima esclusi con sdegno per non “provocare escalation”), poi le bombe a grappolo (che sono un ottimo strumento per congelare i confini provvisori poiché, in pratica, i territori limitrofi diventano minati, quelli nell’Ucraina russa e quelli dell’Ucraina ucraina visto che ovviamente Shoygu ha annunciato la reciprocità). Al di là della guerra delle parole sui media e sui social, nei fatti, i confini provvisori della contesa sono quelli e non si spostano decisivamente da mesi.
Poiché gli americani gestiscono i valori, hanno deciso che anche la Turchia è democratica, per aver l’assenso all’entrata NATO della Svezia. Si sono giocati qualche areoplanino e la promessa che avrebbero messo una buona parola per far entrare Ankara in UE tanto è quasi roba loro (dal punto di vista geostrategico). Così ora gli europei dovranno prendersi in carico l’Ucraina e poi la Turchia. Erdogan che scemo non è ha detto “sì-sì” tanto poi il parlamento che deve ratificare il benestare è in vacanza fino ad ottobre, quindi si vedrà. Il “difensore dell’islam” che fa alleanza con gente che brucia il Corano in piazza è il segno che in questo campo non ci sono valori, ci sono solo interessi. I “valori” ci sono solo per le opinioni pubbliche, i tifosi, come nel calciomercato.
Il congelamento del conflitto tempo necessario per le elezioni americane è attivamente contrattato dietro le quinte. Probabilmente anche su richiesta europea che in effetti sta terminando le armi da inviare al fronte. Tra l’altro, i sondaggi registrano una certa stanchezza delle opinioni pubbliche vero l’omino in tuta verde e l’intera questione che comincia a puzzare di fregatura organizzata. Ma forse, anche per una preoccupazione che s’affaccia all’orizzonte cui ha dato voce un simpatico articolo dell’Economist. Che succede se poi a novembre anno prossimo vince Trump? Trump ha annunciato che con lui presidente un secondo dopo il conflitto cesserebbe, che fare? Aspettare …
In mezzo poi si dovrebbero esser le elezioni russe, ucraine (che, punta avanzata del fronte democratico non le farà, tanto la Costituzione è sospesa da un anno e mezzo e va tutto bene, il “popolo” è con Zelensky e guai a chi obietta), quelle europee in cui s’annunciano nuovi equilibri; quindi, mettere tutto in PAUSE conviene a tutti.
Dopo aver inizialmente aderito allo sdegno occidentale verso la Russia, ora gli svizzeri sono tornati alla finestra riscoprendosi neutrali, non forniscono armi agli ucraini, hanno ripreso ad ospitare capitali russi. Come diceva il poeta “Sanno più cose gli svizzeri di quante ne sogni la tua filosofia, Orazio…”.

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TERMODINAMICA DEL CONFLITTO, di Pierluigi Fagan

TERMODINAMICA DEL CONFLITTO. Come sappiamo, la “guerra fredda” fu appunto un lungo conflitto tenuto a bassa temperatura. La metafora prende il fatto che a basse temperature le molecole si muovono di meno e fanno meno attrito.
La guerra fredda rimane, nell’esperienza al conflitto americana, un prototipo del fatto che se sei di molto più forte nel senso che hai più risorse, prima o poi il tuo avversario perde la corsa a starti appresso. Memore della lezione, Putin ha fino ad oggi fatto una guerra a bassa intensità, motivo per il quale Prigozhin ed affiliati, dissentono vibratamente.
In fondo, conviene anche a Zelensky, perché tiene alta la tensione e quindi la richiesta di mezzi e fondi per supportare la sua resistenza ma anche il potere del suo inner circle. Oddio, a lui forse non dispiacerebbe neanche il darsele una volta per tutte di santa ragione, ma essendoci da una parte uno con quasi seimila testate nucleari e dall’altra un altro più o meno pari, la bassa intensità conviene a tutti.
Da un po’ e sempre più intensamente negli ultimi giorni, gli ucraini ci tengono a far sapere che loro, il ventilato “conflitto congelato” di cui molti parlano, non lo accetteranno mai. C’è chi pensa che la missione vaticana, ma è questo anche forse l’interesse di tutto quel resto del mondo che non partecipa alla tenzone e ne rimane disturbato per il disordine economico che provoca, abbia questo fine, trattare l’inizio di una trattativa.
