IL FASTIDIO PER IL PENSIERO RIFLESSIVO. Il termine “ideologia” nasce in Francia nella prima parte dell’Ottocento ad opera di alcuni filosofi materialisti che intendevano sviluppare una conoscenza (logos) su come nasce, si compone e funziona il sistema di pensiero (idee). Cercavano cioè di pensare al come pensiamo. Non a cosa pensiamo, il “cosa” viene dopo, prima c’è il come.
Vennero chiamati “ideologues” e su loro si abbatté l’ira di Napoleone: “È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia” (1812). Insomma, a Napoleone questa ricerca su come pensiamo e quindi poi agiamo non piaceva, bisognava agire e basta, naturalmente come piaceva a lui.
Da Vilfredo Pareto a Francis Fukuyama via Popper, il pensiero liberale ha da sempre mostrato vivo fastidio per le ideologie e ne ha celebrato la fine eccitandosi per il crollo dell’ideologia marxista al passaggio tra anni ’80 e ’90. Finalmente, non c’erano più ideologie, era rimasta solo la loro. In effetti, già Destutt de Tracy, l’animatore degli “ideologues” francesi, aveva segnalato come la morale utilitaristica e la conseguente politica liberalistica non avessero nulla di oggettivo e naturale e fosse appunto una “ideologia”. Ma i liberali sono così, irriflessivi, se c’è più di un sistema di pensiero oltre al loro danno condanne di “ideologia!” a qualsiasi altra forma del pensare, quando rimane solo il loro sono felici, le ideologie sono morte, la natura oggettiva delle cose ha trionfato.
Arriviamo così ad un articolo de Il Foglio che è un giornale di ideologia liberale. Qui, un giornalista con le idee chiare e distinte titola contro il “dogma” della complessità. Poi declina l’occhiello con “La complessità è diventata ideologia, rifugio d’intelligenze vanitose, benintenzionati smarriti e professori cialtroni”. Sta recensendo il saggio di una giovane filosofa francese, Sophie Chassat, “contro questo mito culturale odierno”, il mito della complessità. Wow!
Dopo aver segnalato che il saggio della francese è “favoloso”, continua con abuso di aggettivi squalificativi. Quello della “complessità” è “un mito” che porta ad esser “inebetiti dal caos”, “in bilico tra solennità e supercazzola”, “un rifugio dell’ignoranza”. Chiude alla grande con: “Il suo è un invito a ritrovare il senso del “cruciale”. Il mondo è complesso? A maggior ragione è necessario scegliere: modelli -di vita, di valori, di produzione-. Sapendo che decidere è inevitabilmente semplificare. […] L’alternativa, è vivere complessati.”. Bella la chiusura, maschia, decisa, pragmatica.
Viene così curiosità di andarsi a leggere questa intemerata della francese contro la complessità. Ma poiché di questi confusi tempi capire chi emette il discorso è la prima cosa da fare per capire come pensa chi poi ci dice cosa pensa, scopriamo che il suo piccolo saggio contro il pensiero della complessità è ospitato dal sito di un think tank “liberale, progressista, europeista” che ovviamente sono verità di natura, non ideologie.
Wikipedia, di questi signori, riferisce che: “Per quanto riguarda l’economia, la Fondazione auspica, […] una riduzione della tassazione, un rilancio delle privatizzazioni, una riduzione della spesa sanitaria e la non sostituzione un funzionario su due. Secondo la Fondazione, [… ] “lo Stato non ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze” e dovrebbe “rinunciare ad alcune aree di competenza” a vantaggio del settore privato”.
Agatha Christie, grande Maestra della logica abduttiva, diceva che due indizi sono una coincidenza per cui che il giornale liberale si esalti per un articolo sul sito di un think tank ultraliberale è, appunto, solo una coincidenza, al momento. Andiamo allora alle tesi.
Le tesi della francese sono varie e non riassumibili in un articolo breve. In parte sono quelle del virgolettato riportato da Il Foglio, impresa privata liberale che prende circa 1 milione di euro l’anno (2021) di sovvenzioni statali altrimenti sparirebbe dal mondo del visibile. Qualcuno l’ha chiamato, “il reddito di giornalanza”, utilissimo per tenere in piedi i megafoni contro il reddito di cittadinanza la cui negatività è lampante, non è certo un giudizio ideologico.
In pratica, la filosofa imputa al pensiero della complessità, il farla sempre più difficile del necessario, tanto da portare ad un tedioso smarrimento inattivo, irresponsabile, troppo intellettualizzato, paralizzante. Essendo filosofa conosce i trucchi del mestiere (Retorica, Aristotele) ad esempio la cattiva categorizzazione, quella della “complessità” per lei è una “ideologia” e sappiamo che ideologia è male, la Verità è il Bene, quale poi sia la Verità non conviene domandarselo.
Segnalo solo che nel riferire dell’archeologia dei concetti, su “ideologia” passa da Destutt de Tracy a Marx, dimenticandosi di Napoleone che diceva del pensiero del filosofo “ideologue” le stesse cose che lei imputa oggi al pensiero complesso. Ce l’ha anche con l’approccio complesso al problema climatico e guarda un po’, anche con l’IPCC e la COP27, ma non perché è negazionista sul fatto che c’è un problema, ma perché si perde troppo tempo a non fare le poche, chiare cose che andrebbero fatte, le cose “oggettive”. La Signora poi ha fatto di necessità virtù e visto che di sola filosofia non si campa, ha messo su una società di consulenza su “filosofia e branding”, marketing, comunicazione. Tra i suoi clienti Total. Immagino che lavorando con Total abbia appreso le giuste cose da fare sul problema climatico, cose semplici vivaddio!
Leggetevelo l’articolo, è davvero fantastico, sarebbe puro piacere rintuzzare argomento per argomento notando gli slittamenti logici e di inferenza, cioè in sostanza la voluminosa confusione che l’adepta delle idee “chiare e distinte” fa a proposito della cultura della complessità. Ma qui non abbiamo lo spazio sufficiente. Le conclusioni sono chiare, siamo in una epoca speciale: “Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono quindi di stabilire delle priorità, di scegliere le giuste battaglie, di porci obiettivi chiari e, per farlo, di porci le giuste domande. Cosa è in definitiva essenziale? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni primari? In quale direzione vogliamo andare?” Ecco le giuste domande! Sicura?
Vado per grandi sintesi, semplifico. Nel lungo Paleolitico, ci svegliavamo la mattina e ci domandavamo “oggi che si mangia?”, ci davamo da fare e più o meno davamo la risposta concreta agendo. Nel tardo Neolitico, quando arrivammo a vivere in 40.000 ad Uruk, non potevano farlo più perché non avremmo trovato da mangiare per così tanti coi vecchi metodi. Cominciammo così a prevedere i bisogni, coltivando ed allevando fonti di cibo. Ne nacque la civiltà e le società che i sociologi di ogni ordine, grado ed ideologia chiamano “società complesse”. Società complesse in un mondo ancora sostanzialmente abbastanza semplice in cui potevi sfruttare la natura a piacimento e massacrare i vicini fastidiosi che magari avevano fatto un colpo di stato locale e non ti volevano vendere più l’uranio per le tue centrali nucleari che, quelle sì, risolvono bene il problema climatico. Oggi non solo le società sono sempre più complesse, lo è diventato anche il mondo! Siamo 8 miliardi con 200 Stati e la natura non ci dà cinque Terre per vivere tutti come gli americani e gli europei e gli americani e gli europei non vogliono certo abbassare il loro tenore di vita per diventare compatibili. Anche perché la colpa di questo disequilibrio non è certo loro ma di quegli umani di seconda fascia che sono gli asiatici, gli africani ed i sudamericani che vogliono stare meglio facendo saltare il banco. Da cui numerosi problemi sul piano economico, finanziario, logistico, migratorio, culturale, sociale, politico ed in definitiva geopolitico.
Insomma, prima agivamo, poi prevedevamo ed agivamo di conseguenza, oggi dovremmo agire prevedendo non solo i nostri voleri e soddisfazione di questi bisogni ma i controeffetti di questo agire rispetto al mondo naturale abitato da 8, prossimi 10 miliardi di gente come noi, ora anche con le bombe atomiche e la tecnologia prima nostra esclusiva. Ciò porta a domandarci quali dovrebbero adattivamente essere le forme del nostro pensare stante che certo alla fine dobbiamo agire. Questa è la domanda giusta che la filosofa-consulente aziendale non ha fatto e non vuole che si faccia, lei come il think tank che ne ospita la requisitoria, pubblicizzata qui dal giornale ultra-liberale. Farsi questa domanda è ideologia!
Il pensiero moderno da Galileo e Descartes ad oggi ha avuto quattro secoli di sviluppo. Il pensiero della complessità è giovane, ha solo settanta anni (anche meno) è ancora in formazione, ampliamento, delucidazione. Il pensiero della complessità, tecnicamente parlando, è una onto-gnoseologia ma non vi impressionate sul termine oscuro, si tratta di pensare a come pensiamo per poi agire, il fine del pensiero umano è sempre agire, è definito tale da tre milioni di anni di evoluzione dell’umano, nessuno contesta questo. Noi non siamo l’Homo faber come continua a ripetere la signora e non pochi altri attardati al XIX secolo, secolo di potenti ideologie (liberali-marxiste etc.), siamo l’Homo cognitivus, che pensa prima di fare. Oggi è adattivamente l’epoca in cui dobbiamo pensare bene prima di agire e questo pensar bene non è pensare questo o quello, questo o quello verranno pensati e promossi dai loro portatori, come sempre è accaduto e sempre accadrà.
Pensare bene è pensare prevedendo nei limiti del possibile, gli effetti del nostro agire scelto dopo aver ben analizzato i fatti, i bisogni, le forme della vita associata ed il contesto. Per far questo, secondo il pensiero della complessità, aiuta l’inquadrare le cose, oggetti, fenomeni, come sistemi. Non perché ci piace, ma perché letteralmente “tutto” è descrivibile come tale, non ci sono eccezioni se non per entità metafisiche come le singolarità o Dio. Ogni oggetto del nostro pensare è scomponibile in parti che hanno interrelazioni tra loro, a volte non lineari, ogni sistema ha interrelazioni con altri sistemi e tutti stanno in un contesto su cui hanno influenza e da cui sono influiti e tutto ha una durata, sta nel tempo, in un certo tempo che è storia. Così per la cascata di portati gnoseologici che vanno dai feedback alle emergenze, dalla multi-inter-trans-disciplinarietà alla logica abduttiva e parecchio altro ancora da sistematizzare, almeno un po’ meglio di quanto non sia ad oggi possibile.
Per questo Morin ha chiamato il suo magnum opus Il Metodo (cito Morin ma non è detto aderisca sempre ed in toto al suo pensiero, come per altro non mi capita di far con qualsiasi altro pensatore da Aristotele a Kant a Marx, ho ambizioni di pensatore in proprio), per indicare che il luogo nativo del pensiero complesso non è l’ideologia ma il come le costruiamo, le giustifichiamo, le rendiamo utili a dirigere l’azione che rimane il fine di ogni pensiero umano che non sia dedicato -appunto- a pensare a come pensiamo che ne è la propedeutica.
Nel primo commento una piccola bio della simpatica filosofa, un piccolo quadretto de “Il mondo di Sofia”, dal quale si evince l’allineamento ideologico tra Il Foglio, il think tank, la signora in questione. Agatha Christie avrebbe abduttivamente detto che sì due indizi fanno una coincidenza, ma tre fanno una prova. La prova che tra questi scadenti ideologi liberali ed il pensiero della complessità c’è conflitto sul come pensiamo o forse solo, raccogliendo l’invito a semplificare, sul “se” pensiamo prima di agire. Domande che non vanno fatte.
