IL SENSO DI UN VOTO, di Piero Visani

IL SENSO DI UN VOTO

L’editoriale che il professor Ernesto Galli della Loggia ha dedicato ai risultati delle elezioni regionali umbre sulle pagine del “Corriere della Sera” di oggi meriterebbe un’attenta analisi, specie a quanti – e sono incredibilmente numerosi, oltre che incredibilmente amatoriali… – pensano che il monitoraggio dell’informazione consista nel presentare ai rispettivi “capoccia”, la mattina presto, le fotocopie degli articoli più rilevanti comparsi sulla stampa italiana, senza valutazione alcuna di contorno.
Questo denso articolo di fondo prende le mosse dai rapporti che è ormai necessario stabilire, a livello partitico, con l’elettorato di opinione, rapporti che sono sicuramente più importanti e urgenti in un’epoca post-ideologica, che pare possa essere diretta dalle iniziative capillari di sistemi di comunicazione ad hoc, ma ha pure bisogno di molto di più di tutto questo, perché è vero che oggi i consensi si ottengono in modo molto più facile di un tempo, ma è anche vero che sono consensi “liquidi”, pronti a cambiare destinazione in fretta.
Galli della Loggia cita, al riguardo, il paradigmatico esempio della liquidità post-ideologica grillina, che ha finito per approdare, nel giro di un quinquennio, al più totale e assoluto nullismo, perché è arrivata al governo in fretta, ma poi ha cercato di risolvere il suo rapporto con il mondo nel fin troppo mitico “uno vale uno”, vale a dire in una straordinaria bugia inserita dentro una colossale panzana, che ne ha mostrato la più totale inesistenza nei rapporti con la società civile e lo “Stato profondo”, e lo ha portato ad assumere come “garante” una figura tutto men che adamantina e sicuramente eterodiretta come il professor Giuseppe Conte.
Il dramma è che, a fronte di avversari politici in totale liquefazione, il Centrodestra italiano, anche nella versione Destracentro che si dice possa prevalere, ha da opporre loro il medesimo nullismo e la medesima, totale liquidità “à la” Zygmunt Bauman.
Si notano – è vero – i movimenti di posizionamento di coloro, e sono tanti, che tirano a una poltrona, una poltroncina o anche un semplice strapuntino, ma non c’è “grande politica”, in tutto questo; c’è la solita e in fondo meschina “piccola politica” ispirata al semplice “cambio di glutei”. Cosa potrà scaturire da tutto questo? Ovviamente NULLA, è la risposta fin troppo facile. E’ una tragedia che ciò accada nel momento in cui la società italiana respinge con forza – come un “altro da sé” – l’accoppiata catto-comunista che l’ha ridotta progressivamente in povertà. Ma il problema è che gli attuali vincitori non hanno un PROGETTO per il futuro della società italiana, ammesso e non concesso che di averne uno interessi loro qualcosa. Pensano alle prossime elezioni, per vincerne una e perdere quella successiva, dopo aver fatto vedere “urbi et orbi” (anche nel senso di cecati…) quale sia la loro consistenza, politica e metapolitica. Questo è il vero dramma nazionale.

THE DAY AFTER

Esaurita la fase dei trionfalismi di prammatica (quella non può mai mancare…) e la fase della sistemazione “gluteare” (neppure quella può mai mancare, glutei e politica in Italia hanno un legame indissolubile), poi DOVREBBE cominciare quella di riuscire a cambiare qualcosa (fase cui nessuno, nel centrodestra, pensa mai…). Così, tra qualche mese, l’elettore medio comincerà a chiedersi per quale diavolo di motivo li ha votati, certi partiti. E la domanda, come sempre, rimarrà senza risposta, favorendo rapidi recuperi degli avversari.
Perché certe vittorie dovrebbero (e sottolineo dovrebbero…) essere un INIZIO e invece, in un ambito che ignora completamente la questione della metapolitica, del “Deep State”, del consolidamento in ambito culturale e societario, presto tutto sarà una FINE.
Nel frattempo, prevedo qualche corso di formazione da “Fossombroni [con la “i”, non con la “e”, ovviamente] a Cucinelli”. E il vuoto metapolitico, magicamente, si colmerà…

SOVRANITÁ E DIRITTO GLOBALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANITÁ E DIRITTO GLOBALE

Tra le novità che il pensiero unico anti-sovranista ci dispensa per esorcizzare l’avversario in crescita ce n’è una poco trattata nei mass-media. Ovvero che il sovranismo (meglio la sovranità) degli Stati sarebbe uno strumento superato perché il “diritto globale” (e globalizzato) avrebbe escogitato un sistema più raffinato per diminuire i conflitti: istituire dei Tribunali internazionali. I quali, in effetti, nel secolo passato sono aumentati. Non tanto e non solo quelli penali, quanto le Corti che giudicano su particolari materie (dalla pesca, all’ambiente, dalla concorrenza alle scorie radioattive).

Va da se che a questo si associa il consueto disprezzo/deprecazione per il sovranista che non avrebbe compreso (o non vuole comprendere) come non vi sia bisogno di attizzare conflitti e deciderli autonomamente: basta istituire (o, se c’è, adire) un Tribunale internazionale che giudichi delle pretese delle parti. Qualsiasi tipo di ostilità (e al limite, di guerra) e controversia, o almeno gran parte, sarebbe così justiciable, cioè conoscibile e decidibile da un giudice (si spera anche “terzo”). Il vantaggio di tale “sistema” consisterebbe nell’eliminazione/riduzione dei conflitti e, in certi casi, delle guerre. La decisione del Tribunale sarebbe così alternativa a quella della guerra.

Tale tesi è per lo più esposta da giuristi di sinistra, i quali non sembrano imbarazzati dal ripetere così quel che scriveva De Maistre “Partout où il n’y a pas sentence, il y a combat[1]. Tesi che esprimeva nel libro II° del Du Pape, una delle più razionali (ed appassionate) trattazioni della ineluttabilità (e degli inconvenienti) della sovranità[2].

Gli argomenti che si adducono a favore della tesi in esame hanno però più di un limite, che li rende contraddittori. Vediamo quali.

In primo luogo si adduce l’argomento il quale coniuga la competenza agli interessi..

Come a livello locale gli interessi locali sono attribuiti al Comune (alla Provincia, Regione ecc.) laddove vi siano interessi a livello planetario o almeno sovrastatale devono, proprio perché eccedenti  l’ambito nazionale, essere regolati a livello sovrastatale.

Se si può essere d’accordo che una regolazione statale d’interessi eccedenti il territorio dello stato corre il rischio di essere poco efficace e al limite inutile, altro è farne conseguire che per avere quelle regole occorra un ente (organo, ufficio) internazionale che le detti e giudichi le relative controversie. In effetti la regola può essere posta o consensualmente (tramite un accordo) o unilateralmente (con un comando dell’uno all’altro soggetto).