Una trattativa finta, ovviamente, sul campo, dal punto di vista strategico, non esistono affatto condizioni per nessun tipo di pace e tra l’altro, manca anche la volontà almeno dei principali attori. Zelensky può alla fine far pace con l’idea di lasciare la Crimea, ma per tutto il resto neanche volesse potrebbe giustificare morte e distruzione per poi accettare di perdere altro. Putin uguale, a questo punto, neanche gli dessero Crimea ed il referendum in Donbass. Gli USA dovrebbero rinunciare a tutto il loro piano strategico lungamente preparato e nel quale, in fondo, le cose vanno come debbono andare. Forse una per quanto brutta pace piacerebbe oltre che al resto del mondo, all’Europa, ma tanto Europa è solo un’espressione geografica (per altro vaga). Comunque, non sono loro gli attori principali.
Tuttavia, il conflitto congelato, una trattativa probabilmente turca, in cui diplomatici gommosi vano avanti mesi a vedersi senza fare un passo avanti o forse lo possono fare ma solo se subito dopo ne fanno uno indietro per rendere la questione più interessante e giustificata, a questo punto potrebbe interessare anche russi ed americani.
Certo, agli americani è noto che il conflitto congelato dà respiro al nemico ed interrompe la pressione strategica necessaria e farlo prima o poi capitolare, tuttavia l’anno prossimo vanno ad elezioni. I repubblicani possono usare (fintamente tanto poi al Congresso se c’è da dare altri dollari al complesso militare industriale non sono certo loro a ritirare la manina) la guerra in Ucraina ed i suoi costi come leva propagandistica, soprattutto se Trump sopravvive alla tempesta giudiziaria. Ai russi, certo conviene in sé perché appunto dà respiro, ma dopo l’intemerata di Prigozhin anche di più poiché lì si debbono fare non pochi aggiustamenti interni, altrimenti non si dura molto.
Può darsi che le recenti molteplici dichiarazioni ucraine contro questa ipotesi abbiano a traguardo solo l’iniziativa vaticana che dietro potrebbe avere i multipolari ed anche i russi (magari anche gli europei che però pregano in silenzio impossibilitati a farsi soggetto attivo e dichiarato visto che hanno devoluto l’intera strategia geopolitica a Washington). Ma potrebbe anche darsi che qualcosa si possa muovere anche in Europa e soprattutto a Washington e non solo per la prospettiva elezioni.
Qui, va presa sul serio la faccenda dello spavento atomico per la rivolta poi afflosciatasi. Forse a Washington non dispiacerebbe dar respiro a Putin che a marzo prossimo, in teoria, dovrebbe andare ad elezioni, candidandosi o meno è da vedere, sempre che non le rimandi. Tanto la strategia guerra fredda vale su i tempi lunghi e dargli una piccola e parziale sospensiva non ne altera il disegno e comunque meglio lui di chissà chi. Come si dice in questi casi: meglio uno spavento senza fine che una fine spaventosa.
Naturalmente, se ne parlerebbe per iniziare dopo l’estate, prima gli ucraini debbono provare a mostrare e mostrarsi di essere in grado di riprendersi qualcosa sul campo. Anche a Zelensky serve poiché anche lui avrà i suoi Prigozhin ed i discorsi fatti in precedenza sulla fisica dl potere valgono anche lì, sebbene nessuno qui è autorizzato ad ipotizzare che anche loro abbiamo bande con interessi diversi. Magari se non vanno oltre qualche metro com’è probabile, anche loro si convincono a prendersi una pausa.
Comunque, tenete conto che anche l’Ucraina, in teoria, avrebbe le presidenziali l’anno prossimo, proprio a marzo, come i russi. Un motivo in più per sospendere la tenzone e ricevere un nuovo mandato lungo e pieno? A marzo scorso anche Prigozhin aveva annunciato di volersi candidare (a quelle ucraine, non russe! Il tipo ha mille risorse).
A metà luglio poi tutti a Vilnius, ad un concerto NATO che potrebbe trovare un vocabolario a tale scopo inventato per dire che Kiev va sotto protezione ufficiale e firmata senza entrare ufficialmente. Per cosa? Per inviare truppe d’appoggio visto che quelle ucraine vanno ad esaurimento? Difficile, oltretutto darebbe a Putin il destro per dimostrare internamente quanto effettivamente la NATO minacci la Russia. O per rassicurare Zelensky per il dopo tregua che potrebbe poi estendersi all’infinito? Magari l’anno prossimo gli ucraini trovano più interessante occuparsi di adesione all’UE e pioggia di miliardi ricostruttivi?
E dopo le presidenziali americane di novembre 2024? Ci saranno state quelle ucraine? Quelle russe? Biden o chi intorno a lui visto che abbiamo capito che lui non sembra molto in sé, saranno ancora lì con la stessa strategia neocon?
Vedremo … come al solito. A volte si scrive solo per ragionare e scambiarsi informazioni e punti di vista.