Complessità. Critica di un’ideologia contemporanea
Il paradigma della complessità ha ormai invaso tutti i nostri discorsi e le nostre rappresentazioni della realtà. Nessuna situazione può sfuggire a questo presupposto: “è complessa”. Ma non c’è nulla di neutro in questo filtro applicato al mondo. Altera la nostra capacità di comprendere, prendere decisioni e agire, così come erode il nostro senso di responsabilità.
Questo articolo esplora le ramificazioni semantiche, i presupposti teorici e le conseguenze pratiche del modello del “pensiero complesso”, promosso in particolare dal sociologo Edgar Morin, come ideologia contemporanea.
Per uscire dall’impasse in cui questo nuovo pensiero unico ci sta intrappolando, vengono esplorate altre strade, tra cui quella che prevede la riscoperta del senso del “cruciale”.
Sophie Chassat,
filosofa, socia fondatrice di Wemean, dirigente d’azienda, membro del consiglio di sorveglianza della Fondation pour l’innovation politique.
Introduzione
https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1
Note
1. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
2. Il libro di Edgar Morin Introduction à la pensée complexe, pubblicato nel 1990 e riedito da Seuil nel 2005, espone i principi fondamentali del pensiero complesso.
3. Si veda “La ‘post-vérité’, nouvelle grille de lecture du politique”, Letemps.ch, 18 novembre 2016.+.
4. “Nel 1972, il meteorologo Edward Lorenz tenne una conferenza all’American Association for the Advancement of Science intitolata “Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set off a Tornado in Texas?”. “Prevedibilità: il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas?
5. Edgar Morin, La Méthode, Éditions du Seuil; i sei volumi de La Méthode sono stati pubblicati tra il 1977 e il 2006.
“Come tutti gli esseri viventi, le idee hanno sempre bisogno di essere rigenerate, ri-generate, per conservare la loro interezza e la loro vitalità1”. Edgar Morin ha ragione. Per mezzo secolo ha esortato le nostre società occidentali ad aprire gli occhi sulla complessità del mondo e ha visto questa idea diffondersi così efficacemente che il suo paradigma del “pensiero complesso “2 ha ormai preso il sopravvento su tutto.
La semantica che usiamo ogni giorno lo testimonia: nulla è diventato “sistemico”, “ibrido”, “globale”, “liquido” o addirittura “gassoso”, sia nel campo della politica che in quello dell’economia, della scienza o dei media, che tengono lo specchio dell’opinione pubblica. Ovunque si guardi, il mondo della volatilità, dell’incertezza, della complessità e dell’ambiguità (VUCA) è diventato il nostro orizzonte ultimo e definitivo.
Da idea fertile che ha permesso alle società umane di progredire nella comprensione di se stesse e del mondo circostante, la complessità si è gradualmente trasformata in ideologia. Ormai indiscutibile e indiscusso, il dogma della complessità è diventato il presupposto di tutti i nostri pensieri e azioni.
Se è stato utile per riflettere sul XX secolo – e in particolare per contrastare ideologie riduttive e distruttive – non è più lo strumento concettuale di cui abbiamo bisogno per agire nel XXI secolo. Questo perché, applicato a qualsiasi situazione, il dogma della complessità riduce la nostra comprensione, il nostro potenziale di azione e il nostro senso di responsabilità.
Innanzitutto, riduce la nostra comprensione, e quindi la nostra capacità decisionale, perché impone una rappresentazione barocca del mondo in cui tutto è ingarbugliato, incerto e intrinsecamente contraddittorio. Relegando la ricerca della verità a un approccio mutilante alla realtà, incoraggia il relativismo e accentua le carenze dell’era della post-verità3.
C’è poi la perdita dell’azione, perché quando tutto è complesso, come evitare il panico e la paralisi? Da dove cominciamo se, appena muoviamo un dito, possiamo scatenare una catastrofe all’altro capo del mondo, per “effetto farfalla “4? Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questa rappresentazione del problema.
“È complesso” diventa rapidamente una scusa per l’inazione. Se da un lato lo stato attuale del mondo ci chiede di impegnarci più che mai, dall’altro stiamo assistendo a un fenomeno di grande disimpegno, percepibile sia in ambito civile che aziendale. Il dogma della complessità, che si riferisce agli effetti sistemici, sta togliendo responsabilità agli individui: il mondo è così complesso, tutto è così sistemico, che “che senso ha” agire?
Tutti questi effetti perversi e deleteri sono in contrasto con lo spirito umanista del “metodo” originale di Edgar Morin 5. Oggi la complessità non è più un concetto liberatorio. È diventato un concetto inibitorio che deve essere superato.
Dobbiamo quindi mostrare i limiti del pensiero complesso e ricordarci le virtù della semplicità, persino della semplificazione. Ma il ritorno alla semplicità non può essere l’ultima parola nel nostro rapporto con il mondo contemporaneo. Stiamo entrando nell’era del “cruciale”, perché siamo a un “bivio”: abbiamo sfide da affrontare, battaglie da combattere, decisioni da prendere. È arrivato il momento di decidere.
I
Parte
Complessità: un’ideologia senza nome
https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-1
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Preso in prestito dal latino complexus (che significa ciò che è tessuto insieme), participio passato del verbo complectere (assemblare, abbracciare), il termine “complesso” caratterizza un tessuto fatto di elementi diversi e interconnessi.
Ma il tessuto ha finito per diventare una ragnatela, catturando tutti i nostri discorsi e le nostre pratiche – i nostri complessi, per usare la parola che è diventata un sostantivo in psicologia – fino a diventare l’unico orizzonte. La complessità, infatti, è ormai un luogo comune, il presupposto della maggior parte delle nostre rappresentazioni del mondo, o peggio: un dogma, un principio indiscusso e indiscutibile. Sostenuta da tutta una serie di nozioni che fanno sistema e si alimentano da sole per sostenere una visione del mondo proliferante, come un pensiero unico (l’ultima goccia per una dottrina della complessità), l’idea è diventata un’ideologia che non dice il suo nome.
1
L’inflazione semantica della complessità
Note
6. Alain Pérez, “Bienvenue dans un monde complexe”, Les Echos, 28 novembre 2002.
7. Éric Bertin, Olivier Gandrillon, Guillaume Beslon, Sebastian Grauwin, Pablo Jensen, Nicolas Schabanel, “Les complexités: point de vue d’un institut des systèmes complexes”, in Hermès, La Revue, 2011/2 (n° 60). La teorizzazione della complessità deve molto all’ambito militare, un’origine tutt’altro che neutrale. Rappresentare il mondo come un campo di battaglia è una rappresentazione possibile, ma – diciamolo – non insignificante.
8. Daniel Durand, La systémique, Que sais-je? 1979-2021.
9. Ferdinand de Saussure, 1931 (citato da Durand), ibid.
10. Pauline Verge, “Une étudiante obtient 18 à son mémoire sur ” la méta-complexité chez Emmanuel Macron ” “, Le Figaro Étudiant, 16 gennaio 2019.+.
11. Muriel Jasor, “Toujours plus de rencontres pour phosphorer entre leaders sur des sujets complexes”, Les Échos, 24 novembre 2022 +.
12. Mickaël Réault, “Devenir une entreprise vivante pour faire face à la complexité et l’incertitude”, Forbes.fr, 8 gennaio 2021.
13. IBM Global CEO Study, “Leveraging complexity”, 2010. Questo studio è la quarta pubblicazione della serie biennale “IBM Global CEO Study” condotta dall’IBM Institute for Business Value e da IBM Strategy & Change.+.
14. “Ad esempio, maggiore è la volatilità, più velocemente un sistema cambia e più complesso e imprevedibile può diventare rapidamente, e quindi… ambiguo. E viceversa, o il contrario”. (Benjamin Chaminade, “VUCA, Management de la Complexité”, benjaminchaminade.com, 1 febbraio 2021).
15. Nassim Taleb, Il cigno nero: The Power of the Unpredictable, Les Belles Lettres, 2012.
16. Si veda ad esempio Julia Posca, William Mansour, “Qu’est-ce que le racisme systémique?”, IRIS, 4 giugno 2020; Ariane Nicolas, “Racisme systémique : mais de quel ” système ” parle-t-on?”, Philosophie Magazine, 16 aprile 2021; Fabrice Dhume, “Du racisme institutionnel à la discrimination systémique. Reformuler l’approche critique”, Migrations Société, 2016/1 (n. 163), p. 33-46.+
17. Si veda ad esempio Camille Zimmermann, “Petit précis de culture du viol (et autres évidences troubles)”, Nouvel Obs, 22 dicembre 2017; Véronique Nahoum-Grappe, “Culture contemporaine du viol”, Communications, 2019/1 (n. 104); cfr. Jérôme Blanchet-Gravel, “L’invention de la culture du viol”, Causeur, 18 gennaio 2018.+
18. “Risque systémique”, La Finance pour tous, 27 novembre 2019.
19. Vedi sotto, Parte III, 3: “Le complexe à la source du désarroi climatique?”.
20. Dal “sostegno multiforme” per affrontare la “crisi multiforme” del mondo, della democrazia, dell’ospedale, del Sahel, ecc. alla “governance multiattoriale” nella sfera pubblica e privata, passando per le “valutazioni multi-fonte” e il riconoscimento delle “multi-potenzialità” nel mondo professionale.
21. Gabrielle Halpern, Tous centaures! Éloge de l’hybridation, Le Pommier, 2020.
22. Robert Maggiori, “Zygmunt Bauman, il avait vu la ‘société liquide’”, Libération, 11 gennaio 2017.+
23. Solenn de Royer, “Emmanuel Macron, président “liquide” au cœur d’une campagne fantôme”, Le Monde, 8 marzo 2022.+ 24.
“Benvenuti in un mondo complesso “6
La causa è chiara. Con la globalizzazione del mondo, la moltiplicazione esponenziale dei flussi di persone, merci e informazioni sotto l’effetto combinato della globalizzazione degli scambi economici e dell’accelerazione tecnologica, l’internazionalizzazione dello spazio politico, la responsabilizzazione dell’individuo rispetto alla collettività e la consapevolezza ambientale, le nostre società contemporanee sono entrate nell’era della “complessità”.
Promosso a partire dagli anni ’70 con l’affermarsi delle scienze della complessità negli Stati Uniti e poi in Europa, questo concetto deve molto alla teoria dei sistemi che si stava sviluppando da due decenni. Con l’avvento dei computer, oltreoceano nacquero discipline come la ricerca operativa, la teoria dei giochi e la cibernetica (la scienza della macchina sviluppata da Norbert Wiener), frutto di una nuova collaborazione tra fisici, matematici e ingegneri che, utilizzando la modellazione al computer, cercavano di ottimizzare l’efficacia delle operazioni militari7. La loro ricerca ha prodotto un nuovo strumento concettuale, in grado di aiutare a risolvere problemi complessi in una grande varietà di campi: dalla creazione di strumenti di guida per il fuoco aereo alla comprensione del funzionamento del cervello umano, dalla gestione di grandi organizzazioni industriali – i famosi “complessi industriali” – alla produzione dei primi computer su larga scala8. La nozione strutturalista di “sistema”, aggiornata dal biologo Ludwig von Bertalanffy, è arrivata a designare “un insieme organizzato, costituito da elementi interdipendenti che possono essere definiti in relazione gli uni agli altri solo in funzione della loro collocazione in questo insieme “9 e che, nelle parole di Edgar Morin, sono “reciprocamente interrelati”. Con Edgar Morin, la sociologia utilizza questo strumento per comprendere la società come un intreccio di sistemi multipli (sociali, culturali, economici, politici, ecc.).
Interazione, globalità, organizzazione e complessità diventano così i quattro concetti fondamentali di una nozione tentacolare che dalla visione meccanicistica dell’ingegneria e della fisica si sta gradualmente estendendo al mondo biologico e sociale.
