BRUXELLES: GLI ORFANI DELLA GUERRA_di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

BRUXELLES: GLI ORFANI DELLA GUERRA

Come volevasi dimostrare. La nuova presidenza Trump ha buttato giù tutta la laboriosa costruzione dei clan democrat e del Complesso militar-industriale che voleva scatenare la terza guerra mondiale: in Europa, naturalmente, come le altre due. Naturalmente The Donald non l’ha fatto per amore del nostro continente, ma perché lui è espressione dell’anima isolazionista dell’America profonda, sempre turlupinata dall’altra America (quella interventista, globalista, guerrafondaia) e trascinata nelle due precedenti guerre mondiali, in fraterna comunione d’intenti con i cugini della City londinese.

Siamo stati a un pelo dalla catastrofe, graziati sol perché le forze di Putin hanno prevalso contro una NATO che ha armato fino all’inverosimile quella modesta Ucraina che, altrimenti, non avrebbe potuto resistere più di un paio di mesi di fronte al colosso russo. Ci è andata bene perché Mosca ha vinto, come è sotto gli occhi di tutti. Perché, se per caso si fosse trovata a mal partito, la Russia avrebbe fatto ricorso all’arma nucleare, come è espressamente previsto dalla sua dottrina militare («in caso di aggressione contro la Russia con l’uso di armi convenzionali quando l’esistenza stessa dello Stato è minacciata»).

Sono cose note non soltanto agli esperti di strategie militari, ma pure a chi conosca anche soltanto i rudimenti di politica diplomatica e di difesa. Eppure nei palazzi di Bruxelles ci si è gettati a corpo morto nel conflitto per procura, teorizzando addirittura che l’Ucraina potesse vincere, e incuranti della più vasta e catastrofica guerra che una eventualità del genere avrebbe potuto provocare. E meno male che non esiste ancòra (e speriamo che non esista mai) il famoso “esercito europeo” invocato dagli euroincoscienti in servizio permanente effettivo. Se un tale esercito fosse esistito, la donnetta di Bruxelles e/o qualche altro dilettante allo sbaraglio ci avrebbero già coinvolti nella guerra russo-ucraina, con rischi inimmaginabili.

Sia stato come sia stato, comunque, siamo infine arrivati al redde rationem: archiviata l’insana voglia di guerra dei clan clintoniano ed obamiano (Biden era soltanto un modesto tappabuchi), l’America dell’era Trump non intende più bruciare miliardi di dollari in una guerra persa in partenza, e sta tirando i remi in barca. Attenzione: per il momento non si tratta tanto dell’auspicata trattativa di pace fra Russia e Ucraina, quanto piuttosto della volontà americana di tirarsi fuori, di ricostruire il rapporto con Mosca, di scongiurare il rischio di essere coinvolti direttamente nel conflitto – tramite NATO – e, in ultimo, di tentare di allontanare la Russia dalla braccia della Cina, dove la avevano sospinta le folli politiche del Deep State, lo “Stato profondo” che dettava la linea al partito democratico americano. Cosa – l’allontanamento da Pechino – allo stato non certamente facile.

A restare con il cerino in mano sono rimasti i fessacchiotti di Bruxelles e dintorni, pervasi da una folle smania di guerre e di sanzioni, crogiolati nella narrazione (falsa, e vedremo dopo perché) di una Russia che avrebbe “immotivatamente” aggredito l’Ucraina, immersi in un film che immagina il regime di Mosca come una specie di quarto Reich e il putinismo come una versione aggiornata di un “nazifascismo” che esiste solo nelle loro fantasie. Poveretti, giocano ancòra a fare la guerra del ’39-’45, sognano i marines a Iwo Jima e lo sbarco in Normandia.

Falsa – dicevo – la vulgata dell’aggressione russa “immotivata”. Quella aggressione – innegabile – è stata in realtà provocata, scientemente provocata per poter poi disporre di un pretesto per scatenare la guerra della NATO contro Mosca.

Perché dico questo? Perché – e sfido chiunque a dimostrare il contrario – l’odierna guerra russo-ucraina è la conseguenza (voluta, cercata, inevitabile) della precedente “guerra del Donbass”: una guerra che i brusselloti fanno finta di ignorare, ma che è durata 8 anni (dal 2014 al 2022) ed ha causato oltre 13.000 morti (diconsi tredicimila), 35.000 feriti (diconsi trentacinquemila) e 1.500.000 sfollati (diconsi unmilionecinquecentomila). Dati di fonte Wikipedia, per intenderci, non di “propaganda putiniana”.