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NON È UN MONDO PER IDEALISTI, di Pierluigi Fagan

Nel libro recensito nel post precedente, l’Autore Jacques Ellul sosteneva che qualsiasi società di massa moderna, a prescindere il regime politico, ha bisogno di propaganda (noi oggi la chiamiamo anche narrativa) per ottenere consenso e legittimità. Poiché sia la massa che la più colta opinione pubblica, nulla sa dei principali argomenti di cui si compone l’amministrazione e direzione di uno Stato, ecco il bisogno di dar loro non solo i fatti ma anche i giudizi, le opinioni accluse, a pacchetto. Di tutti i capitoli di cui è fatta la politica di uno Stato, il più alieno dalla mentalità non specializzata diceva esser la politica estera.
Il motivo per cui questo argomento è particolarmente alieno a tutti i cittadini governati sono tre. Il primo è che in genere, qualcosa si sa del proprio stato e nazione, ma praticamente nulla degli altri, vicini e lontani. Il secondo è che la mutevolezza delle opinioni pubbliche non permetterebbe lo sviluppo di alcuna strategia, almeno nei paesi seri. Tant’è che qui da noi è normale aderire alla Via della Seta, promettere porti e sedi per le compagnie di telecomunicazioni ai cinesi, poi cambia il governo e via dalla Via della Seta, dentro amicizia con Taiwan, porti e tlc solo agli occidentali. Magari tra quattro anni si rifà il contrario. Il terzo motivo è il più importante, l’argomento politica estera è nel dominio del realismo e della ragion di stato, ragione del tutto amorale. Le opinioni pubbliche invece sono morali o almeno coltivano questa auto-rappresentazione, hanno orrore della mancanza di buoni sentimenti che accompagna una normale politica estera che di suo è letteralmente “al di là del bene e del male”.
Forse qualcuno ricorderà che Putin, poco prima dell’inizio della guerra all’Ucraina, spese più di un’ora in televisione a reti unificate per spiegare ai cittadini varie cose tra cui che l’Ucraina non è un vero Paese, che in fondo è Russia per quanto nelle mani di traditori e malfattori, che gli stessi ucraini, fratelli del popolo russo se non russi occasionalmente in altra amministrazione, andavano liberati dal giogo di quei traditori malfattori. Si poteva definire questa la sua narrativa per giustificare la guerra al suo popolo. Un popolo in tutt’altre faccende affaccendato e come ogni altro popolo europeo, più dedito alla normale vita quotidiana, sogni, speranze, piccoli affari etc. . In particolare, i giovani che soprattutto nelle città, di nulla differiscono dai nostri, Internet, musica, sport, primi approcci sessuali e quant’altro. Sicuramente non facilmente inquadrabili militarmente e spinti con convinzione a combattere (ovvero rischiare la vita) contro quelli che percepivano come omologhi, tra l’altro dello stesso ceppo. Tant’è che Putin ha usato Wagner e ceceni, soprattutto nei combattimenti di città (notoriamente costosi in termini di vite umane) ed assai poco l’esercito propriamente detto.
I motivi dell’invasione dell’Ucraina erano strettamente geopolitici, Putin non aveva scelta per molti versi, ma ne abbiamo già discusso più di un anno fa e tanto ognuno poi usa le sue lenti per interpretare gli eventi. Tenevo solo a precisare che i motivi solidi dell’atto non erano e non sono comunicabili per varie ragioni, anche perché non verrebbero assolutamente compresi. Vale per l’una come per l’altra parte. La ragione geopolitica è semplicemente spaventosa per chi nutre convinzioni idealistiche.
Sul campo, già i ceceni a Mariupol, ma poi i Wagner con più forza a Bakhmut, avevano lamentato di non aver ricevuto sufficiente supporto dall’esercito regolare. La cosa funziona così, queste truppe professionali fanno il lavoro più sporco e rischioso della guerra in prima linea, lo sanno, lo accettano, vengono pagati bene per questo. Tuttavia, logica vuole che l’esposizione al rischio sia ben precisa ovvero che prima o poi, dopo aver sfondato o fatto il lavoro grosso, arrivi l’esercito e relativa logistica a consolidare la situazione velocemente. Pare così non sia andata e più di una volta.