Quanto al primo – normale nel diritto internazionale (e, ovviamente, non solo in questo) – si realizza con trattati, il fondamento dei quali è proprio che a negoziarli, deciderli, applicarli sono degli Stati sovrani. I quali se non fossero sovrani, non potrebbero né obbligarsi né essere responsabili dell’esecuzione. O quanto meno avere una capacità internazionale limitata, corrispondente alla propria sovranità.

Come scriveva Santi Romano “effetto della mancanza di sovranità è la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati”[3].

E il tutto si ripercuote non soltanto sulla capacità internazionale ma anche sulla responsabilità per eventuali illeciti. Lo Stato dipendente (protetto, federato) il quale non gode di (piena) sovranità risponde, soltanto nei limiti delle attività che può svolgere, nei confronti (anche) degli altri soggetti internazionali; ma per i rapporti di competenza dello Stato protettore, a seconda dei casi può (o deve) rispondere quest’ultimo.

Contrariamente a quanto pensano certi globalisti è proprio la sovranità a fondare la capacità di obbligarsi e il dovere di responsabilità. È ad essa quindi che dobbiamo la possibilità di esistenza (ed applicazione) di norme giuridiche pattizie.

In secondo luogo, e strettamente connesso al precedente, le regole possono emanarsi sia con accordi liberamente assunti dai soggetti che con comandi che un soggetto da agli altri. Per cui se una dimensione d’interessi è di competenza di più Stati la relativa regolazione può essere data con accordi tra gli Stati coinvolti, proprio in forza di quella – tanto disprezzata e deprecata – sovranità. In alternativa uno Stato (o un’altra istituzione) che si trova a esercitare poteri di comando sugli altri, può ordinare che valga la regolazione da esso imposta; non è vero quindi che la sovranità ostacoli la regolamentazione; ma è verissimo che impedisce che sia imposta una normativa non pattizia.

In terzo luogo, si ritiene che i globalizzatori sono coloro che sostengono gli interessi dell’umanità, mentre i sovranisti quelli particolari degli Stati.

Tale affermazione è assai discutibile in fatto, perché presuppone che chi afferma di sostenere quelli dell’umanità, abbia il potere di comandare a coloro che dicono di sostenere quelli dei popoli. Ma questo a sua volta presuppone che gli uni e gli altri siano in buona fede. Il che, a quasi cinque secoli dalla pubblicazione del “Principe” appare un atto di fiducia (e credulità) foriero di molte delusioni. Avete mai sentito parlare di propaganda?

E sostenere che un soggetto concreto debba essere sottoposto alla decisione di un altro soggetto concreto – nella specie un organismo internazionale ovvero (forse) una coalizione di Stati – perché questo tutela (interessi, valori o quant’altro) di carattere superiore ripete, mutatis mutandis la controversia tra Hobbes e i teologi cattolici della controriforma sul rapporto tra autorità spirituale (il Papa) e temporale. Come scrive Schmitt, il filosofo inglese “mette in discussione la pretesa che il potere statale debba essere soggetto al potere spirituale, poiché quest’ultimo costituisce un ordinamento superiore”[4].

La tesi di Hobbes era in polemica con quella di S. Roberto Bellarmino, il quale difendeva la concezione della potestas indirecta in temporalibus del Pontefice. Il filosofo di Malmesbury la contestava con pluralità di argomenti: che manca il consenso dei governati[5], ma solo la pretesa di aver avuto tale potere da Dio[6] ed il potere, a parte il fondamento, è sempre lo stesso[7]. Quando poi controbatte l’argomento del Bellarmino sulla gerarchia dei poteri (che si riflette in gerarchia delle persone), applica in un certo senso il rasoio di Ockam: il rapporto di potere – ossia di comando/obbedienza è relazione tra persone concrete e non entità astratta[8].

Se si fanno discendere dal cielo alla terra le argomentazioni del teologo e del filosofo, la somiglianza tra la concezione del primo con quella dei globalisti è evidente.

Entrambe sono volte a provare il diritto di chi detiene (o sostiene di possedere) un potere superiore a comandare coloro che ne esercitano uno inferiore. Là per volontà divina e per il bene delle anime, qua per coinvolgimento di un numero maggiore di esseri umani – fino all’intera umanità ed al suo territorio, il pianeta – e per la bontà delle intenzioni. La novità di questa concezione, rispetto a quella, oggigiorno enormemente più invocata, dei “diritti umani” è di argomentare più dagli interessi che dai valori.

Ma le fallacie in cui incorre solo le stesse: la non necessità di istituzioni apposite (sia che si tratti di Stato che di enti, Tribunali ed altro) per regolare ciò che è comune a più popoli, e la ineluttabile necessità, di converso, se si vuole imporre la decisione (maggioritaria?) ai dissenzienti. Il problema poi sotteso è di  come imporre ai recalcitranti sia le istituzioni globali sia le di esse decisioni. Si fa loro la guerra? E giacché col farlo si viola il buonismo/irenismo imperante – oltre che essere gravemente contraddittorio con lo stesso -, le si deve cambiare nome.

Escamotage già usato con le operazioni di polizia internazionale -, ossia le guerre promosse e condotte da coalizioni di Stati benintenzionati contro Stati canaglia dissenzienti e malintenzionati. Così violando i principi del diritto internazionale Westphaliano, in primo luogo che par in parem non habet jurisdictionem. Che invece in nome di un interesse superiore si pretende di avere. Meglio allora un sistema  che, con tutta le sue crepe, si basa ancora sulla sovranità. E, di conseguenza, sul diritto dei popoli a scegliere il proprio destino.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Du Pape II, 1

[2] Il popolo è fatto per il sovrano, come il sovrano per il popolo; e l’uno e l’altro esistono (son faits) perché ci sia una sovranità … Nessun sovrano senza nazione, come nessuna nazione senza sovrano”. Op. loc. cit..

 

[3] Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 117 e prosegue “limitazione che si ha non solo verso lo Stato protettore o la Società delle nazioni, ma anche verso i terzi, il che conferma che non si tratta di semplici obbligazioni, ma di una posizione personale… data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire”

[4] Teologia politica in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 57; e prosegue “Ad una argomentazione del genere egli risponde: se un «potere» (power, potestas) dev’essere sottoposto all’altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere… Ciò che gli è incomprensibile («we cannot understand») è che si parli di sopra-ordinato e di sub-ordinato, preoccupandosi però nello stesso tempo di rimanere sul piano astratto. «Infatti soggezione, comando, diritto e potere riguardano non poteri ma persone»”. Cosa che invece i globalisti ritengono opportuno fare.

[5] v. Leviathan parte III, c. XLII “Quando si dice che il Papa non ha – nel territorio degli altri Stati – il supremo potere civile direttamente, noi dobbiamo intendere che egli non pretende ad esso – come gli altri sovrani civili – in virtù della originale sottomissione di coloro, che debbono essere governati, poiché è evidente, ed è stato già sufficientemente dimostrato in questo trattato, che il diritto di ogni sovrano deriva originariamente dal consenso di ognuno di quelli, che debbono essere governati, sia che lo scelgano per comune difesa contro un nemico, come quando si accordano tra di loro, per eleggere un uomo od un’assemblea di uomini, affinché li proteggano; sia che lo facciano per salvare la propria vita, sottomettendosi ad un nemico conquistatore”.