Dallo sciame di storni agli alti e bassi della quotazione in borsa, dalle dipendenze umane alla vita di una cellula, dall’insorgere di un terremoto alla formazione di un ingorgo stradale, l’obiettivo è ora quello di studiare, all’interno del tessuto del mondo fenomenico, questi insiemi organizzati che sono “più della somma delle loro parti” e in cui le informazioni vengono costantemente scambiate, favorendo l’emergere di effetti che non erano prevedibili a priori. Gli organismi viventi, le società umane, le organizzazioni politiche ed economiche sono tutti “sistemi complessi” che sono diventati il fulcro della scienza contemporanea.
Inevitabilmente, più si moltiplicano gli elementi costitutivi e le interazioni di questi sistemi, più complessa appare la realtà di cui fanno parte. Da questo punto di vista, il nostro mondo non poteva che diventare più complesso man mano che diventava più connesso e, soprattutto, man mano che progredivamo nella sua comprensione, avendo più parametri da prendere in considerazione – e più informazioni a cui accedere – per capirlo sempre meglio. Il pregiudizio è inevitabile: più conosciamo il mondo, più sembra difficile da abbracciare. La complessità è il nostro orizzonte, ma si allontana sempre di più quando ci avviciniamo ad essa.
Il vocabolario del complesso ha quindi invaso la nostra retorica quotidiana per esprimere il nostro rapporto con questa realtà aumentata, per non dire satura di informazioni e connessioni. Questa inflazione semantica ha finito per svuotare il concetto del suo significato originario.
Il campo della politica è particolarmente colpito, situato all’incrocio tra geografia e cultura, economia e demografia, collettivo e individuale, universale e particolare, globale e locale, in un momento in cui le società diventano sempre più plurali e la struttura dello Stato-nazione è minacciata. Non c’è discorso politico che non deplori la complessità delle relazioni tra i livelli comunale, intercomunale, dipartimentale, regionale, nazionale, europeo e internazionale, la crescente complessità dell’azione diplomatica, le missioni dei nostri eserciti in tempi di guerra ibrida, la lotta al cambiamento climatico, le sfide di una politica sanitaria pubblica, la riforma delle pensioni, la gestione delle conseguenze di “#metoo”, per non parlare della complessità dell’amministrazione francese. Applicato a tutti i temi, il discorso di Emmanuel Macron ai prefetti del 15 settembre 2022 è caratteristico di questa invasione della complessità nel discorso politico contemporaneo: dal “tema delle politiche pubbliche per l’infanzia, che è così complesso perché spesso è stato diviso […] …] tra le autorità giudiziarie, i dipartimenti, le amministrazioni”, il Presidente francese passa a “queste grandi transizioni digitali, demografiche e climatiche” che “sono così complesse e così intrecciate che ci impongono di riunire attorno a un tavolo attori che finora hanno parlato separatamente”, Ha poi parlato di “un modello che accumula una serie di complessità e protezioni che pongono la Francia molto indietro rispetto ai suoi vicini”, prima di affrontare “la complessità” dei casi nelle mani dei tribunali, “la complessità amministrativa che abbiamo”, e infine il sistema sanitario “che è diventato troppo ingombrante e complesso per elaborare risposte standardizzate a livello nazionale”. Non sorprende che nel 2019 una studentessa dell’Università Paris Descartes abbia dedicato la sua tesi di laurea in semiologia e comunicazione a “La méta-complexité chez Emmanuel Macron: une forme de vie partagée entre la complexité, la dualité et la neutralité “10 (La metacomplessità in Emmanuel Macron: una forma di vita divisa tra complessità, dualità e neutralità).
Si pensi anche all’appetito con cui il mondo imprenditoriale ha moltiplicato negli ultimi anni “gli incontri per i leader per un brainstorming su questioni complesse”, rispondendo a “un bisogno crescente, in un mondo turbolento e imprevedibile come il nostro, di cogliere l’opportunità di riflettere insieme sui temi di attualità più spinosi “11 . Oppure l’interesse mostrato dalle aziende per la “gestione della complessità”, che è l’unico modo per sopravvivere e svilupparsi nel bel mezzo di un XXI secolo “ricco di sfide e segnato da una crescente incertezza”, un mondo “impegnato in un movimento complesso e in perenne accelerazione “12 .
Nel mondo degli affari, la complessità è diventata l’assioma di tutti i discorsi, che si tratti di innovazione, risorse umane, metodi organizzativi o dell’azienda stessa. Uno studio dell’IBM Institute for Business Value e dell’IBM Strategy & Change13 , che afferma di basarsi su interviste a più di 1.500 manager in tutto il mondo, riflette chiaramente questa vampirizzazione del mondo economico da parte del pensiero complesso. È ormai assodato che ci stiamo evolvendo in “un sistema globale di sistemi” (Samuel J. Palmisano, Presidente e CEO di IBM Corporation), che i leader devono ora affrontare “un mondo [non] lineare” (Julian Segal, Presidente e CEO di Caltex Australia Limited) e che la complessità è “un catalizzatore e un acceleratore dell’innovazione” (Juan Ramon Alaix, Presidente di Pfizer Animal Health).
Infine, la complessità è diventata mainstream, il termine è ormai utilizzato da tutti per riferirsi potenzialmente a qualsiasi argomento. Il discorso dei media ne è un chiaro riflesso. Così, quando alcuni minacciano, durante uno sciopero nel settore energetico, che “se i datori di lavoro non daranno soddisfazione, l’inverno sarà molto complesso”, altri evocano il “complesso smistamento dei bagagli” all’aeroporto di Roissy, altri ancora “un complesso dibattito” alla corte d’assise “sul movente di una donna accusata di omicidio coniugale”, un incendio “fuori dall’ordinario per la sua velocità, scala e complessità”, quando non si tratta della “complessità della formazione del PSG”. Le grandi notizie non vengono tralasciate: dopo la pandemia di Covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina ha fornito ai media abbastanza “elementi di complessità” da alimentare le notizie senza sosta: Tra questi, la “complessità di ciò che accade nella testa di Vladimir Putin”, la “complessa costruzione dell’identità ucraina”, i negoziati “più complessi che mai” sotto la minaccia di una terza guerra mondiale nucleare, la “complessità del fenomeno della disinformazione” e una crisi energetica che sta provocando uno “shock di portata e complessità senza precedenti”. Non si tratta di negare le difficoltà che dobbiamo affrontare in queste situazioni, ma di mettere in discussione l’uso costante del vocabolario della complessità per descriverle. Insistendo sulla complessità di un evento, dimentichiamo la brutale semplicità dei rapporti di forza e il posto di questi eventi nella lunga storia dell’umanità: le invasioni del passato erano meno complesse di quelle di oggi?
Le parole della complessità in rete
In un mondo in cui la complessità è diventata non solo un luogo comune, ma l’unico modo di rappresentare i fenomeni, tutta una serie di parole si riferiscono ad essa, chiamandosi per nome e diventando alla fine intercambiabili – il che può anche essere visto come un sintomo della nostra crescente pigrizia intellettuale, che ci porta a esprimerci sempre più in parole chiave e nuvole di parole.
Il solo acronimo VUCA è un sistema. Introdotto dalle forze armate statunitensi negli anni ’90 per descrivere il mondo post-sovietico, dove il multilateralismo aveva sostituito la binarietà della Guerra Fredda, VUCA è diventato, a partire dagli anni 2000, un termine pronto per le organizzazioni che cercavano di descrivere il “nuovo ambiente” in cui dovevano operare. Un ambiente descritto dalla “volatilità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità” dei mercati, dei dati e dei comportamenti dei clienti, sotto l’effetto combinato della globalizzazione dell’economia, della sofisticazione tecnologica e dei rischi geopolitici o climatici; dall'”incertezza” legata a questa volatilità multiforme e all’asimmetria di informazioni che si sta sviluppando tra gli attori in un contesto di forte concorrenza; dalla “complessità”, derivante dalla proliferazione di leggi e norme, fonti di informazione e stakeholder che devono essere presi in considerazione; e infine dall'”ambiguità”, dovuta all’accumulo di informazioni contraddittorie e alla confusione di ruoli e responsabilità in organizzazioni sempre più interfunzionali. La rete semantica del VUCA ha invaso soprattutto le aziende.
Nel nuovo mondo VUCA, i concetti sono interconnessi e interdipendenti: “se cambia un elemento, cambiano anche tutti gli altri “14 . Dopo la crisi finanziaria del 2008, lo shock della Brexit nel 2016 e prima dell’invasione dell’Ucraina, la pandemia Covid-19 ha rafforzato i fan di questo acronimo che è diventato una bussola (ma che bussola è quando non c’è più un polo stabile?) in un mondo circondato dall’imprevedibile. Dal VUCA è facile passare alla metafora del “cigno nero”, coniata dal saggista Nassim Taleb15 per indicare un evento catastrofico quasi statisticamente impossibile, ma che si verifica lo stesso. Un “cigno nero” ha tre caratteristiche: non era previsto, le sue conseguenze sono importanti ed è possibile spiegare perché si è verificato dopo l’evento. L’ascesa di Internet, gli attentati dell’11 settembre 2001 e la crisi economica del 2008 sono stati i grandi “cigni neri” dell’era moderna, prima che arrivasse Covid-19 a spodestarli.
Poco lontano, l’aggettivo “sistemico” viene usato per descrivere una realtà che non può essere compresa senza inserirla in un sistema globale: tutto è collegato, nulla può essere pensato in modo isolato. Dire “è sistemico” per trasmettere l’idea che non possiamo semplicemente afferrare qualcosa perché tutto è collegato ben oltre quello che immaginiamo, è diventato un tic linguistico. La cultura di un’organizzazione? “È sistemica”. Il cambiamento climatico? “È sistemico”. Discriminazione e razzismo? “È sistemico “16. Cultura dello stupro? “È sistemica “17. Il conflitto russo-ucraino? “È sistemico”. Il termine “rischio sistemico” viene utilizzato anche per indicare il “rischio che un particolare evento provochi una reazione a catena” con notevoli effetti negativi sul sistema nel suo complesso, portando potenzialmente a una crisi generale del suo funzionamento18. Questo rischio, che è insito nel sistema bancario e finanziario “a causa delle interrelazioni” che esistono tra le varie istituzioni e i mercati di questo settore, viene prontamente evocato anche di fronte alla “minaccia cibernetica” e al “pericolo climatico”, e ora all’inflazione, che “alimenta il rischio di una crisi sistemica dell’economia”. Alcuni prevedono addirittura che questa “nuova fase della crisi del capitalismo” sarà “totale e multidimensionale”, portando a una “crisi di civiltà”. Senza parlare della Cina, ufficialmente indicata dagli Stati Uniti e dall’Europa come “rivale sistemico”. In realtà, il prestito dalla “teoria generale dei sistemi” di von Bertalanffy è molto più ampio: l'”approccio sistemico” (e i suoi satelliti semantici come la “causalità circolare”, il “loop di amplificazione” e la “riflessione sistemica”) è diventato un totem in molti campi, dalla psicologia, che sta incorporando sempre più spesso i “terapeuti dei sistemi”, alle politiche pubbliche, che trovano in questo approccio un aiuto per “comprendere la complessità della loro valutazione”.
“Sistemico” chiama “olistico” (dal greco holos, che significa il tutto): molto popolare nelle scienze umane e in alcuni consulenti, l'”approccio olistico”, che consiste nel prendere in considerazione “tutto”, è favorito anche per affrontare le questioni ambientali19.
Un altro concetto centrale del pensiero complesso è la “rete”, con la sua serie di nodi interconnessi da percorsi di comunicazione e la sua capacità di interconnettersi con altre reti o di contenere sottoreti, e tutte le potenziali interazioni che ne derivano. I composti del prefisso “multi-” non sono mai lontani20 , così come quelli del prefisso “co-” (dal latino cum: “con”, “insieme”), che è emerso come un faro di speranza in questo mondo di complessità dove l’individuo può cavarsela solo attraverso la collaborazione, la cooperazione, la co-creazione, il codesign, le coalizioni e l’intelligenza collettiva.