Prigozhin di recente, e sempre a toni più alti, se la prende con Shoigu, Ministro della Difesa, il vero vice-Putin della faccenda. Faccio notare che Shoigu, ben prima della guerra, era dato come il più probabile successore di Putin che aveva promesso di non ricandidarsi alle prossime elezioni, anche per motivi di salute oltre altri più complessi da citare in breve. Putin pochi giorni fa dichiara di esser molto deluso da certi “generali da salotto”. I russi non fanno guerre sul campo da un po’, almeno su terra, ed è quindi vero che hanno molti quadri non proprio temprati alla bisogna. Ma la dichiarazione è da leggere come tentativo di far finta di dar sponda a Prigozhin ed i malumori dal fronte. Anche se dall’inizio del conflitto i russi hanno cambiato più e più volte generali chiave sul campo, oltre quelli morti, Putin non si è mai sognato di mettere in discussione Shoigu in quanto sa benissimo che il problema non è lui che anzi è il suo più fedele collaboratore.
Si consideri anche come il potere russo, contrariamente a quanto favoleggiato dai propagandisti occidentali, è tutt’altro che monolitico e quindi c’è più di una banda che vedrebbe con favore la dimissione di Shoigu per riaprire i giochi della successione. L’attuale rivolta di Prigozhin-Wagner sembra proprio pubblicamente rivolta contro Shoigu, per forzare la mano a Putin che non è messo in discussione, almeno ufficialmente. E’ chiaro che conta su qualche appoggio a Mosca.
Quanto alla poca partecipazione delle truppe regolari e quindi la responsabilità diretta del ministro (ovvero poi direttamente di Putin) si possono solo fare illazioni. Forse Putin immagina una guerra molto lunga e si riserva la riserva. Forse Putin sa quanto in fondo questa guerra sia impopolare laddove da film proiettato in televisione diventasse sempre più sangue e bare dei propri figli oltre un certo numero e con figli di cittadini e non contadini siberiani. Forse ci sono questioni a noi non note sulla necessità di presidiare i tanti vasti confini della federazione e le truppe scelte scarseggiano. Tant’è che oltre a mercenari e poco altro, fino ad oggi se l’è cavata più con droni e missili, neanche troppa aviazione e dopo le prime problematiche uscite, neanche la Marina e soprattutto gente del Donbass, la più motivata. O forse c’è tutto ciò e pure altro. Sta il fatto che il lamento di Prigozhin ora è diventata rabbia agita. Senz’altro ci sono obiettivi di faide interne il potere a Mosca e quindi accanto a Wagner c’è anche qualcun altro.
Del resto, se guardiamo la faccenda dal punto di vista di Prigozhin, deve esser arrivato al limite. Per quanto pagati, anche i mercenari hanno un limite al sacrificio supremo e quando questo sembra senza ragione o governato da una ragione eccessivamente cinica, difficile tenere gente del genere allineati e coperti, con le buone ormai non più da tempo, ma a questo punto neanche con le cattive. Quindi, forse, non aveva scelta.
In più, è anche possibile abbia annusato aria da “conflitto congelato”, un accontentiamoci che dava come prospettiva un suo certo ridimensionamento e conseguente regolamento di conti per le intemperanze più volte manifestate anche pubblicamente. Nell’ultima settimana Z. ha ammesso il fallimento della sua controffensiva, gli americani si sono mostrati “sorpresi e preoccupati” come se apprendessero le notizie dalla CNN (ricordo che fra un anno in USA si vota e Biden non ha interesse ad andare ad elezioni con impegni pressanti di guerra sul groppone), Putin ha ritirato fuori dichiarazioni da “be’ forse è il caso di vedere seriamente come sbrogliare questa matassa”.
Ora, fare previsioni presupporrebbe sapere cose che io non so oltreché una improvvida fiducia nella linearità di questo tipo di faccende. Immagino che decisivo sarà vedere nelle prossime ore cosa guadagna Wagner e se, quando, dove e come, i suoi alleati in alto proveranno ad uscire allo scoperto accendendo qualche altro fuoco, se ne hanno facoltà. Altresì, occorrerà vedere se e quanto gli americani e gli europei vorranno o sapranno tenere a freno gli ucraini che tenteranno di approfittarsene alla grande. Questa improvvida mossa potrebbe far diventare la questione Wagner una questione nazionale seria mobilitando anche i più renitenti in favore di Putin? Forse, dipende dallo stato interno dei russi che non conosciamo. Infine, se Putin non schiaccia i Wagner spazzandoli via in fretta, dovremo dedurne che lo stato interno alla linea di potere che dal Cremlino va nell’esercito in campo e nelle caserme è davvero fragilissima, con conseguenze gravi non solo per la guerra in corso ma più in generale per il suo stesso potere e relativo disequilibrio dell’area. Il sacrificio di Shoigu a Prigozhin mi sembrerebbe strano, ma dipende molto dallo stato interno gli equilibri del vertice di potere, Putin ne uscirebbe comunque molto male. Intanto si muovono i ceceni che invece sono stati accontentati a loro tempo in termini di potere e riconoscimento, diversamente dai Wagner.
Vediamo.

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