[6] “ma non cessa tuttavia dall’invocare il suo diritto da un’altra parte, cioè – senza il consentimento di quelli, che debbono essere governati – per un dritto datogli da Dio” op. loc. cit.

[7] “Ma da qualunque parte egli lo pretenda, il potere è lo stesso, e – se fosse accolto come un diritto – egli potrebbe deporre principi e governi, sempre che ciò fosse per la salvazione delle anime, cioè sempre che gli piacesse, poiché egli pretende per sé anche l’assoluto potere di giudicare se ciò sia per la salvazione delle anime umane o no” e prosegue “Questa distinzione tra potere temporale e spirituale non è infatti che di parole; ed il potere vien realmente diviso, ed in modo altrettanto dannoso per tutti i riguardi, tanto col far partecipe altrui di un potere indiretto, quanto di un potere diretto” op. loc. cit.

[8] “Non vi sono che due modi, per i quali queste parole possano dare un senso; poiché, quando noi diciamo che un potere è soggetto ad un altro potere, il senso è o che colui, che ha l’uno, è soggetto a colui, che ha l’altro, o che l’un potere sta all’altro, come i mezzi al fine. Infatti noi non possiamo intendere che un potere abbia il potere sopra un altro potere, o che un potere possa avere il diritto di comandare sopra un altro, poiché la soggezione, il comando, il diritto ed il potere sono accidenti non dei poteri, ma delle persone…Quando il Bellarmino dice che il potere civile è soggetto allo spirituale, egli intende dire che il sovrano civile è soggetto al sovrano spirituale” op. loc. cit..

LO STATO DI INCERTEZZA, di Pierluigi Fagan

LO STATO DI INCERTEZZA. (Post domenicale) Esso è proprio del futuro o meglio, dello sguardo presente che tenta di catturare lo stato futuro. Ma nel secolo scorso, in fisica, si è arrivati a scoprire che esso è al fondamento della stessa realtà fisica, apparentemente, la più concreta e definita vi sia, per lo meno a livello particellare. Tale fatto è stato compendiato nel “principio di indeterminazione” a base di quella fisica che si chiama meccanica quantistica. Del principio, un fisico austriaco, volle dare un esempio che voleva popolarizzare la questione o meglio dare evidenza paradossale della interpretazione dominante che non condivideva, al pari di Einstein. Ne nacque il “gatto di Schroedinger”, metafora assai popolare, abusata, quasi sempre usata a sproposito. La metafora voleva esemplificare, in forma di paradosso e non di fatto, il fatto che i tanti futuri possibili propri della realtà micro-fisica, uno solo diventerà realtà di fatto, solo laddove c’è una presenza umana. La presenza umana, la semplice osservazione della realtà fatta da un umano, collassa l’ampio ventaglio delle molteplici possibilità nell’unica possibilità che diventa attualità. Dei futuri possibili uno solo diventerà attuale per noi.

In questo giorni, per ragioni di studio, sto studiando un campo prima frequentato a-sistematicamente: lo studio dei futuri. Dalle sibille, àuguri, indovini, pizie, profeti e divinatori, si è passati ai produttori di utopie, distopie, retropie, estropie, ucronie. Poi a tentativi di previsione, lungimiranza, prospettive, prognostica, anticipazioni nel mentre si sviluppava la fanta-scienza, genere letterario nato poco dopo la Rivoluzione industriale ed i piani quinquennali. Oggi, gli anglosassoni hanno compendiato gli sforzi previsionali applicati al mondo, l’economia, la geopolitica, la politica, la tecnologia, la condizione ambientale, in una vera e propria disciplina i “futures studies”.

Non sapevo, ma vi sono cattedre universitarie sparse in giro per il mondo di tali futures studies, da Seul a Teheran, da Sidney a gli USA, passando per la Cina e l’Europa, una anche in Italia, a Trento (Corso di “Previsione sociale” e ricordo che Sociologia, a Trento, è storicamente una facoltà di punta. Vi si laureò Renato Curcio e Mara Cagol, tra gli altri). La versione anglosassone, trae spunto dall’idea di sviluppare tale disciplina in forma più seria, diciamo tendenzialmente anche se non precisamente “scientifica”, avuta da un tedesco Ossip K. Flechtheim, inventore del termine “futurologia” nel 1943. Flechtheim aveva anche ambizioni di filosofia politica e propugnava una terza via tra capitalismo e comunismo che ridotta all’osso era un socialismo democratico rinforzato, per come si esprimeva il tedesco “ecologico, frugale, femminista, umanistico”.

Ma il grosso dei futures studies è nei think tank che abbondano in America, ma cominciano a svilupparsi in ogni Paese dotato di ambizioni. Come già vi riferii, sono molti i Paesi che hanno prodotto la propria “Vision”, di solito traguardata al 2030 o 2050 (mi sa che anche Renzi ne ha annunciata una alla Leopolda per il 2029). Ve ne sono anche di dimensione parlamentare come in Finlandia o mondiale. Delle previsioni discusse ogni anno a Davos al World Economic Forum vi diedi già precedentemente conto ma vi è un altro rapporto giunto oggi alla 19° edizione, lo State of the Future del The Millenium Project. Siamo sulla scia di molti altri rapporti quali quelli del Club of Rome o il Sierra Club o il russo Club Valdai. La pre-visione, è qui classicamente rivolta all’individuazione di rischi e possibilità, più rischi che possibilità invero. Colpa del pessimismo della ragione o di una reale ragione anticipante o dell’unione tra la grande mole di dati e conoscenze che oggi abbiamo e l’oggettivo moltiplicarsi di contraddizioni e rischi nel mondo complesso, tali rapporti sono una non allegra e sempre meno terminabile elencazione di vere e proprie disgrazie. Negli anni ’90, il Dipartimento della Difesa USA,a proposito del futuro aspettato, coniò l’acronimo VUCA – Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous, nel tentativo di acchiappare i sfuggenti contorni.