Alla fine, Vladimir Putin è caduto nel tranello ed ha invaso l’Ucraina, così mettendosi formalmente – ma solo formalmente – dalla parte del torto. Gli 8 anni di guerra del Donbass, infatti, erano – in teoria – un “affare interno” dell’Ucraina; mentre questi ultimi 3 anni di guerra sono – sempre in teoria – una “aggressione ad uno stato sovrano”.

Niente di nuovo sotto il sole: in fondo, anche la seconda guerra mondiale è stata scatenata con metodi non dissimili, sempre prediletti dai “partiti della guerra” anglosassoni.

Ma torniamo al presente. Spiazzata dalla mossa di Trump, l’Unione Europea tenterà il tutto per tutto per sabotare la pace, stracciandosi le vesti e gridando che la pace non può significare la sconfitta dell’Ucraina. Ma – piaccia o non piaccia – è proprio così: l’Ucraina è stata sconfitta sul campo. Non poteva che essere così: troppo grande la sproporzione di forze. Le continue iniezioni di denaro e di armamenti da parte americana ed europea hanno solamente prolungato l’agonia. A spese dell’Ucraina, letteralmente dissanguata: non sono soltanto i 100.000 caduti in combattimento, ma un complesso di circa 20 milioni di persone, il 40% degli abitanti del paese: emigrati a ovest (per sfuggire alla guerra e ai reclutamenti) o ad est (rimasti dietro le linee dei “fratelli russi”, ivi comprese diverse migliaia di disertori).

E non è tutto, perché l’Ucraina ha finora perso un quinto del suo territorio nazionale a beneficio di Mosca; ed è quel quinto di territorio che custodisce una parte ragguardevole dei giacimenti minerali che Zelenskyi dice di poter cedere agli USA in cambio di nuove armi. In realtà, le disponibilità ucraine di risorse sono molto meno di quelle che il capataz di Kyiev mostra sulle mappe ai giornalisti; e quelle superstiti risorse disponibili Trump le vuole già come pagamento di non so quante centinaia di miliardi di dollari per vecchie forniture di armi, non come corrispettivo di nuove forniture.

In sostanza, la situazione è drammatica, e Donald Trump vorrebbe congelarla al più presto con un trattato di pace o almeno con un armistizio, prima che i russi avanzino ancòra e conquistino nuove terre (e nuove risorse).

Tutto ciò – si è detto ed è certamente vero – spiazza quella Unione Europea che giocava a fare la superpotenza, senza esserlo neanche lontanamente. Certo i brusselloti reagiranno fieramente, facendo finta di essere ancòra qualcuno: Macron, Scholz e tutti gli altri azionisti (finora di maggioranza) di questa strana società che si chiama Unione Europea faranno il diavolo a quattro, appoggiandosi a Keir Starmer, il premier inglese che tutti i sondaggi danno strabattuto dal partito sovranista di Nigel Farage.

Intanto domenica si vota in Germania, e si attendono risultati eclatanti. E a Parigi il governo Bayrou resta appeso a un filo, filo che per il momento la Le Pen ha deciso di non tagliare; ma il presidentuzzo Macron rappresenta ormai soltanto se stesso, anche se si ostina a rimanere in carica fino all’ultimo giorno del suo mandato. Per il resto, nei paesi minori si va avanti a colpi di elezioni annullate (come in Romania) o con candidati presidenziali che si vorrebbero cancellare dalle schede elettorali (come in Polonia). Dimenticavo l’Ucraina: lì Zelenskyi vuole proprio cancellare le elezioni, con la scusa della guerra in corso. In realtà, sa bene che non riuscirà a rimanere in sella un giorno soltanto dopo la fine del conflitto. E sarà fortunato se riuscirà a fare un pacifico passaggio di consegne. A Kyiev non si perdonano facilmente i fallimenti.

Orbene, lor signori si riuniscono in questi giorni a Parigi, chiamati a raccolta da Emmanuel Macron per vedere cosa è possibile fare per sabotare la pace di Trump e di Putin. Sarà una somma di debolezze, di fallimenti, di fiaschi, di scacchi, di smacchi, una fiera dell’impotenza, un disastro annunziato.