“Trasversale” è un’altra parola per indicare la complessità, che tocca la sua dimensione “interdisciplinare”, con l’insegnamento trasversale e i team interdisciplinari nelle aziende. Dopo la crisi sanitaria, tuttavia, “trasversale” è stato detronizzato da “ibrido” – ciò che è misto, contraddittorio, eterogeneo – che è diventato il concetto centrale del “mondo prossimo”: un mondo in cui siamo tutti “centauri “21 , e in cui la flessibilità è diventata la virtù essenziale. Poiché abbiamo deciso che l’ultima parola della realtà è la complessità, possiamo minare le fondamenta su cui sono state costruite le nostre pratiche, culture e organizzazioni. Insensibilmente, ci immergiamo nella “società liquida” teorizzata negli anni Novanta da Zygmunt Bauman per caratterizzare la modernità, dove “le situazioni in cui le persone si trovano e agiscono cambiano prima ancora che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in procedure e abitudini “22 . Dopo l’era solida dei produttori, l’era liquida dei consumatori ha reso la vita stessa più fluida, trasformandola in una vita frenetica, incerta, “mutevole e caleidoscopica”. Dopo la “società ibrida”, era naturale che la società diventasse “liquida”, prima che il mondo politico e mediatico si impadronisse del concetto nel 2022 per deplorare la spoliticizzazione del dibattito in Francia attraverso “Emmanuel Macron, il presidente ‘liquido’ al centro di una campagna elettorale fantasma “23 . Jean-Luc Mélenchon non ha esitato a compiere questo passo, definendo il suo movimento come La France Insoumise (LFI). Secondo il leader di LFI, il suo partito è un movimento “né verticale né orizzontale” ma “gassoso”, con punti che “si collegano trasversalmente” e la sperimentazione di “nuove forme organizzative”.
Infine, “gassoso” è inseparabile dal pensiero complesso reinterpretato dai teorici del management, che nell’arte della pianificazione distinguono, ad esempio, tra attività “solide” (ripetitive e non sorprendenti), attività “liquide” (note e integrabili in una pianificazione flessibile) e attività “gassose” (imprevedibili e quindi non pianificabili). Ciò non sorprende, dato che la parola “gas”, che si riferisce allo stato fisico della materia in cui le molecole sono poco legate e animate da movimenti disordinati, è un termine coniato dalla parola greca e poi latina per caos.
2
Dal metodo all’ideologia
Note
24. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
25. Ibidem, vol. 6, Etica.
26. Si veda la definizione del CNRTL; si veda anche Louis Althusser, Pour Marx, 1965: “Un’ideologia è un sistema (con una sua logica e un suo rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, a seconda dei casi) dotato di un’esistenza e di un ruolo storico all’interno di una determinata società”.
27. Si veda l’articolo di Wikipedia “Ideologia”; si veda anche la lettera di Friedrich Engels a F. Mehring, del 14 luglio 1893: “L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio consapevolmente, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo mettono in moto gli restano sconosciute, altrimenti non sarebbe un processo ideologico “+.
28. Louis Althusser, op. cit. L’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che la sua funzione pratico-sociale prevale sulla sua funzione teorica (o di conoscenza) “+.
29. Il “nuovo paradigma” della complessità si basa quindi su una regola fondamentale: “Distinguere senza disgiungere e associare senza identificare o ridurre” (Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.).+.
30. Carl Mennicke, assistente sociale tedesco, citato nel Philosophisches Wörterbuch di Heinrich Schmidt e Justus Streller, 1951.
31. Si veda più avanti, Parte II, 2, lo sviluppo sulla complessificazione delle norme.
32. Definizione del termine “ideologia” da parte del CNRTL.
33. Edgar Morin, La Complexité humaine, Flammarion, 1994.
34. Espressione del filosofo Étienne Balibar: un “significante pratico” designa un involucro verbale privo di contenuto (senza significato corrispondente) che è molto pratico utilizzare quando si parla per non dire nulla.
35. Réda Benkirane, La complexité, vertiges et promesses, Le Pommier, 2002.
Le deviazioni del “metodo Morin
Quando negli anni ’70 Edgar Morin iniziò a promuovere il “pensiero complesso” in Francia, fu soprattutto per la frammentazione delle conoscenze scientifiche e per la necessità di collegare diversi livelli di analisi e discipline per affrontare in modo più efficace i problemi umani contemporanei. Per il filosofo e sociologo, la nozione di complessità aveva una funzione strategica: doveva “scuotere” una certa “pigrizia mentale”.
Si trattava innanzitutto di una questione di “metodo” (titolo dato da Morin all’opera in più volumi che dedicò all’argomento24 ): l’obiettivo era quello di sostituire l’approccio mirato, analitico, quantitativo e assoluto della scienza moderna con una comprensione globale, olistica, qualitativa ed evolutiva, facendo tesoro degli insegnamenti dell’approccio quantistico, tenendo conto del posto dell’osservatore nell’osservazione e integrando l’incertezza, l’irrazionale e la contraddizione. In questo modo, Morin ha cercato di riabilitare una cultura scientifica umanista, aperta a un approccio interdisciplinare, contro un certo dogmatismo scientista che aveva chiuso gli occhi sulla “multidimensionalità” e sull’irriducibilità degli esseri e delle cose alla pura razionalità.
Ma l’approccio complesso che egli ha contribuito a diffondere ha finito per confondere il mezzo con il fine: a forza di brandire questo pensiero demistificante come un modo per decompartimentare e arricchire la conoscenza del mondo, il pensiero complesso è diventato l’unica porta d’accesso ad esso. Non si tratta di negare l’esistenza dei sistemi complessi, ma di mettere in discussione la tendenza a farne il filtro sistematico di interpretazione della realtà, l’alfa e l’omega del nostro rapporto con il mondo. Ma è proprio questo che è successo: la complessità è diventata l’unica lente attraverso cui guardare tutto ciò che ci circonda.
Il problema è che la complessità, da strumento critico e idea fertile, è diventata un’ideologia, un sistema di credenze condivise che non viene più messo in discussione, che ha le caratteristiche di una falsa scienza e che funge da autorità legittimante per un certo tipo di potere.
Un sistema di pensiero con le tre caratteristiche dell’ideologia
Secondo le parole di Edgar Morin, ogni pensiero deve essere capace di autocritica25. Ma se dobbiamo offrire una critica al “pensiero complesso”, il concetto che ci viene in mente per primo è quello di “ideologia”.
L’ideologia è infatti un sistema di rappresentazioni “specifico di un’epoca, di una società “26 . Si tratta quindi di un insieme di credenze storicamente situato, che diventa dominante nel momento in cui è diffuso e onnipresente, “ma generalmente invisibile alla persona che lo condivide, per il fatto stesso che questa ideologia costituisce la base del modo di vedere il mondo “27 . L’inflazione semantica della complessità nella nostra retorica contemporanea e il modo in cui è diventata un presupposto – e quindi un impensato – del nostro pensiero, la collocano chiaramente in questa categoria.
Coniato da Destutt de Tracy nel 1796 per proporre una scienza delle idee, il termine ideologia perse rapidamente il suo significato originario quando Marx lo utilizzò nel XIX secolo per denunciare un sistema di credenze contrario alla scienza28. Edgar Morin può presentare il suo “paradigma della complessità” come una “scienza nuova”, ma ciò che abbiamo qui è più simile a una “pseudoscienza”, nel senso dato ad essa dall’epistemologo Karl Popper: una conoscenza derivata da un approccio speculativo piuttosto che da un approccio scientifico, che deve basarsi su teorie che possono essere confutate: questo è il criterio di “falsificabilità” della scienza. Secondo questo criterio, deve essere possibile immaginare esperimenti o dispositivi che possano mettere in discussione una teoria. Con le “pseudoscienze”, questo è impossibile perché ogni contraddizione è incorporata nel sistema. Per Popper, la psicoanalisi freudiana e il marxismo sono entrambe false scienze, poiché ogni obiezione alla prima deriva dalla “resistenza dell’inconscio” (dato che l’inconscio non può mai essere dimostrato come falso) e alla seconda dall'”interesse di classe” (poiché ogni attacco è situato e quindi parziale). Con il suo “principio dialogico”, che “permette di mantenere la dualità all’interno dell’unità” associando “due termini che sono allo stesso tempo complementari e antagonisti” (come ordine e disordine) “senza cercare di cancellare le contraddizioni “29 , il sistema complesso è inconfutabile: incorpora tutte le obiezioni che gli si possono muovere e ne esce rafforzato. Se si oppone all’idea di semplicità, può sostenere che la complessità include la semplicità perché abbraccia tutto. Il sistema di pensiero è diventato sistematico.
Infine, nella critica marxista, l’ideologia assume il significato di una mistificazione voluta dalla classe dominante per garantire la conservazione del potere, promuovendo più o meno consapevolmente false credenze: è “l’espressione intellettuale storicamente determinata di una situazione di interessi “30 . In altre parole, è uno strumento per legittimare un ordine sociale esistente. Nel caso dell’ideologia della complessità, potrebbe trattarsi di mantenere il monopolio sulla direzione dell’azione (o dell’inazione) collettiva, limitando l’autonomia individuale. Certo, nessuno lo vuole veramente, ma possiamo solo osservare che le soluzioni di “complessificazione” che rispondono all’osservazione di situazioni cosiddette “complesse” finiscono per confiscare la possibilità di qualsiasi iniziativa individuale a favore di una forma di potere tecnico ed esperto anonimo31. Mentre doveva essere una leva di movimento e di apertura, il pensiero complesso che è diventato il nostro unico orizzonte appare così come l’emanazione di un vecchio mondo che non vuole cambiare e cerca scuse per mantenere lo status quo.
Le falle del sistema
In un’accezione più comune, l’ideologia è una “teoria vaga e nebulosa, basata su idee vuote e astratte, senza alcun rapporto con i fatti reali “32 . Alcune delle falle del sistema di Edgar Morin mostrano le stesse falle del pensiero che è importante individuare per non farsi ingannare dall’illusione del dogma. A forza di accogliere la “vaghezza, l’incertezza, l’ambiguità” e la “contraddizione”, in contrapposizione alla “semplificazione del pensiero”, che doveva essere “superiore in rigore” fino a diventare “rigido e quindi inferiore “33 , il pensiero complesso si nutre in definitiva di confusione e di scorciatoie. Si può quindi sottolineare la sua pretesa di abbracciare tutti gli aspetti della realtà e della conoscenza, di farne una griglia di lettura applicabile a tutto. Ma, come dice il proverbio, chi abbraccia troppo poco abbraccia troppo. A forza di invocare tutti i punti di vista, di gettare ponti tra fenomeni di ordine molto diverso, per non dire sproporzionato, di voler essere utile tanto alla matematica, alla termodinamica, alla biologia e all’informatica quanto all’ecologia, alla sociologia, all’economia, al management e alla politica, il pensiero complesso porta alla dispersione, alla confusione e all’approssimazione di tutto.
Che cosa diciamo esattamente quando descriviamo una situazione come “complessa”? Non è forse un “significante pratico “34 che ci permette di dare un nome alla nostra incomprensione e impotenza? Michel Serres ha descritto la complessità come un “falso concetto filosofico “35 , così vasto e onnicomprensivo che i suoi contorni diventano sfocati e mal definiti.
Il fallimento delle “scienze della complessità” nell’affermarsi come nuova disciplina
“Sebbene l’influenza culturale della complessità sia innegabile, la generalizzazione di un idioma o di un insieme di metafore come “sistemi adattivi complessi”, “reti”, “margine del caos”, “punto di ribaltamento”, “emergenza”, ecc. non implica che ci troviamo di fronte a un campo scientifico in senso bourdieusiano. Ricordiamo che se “la funzione centrale dell’istituzionalizzazione della comunità disciplinare consiste nel preservare la permanenza dell’attività disciplinare attraverso la riproduzione del suo potenziale”, allora le Scienze della complessità non possono essere considerate una disciplina. Gruppi dedicati allo studio dei sistemi complessi sono molto comuni nelle facoltà di fisica e matematica di tutto il mondo – un po’ meno nelle scienze della vita e nelle scienze cognitive. Ma sono pochissimi gli istituti e i corsi di laurea, le scuole estive, i master e i dottorati che rientrano esplicitamente e principalmente in questa etichetta”.