A solo titolo esemplificativo, un primo elenco di disgrazie è questo: cambiamento e riscaldamento climatico, eventi fuori scala e disastri naturali, fallimento nella mitigazione climatica, aumento livelli mare, isole e coste sommerse, migranti ambientali, carenze e crisi alimentari e di acqua, siccità, inondazioni, salinizzazione, perdita di biodiversità e di specie cruciali (ape), colassi ambientai locali (eutrofizzazione), volatilità costante, terrorismo, rivolte, moltiplicazione delle richieste di sovranità, stati falliti, crisi debitorie (mondiali, locali, bancarie), crisi fiscali, bolle e scoppio di bolle a ripetizione, Inflazioni – deflazioni, diseguaglianze economiche-sociali –tecnologiche, epidemie globali, pandemie, salute mentale (ansia biologica, tecnologica, sociologica, ambientale + depressione “seconda causa di disabilità al mondo”), resistenza antibiotici, transumanesimo, problemi energetici, condizione delle donne, fallimenti nella pianificazione urbana, crimine organizzato, rivolta delle macchine (Hawking, Bostrom, Musk), codice etico delle macchine, perdita di lavoro, armi nano-bio-tecnologiche, cyberattacchi, frode o rapina di dati, guerre locali – Interstatali – d’area – mondiali – elettromagnetiche – biologiche – climatiche, nucleari a vari livelli. In più: Rischi sistemici (sistema e sotto-sistemi – mondo) non lineari, Eccesso di complessità (tra totalitarismi e caos), Effetti farfalla a gò-gò. I poco avveduti, quando vengono citati questi rischi, pensano siano una invenzione delle élite per perpetrare il loro dominio. E’ invece il fatto che le élite li prevedono a farle preparare alla gestione. Non si confonda l’interpretazione col fatto, i fatti -anche se in ipotesi- prescindono per molti versi le interpretazioni.

In 1984, Orwell sosteneva che “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato” una chiave concatenata che va letta come dominio delle narrazioni. Il potere in carica oggi, domina il racconto storico, sia quello della cose avvenute, sia quello delle cose che debbono avvenire. Ma quelle che debbono avvenire sono anche una finestra aperta sull’oggettivo stato di incertezza dello sguardo rivolto al futuro. Ed è in vista di questo previsionato futuro che poi si fanno molte scelte, introiettando il “poi”, di modo da condizionare l’”adesso”. I futuri sono possibili, probabili o desiderati. Se i poteri disegnano i loro, i contro – poteri dovrebbero parimenti disegnare i loro, siamo tutti gatti di Schrodinger che debbono pianificare la rivincita. Il pensiero critico più che levarsi sul far della sera come la nottola di Minerva (o civetta di Atena), ultimamente si sveglia con qualche decennio di ritardo, c’è un ritardo di attenzione, visione e pre-visione, la critica è schiacciata sul presente.

I futuri possibili, collasseranno nel presente che sarà, solo quando la presenza umana lo abiterà determinandone gli esiti. Il futuro non è scritto e politica è la lotta per possedere la penna che lo scriverà. Ma il futuro si scrive nel presente perché per l’essere umano è la previsione ad animare l’intenzione.

tratto da facebook

parabole e figuri, di Piero Visani e Augusto Sinagra

ARROGANZA E TRACOTANZA

A quanto riferiscono i mezzi di comunicazione l’ultimo annuncio del Conte Tacchia, al secolo Conte Giuseppe (quello del curriculum che esaltava le sue gesta) è che il governo da lui presieduto per volontà del figlio di Bernardo Mattarella e del pampero argentino (si sa: Dio crea gli uomini e questi poi si accoppiano per affinità) creerà un milione e mezzo di posti di lavoro per gli africani irregolarmente presenti sul territorio nazionale.
Quello che non chiarisce l’Avvocato dell’Unione europea è come si faccia a concludere un contratto di lavoro con persone delle quali si ignora la vera identità, il luogo e la data di nascita e le pregresse vicende di vita.
Neppure chiarisce che tipo di contratto di lavoro, in quale settore, per quali prestazioni lavorative.
Viene il dubbio che il bellimbusto pugliese abbia avuto questa idea dopo aver visto o rivisto il film “Via col vento” recuperando alla memoria gli schiavi addetti alle piantagioni di cotone.
Quello che indigna dell’annuncio di questo deplorevole personaggio è che evidentemente non gliene fotte niente dei cinque milioni di italiani (e forse di più) che l’ISTAT colloca nella fascia di povertà.
Probabilmente con questa dichiarazione il foggiano che ha l’unico merito dell’eleganza, come dice Vittorio Feltri, ha inteso consapevolmente pigliare per il culo il Popolo italiano e gli stessi clandestini africani che vengono immessi sul territorio nazionale in sfacciata violazione della legge (mi riferisco al Decreto convertito in legge relativo ai cosiddetti “porti chiusi”).
Che il giovanotto foggiano ami prendere per il culo il Popolo italiano ha un recente precedente: il cosiddetto “accordo di Malta” con il quale lui assumeva di aver fatto in un giorno più di quanto aveva fatto il Ministro Matteo Salvini in 14 mesi. Si è visto come è andata e come sta andando fino al punto che la Signorina Luciana Lamorgese, Ministro dell’Interno (ma chi glielo doveva dire?!) chiede piagnucolosamente aiuto all’Unione europea la quale ovviamente se ne frega perché il progetto preordinato è che l’Italia sia un campo di raccolta di clandestini e di irregolari.
Il giovane pugliese mostra una smisurata e ingiustificata considerazione di sé stesso ma non si rende conto che si sta consegnando, nella sua smania di protagonismo e nella sua accecata ambizione, ad essere iscritto nella pagina più triste della recente storia nazionale: lui e tutti i suoi sodali del governo che per il bene della Nazione ci si augura che possa cadere il più presto possibile.
Fin da ora occorre pensare a come rimediare ai danni provocati a tutto il Popolo italiano da questo governo che è espressione di volontà e intendimenti tanto ignobili quanto inconfessabili.
AUGUSTO SINAGRA

PARABOLE: DA GRILLO A GRILLOTALPA, di Piero Visani

Come capita spesso a coloro che vorrebbero “cambiare il mondo”, succede che i loro propositi si fermino a mezza via, o a un quarto di via oppure per mutamento di destinazione.
Può capitare, ad esempio, che un noto “Grillo” sventratore di parlamenti e istituzioni affini rinunci al nobile compito che si era dato per trasformarsi in un ben più modesto – e diffuso – grillotalpa, che – come si legge su Wikipedia (perdonate l’assoluta modestia della fonte, ma devo lavorare e non percepisco redditi di cittadinanza):
“Il grillotalpa può risultare molto dannoso per le coltivazioni; è polifago, nutrendosi di una vastissima gamma di piante, di cui attacca in particolare le radici; oltre a cibarsene, le trancia per scavare le sue gallerie [Incredibile, per un no TAV…] e anche quelle che non vengono danneggiate in questo modo subiscono gli effetti del disseccamento del terreno dovuto alla sua azione”.
Altra alternativa possibile sono i grilli che – per ragioni varie che non stiamo qui ad approfondire, tanto le conoscono tutti visto che sono all’onore delle cronache – diventano delle autentiche “bocche di rosa”, come nel celeberrimo testo della canzone di Faber:

“La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa.

Appena scese alla stazione
Nel paesino di Sant’Ilario [capite a me…]
Tutti si accorsero con uno sguardo
Che non si trattava di un missionario”.