RALLO – Orfani della guerra (578)

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LA CROCIERA DEL “BRITANNIA”  _di Michele Rallo

Michele Rallo

LA CROCIERA

DEL “BRITANNIA”

 

I RETROSCENA DELLE PRIVATIZZAZIONI ITALIANE

RICOSTRUITI ATTRAVERSO

QUATTRO INTERROGAZIONI PARLAMENTARI

 

Centro Studi “Dino Grammatico”

Custonaci

 

SOMMARIO

 

 

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Presentazione:

L’affare del “Britannia”,

una vicenda oscura

di Fabrizio Fonte                                                                    05

 

Premessa:

Il caso “Britannia”, le privatizzazioni e

quattro interrogazioni controcorrente

di Aldo Messina                                                                      07

 

Una matricola in Parlamento

e le disavventure de “L’Italia settimanale”                           11

 

Una strana coincidenza:

il ciclone Mani Pulite                                                    13

 

Arrivano i British Invisibles                                                   15

 

Notizie da Pechino:

la privatizzazione della Società Autostrade                          17

 

Privatizzazioni con lo sconto del 30%                        19

 

Beniamino Andreatta,

il maestro di Romano Prodi                                                   21

 

Gli “Invisibili” e le banche americane                         23

 

Interrogazioni (e interrogativi) senza risposta                      26

 

Un altro nome illustre: Guido Carli                                      28

 

L’audizione di Mario Draghi

alla Commissione Bilancio                                           30

 

La folgorante carriera di Sir Drake                                        33

 

Una lettera dell’Ambasciatore inglese                         36

 

Fini, a Londra, sostiene le privatizzazioni                            38

 

I miei attriti con Alleanza Nazionale                                     40

 

 

Appendice: un articolo sulla privatizzazione

dell’industria alimentare italiana                                 45

 

Appendice: una interrogazione

sulla privatizzazione del Banco di Sicilia                             50

 

 

Notizie sull’autore                                                                  53

 

PRESENTAZIONE:

L’AFFARE DEL “BRITANNIA”,

UNA VICENDA OSCURA

 

Il Centro Studi “Dino Grammatico” con la presente pubblicazione intende divulgare le vicende di uno dei periodi più travagliati, quanto poco conosciuti, della storia recente della nostra Patria. Il caso del “Britannia”, raccontato con dovizia di particolari in queste pagine da Michele Rallo, ci da l’esatta idea delle perverse logiche con cui ha preso il via il declino della nostra sovranità nazionale, che oggi purtroppo sembrerebbe aver raggiunto il punto più basso della sua triste parabola.

Dopo aver letto questo lavoro verrà difficile per chiunque pensare che le privatizzazioni di alcuni strategici asset italiani non siano state pilotate dall’alta finanza europea, con la connivenza ovviamente di parte del mondo politico nazionale. Il tutto avvenne a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, ovvero in un periodo storico abbastanza delicato, per il semplice fatto che si registrava la caduta dei partiti tradizionali, che avevano governato l’Italia fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale, sotto i colpi delle inchieste della magistratura. È singolare, tuttavia, che molti dei nomi dei protagonisti di quella vicenda siano stati in seguito, o siano ancora oggi, ai vertici delle Istituzioni nazionali ed europee. Tanto per dare l’idea, molto gattopardesca, di quanto sia cambiato tutto per non  essere in realtà cambiato nulla.

Purtroppo l’Italia, dai tempi dell’approdo del “Britannia”, conta sempre meno negli scenari della geo-politica internazionale. Oggi possiamo constatare, infatti, che le logiche europee hanno ormai stabilmente prevalso sugli interessi nazionali. E, come se non bastasse, le attuali politiche economiche di estremo rigore messe in campo dalla Troika stanno condizionando la vita di circa cinquecento milioni di cittadini dell’UE.  Questa Europa, infatti, individua nelle banche e nella finanza le risorse primarie del vecchio continente; quando, invece, la vera costruzione europea non doveva prescindere dalla valorizzazione delle ricchezze di ogni singola Nazione. Del resto non era forse l’Europa dei campanili, dei comuni, delle cento culture e delle mille diversità che nella nostra fervida immaginazione speravamo sorgesse agli inizi degli anni novanta? Purtroppo non si erano fatti i conti con i poteri forti dell’establishment europeo che nel frattempo, mentre il “Britannia” ormeggiava tranquillamente al porto di Civitavecchia, decideva i destini delle privatizzazioni della Nazione italiana.