Estratto da Fabrizio Li Vigni, Histoire et sociologie des sciences de la complexité, Éditions matériologiques, 2022.
Note
36. Jean Zin, “La complexité et son idéologie”, 1 maggio 2003: “Sebbene esistano delle analogie tra organismi e organizzazioni, le società umane non possono essere identificate con un corpo biologico”.
37. Edgar Morin, relazione presentata al Congresso internazionale “Quale università per domani? Verso un’evoluzione transdisciplinare dell’Università” (Locarno, Svizzera, 30 aprile – 2 maggio 1997); testo pubblicato in Motivation, n. 24, 1997.
Molto si potrebbe dire anche sul modo in cui i promotori della complessità hanno sistematizzato la sistemica, estendendo la visione meccanicistica della cibernetica al mondo vivente e poi al mondo sociale. Non c’è nulla di neutro in questo sviluppo. La “teoria generale dei sistemi”, formulata da von Bertalanffy, che vedeva sistemi nella maggior parte degli oggetti della fisica, dell’astronomia, della biologia e della sociologia (atomi, molecole, cellule, organismi, società, stelle, ecc. ), ha aperto la porta a numerose confusioni tra ciò che, nei sistemi cosiddetti “complessi”, rientra nella matematica (incompletezza, sequenze casuali), nella fisica e nella comprensione del caos (sensibilità alle condizioni iniziali, frattali, probabilità, salti quantici, ecc.), nella biologia e riguarda gli organismi (anelli di regolazione, reazioni condizionate, scambi di informazioni), e infine nella complessità umana (che “non deve essere ridotta al biologismo “36).
Promosso da Edgar Morin, il “principio ologrammatico” è ad esempio fuorviante, in quanto suggerisce che ogni parte contenga l’intero mondo e che vi siano corrispondenze tra tutti i piani della realtà: “[…] in un sistema, in un mondo complesso, non solo una parte si trova nel tutto (ad esempio, noi esseri umani siamo nel cosmo), ma il tutto si trova nella parte. Non solo l’individuo è all’interno di una società, ma la società è dentro di lui, poiché fin dalla nascita gli ha inculcato lingua, cultura, divieti e norme; ma ha anche dentro di sé le particelle che si sono formate all’origine del nostro universo, gli atomi di carbonio che si sono formati nei soli precedenti al nostro, le macromolecole che si sono formate prima che nascesse la vita. Abbiamo in noi i regni minerale, vegetale e animale, i vertebrati, i mammiferi, ecc.37 In realtà, tutto sarebbe come un ologramma in cui ogni punto dell’immagine comprende l’intera immagine. Tuttavia, mentre si può sostenere che ogni parte contiene tutte le informazioni nel caso delle cellule del corpo che condividono lo stesso DNA (il che rende teoricamente possibile ricostruire un corpo a partire da una qualsiasi delle sue cellule, come si cerca di fare con la clonazione), gli individui che compongono una popolazione non condividono le stesse informazioni o la stessa capacità di sfruttarle. Mettere insieme discipline diverse (biologia e sociologia, per esempio) è eticamente problematico. E questo non è l’unico effetto perverso dell’ideologia della complessità.
II
Parte
Gli effetti perversi dell’ideologia della complessità
https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-2
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Pretendendo di non toglierci nulla, la complessità eretta a sistema finisce paradossalmente per sminuire tutto, a partire da noi stessi. Forse non è altro che una rappresentazione del mondo, ma precludendo il nostro rapporto con la realtà, ci blocca in convinzioni limitanti che influenzano le nostre decisioni, le nostre azioni e il nostro senso di responsabilità. Alla fine, la complessità ci dà così tanti complessi che la comoda formula “è complesso” diventa la giustificazione di molti dei nostri errori contemporanei.
1
La complessità, il rifugio dell’ignoranza
Note
38. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
39. Ibidem.
40 Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit.
41. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
42. Ibidem: “Viviamo sotto l’impero dei principi di disgiunzione, riduzione e astrazione, che insieme costituiscono quello che io chiamo il “paradigma della semplificazione”. Cartesio ha formulato questo paradigma, maestro dell’Occidente, disgiungendo il soggetto pensante (ego cogitans) e la cosa estesa (res extensa), cioè la filosofia e la scienza, e ponendo come principio di verità le idee “chiare e distinte”, cioè il pensiero disgiuntivo stesso.
43. Edgar Morin, La Méthode, op. cit.
44. Per tutto il pensiero filosofico classico del XVII secolo, si trattava di sostituire le idee “oscure e confuse” con idee “chiare e distinte”: una duplice sfida di verità e libertà per la mente umana.
45. “Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere”: è la prima frase della Metafisica di Aristotele.
46. Così David Hume, che metteva in dubbio l’esistenza oggettiva della causalità, ne fa tuttavia una tendenza innata dell’immaginazione: non possiamo non dedurre legami causali tra impressioni che si susseguono in modo congiunto e costante. Creare nessi causali è un “bisogno” naturale della mente umana.+
47. Edgar Morin, Introduzione…, op. cit.
48. Frédéric Dupin, “Descartes et la morale de la certitude”, Le Philosophoire, 2009/2 (n. 32).
49. Alain Berthoz, La Simplexité, Odile Jacob, 2009.
Un vettore di caos mentale
Il pensiero complesso che avrebbe dovuto arricchire la nostra visione del mondo sta finendo per portare a una perdita di comprensione, imponendo una rappresentazione barocca della realtà in cui tutto è interconnesso e ingarbugliato: dove non solo la parte è nel tutto come il tutto nella parte, ma “il tutto è sia più che meno della somma delle sue parti “38 , secondo il “principio ologrammatico”; dove le cause di un evento sono indeterminabili e soggette agli effetti di retroazione delle loro stesse conseguenze, secondo il “principio di causalità circolare”; dove “non esiste più un’alternativa inesorabile tra entità antinomiche” e dove si può dire qualsiasi cosa e il suo contrario senza dover prendere una decisione, secondo il “principio dialogico”; dove nulla può essere spiegato o qualificato in ultima analisi, secondo il “principio di irriducibilità “39 . In questo caos mentale, in questo “pensiero a loop” come lo descrive lo stesso Edgar Morin40 , in questo abisso nell’abisso indefinito, alla fine non si riesce a sentire granché.
Inevitabilmente, quindi, il complesso diventa complicato, con grande disappunto dei teorici e degli operatori della complessità che insistono nel distinguere i due termini sulla base di una differenza di natura e non solo di grado. La complessità sarebbe quindi la caratteristica essenziale di una realtà irriducibile alla semplificazione, mentre il complicato sarebbe dell’ordine dei nodi del cervello. Ma dissociando sistematicamente le due nozioni, dimentichiamo di interrogare il complesso. È come se fosse assolto in anticipo da ogni male. La complessità è un presupposto totemico: è impossibile da criticare. Eppure ci sembra che complichi molte cose…
La rinuncia alle “idee chiare e distinte
Come scrive lo stesso Edgar Morin, senza le operazioni di distinzione compiute dall’intelligenza, “la complessità si presenta con le caratteristiche inquietanti del disordine, dell’inestricabilità, del disordine, dell’ambiguità e dell’incertezza “41 . A forza di denunciare la naturale tendenza della comprensione umana a scomporre, analizzare, selezionare e classificare per comprendere meglio il mondo e acquisire i mezzi per influenzarlo, a forza di demonizzare “il paradigma della semplificazione “42 come un approccio “mutilante” alla realtà e persino “la specifica barbarie della nostra civiltà “43 , l’ideologia della complessità ha propagato tra i nostri contemporanei la sfiducia nel semplice, nel chiaro e nell’inequivocabile. Fino al punto di lasciarci disorientati.
Basti pensare alla violenza degli attacchi dei sostenitori del pensiero complesso contro Aristotele e la sua logica, e contro Cartesio e il suo metodo analitico, i “colpevoli” artefici della tradizione razionalista su cui è stata costruita la scienza occidentale. Edgar Morin può anche ripetere che bisogna “distinguere e collegare”, ma la chiarezza che scaccia “l’oscuro e il confuso “44 è diventata sospetta. Favorire le “idee chiare e distinte”, facendone una garanzia di verità, è diventato un crimine di lèse-réalité. Perché l’ex-plication (l’esatto contrario del pensiero complesso – explicare significa dispiegare, togliere le pieghe, rendere chiaro) è una mutilazione inflitta alla realtà, un’intollerabile operazione di riduzione. La vaghezza, l’approssimazione, la contraddizione e l’interpretazione sono preferibili al rischio di un punto fermo.
Ossessionati dalla disgiunzione di Cartesio tra mente e corpo, che descrivono come una “dicotomia schizofrenica”, i pensatori della complessità non danno più credito al metodo dell’inventore della filosofia e della scienza moderne: privilegiando la distinzione concettuale e l’elaborazione del pensiero a partire da idee chiare e distinte, il metodo di Cartesio ha probabilmente ancora molto da offrirci. Ma il pensiero complesso non la vede così. Al contrario, ha stilato un’intera lista di divieti: divieto di analisi (ridurre il complesso al semplice); divieto di verità (definita come oggettiva e assoluta); divieto di causalità lineare (attribuire una causa a un effetto); divieto di universale (e di universalismo); divieto di gerarchia di opinioni e valori (perché ora tutto è uguale).
Ad esempio, al principio esplicativo della causalità lineare (che lega una causa a un effetto), dobbiamo ora preferire sistematicamente il “principio di ricorsione” (detto anche “causalità circolare”, “retroazione” o feed-back): poiché l’effetto agisce anche sulla causa, ogni causa è anche una conseguenza, il che rende impossibile definire con precisione il ruolo di A su B o di B su A. Il risultato è l'”equifinalità”: più cause possono produrre lo stesso effetto, rendendo impossibile sapere quali effetti derivano da quali cause. È come se la causalità classica fosse diventata stravagante, dato che i sistemi complessi, con le loro causalità circolari e i fenomeni ricorsivi e ingarbugliati che li rendono ampiamente instabili, imprevedibili e quindi difficilmente controllabili, hanno preso il sopravvento sulla nostra rappresentazione del mondo come un’irruzione e un nesso di crisi permanenti. Ma a forza di sottolineare l’impossibilità pratica della minima determinazione, non stiamo forse mantenendo la pericolosa illusione di un mondo senza possibili spiegazioni? Ma comprendere45 e collegare un effetto a una causa46 sono tendenze innate della mente umana. Opporsi a queste tendenze rende il nostro pensiero fuori controllo e genera confusione.
Ma è proprio questo il risultato che il paradigma della complessità pretende di ottenere. Non si tratta più di soddisfare il nostro desiderio di capire o di assegnare. Poiché “il pensiero complesso aspira a una conoscenza multidimensionale”, sa fin dall’inizio “che una conoscenza completa è impossibile” e che l’incertezza sarà sempre la sua sorte47. Ma non è forse salutare tenere presente che “la certezza va conquistata da chi vuole capire, [che] non è ciò che abbiamo, ma ciò che desideriamo, non ciò che siamo, ma ciò che dobbiamo essere”? Esiste quindi una “morale della certezza “48 che è pericoloso dimenticare.
Il terreno di coltura e la legittimazione delle “post-verità”.