In effetti, l’abbiamo ormai compreso pure noi…

le guerre di Israele e il nomos della terra secondo Fabio Falchi

Da sempre il richiamo della terra, la sedimentazione dello spirito, della cultura e dell’anima di un popolo in un particolare territorio hanno suscitato l’interesse di studiosi ed analisti entrando a pieno titolo tra i fattori che determinano le dinamiche geopolitiche, il confronto e il conflitto tra stati e popoli. La retorica sulla globalizzazione in primo luogo e la tesi delle dinamiche del conflitto politico dettate dalla lotta di classe sembravano aver messo definitivamente in secondo piano questo interesse sino a prevederne la totale rimozione. Con il suo ultimo libro “le guerre di Israele e il nomos della terra” Fabio Falchi ci offre un esempio concreto di quanto sia illusoria questa rimozione e di come sia una che l’altra non possano prescindere dalla forza delle radici. Ne discutiamo in questa conversazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Jean-François Kervégan Che fare di Carl Schmitt?, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Jean-François Kervégan Che fare di Carl Schmitt? Ed. Laterza, Bari 2016, pp. 235, € 24,00

La frase che sintetizza questo saggio è come “pensare con Schmitt contro Schmitt”. La contraddizione che ne emerge è quella consueta: tra un pensiero tuttora fecondo e in grado di spiegare – almeno in parte – il nostro presente politico e l’adesione del giurista di Plettemberg al nazismo che lo rende maledetto al “pensiero unico”.

Contraddizione particolarmente avvertita in Italia e in Francia.

In Italia il pensatore tedesco era stato “cancellato” prima della renaissance avviata dalla pubblicazione nel 1972 a cura di Miglio e Schiera della silloge dei suoi scritti “Le categorie del politico” seguita nei decenni successivi dalla traduzione e pubblicazione di (quasi) tutti gli scritti di Schmitt. Di guisa che nel “coccodrillo” di Maschke pubblicato da Deer Staat dopo la morte di Schmitt, si ascriveva all’Italia il merito di aver svolto la parte più importante nel recupero del pensiero schmittiano – spesso ad opera di studiosi marxisti.

Valutazione che l’autore condivide “Non è azzardato affermare che in Italia, a partire dagli anni Settanta, sono stati pubblicati alcuni dei migliori contributi alla letteratura critica su Carl Schmitt”. Kervégan sostiene che “Se esiste un «caso Schmitt» è proprio perché questo autore, insieme alle sue divagazioni naziste, ha scritto opere che sono da annoverare tra le più importanti e potenti della teoria giuridica e politica del XX secolo”. E ciò che rende la sua opera utilizzabile “in modo perverso” per legittimare l’aggressività nazista è ciò che la fa spesso interessante e fertile “Non ci sono due Carl Schmitt, il buono e il cattivo Schmitt, ma c’è uno spirito brillante che si è sforzato, con la stessa agilità intellettuale, di rilevare le contraddizioni del pensiero liberal-democratico e di giustificare la politica di Hitler”. E soprattutto la fecondità e l’attualità di molte intuizioni di Schmitt, spesso in grado di spiegarne cause e dinamiche.

Tra questi ne ricordiamo tre.

La prima è la situazione del mondo dopo il crollo del comunismo.

Scrive Kérvegan “Tra il 1991 e il 2001 si è voluto – e fino a un certo punto si è potuto – credere che l’umanità vivesse finalmente in un mondo comune, unificato dalle medesime aspirazioni e scelte fondamentali. L’autore di La fine della storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama è stato il corifeo di questa convinzione …. scomparsi i concorrenti (fascismo, comunismo), non c’è più che un solo paradigma di vita buona: quello offerto dalla democrazia occidentale (o più esattamente nordamericana)” ma gli attentati dell’11 settembre hanno posto fine a queste speranze passeggere e ci hanno messi dinanzi al fatto che la morte di un nemico non comporta la scomparsa dell’ostilità; e dobbiamo ricordarcene ancor più dopo l’eliminazione di Bin Laden”. Schmitt già negli anni ’30 notava che con il concetto di guerra giusta, e la moralizzazione del nemico, si andava di pari passo verso la tendenza contemporanea alla “moralizzazione delle questioni giuridiche (e) alla destabilizzazione delle relazioni internazionali. Il deperimento dello Stato come justus hostis, titolare esclusivo dello Jus belli e del pari del principio internazionalistico par in parem non habet jurisdictionem, sono ora tutti nella concezione globalista-mercatista (e imperialista) della universalità dei diritti umani, della criminalizzazione di governi recalcitranti e relative operazioni di “polizia internazionale”. Agli albori di questa evoluzione Schmitt contrapponeva il concetto di grossraum, di grandi aree geopolitiche in cui l’egemonia di una potenza manteneva – nello spazio planetario – il pluralismo anche se non nella forma dello jus publicum europaeum. Che questa sia poi la configurazione che sta assumendo il pianeta è evidente: l’idea di un universalismo incentrato sull’egemonia USA è venuta meno; non foss’altro (basta e avanza) perché Cina e Russia non sono d’accordo, ma anche l’India e non pochi altri Stati.

Il secondo è la brillante analisi di Schmitt sulla successione, nello spirito europeo, di zone centrali “zentragebiet” di riferimento spirituale, che comporta corrispondenti discriminanti dell’amico-nemico.

Anche qui il diffondersi nell’area euroamericana una nuova scriminante del politico, segnata dalla crescita di leader e movimenti populisti anti-globalisti, dopo il venir meno della vecchia contrapposizione borghesia/proletariato, conferma la tesi di Schmitt, sulla neutralizzazione delle vecchie scriminanti e la (ri)-politicizzazione con le nuove. Neutralizzata la scriminante borghesia/proletariato, è succeduta la nuova identità/globalizzazione.

Il terzo punto è il rapporto tra politico e diritto. La tendenza a neutralizzare il diritto, basata sulla separazione tra momento fondativo (sicuramente politico) che viene dai normativisti occultato nella successiva situazione di normalità dell’ordine costituito. Così il normativismo “concepisce la Costituzione come un ordine in sé chiuso, avendo la pretesa di ignorare quanto essa dipenda non dal diritto ma dalla politica”. Di conseguenza l’elisione positivistica dell’atto costituente “è insostenibile sotto ogni punto di vista: la Costituzione non è «nata da se stessa», contrariamente a quanto le finzioni normativistiche fanno credere”. Un normativista crede “in modo ingenuo che una decisione maggioritaria del Parlamento basti a trasformare l’Inghilterra in una Repubblica dei Soviet, il decisionista ritiene che solo un atto politico del potere costituente … può abrogare o modificare le decisioni politiche fondamentali che formano la sostanza della Costituzione. Onde “nessun atto che emani da un potere costituito (da un organo costituzionale) potrebbe modificarla, a meno che non si verifichi una rivoluzione che implichi la distruzione dell’ordine costituzionale esistente”. La connessione stretta tra politico e diritto impedisce o almeno ridimensiona gli idola diffusisi nel secolo scorso, che proprio sulla elisione/sottovalutazione del politico si fondano: l’esaltazione del ruolo dei Tribunali internazionali con competenze di carattere penale e civile; la “sacralizzazione” dell’articolato costituzionale, che dall’elisione del potere costituente guadagna in staticità (giustamente Hauriou criticava Kelsen perché la di esso concezione  del diritto era essenzialmente statica); la crescita dell’importanza delle Corti Costituzionali divenute  – attraverso  meccanismi interpretativi ed anche per le antinomie normative – le uniche competenti a “aggiornare” la Costituzione.