Il Centro Studi “Dino Grammatico” è pertanto felice di poter essere strumento di conoscenza di uno dei tanti misteri dell’Italia contemporanea. Non possiamo, di conseguenza, non esprimere il nostro più sentito ringraziamento a Michele Rallo per questo suo omaggio al nostro istituto.

 

                                         Fabrizio Fonte

Presidente del Centro Studi Dino Grammatico

 

PREMESSA:

IL CASO “BRITANNIA”, LE PRIVATIZZAZIONI

E QUATTRO INTERROGAZIONI

CONTROCORRENTE

 

 

Quando l’amico e illustre collaboratore Michele Rallo mi ha fatto prendere visione di certe sue interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta da parte del Governo, sono stato fortemente incuriosito e lo ho invitato a ricapitolarne la vicenda per i lettori de “La Risacca”. Troppi silenzi hanno fatto seguito a quelle interrogazioni, tanto da richiamare alla mente un vecchio adagio, per cui «chi tace acconsente». È nata così la serie di cinque articoli pubblicati fra il marzo e il settembre scorsi sulla rivista da me diretta e, adesso, la loro riproposizione in forma di opuscolo.

Michele Rallo (già deputato al parlamento nazionale nella XII e nella XIII legislatura) ricostruisce la vicenda sul filo dei ricordi e, in particolare, rivisitando il testo delle quattro interrogazioni da lui presentate nel 1994.

Il tutto ruota attorno ad un convegno che nel giugno 1992 – pochi mesi dopo la nascita dell’Unione Europea – si era svolto a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina d’Inghilterra; convegno che riguardava una auspicata (da chi?) politica di privatizzazione dell’industria pubblica italiana, politica che sarebbe stata poi effettivamente attuata. Al convegno partecipavano esponenti del mondo degli affari britannico e manager pubblici italiani.

Fra tutti, spiccava il nome del dottor Mario Draghi (allora Direttore generale del Tesoro, poi Governatore della Banca d’Italia ed oggi Governatore della BCE), il quale svolgeva una prolusione introduttiva. Null’altro voglio dire sul convegno, rimandando alla diffusa trattazione che si potrà leggere nelle pagine seguenti.

Voglio invece spendere qualche parola sulla contestualizzazione che Michele Rallo opera, collocando l’evento in un quadro assai più ampio, che prende le mosse dalla formazione di una cordata italiana pro-privatizzazioni negli anni ’80 e continua poi attraverso i primi anni ’90, sovrapponendosi ad avvenimenti nazionali e internazionali: la caduta del Muro di Berlino, la stagione di Mani Pulite in Italia, l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (in vece di Andreotti) e di Amato alla Presidenza del Consiglio (in vece di Craxi), e tanti altri.

Direi – anzi – che l’aspetto più interessante di questa pubblicazione è una sorta di “ipotesi investigativa” che ne viene fuori: l’ipotesi, cioè, di un progetto politico di vecchia data, tendente alla spoliazione della nostra economia nazionale, i cui effetti perversi si palesano oggi con una epocale crisi politica, economica e sociale.

È una chiave di lettura particolarissima ed intrigante, non priva di un certo alone da “giallo internazionale”. Non è detto che sia esatta al cento per cento, ma è certamente credibile; ed ancor più credibile appare nel contesto della ricostruzione storico-politica che ne traccia l’ex-deputato trapanese, oggi apprezzato commentatore politico.

Un ultimo aspetto vorrei sottolineare. Quello della personale vicenda politica del nostro collaboratore, quale traspare soprattutto nelle pagine iniziali ed in quelle conclusive di questa ricostruzione. È la vicenda di un “uomo politico” (non di un “politicante”) che ha svolto il suo mandato con linearità, anche a costo di entrare in contrasto con il vertice del suo partito e di pagare in prima persona per le sue scelte. Oggi, a distanza di vent’anni, il triste tramonto di certi personaggi – sedotti e poi abbandonati dai poteri forti – dà forse ragione e rende giustizia all’onorevole Michele Rallo.