L’ideologia della complessità finisce per incoraggiare lo scetticismo, l’equivalenza delle opinioni e il relativismo epistemologico, culturale e morale – tutti i difetti dell’era della “post-verità” che ha contribuito a creare. In un mondo complesso, tutto finisce per essere uguale: certezza e incertezza, conoscenza e opinione, razionale e irrazionale. L’assiologia (l’idea che esista un discorso o una razionalità dei valori) non è più rilevante e nemmeno le gerarchie tra di essi. Di conseguenza, l’individuo contemporaneo è “come Teseo smarrito in un labirinto, senza il filo di Arianna che lo aiuti a ritrovare la strada”: “può allora tornare alle antiche credenze e cadere nell’oscurantismo49 “.
2
La complessità, un pretesto per l’inazione
Note
50. Secondo il “principio di irriducibilità”, ibidem.
51. Il concetto di “effetto farfalla” deriva dalla ricerca meteorologica, in particolare dal lavoro di Edward Lorenz, che “si rese conto che per condizioni iniziali quasi identiche, le previsioni del computer sul tempo (temperatura, ecc.) divergevano notevolmente” (John Gribbin, Chaos, Complexity and the Emergence of Life, Flammarion, 2010). Questa immagine è entrata nel discorso popolare suggerendo che il nulla può creare il tutto. Ma quale nulla? Per quale tutto? Non lo sappiamo. Quindi è meglio non muoversi affatto.+
52. Fabien de Geuser, Michel Fiol, “Le contrôle de gestion entre une dérangeante complexité et une indispensable simplification”, Normes et Mondialisation, maggio 2004.
53. “Naturalmente prenderemo una decisione quando avremo preso in considerazione tutti i 5.243 fattori”. Didascalia di una vignetta che illustra un articolo sul fenomeno della “paralisi da analisi”.
54. Si veda, ad esempio, la “Proposta di risoluzione per rendere la responsabilità sociale e ambientale un asset delle imprese” presentata dai senatori il 3 gennaio 2023, che si basa sulla constatazione di uno “shock di complessità” legato ai nuovi standard di rendicontazione della direttiva europea CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
55. Catherine Thibierge et alii, La Densification normative. Découverte d’un processus, Mare & Martin, 2014; si veda anche Sophie Chassat, Norme et Jugement, Institut Messine, 2014.
56. Ibid.
57. David Lisnard, Frédéric Masquelier, De la transition écologique à l’écologie administrée, une dérive politique, Fondation pour l’innovation politique, maggio 2023.
58. Si veda il rapporto informativo dell’Assemblea Nazionale su “l’applicazione pratica delle leggi” (21 luglio 2020): “In un contesto sempre più standardizzato, in cui le fonti del diritto si moltiplicano, così come i settori soggetti a regolamentazione, diversi fattori possono portare a problemi di applicazione pratica fin dalla fase di progettazione. Ad esempio, la complessità della legislazione può ostacolarne l’attuazione, favorendo applicazioni lontane dalle intenzioni del legislatore o causando problemi di incompatibilità con altre norme. Per gli enti locali più piccoli è particolarmente difficile gestire “+”.
59. Discorso del Presidente Georges Pompidou al Consiglio di Stato, citato da Gaspard Koenig e Nicolas Gardères in Simplifions-nous la vie, Éditions de l’Observatoire, 2021.
Un ostacolo all’azione
Rifugio dell’ignoranza, l’ideologia della complessità è anche un pretesto per l’inazione e il disimpegno. Perché quando tutto è complesso, come evitare la paralisi, il senso di impotenza e il rifiuto di accettare le conseguenze delle nostre azioni?
In questo mondo “liquido”, non c’è più nulla di stabile o di solido su cui poggiare. Come possiamo decidere, quando siamo invitati a “sospendere il giudizio, a non pronunciare un verdetto definitivo “50 – in breve, a non prendere una decisione, perché sarebbe un peccato disfare un “tessuto” così bello? E perché mai dovremmo voler agire se questo sfugge al nostro controllo e potrebbe finire per “ritorcersi contro di noi”? “È qui che entra in gioco la nozione di ecologia dell’azione. Non appena un individuo intraprende un’azione, qualunque essa sia, inizia a sfuggire alle sue intenzioni. Questa azione entra in un mondo di interazioni e alla fine è l’ambiente che se ne appropria in un modo che può diventare contrario all’intenzione iniziale. Spesso l’azione si ritorce contro di noi”, scrive Edgar Morin. Come possiamo quindi superare la paura di agire, quando sappiamo che in un sistema complesso un evento insignificante può portare a una grande catastrofe, come la favola del battito d’ali di una farfalla che, in Brasile, può generare un uragano dall’altra parte del mondo51? Come possiamo osare alzare un dito se, appena tiriamo un filo dal tessuto della realtà, l’intera bobina rischia di aggrovigliarsi ancora di più? Come possiamo assumerci una responsabilità se, in nome della causalità circolare e degli effetti dell’imprevedibilità, invochiamo la complessità incomprimibile della realtà? La complessità agisce come un nuovo “argomento pigro”. Si tratta di un attacco al pensiero stoico, che pone l’idea di un determinismo assoluto: se tutto è scritto in anticipo, non c’è bisogno di fare nulla. Paradossalmente, lo stesso argomento può essere fatto contro l’incertezza complessa: se tutto può accadere secondo giochi di ricorsione sconosciuti, non fare nulla o fare qualcosa è equivalente. Quindi tanto vale non fare nulla.
Più apprezziamo la complessità di una situazione, più siamo propensi a scegliere lo status quo. Sfuggendo all’obbligo di prendere una decisione rimandandola, complichiamo ulteriormente l’analisi cercando ulteriori informazioni, nuovi consigli o la ricerca di un consenso assoluto, che alla fine rende l’analisi inutilizzabile52. Nel mondo anglosassone esiste un’espressione che coglie perfettamente questa situazione: “analysis paralysis”. In altre parole, la paralisi che deriva dall’eccesso di analisi. Quando si hanno troppi dati da prendere in considerazione o troppe possibili opzioni da considerare, diventa più difficile fare delle scelte. “Certo che prenderemo una decisione, una volta considerati i 5.243 fattori “53. Immaginando una qualsiasi situazione come complessa, cioè che comporta un gran numero di parametri da prendere in considerazione e da collegare tra loro, aumentiamo le probabilità di non arrivare in fondo.
“A che serve?” diventa rapidamente il ritornello del fatalismo imperante di fronte alla presunta vanità o incoscienza di qualsiasi tentativo di azione. È complesso” si rivela la risposta ideale per evitare di rispondere alle domande (la “langue de bois”), per evitare di prendere decisioni (l’astensione elettorale), per evitare di osare (il trionfo del principio di precauzione), per evitare di proiettarsi (arrendersi al breve termine perché è impossibile prevedere), per evitare di impegnarsi (atteggiamento attendista, smobilitazione), per evitare di assumersi responsabilità (il costante ricorso a competenze esterne o la constatazione che le proprie azioni sono “equifinalità”): tutto è uguale, quindi non importa quello che faccio). E non sarà la deliziosa (ma preoccupante) ultima frase dell’Introduzione al pensiero complesso di Edgar Morin a rassicurarci: “Aiutati, il pensiero complesso ti aiuterà”. Questo aiuto provvidenziale arriverà solo come ultima risorsa.
La complessità come tentazione permanente
Di fronte a questo vuoto abissale, la tentazione di aggiungere complessità in continuazione è grande. La complessità è tanto più dannosa per l’azione perché, quando porta ad agire, spesso è per rendere la situazione ancora più complessa. I problemi complessi richiedono soluzioni complesse. Le risposte alla complessità sono spesso “shock da complessità” ancora più grandi. Le formule utilizzate dalla stampa ne sono la testimonianza: “La complessità dell’assegno energetico è individuata”; “La ritenuta alla fonte: uno shock di complessità”; “Il sistema delle quote non deve aumentare la complessità amministrativa dell’assunzione di lavoratori stranieri”; “La riforma delle pensioni apre un’era di cinquant’anni di incertezza e complessità”; “I contorni della riforma rimangono molto vaghi. L’unica cosa certa è che si preannuncia un’impresa di una complessità senza precedenti”.
Questa è la logica stessa della “densificazione normativa “55 , che risponde a una situazione complessa aumentando la complessità delle norme. Questo fenomeno di densificazione normativa è stato descritto molto bene dalla studiosa di diritto Catherine Thibierge, che ne attribuisce diversi indicatori. In primo luogo, l’aumento quantitativo del numero di norme: c’è “proliferazione”, “accumulazione”, “inflazione”, “movimento esponenziale”. In secondo luogo, la moltiplicazione delle fonti di norme, e quindi la coabitazione di norme che possono talvolta contraddirsi. Questa è “l’idea di complessificazione: la sovrapposizione, la sedimentazione di norme, il groviglio normativo, la compressione delle norme”, il “restringimento delle maglie normative”. E il campo della normatività si sta estendendo a tutti i settori e a sempre più aspetti della vita quotidiana56.
Moltiplicando norme complesse per rispondere a problemi complessi, finiamo non solo per sovraccaricare la vita di procedure e formalità che fanno perdere tempo ed energia a tutti, ma anche per privare individui e organizzazioni del loro buon senso e della loro capacità di azione. Intrappolate nella trappola della burocrazia, le aziende annegano in innumerevoli indicatori, relazioni e comitati direttivi. Di fronte alle complesse procedure per l’ottenimento dei fondi europei, i nostri sindaci sono stremati dalle incombenze amministrative57. Secondo David Lisnard, sindaco di Cannes e presidente dell’Association des maires de France (AMF), con differenze di complessità a seconda delle culture nazionali, i compiti amministrativi rappresentano il 3,7% dell’orario di lavoro in Germania e il 7% in Francia, ovvero l’equivalente di un punto del PIL. Affetti dalla “patologia della legge”, i nostri parlamentari stanno perdendo il discernimento nel loro lavoro legislativo, producendo testi sempre più incomprensibili a causa della loro stesura frettolosa in risposta all’attualità – e sempre più inapplicabili58. “Per quanto riguarda il cittadino che la legge dovrebbe proteggere e aiutare, spesso è con qualche ragione che afferma di non riuscire più a capirla o ad applicarla59″. La crescente complessità della legislazione incoraggia gli individui e le organizzazioni a rivolgersi all’iper-esperienza per ottenere una guida. È qui che si chiude il circolo vizioso: l’esperto di complessità finisce per fare delle materie un proprio appannaggio in nome della loro tecnicità, confiscando il dibattito e la titolarità democratica”. La consapevolezza della complessità, che dovrebbe impedirci di agire alla cieca, finisce per espropriarci delle nostre stesse capacità.
La “crescente complessità” degli standard di rendicontazione “extra-finanziaria” per le imprese di fronte alla “complessità” delle sfide ambientali e sociali
A livello europeo, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) imporrà a un numero sempre maggiore di aziende di produrre rapporti ESG (Environment – Social – Governance) estremamente densi e dettagliati entro il 2025. Se da un lato non possiamo che lodare l’integrazione della sostenibilità nel concetto di performance aziendale, dall’altro il sistema di reporting previsto lascia perplessi: sono previsti centinaia di criteri, molti dei quali altamente tecnici. Le aziende dovranno lasciar fare agli esperti. Il corollario della complessità normativa è spesso la confisca del significato.
3
La complessità è la fonte del disordine climatico?
Note
60. Questo è il titolo dato, ad esempio, al primo capitolo, terza parte, I, del Rapporto OPECST n. 224 (2001-2002) di Marcel Deneux, presentato il 13 febbraio 2002, “La portata del cambiamento climatico, le sue cause e il suo possibile impatto sulla geografia della Francia nel 2005, 2050 e 2100 (Volume 1)”. Nella sua introduzione, l’autore commenta: “Le prime due parti di questo rapporto hanno cercato di mostrare la complessità del fenomeno del cambiamento climatico. È emerso che il clima è un fenomeno globale variabile, complesso, contrastante, scarsamente compreso e al di fuori del controllo dell’uomo “+.
61. “Cambiamenti climatici”, savoirs.ens.fr, 22 ottobre 2018.