Tali esempi, tra altri, dimostrano le fecondità del pensiero di Schmitt per interpretare il presente, che Kervégan sottolinea pur con l’avvertenza del “cattivo uso” che se ne può fare, soprattutto da parte di un potere totale. Per chi, come oggi, vive la fase estrema di un potere di classi dirigenti decadenti non può far altro che adattare a Schmitt l’omaggio che questi faceva a Hobbes nel concludere il saggio sul Leviathan “non jam frustra doces, Carl Schmitt”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, di Pierluigi Fagan

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO. Esistono diverse definizioni e letture del “sistema totalitario”, un termine -pare- inventato nel 1923 dall’italiano G. Amendola. Quasi tutte però, si riferiscono a sistemi socio-politici del Novecento, come se il “totalitarismo” fosse una invenzione recente. Amendola, ne dava questa definizione: “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato –del sistema totalitario- nel campo della vita politica ed amministrativa”.

Lasciando il campo della sintetica ovvero della forma con contenuto e retrocedendo a quello dell’analitica, ovvero della forma pura, il totalitarismo è un irrigidimento del potere politico e sociale (economico e culturale). Tale irrigidimento è evidentemente chiamato da minacce di disordine a cui si risponde con più ordine. Quando dosi incrementali di ordine non riescono a mettere ordine, la forma ordinante diventa sempre più rigida ed imperativa. Questa è l’origine del totalitarismo, origine che nulla a che fare in esclusiva col Novecento e che si ripete in vari modi e forme sin da quando sono nate le società complesse, cinquemila anni fa. Naturalmente poi la forma pura, avrà diverse applicazioni storiche in cui variano sia le società, sia i loro contesti, ma ha scarsissima utilità se non negli studi storici del Novecento dare sproporzionata attenzione a questa declinazione, dimenticandosi che essa è appunto una declinazione di un tipo ideale che ha storicità millenaria.
Ma quali sono le fonti del disordine a cui il totalitarismo reagisce?

Primo, il disordine può provenire da un ben individuato esterno di una data società. Un contesto geo-storico, presenta attori in competizione le cui azioni premono contro l’ordine di una certa specifica società o civiltà, nella quale si formano risposte ordinative sempre più rigide com’è in ogni strategia di sopravvivenza biologica.

Ma, secondo, il disordine può provenire da un esterno non ben individuato e precisato. Si tratta in questo caso di una sorta di incipiente dis-adattamento. Le società umane sono veicoli adattivi, strategia socio-biologica di lunghissima data che ha trovato utile unire individui in gruppi perché “l’unione fa la forza”. La “forza” di tale unione, ha scopi adattativi, ci si adatta meglio e si resiste meglio alla selezione naturale (quindi ci sono ragioni di “difesa” e di “offesa” nella relazione gruppo-mondo), laddove gli individui si uniscono in “individui di ordine superiore” quali i gruppi. I gruppi o società animali e quindi umane, hanno finalità adattive. Quando questo adattamento è non problematico, le forme interne ai gruppi di rilassano e diversificano in varie possibilità, quando questo adattamento è problematico, le forme si irrigidiscono unificandosi. Lì, compare la coazione totalitaria.

Terzo, specificatamente alle società tra umani, nei cinquemila anni di società complesse, l’unica forma di ordine sociale, estesa nello spazio e nel tempo, è stata quella per cui Pochi comandano su Molti. Questi Pochi potranno essere anche un bel po’ quando l’adattamento è facile e positivo, mentre tenderanno ad Uno quando l’adattamento è più problematico. Qui allora, la nozione di “ordine” prende un duplice significato. Non si tratta solo di una astratto “ordine” nel novero di quelli possibili relativo al corpo sociale, si tratta più spesso di quella precisa ed unica forma di “ordine” che determina il potere di una precisa élite. A dire che il totalitarismo può anche essere una reazione di una élite che a fronte di una non decisiva pressione di forze esterne disordinanti o a fronte di semplici accenni di dis-adattamento o non più totalmente positivo adattamento, reagiscono irrigidendo le forme del proprio potere sull’intero sistema che vogliono dominare.

Ci sono dunque due tipi di pressioni esterne, quelle portate da forze concorrenti e quelle di contesto a cui ci si deve adattare ed una interna che può esser la reazione alla pressione esterna in una o entrambe le forze pressanti, ma anche la semplice reazione di una élite al rischio venga posto in dubbio la legittimità della sua interpretazione del potere sociale ovvero del suo “diritto di poter dare l’ordine”.

Nell’Occidente contemporaneo, a partire dalla società guida del sistema ovvero gli Stati Uniti d’America, si contano tutte e tre queste dinamiche che precedono irrigidimenti totalitari.

Ci sono pressioni portate da società concorrenti, quella cinese in sé ma anche a nome di una sorta di possibile fronte dei secondi livelli geopolitici che vorrebbero aprire il tavolo da gioco a dinamiche multipolari per giocarsela con, per loro, maggior condizioni di possibilità (unione spalleggiata dalla Russia con forza ma anche dall’India sebbene con più ambiguità che è poi strategia di bilanciamento). Si tenga conto che il peso percentuale degli occidentali sul totale mondo, negli ultimi centoventi anni di forte inflazione demografica, è sceso da più del 30% a meno della metà. Anche il loro potere qualitativo si sta -tendenzialmente- livellando.

Ci sono poi anche diversi segnali di dis-adattamento al contesto a partire dalle questioni ambientali, per proseguire con quelle demografiche, quelle economiche e finanziarie (ad esempio ruolo del dollaro ma non solo), quelle militari (relativa impotenza non di distruzione bellica ma di successivo potere amministrativo del “conquistato”). Financo quelle culturali che attengono ai sistemi di pensiero che riflettono forme concrete della vita associata, che ereditiamo da tempi del tutto diversi e verso i quali si mostra una pronunciata difficoltà alla revisione ma forse necessaria, sostituzione integrale.

Quanto all’ordine sociale interno alle varie società, ci sono evidenti segnali di fallimento ordinativo delle élite che da cinquanta anni, sembrano per alcuni non aver capito, per altri aver invece capito benissimo, a che tipo di molteplice dis-adattamento andava incontro la forma occidentale di vita associata, reagendo con un lento ma costante ed inizialmente sottile accentramento di potere nelle loro sempre più ristrette mani. Qui, quello che alcuni leggono come “recente”, altri leggono come relativa “lunga durata”, io tra questi.