 

                                                Aldo Messina

Direttore della rivista “La Risacca”



UNA MATRICOLA IN PARLAMENTO

E LE DISAVVENTURE

DE “L’ITALIA SETTIMANALE”

Non ho mai amato la materia economico-finanziaria. I miei interessi culturali hanno sempre privilegiato la storia e la politica. E “politica” – aggiungo – intesa come l’arte di interpretare la storia in atto, la storia del momento presente. Eppure, da quando nel 1994 venni eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, sono stato per certi versi costretto – per adempiere al mio dovere di rappresentanza degli interessi nazionali – a dedicare una attenzione crescente al settore economico-finanziario. Perché – intuivo allora confusamente – nel mondo stava avvenendo qualcosa di strano, quasi una guerra non guerreggiata dell’alta finanza contro le nazioni e i popoli. Soprattutto contro le nazioni e i popoli di quella Unione Europea che era stata creata appena due anni prima – nel 1992 – e che già allora sembrava essere divenuta il bersaglio privilegiato degli assalti della speculazione finanziaria internazionale.

Fui quasi costretto ad occuparmi di tale materia – dicevo – e lo feci con due soli ausìli:  “L’Italia Settimanale”, la rivista di Marcello Veneziani che ogni settimana era una miniera di informazioni preziose; e don Antonio Parlato, un deputato-gentiluomo di grande esperienza e capacità, che in quegli anni tentava di costituire una specie di club di parlamentari di destra che si facessero alfieri degli interessi del Meridione. A quei tempi Internet non era ancora fruibile, e l’unica fonte d’informazione erano i giornali. Da qui, il ruolo fondamentale di pubblicazioni come “L’Italia Settimanale”.

Apro una parentesi: la rivista andava a gonfie vele, ma – per motivi che mi sfuggono – il suo direttore Marcello Veneziani venne defenestrato nel 1995, e poco dopo il pacchetto azionario venne ceduto ad un editore uruguaiano (avete letto bene: uruguaiano) il quale poi fallirà nel giro di pochi mesi. Alcuni (e, fra le righe, lo stesso Veneziani) ritengono che i fatti che andrò a narrare fossero stati all’origine della decisione (di chi?) di far tacere una voce assai scomoda.

Peraltro, anche il sottoscritto – che delle rivelazioni de “L’Italia Settimanale” si fece megafono in Parlamento – ebbe qualche riverbero negativo sulla propria carriera politica. Ma di questo parlerò più avanti.

 

 

 

 

UNA STRANA COINCIDENZA:

IL CICLONE “MANI PULITE”

Dunque, nel febbraio 1993 (durante il primo governo Amato ed a metà circa della breve XI Legislatura) “L’Italia Settimanale” aveva rivelato che alcuni mesi prima – per l’esattezza il 2 giugno 1992, nel pieno del ciclone di Tangentopoli – si era svolto uno strano convegno a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina Elisabetta d’Inghilterra che, per l’occasione, si trovava ancorato nel porto romano di Civitavecchia, dunque in acque territoriali italiane.

Attenzione alle date: la stagione di “Mani pulite” era iniziata nel febbraio precedente, con l’arresto di Mario Chiesa. Le elezioni dell’aprile successivo avevano visto un arretramento dei partiti tradizionali (a beneficio di Rete e Lega Nord) ma, tutto sommato, una pur affannosa tenuta del quadro politico. Eppure – complice anche la coincidenza (?) dell’attentato mortale al giudice Falcone – gli effetti del ciclone giudiziario determinavano la mancata elezione dei due maggiori uomini politici italiani alle cariche apicali dello Stato e del Governo: in maggio Giulio Andreotti doveva rinunziare alla Presidenza della Repubblica in favore di Oscar Luigi Scalfaro; ed un mese più tardi Bettino Craxi dovrà farsi da parte nella corsa alla Presidenza del Consiglio, lasciando campo libero al socialista più amato dai “mercati”, Giuliano Amato. Venivano così eliminati dalla scena politica i due elementi di maggior spessore, due politici di razza che avevano le capacità per comprendere la vastità del sommovimento in atto sulla scena internazionale, dopo la recentissima fine dell’Unione Sovietica e l’inizio della politica americana di egemonizzazione dell’intero globo terraqueo.