62. “La complessità del sistema climatico”, corso online su Kartable.fr.
63. Laurent Clerc, “La consapevolezza del rischio climatico e la sua dimensione sistemica”, in Annales des Mines – Responsabilité et environnement, 2021/2 (n. 102).
64. Federico Turegano, Global Head of Natural Resources and Infrastructure, in wholesale. banking.societegenerale.com, 1 giugno 2021.
65. Discorso di Frédérique Vidal, ministro dell’Istruzione superiore, della ricerca e dell’innovazione, all’Assemblea nazionale francese il 21 settembre 2020: “La complessità della questione climatica impone di riunire tutte le discipline in un approccio olistico, e gli strumenti e i metodi delle scienze umane e sociali in particolare si rivelano indispensabili “+.
66. GoodPlanet Mag, “Le climatologue Hervé Le Treut : ” étant donné la complexité du défi de civilisation que représente la réduction des émissions de gaz à effet de serre, aucune discipline ne peut se prévaloir du monopole des solutions”, 14 settembre 2022.
67. Sophie Cayuela, “Preservare o distruggere la natura? La grande complessità della compensazione del carbone”, Natura Sciences, 12 novembre 2021.
68. EEA, “Understanding and acting on the complexity of climate change”, Europa.eu, 17 ottobre 2018.
69. Robin Rouger, Banque J. Safra Sarasin, “La complexité de l’investissement climatique”, Allnews, 19 marzo 2020.
70. Hervé Le Treut, “GIEC: des solutions plus complexes que jamais”, Les Échos, 8 aprile 2022.
71. Guillaume Simonet, “L’adaptation, un concept systémique pour mieux panser les changements
climatici”, Note de recherche Norois 6252, OpenEdition Journals, 2017.
72. Joël Cossardeaux, “Les messages de plus en plus brouillés du GIEC”, Les Échos, 14 ottobre 2015: “L’azione globale sui cambiamenti climatici è gravemente ostacolata perché i pareri dell’organo scientifico dell’IPCC, che è un punto di riferimento nel settore, sono così difficili da comprendere che è necessario almeno un dottorato di ricerca per afferrare le sue raccomandazioni”, sostiene Ralf Barkemeyer, docente-ricercatore presso KEDGE BS, che ha guidato lo studio. […] I risultati mostrano che le informazioni sintetiche dell’IPCC hanno perso leggibilità nel tempo”. Si tratta di un problema serio, dato che “questi documenti fungono da bussola per i governi, che hanno bisogno di stime scientifiche affidabili prima di prendere posizione nel dibattito globale sul clima, soprattutto sotto forma di impegni a ridurre le emissioni di gas serra”. In risposta a queste critiche, l’IPCC si è riorganizzato e ha affidato alla climatologa francese Valérie Masson-Delmotte il compito di comunicare in modo più comprensibile.+.
73. Armond Cohen, Lee Beck, “La complessità del mondo sarà in mostra alla COP27; la leadership climatica deve essere all’altezza della situazione”, Clean Air Task Force, 26 ottobre 2022.
Nebbia climatica
La retorica contemporanea ha talmente inglobato la questione climatica nel presupposto della complessità che non sappiamo più come affrontare il problema in altro modo. Nel nostro discorso, “la complessità del cambiamento climatico” è un dato di fatto60 . È addirittura la caratteristica di un problema “senza precedenti nella sua complessità e talvolta difficile da prevedere “61 , basato su quel “complesso insieme dinamico” che è il sistema climatico62. Esperti e decisori chiedono quindi di “prendere coscienza del rischio climatico e della sua dimensione sistemica “63 , e di “abbracciare la complessità ora, per il bene del clima “64 . Ma queste sono spesso pie speranze, perché riflettono un modo di pensare che gira in tondo.
Il nostro disordine climatico è in parte dovuto a questo approccio ossessivamente “sistemico” o “olistico” al problema, a questo presupposto che il problema climatico è così complesso che non sappiamo più come affrontarlo e che il minimo tentativo di risolverlo pone altri problemi ancora più gravi. La comprensione finale di un sistema complesso rimanda l’iniziativa, nella consapevolezza che questa comprensione finale non avverrà mai, poiché la minima variazione di una variabile porta a un cambiamento completo del sistema, e quindi alla necessità di ricominciare lo sforzo di comprensione da zero. Dal lato dell’azione, sapere che toccando una variabile si rischia di mandare in tilt l’intero sistema, ci spinge a procrastinare all’infinito. Come possiamo decidere e agire di fronte a questo pozzo senza fondo? Analisi della paralisi.
La sfida climatica, specchio della nostra impotenza contemporanea
Con il pretesto che la lotta al cambiamento climatico coinvolge molti sistemi complessi come l’agricoltura, l’energia, l’acqua, i trasporti, le abitazioni, l’economia e la biosfera, intreccia dimensioni scientifiche, politiche ed etiche e richiede un’azione a molti livelli (da quello aziendale a quello politico, collettivo e individuale, globale e locale, a lungo termine e a breve termine) adottando “un approccio olistico “65 , e poiché nessuno ha il monopolio della soluzione66 , tutti finiscono per passarsi il quid e pretendere che l’altro agisca per primo, o che compensi la propria mancanza di conoscenza prima di agire.
Tra la “grande complessità della compensazione delle emissioni di carbonio “67 , che sta dando origine a dibattiti che dividono governi e associazioni per la conservazione della natura, la traduzione dell'”obiettivo globale” di ridurre le emissioni in “misure concrete”, che richiede “la comprensione di un sistema complesso “68 , “la complessità degli investimenti climatici “69 e le “soluzioni più complesse che mai” proposte dall’IPCC70 , non siamo mai molto avanti nel sapere a quali azioni dare priorità. E rendere l’adattamento “un concetto sistemico per affrontare meglio i cambiamenti climatici” non ci porterà più avanti in questa direzione71. Potrebbero poi entrare in gioco tutti gli effetti perversi che derivano dall’intraprendere la minima azione o dal rispondere rendendo le cose ancora più complesse.
L’immagine del “rompicapo” ha quindi invaso la nostra retorica climatica e i nostri schemi di pensiero, bloccando sul nascere qualsiasi dibattito pubblico sull’argomento, come dimostra la sua evidente assenza dalla campagna presidenziale del 2022 in Francia. La comunicazione dell’IPCC negli ultimi trent’anni non ha certo aiutato, se dobbiamo credere ai docenti e ai ricercatori europei che si lamentano del fatto che le “sintesi per i responsabili politici” tratte dai suoi voluminosi rapporti sono “sempre più incomprensibili “72 . E nemmeno il “ritorno della storia”, come testimoniano gli osservatori della COP27, che si è svolta “nel contesto di una policrisi globale, con la complessità del mondo e una nuova serie di linee di frattura geopolitiche “73 .
Se a questo si aggiunge l’inflazione della paura e della retorica apocalittica, è facile capire come la forza di volontà finisca per essere disarmata e la rassegnazione si unisca alla rabbia distruttiva.
III
Parte
Le virtù della semplicità, la necessità del “cruciale”.
https://www.fondapol.org/etude/complexite-critique-dune-ideologie-contemporaine/?fbclid=IwAR1V-cVzcxCmRYFnW5LH3vXsrb2ApQrzRF5y_YFbS2nf0HYq_9U6zNLvTdI#chap-3
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E se, di fronte agli effetti deleteri di un pensiero complesso che si è trasformato in pensiero unico, prescrivessimo una dieta di semplicità, o addirittura qualche scossa di semplificazione? A meno che non ci serva un nuovo concetto – il “cruciale” – per pensare e agire efficacemente nel XXI secolo. In ogni caso, dobbiamo uscire dalla routine del tutto complesso.
1
Imparare a vedere il semplice
Note
74. John Gribbin, op. cit.
75. Ibidem.
76. Ibidem.
77. Ibidem.
78. Ibidem: “La scoperta di Murray che non solo le macchie del leopardo, ma anche quelle della giraffa, le strisce della zebra e persino l’assenza di marcature sul manto di un topo o sulla pelle di un elefante sono il risultato di un processo molto semplice. Si tratta infatti di stimolatori e inibitori chimici che si diffondono sulla superficie dell’embrione in un momento chiave del suo sviluppo “+.
79. Charles Sanders Peirce, La logica della scienza, 1879.
Il semplice dietro il complesso
Invece di parlare dell’inestricabilità del “tessuto” del mondo, ricordiamo che ci sono regole semplici alla base della sua composizione: il complesso non è la fine della storia.
Come sottolinea lo scienziato britannico John Gribbin nel suo illuminante libro sulle teorie scientifiche della complessità, un sistema complesso non è mai veramente “qualcosa di più di un sistema formato da diversi componenti semplici che interagiscono tra loro “74 . Quello che i fisici chiamano caos è l’emergere di fenomeni complessi da elementi semplici (una pentola di acqua bollente). E quando il sistema è costituito da elementi complessi, è perfettamente in grado di produrre comportamenti semplici (come il corpo che, per compiere il semplice gesto di alzare il braccio, attiva tutta una serie di meccanismi complessi come la rete neurale).
La “complessità” emerge perché “un sistema è sensibile alle sue condizioni iniziali e ha un effetto retroattivo “75 . Stabiliti questi principi, dobbiamo continuare a tornare all’idea che “il caos e la complessità sono governati da leggi semplici – fondamentalmente, quelle che Isaac Newton ha scoperto più di 300 anni fa”. “Lungi dal mettere in discussione quattro secoli di scienza, come alcuni vorrebbero far credere, i recenti progressi dimostrano al contrario che le semplici leggi del nostro patrimonio scientifico permettono di far luce (ma non di prevedere) il comportamento a priori inspiegabile del tempo, dei mercati azionari, dei terremoti o persino delle popolazioni”, insiste John Gribbin76. Il verificarsi del caos è quindi tanto più “organizzato e deterministico: ogni fase segue la precedente in una catena ininterrotta governata dal principio di causa ed effetto, e quindi, in linea di principio, sempre prevedibile “77 . La causalità circolare, quindi, non esclude affatto le logiche esplicative che si basano sulla causalità lineare. Allo stesso modo, è la combinazione di casualità e di una regola semplice che dà origine, per semplice iterazione, a strutture negli esseri viventi complesse come le felci o le macchie di leopardo, come ha dimostrato James Murray sulla base del lavoro di Turing78.
Complessità”: il nome dato al semplice che non (ri)conosciamo
La “complessità” non è forse, il più delle volte, il nome che diamo a fenomeni di cui non riusciamo a identificare le semplici leggi di organizzazione? Henri Bergson ha mosso una critica simile all’idea di “disordine”: il disordine è un ordine che non ci aspettiamo, un ordine che non vediamo perché non lo stiamo cercando o stiamo cercando un altro ordine. Se il mondo ci sembra così complesso, non è forse soprattutto per la nostra incapacità di individuare la semplicità che lo organizza, o per la nostra tendenza a imporgli un modello di semplicità che non è quello giusto? Il trionfo del paradigma della complessità si spiega quindi con il periodo di mutazione, di interregno, che è il nostro: lasciandoci alle spalle un certo ordine del mondo, non abbiamo ancora individuato il nuovo ordine che sta alla base della nostra epoca. Chiamiamo questa confusione “complessità”. Questo non dice nulla del mondo, ma piuttosto del nostro caos mentale.
Il filosofo americano Charles S. Peirce ha sottolineato che la complessità “percepita” è spesso solo complessità “proiettata”: “Un errore di questo tipo, che si verifica frequentemente, consiste nel considerare l’effetto stesso dell’oscurità del nostro pensiero come una proprietà dell’oggetto a cui stiamo pensando. Invece di rendersi conto che questa oscurità è soggettiva, si immagina di considerare una qualità essenzialmente misteriosa dell’oggetto. [Finché questo equivoco persiste, è un ostacolo insormontabile alla chiarezza del pensiero”.79
2
Elogio della semplificazione
Note
80. Edgar Morin, La complexité humaine, op. cit. Il pensiero semplificatore confonde il semplificato con il semplice. Il semplificato è il prodotto della disgiunzione, della riduzione e dell’estrazione. Ma non è il semplice. La semplificazione produce il semplificato e crede di aver trovato il semplice “+.