La dinamica di fondo del potere occidentale, tanto quello delle società occidentali nei loro rapporti di gerarchia di sistema (ordine interno alla civilizzazione occidentale), che quello del rapporto Occidente vs Resto del mondo (West vs the Rest), che quello ordinativo di una ben precisa élite che corrisponde ad un ben precisa forma sociale internamente ad ogni singola declinazione di società occidentale, disegna scenari tipici dell’approssimarsi di una fenomenologia totalitaria.

Dannarsi dopo non ha alcuna utilità, pensarci prima sarebbe meglio.

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INTERVISTA A THOMAS HOBBES, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A THOMAS HOBBES

La riduzione del numero di parlamentari in uno Stato che non ha tendenza ad autoridursi, ha suscitato un dibattito caratterizzato da svariate posizioni, ad onta del voto parlamentare pressochè unanime. Abbiamo provato a chiedere un’opinione a Thomas Hobbes, che della rappresentanza politica è stato uno dei maggiori (e primi) teorici.

Che ne pensa della riduzione del numero dei parlamentari?

Come ho sempre sostenuto le forme di Stato si distinguono se il sovrano è uno, pochi o tutti, cioè col numero di coloro che prendono le decisioni più importanti. Penso che la migliore sia la monarchia, ma comunque che la vostra oligarchia sia esercitata da qualche centinaio di rappresentanti in meno, fa poca differenza.

E perché?

La scelta tra le forme di governo consiste più che nella differenza di potere, in quella di convenienza o attitudine a produrre la pace e la sicurezza del popolo, pel quale fine esse sono state istituite. Che siano più o meno coloro che comandano, ai sudditi interessano più i limiti entro cui devono ubbidire e quello che i governanti possono pretendere che il numero di questi.

Ma anche il numero lei considerava un tempo rilevante

Si, e sempre a favore della monarchia. In primo luogo perché ogni governante tende a favorire i seguaci. Ma mentre i favoriti di un monarca sono pochi, e non hanno altri da avvantaggiare che la propria parentela, i favoriti di un’assemblea sono molti, e quindi la parentela e l’aiutantato molto più numerosi che quella di un monarca. Perciò se riducete il numero dei rappresentanti dovreste risparmiare qualcosa, comunque molto di più degli stipendi, almeno se non ne aumentano gli appetiti. Ma finché chi comanda spende e chi obbedisce paga il problema sussisterà.

Cosa considera più importante del numero dei rappresentanti?

Quasi tutto. Ma, in primo luogo che siano prese delle decisioni congrue, durevoli e prevedibili. Un’assemblea è più incostante e quindi imprevedibile e, di conseguenza, spesso ne prende di incongrue: nelle assemblee, sorge un’incostanza dovuta al numero, poiché l’assenza di pochi, i quali, presa una volta una risoluzione, sarebbero fermi a mantenerla – il che può avvenire per sicurezza, negligenza o impedimenti privati – oppure la presenza diligente di pochi di opinione contraria distrugge oggi, quello che ieri fu concluso.

Proprio un paio di mesi fa, ne avete fornito altro esempio, così confermando quanto scrivevo, col cambiare governo e politica.

E cosa conta più della quantità dei rappresentanti?

Uno dei difetti delle assemblee è che spesso sanno poco o nulla degli affari, e in particolare di quelli dello Stato. Cercate di migliorare la qualità dei rappresentanti: è meglio che ridurne la quantità. Vero è che quando siete stati governati dai “tecnici”, sedicenti esperti, questi hanno fatto peggio dei governanti meno titolati. Ma perché quelli erano (forse) esperti di astronomia, letteratura, arte, ma digiuni di politica e governo dello Stato.

Cosa pensa della ventilate nuove riforme costituzionali, di cui questa sarebbe la prima?

Da quel che sento, non hanno capito bene. Vogliono istituire il vincolo di mandato. Ma un rappresentante politico è tale perché rappresenta l’unità e la totalità del popolo, e non può essere vincolato da qualcuno, anche il suo capo-fazione, com’è nelle intenzioni dei riformatori; ma neppure dall’ultimo degli elettori.

E quanto al resto?

L’unica cosa chiara e interpretabile con categorie politiche è che desiderano evitare o rendere più difficili, le decisioni politiche. Non si tratta tanto e solo di impedire che decidano coloro che godono della fiducia della maggioranza dei cittadini, ma d’impedire qualsiasi deliberazione, sia contraria alle proprie idee ed interessi, che, in genere, avente un notevole rilievo ed effetto politico, Quando parlano di “freni e contrappesi” non bisogna pensare a Montesquieu ma al Sejm polacco, dove il liberum veto portò  alla distruzione dello Stato. Il cui ridimensionamento radicale è proprio l’obiettivo del potere globale.

In definitiva cosa può consigliare agli italiani?

Di tenere sempre davanti agli occhi quello che è l’essenza della politica e dell’obbligazione politica: la mutua relazione tra protezione ed obbedienza.

Ha il diritto all’obbedienza chi assicura protezione ; non lo ha chi non può o non vuole darla, anche se per i motivi più nobili. Come il Paradiso, (un tempo) o oggi molto più terreni, che invocano in continuazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

IL BASTONE AMERICANO E Il “VENTRE MOLLE” DELL’OCCIDENTE, di Fabio Falchi

IL BASTONE AMERICANO E IL “VENTRE MOLLE” DELL’OCCIDENTE

È opinione diffusa tra coloro che (giustamente) criticano la politica di pre-potenza degli Stati Uniti che sarebbe giunto finalmente il momento non solo per l’Italia ma per l’UE di ribellarsi agli USA, perché la politica americana dei dazi e delle sanzioni arbitrarie non colpisce solo l’Italia ma tutta l’Europa. In realtà, è la guerra commerciale degli USA contro l’UE e in particolare contro la Germania che colpisce pure l’Italia. Comunque sia, pensare che ci si debba schierare con la Germania o dalla parte dell’UE per smarcarsi dagli USA significa interpretare i rapporti tra gli USA e l’UE in modo semplicistico e fuorviante.
Invero, la stessa supremazia economica della Germania in Europa (e in generale dell’Europa del Nord rispetto ai Paesi europei dell’area mediterranea) non sarebbe possibile senza l’egemonia (geo)politica degli USA sul Vecchio Continente, giacché gli interessi economici della UE di fatto sono garantiti, sotto il profilo geopolitico e militare, proprio dalla NATO, cioè dagli USA, tanto che se l’UE (che non è né uno Stato federale europeo né una Confederazione europea) dovesse smarcarsi dall’America, rischierebbe di precipitare in un caos geopolitico che non potrebbe non avere conseguenze disastrose per l’Europa.
In sostanza, l’UE, se si sganciasse dagli USA, per non sfasciarsi dovrebbe mutare l’intera sua struttura politica ed economica, per trasformarsi in un vero “soggetto” (geo)politico, rinunciando di conseguenza ad essere una unione competitiva europea, con tutto ciò che ne deriverebbe riguardo ai rapporti tra i diversi Paesi della UE.
Non a caso è sulla debolezza geopolitica e militare della UE che cerca di far leva l’America di Trump, che non è più disposta a subire la concorrenza europea (e soprattutto l’enorme surplus commerciale della Germania) a scapito della bilancia commerciale americana. Difatti, l’amministrazione di Trump rappresenta gli interessi non tanto della middle class cosmopolita americana quanto piuttosto quelli dei ceti medi americani che più sono stati penalizzati dalla crisi economica di questi ultimi anni, ovverosia Trump concepisce la politica di pre-potenza americana in funzione degli interessi della nazione americana più che in funzione della élite cosmopolita neoliberale, e dato che la UE è sì una potenza economico-commerciale ma anche un nano (geo)politico e militare è evidente che l’America di Trump sia convinta di potere vincere la partita contro la Germania o qualunque altro Paese europeo.
Certo, in teoria l’UE “a trazione” franco-tedesca (ma di fatto soprattutto “a trazione” tedesca) potrebbe allearsi con la Russia per cercare di smarcarsi dagli USA, ma chiaramente (perlomeno in questa fase storica) un simile mutamento di rotta geopolitica è pressoché impossibile. Del resto, i gruppi (sub)dominanti europei condividono la stessa ideologia neoliberale e “politicamente corretta” che caratterizza i gruppi (sub)dominanti americani che si oppongono a Trump, né si deve dimenticare che sia in America che in Europa (Italia compresa) gran parte della ricchezza si è concentrata nelle mani di circa il 10% della popolazione, ragion per cui per i gruppi (sub)dominanti occidentali è necessario difendere comunque il sistema (geo)politico ed economico euro-atlantista per opporsi non solo ai nuovi centri di potenza anti-egemonici (Russia, Cina, ecc.) ma anche alle classi sociali subalterne occidentali (che ormai comprendono la maggior parte dei ceti medi).
Vale a dire che (euro)atlantismo e neoliberalismo simul stabunt simul cadent, di modo che, anche se sotto il profilo  economico l’America e l’UE (e in specie la Germania) possono avere obiettivi diversi e perfino opposti, è ovvio che sia i “dem” che gli “eurocrati” considerino estremamente pericolosa la politica di Trump, che (benché  si tratti di una politica che non è esente da notevoli “oscillazioni” e contraddizioni, poiché neppure Trump non può non tener conto degli interessi del deep State statunitense) sembra ignorare il nesso strettissimo che unisce (euro)atlantismo e neoliberalismo, privilegiando invece una prospettiva populista e nazionalista, che rischia di danneggiare gli interessi politici ed economici delle élites cosmopolite neoliberali.
Sia Trump che i populisti europei costituiscono pertanto una minaccia che i gruppi (sub)dominanti neoliberali devono assolutamente eliminare, anche se paradossalmente i populisti (americani ed europei), tranne qualche eccezione, condividono gli stessi principi politici ed economici dei neoliberali.
D’altronde, non è un segreto che la strategia della oligarchia neoliberale mira a promuovere la colonizzazione di qualsiasi sfera sociale e personale da parte del mercato capitalistico e perfino una immigrazione irregolare di massa, nonostante la difficoltà di integrare buona parte dei cosiddetti “migranti economici” (da non confondere con i profughi che sono solo una piccola parte dei “migranti”). Al riguardo è significativo che non vi sia nemmeno una agenzia europea per l’immigrazione in Europa di cittadini extracomunitari che abbiano i requisiti necessari per inserirsi rapidamente nel sistema produttivo, mentre il flusso dei “migranti” che provengono dall’Africa viene gestito da organizzazioni criminali (a conferma, come ben sapeva Thomas Sankara, che coloro che sfruttano l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa).
In effetti, tanto più si indeboliscono il legame comunitario e il “senso di appartenenza”, che caratterizzano gli Stati nazionali, tanto più è difficile che emergano delle “contro-élites” capaci di sfruttare l’attuale crisi (non solo economica ma anche di legittimazione) per opporsi al sistema neoliberale (ovviamente secondo una prospettiva politico-culturale nettamente diversa da quella che contraddistingue il neofascismo).
Tuttavia, non è impossibile che da una “costola” del populismo (che peraltro è l’effetto della crisi di un sistema che non sa più risolvere i problemi che esso stesso genera) possa nascere una forza politica in grado di mettere fine alla pre-potenza delle élites neoliberali. In altri termini, parafrasando Carl Schmitt, non si può escludere che si veda solo insensato disordine (anche e soprattutto “mentale”) dove invece un nuovo senso può essere già in lotta per il suo ordinamento. Di questo però sono consapevoli anche gli strateghi del grande capitale (anche se non necessariamente i politici o gli intellettuali neoliberali), dato che difficilmente possono ignorare che l’indipendenza dell’Europa presuppone la sconfitta dell’oligarchia neoliberale.

L’Europa dei pirati fiscali, di Giuseppe Masala

Cementir e Mediaset spostano la sede legale in Olanda. Ormai le aziende fanno parte a pieno titolo del fenomeno migratorio_Giuseppe Germinario

L’Europa dei pirati fiscali

La transumanza di aziende che dall’Italia spostano la sede legale nei cosiddetti paradisi fiscali europei (Lussemburgo, Olanda e Irlanda) continua. Le ultime due ad aver annunciato l’operazione sono state la Cementir e la Mediaset. Dal punto di vista legale si tratta, naturalmente, di operazioni perfettamente lecite sulla quali nessuno può dire nulla. Ma dal punto di vista etico magari qualcosa ci sarebbe da ridire. La Cementir produce cemento in Italia, e questo significa che sventra mortagne per prendere l’argilla, il gesso e il calcare necessari alla sua produzione. Questo significa che il danno ambientale e paesaggistico viene fatto in Italia. Così come sulle casse del Pubblico Erario italiano vanno a gravare tutti i suoi dipendenti che dopo tanti anni di lavoro si prendono la silicosi a furia di respirare le polveri della lavorazione. Medesimo discorso vale per Mediaset che per decenni ha pagato allo stato italiano cifre irrisorie per la concessione delle frequenze che hanno permesso all’azienda di macinare profitti miliardari. Un discorso legato alla responsabilità sociale delle attività produttive imporrebbe immediatamente la decuplicazione delle cifre che queste aziende corrispondono per lo sfruttamento di un bene pubblico come è il sottosuolo (Cementir) e l’etere (Mediaset), visto che ora sono aziende “straniere”. Non è assolutamente accettabile che le aziende trasferiscano la sede legale con un mancato gettito per quello stato che le ha arricchite.

Dall’altro lato, rimane sempre la critica verso gli stati pirata che fanno dumping fiscale all’interno dell’Unione Europea danneggiando altri stati che – a parole – vengono magari chiamati fratelli in un tripudio di tromboni di retorica europea.

Oggettivamente non ci si può far prendere per il sedere a questi livelli.

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