Le virtù del semplificato
Ma andiamo oltre. A differenza di Edgar Morin, che attacca il “pensiero semplificatore” e distingue tra semplice e semplificato80 , assumiamo che anche quest’ultimo abbia un valore. Così come abbiamo suggerito che il complesso e il complicato non sono diversi in natura, assumiamo che la semplicità porti alla semplificazione e che anche la semplificazione abbia le sue virtù.
La semplificazione è essenziale nella scienza, ad esempio. Come ricorda John Gribbin, fin dai tempi di Galileo e Newton, “la scienza ha fatto i suoi più grandi progressi scomponendo sistemi complessi in elementi semplici per studiarne il comportamento – anche se questo significa semplificare ulteriormente le cose, inizialmente”, grazie ai suoi indispensabili modelli. Questa ricerca di semplificazione ha dato all’umanità conoscenze e capacità di azione sempre più emancipanti. È questo desiderio di non lasciare che la complessità abbia l’ultima parola che ha portato gli scienziati di tutte le epoche a cercare di progredire nella comprensione e nella padronanza del mondo – e a provare gioia nel farlo.
La scienza, l’arte di scomporre i sistemi complessi in elementi semplici
Galileo inventò e Newton perfezionò il metodo scientifico, “basato sull’incontro tra la teoria (il modello) da un lato e l’esperimento e l’osservazione dall’altro” (quest’ultima permette di apportare le necessarie correzioni ai modelli matematici, che descrivono il comportamento di oggetti “ideali”, per tenere conto delle imperfezioni della realtà). “Prendiamo la fisica dell’atomo: considerare gli atomi come sistemi solari in miniatura, con elettroni che orbitano attorno a un nucleo centrale, può sembrare ridicolmente semplicistico. Sappiamo che gli atomi sono più complicati. Tuttavia, questo modello molto semplice, proposto da Niels Bohr negli anni Venti, è perfettamente in grado di prevedere l’esatta lunghezza d’onda delle righe osservate negli spettri di diversi elementi. È quindi un buon modello, anche se sappiamo che gli atomi non sono proprio così (…) Certo, per tenere conto di aspetti più complicati del comportamento degli atomi, dobbiamo aggiungere alcuni dettagli al modello di Bohr; ma questo non lo scredita affatto!
Estratto da John Gribbin, Chaos, complexity and the emergence of life, Flammarion, 2010.
Note
81. Il romanzo deve la sua ascesa nel XIX secolo proprio alla sua capacità di descrivere “esseri singolari nei loro contesti e nel loro tempo”, come sottolinea Edgar Morin (ibidem).
82. Henri Bergson, Le Rire, 1900.
83. Gaspard Koenig e Nicolas Gardères, op. cit.
84. Potremmo pensare all’espressione “l’arte del bracconaggio” coniata da Michel de Certeau in L’Invention du quotidien, per designare un uso sovversivo delle norme, un uso che non si fa ingannare e non si lascia ingannare: “Il bracconaggio, il tendere una trappola nella norma, è in effetti un modo di voltare le spalle alla norma che ci fa essere. La vita quotidiana si inventa nei diversivi che la gente comune produce quando, per realizzarli, volta necessariamente le spalle alle norme “+.
85. Brice Couturier, “L’éco-modernisme: prôner la technologie au service de l’environnement”, Radio France, 18 ottobre 2019.
La semplificazione è fondamentale anche per chi intende agire nel cuore della realtà. Henri Bergson ci ricorda che l’intelligenza pratica (quella che comanda l’azione) ha bisogno di semplificare, di categorizzare, senza la quale sarebbe impossibile garantire la nostra sopravvivenza. L’homo faber non può lasciarsi distrarre troppo dal singolare, dalla molteplicità del diverso, dall’intuizione del flusso, che sono i soggetti privilegiati di filosofi e artisti. Per quanto fertile possa essere per questi ultimi la complessità del mondo81 , essa è altrettanto deleteria nel campo dell’azione. Per vivere, dobbiamo agire e quindi semplificare costantemente. Per tagliare la realtà, per definire categorie, per nominare le cose con termini generici, per apporre etichette alle cose in modo da non doverci pensare all’infinito. “Vivere è agire. Vivere è accettare dagli oggetti solo le impressioni utili e rispondere ad esse con reazioni appropriate. […] I miei sensi e la mia coscienza mi danno quindi solo una semplificazione pratica della realtà”, dice Henri Bergson82. I dogmatici della complessità possono aborrire la “disgiunzione” e la “riduzione”, ma non possiamo vivere senza.
Alcuni shock salutari della semplificazione
Per ritrovare la gioia di capire e di agire, sarebbe utile concedersi qualche salutare “shock da semplificazione”. Se “è complesso”, a maggior ragione bisogna semplificare.
Prima di tutto, dobbiamo semplificare le norme, per porre fine alla densificazione delle norme. Il filosofo Gaspard Koenig lo ha promosso con il suo movimento “Simple”, lanciato in concomitanza con la campagna presidenziale del 2022. Già Montaigne aveva questa ambizione: “Le leggi più desiderabili sono le più rare, le più semplici e le più generali”. Ed è anche ciò che la Rivoluzione francese ha realizzato con Portalis, incaricato da Bonaparte di redigere un Codice Civile comprensibile a tutti. “Il suo obiettivo era chiaro: “semplificare tutto”. I suoi principi erano luminosi: “Le leggi sono fatte per le persone, non le persone per le leggi”. Il suo atteggiamento era moderato: “Abbiamo evitato la pericolosa ambizione di cercare di regolare e prevedere tutto”. È tempo di tornare a questo metodo, comprendendo che “meno leggi” significa “più diritti, libertà e giustizia” per i cittadini83.
Senza dubbio non riusciremo ad annullare completamente la tendenza a rendere più complesse le norme, tendenza di cui siamo tutti più o meno complici, tanto da proteggerci da rischi che non siamo più disposti a correre, individualmente e collettivamente. Ci vorrebbe un profondo cambiamento culturale per farci abbandonare questa logica di asservimento. Ma siamo ancora in tempo per denunciarle, per resistere quotidianamente84 e per continuare a pensare ad altri modelli più desiderabili: anche nel terreno più ostile, i semi possono sempre fiorire.
Questo principio di semplificazione gioverebbe anche al nostro approccio alla sfida climatica. Se la descriviamo solo in termini di “complessità”, con il pretesto dell’interconnessione generale di questioni e sistemi, perdiamo il nostro pragmatismo. Ecco perché gli “ecomodernisti”, una corrente di pensiero che si considera una terza via “realistica” tra i sostenitori della decrescita e gli scettici del clima, sostengono la necessità di “affrontare i problemi ambientali uno per uno “85 , per trovare le soluzioni più efficaci per ciascuno di essi. Si tratta del cosiddetto “disaccoppiamento”: separare i problemi per agire in modo più efficace, dimostrando che, lungi dall’essere inesorabilmente interconnesse, alcune dimensioni possono essere affrontate indipendentemente l’una dall’altra. Per affrontarle e andare avanti.
Contrariamente alla doxa attuale, che affronta il problema del clima solo da un punto di vista “olistico” e “sistemico”, l’obiettivo è quello di svelare le infinite connessioni tra i fenomeni per affrontare il problema in modo concreto e con un approccio unilaterale ma assertivo: spezzare il legame tra prosperità economica (generazione di reddito, crescita economica) e consumo di risorse e di energia (con i suoi impatti ambientali negativi e le emissioni di gas serra), puntando sull’aumento dell’efficienza delle risorse naturali attraverso l’uso delle tecnologie più produttive, piuttosto che attraverso tecniche premoderne. Questo perché le tecnologie più moderne dovrebbero consentire di risparmiare risorse massimizzandone gli effetti, preservando così vaste aree del pianeta di cui non avremmo più bisogno per la nostra sussistenza. Oltre al fatto che questo approccio non è né di crollo né di contrizione, è ancora più interessante considerare che aiuta a rimobilitarsi offrendo una chiara tabella di marcia per il futuro. Una volta sciolta la matassa, possiamo immaginare di essere finalmente in grado di tirare di nuovo i fili.
3
Riscoprire il senso del cruciale
Oggi si tratta di fare le scelte giuste. E abbiamo bisogno di prendere decisioni per andare avanti. Quindi mantenere le cose semplici potrebbe non essere più sufficiente. È arrivato il momento di concentrarsi sul “cruciale”.
Siamo a un bivio: dobbiamo fare delle scelte sui nostri modelli (di vita, di valori e di produzione) in questo momento di grandi cambiamenti. Cruciale è proprio “ciò che si trova a un bivio” (dal latino crucis, la “croce”) e, per estensione, ciò che è “importante perché decisivo”. Ed è proprio questo che caratterizza il nostro tempo: un momento critico in cui le scelte e le non scelte che faremo nel prossimo futuro avranno conseguenze decisive per il futuro dell’umanità.
Al bivio, dobbiamo scegliere la nostra strada e, in parte, restarci, per uscire dalla giungla oscura in cui ci troviamo – proprio come i viaggiatori smarriti di Cartesio si districano nella foresta “camminando il più dritto possibile verso la stessa parte”. Perché agire è sempre decidere. E decidere significa prendere una decisione, come la spada di Alessandro che taglia il nodo gordiano (una rete complessa) che nessuno era riuscito a sciogliere con le dita. Significa scegliere tra le possibilità. Significa rinunciare, inevitabilmente semplificare. Significa rifiutare di mantenere la complessità così com’è. Un certo numero di cose non può più tollerare il nostro procrastinare con la scusa che “è complesso”. Cruciale” è quel punto nello spazio e nel tempo in cui è necessario prendere una decisione.
Le crisi che stiamo affrontando oggi ci impongono di stabilire delle priorità, di scegliere le battaglie giuste, di fissare obiettivi chiari e di porci le domande giuste. Che cosa è essenziale, in fin dei conti? Cosa conta davvero? Quali sono i nostri bisogni più importanti? Dove vogliamo andare? L’importante è non perdere di vista i nostri obiettivi, per non annegare. Imparare a estrarre le informazioni rilevanti dalla marea di informazioni che arrivano continuamente. Non lasciarsi disperdere da ogni tipo di ingiunzione. Concentrarsi sull’essenziale. Sapere che la complessità è un certo modo di rappresentare il mondo, ma non la sua realtà ultima. Riscoprire il senso della concretezza. Abbiamo più che mai bisogno di panettieri che facciano il pane.
Per raggiungere questo obiettivo, potremmo aver bisogno di inventare “esperimenti cruciali” che ci aiutino a determinare, nel mezzo del bivio in cui ci troviamo, quale strada prendere piuttosto che un’altra. Nella scienza, un esperimento cruciale (instantia crucis o experimentum crucis) è un esperimento che, di fronte a diverse ipotesi in grado di spiegare lo stesso fenomeno, ne scredita una e mantiene l’altra, al contrario, come migliore. Francis Bacon definì l’instancia crucis nel suo Novum Organum (1620). L’osservazione e il calcolo della distanza tra il pianeta Marte e la Terra, così come l’esperimento del pendolo di Foucault, sono due esempi che hanno contribuito a distinguere il geocentrismo dall’eliocentrismo. Applicata alle nostre sfide contemporanee, questa nozione ci inviterebbe a immaginare modi che ci permettano di scegliere certe strade (etiche, politiche, economiche, estetiche) piuttosto che altre. In breve, a fare del tessuto del mondo un abito su misura per il nostro tempo. In ogni caso, uscire dalla favola di una realtà inestricabile. Demistificare la complessità.
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