Certo, la Magistratura italiana non si era inventata niente: le inchieste sulla classe dirigente della “prima repubblica” erano in buona parte più che fondate. Ma non v’è dubbio che la stagione di Tangentopoli abbia cancellato dalla scena politica del nostro Paese l’unico Presidente del Consiglio che avesse avuto il coraggio (ai tempi della crisi di Sigonella) di contrastare a muso duro il Presidente degli Stati Uniti. E non v’è dubbio, del pari, che Tangentopoli abbia indotto un personaggio del calibro di Giulio Andreotti a ritirarsi sotto la tenda e ad attendere serenamente la conclusione della propria avventura terrena.

 

 

 

 

ARRIVANO I BRITISH INVISIBLES

Chiedo scusa al lettore per la lunga digressione, necessaria – tuttavia – per inquadrare temporalmente il convegno del Britannia. Il 2 giugno 1992, dunque: una settimana dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (25 maggio) e tre settimane prima dell’elezione di Giuliano Amato alla Presidenza del Consiglio (28 giugno). E ancòra – se vogliamo inquadrare l’avvenimento in un più vasto contesto internazionale – pochi mesi dopo la fine dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) e la firma di quel trattato di Maastricht che aveva segnato la nascita dell’Unione Europea (febbraio 1992). All’epoca – si tenga presente – l’attacco all’economia italiana era già stato sferrato, ma nulla lasciava prevedere i suoi esiti disastrosi. Il governo del tempo (il VII gabinetto Andreotti, ancòra in carica per l’ordinaria amministrazione) aveva posto le premesse per una politica di dismissioni, senza tuttavia imboccare ancòra quella strada, invocata a gran voce dalla speculazione che già pregustava i golosi bocconi made in Italy. Si era, in sostanza, a metà del guado. Nulla era stato ancòra deciso, il vecchio quadro politico sembrava reggere in qualche modo, ed i maggiori partiti italiani (DC, PCI, PSI e MSI) non avevano ancòra accettato il diktat dei “mercati”: globalizzazione economica, fine dello Stato sociale e, appunto, privatizzazioni.

Era a quel punto che dalla speculazione finanziaria giungeva una evidente forzatura. Venivano mandati avanti the British Invisibles, “gli Invisibili Inglesi”, che non erano – contrariamente a quel che potrebbe far pensare il loro nome – una setta più o meno segreta, ma i membri di un rispettabile (si presume) comitato di “banchieri d’affari” e di finanzieri; dei potentissimi businessmen che, ufficialmente ed alla luce del sole, promuovevano nel mondo l’industria dei “servizi finanziari” del Regno Unito. Peraltro, in una singolare commistione di pubblico e privato, gli Invisibili avevano (ed hanno) un rapporto strettissimo con la Casa Regnante inglese. Una delle manifestazioni di questa vicinanza era la gentile concessione (non saprei dire se a titolo gratuito o meno) dello yacht reale “Britannia” per i convegni organizzati dagli uomini della City nei quattro angoli del globo, ovunque ci fosse da far soldi. Da Tokio a Hong-Kong, da Stoccolma a Roma. E appunto a Roma – anzi nella sua sede portuale di Civitavecchia – iniziava, quel 2 giugno 1992, la breve ma intensa crociera che avrebbe visto affaristi anglosassoni e boiardi italiani discutere familiarmente della liquidazione della nostra industria di Stato.

 

 

NOTIZIE DA PECHINO:

LA PRIVATIZZAZIONE

DELLA SOCIETÀ AUTOSTRADE

Quando – in un domani non so quanto lontano – gli storici scriveranno la storia della svendita alla finanza anglosassone della nostra economia nazionale, citeranno certamente tre eventi che sono all’origine di questa drammatica pagina: la legge-delega Amato-Carli che avviava la privatizzazione della Banca d’Italia (30 luglio 1990), il trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione Europea (7 febbraio 1992) e, appunto, il convegno del “Britannia” (2 giugno 1992).

Di quest’ultimo evento ho già delineato il contesto politico e diplomatico (oltre che giudiziario) che gli fece da cornice. Adesso scenderò nel dettaglio, dando conto delle partecipazioni più significative, sia da parte inglese che da parte italiana. Per evitare di incorrere in qualche errore od omissione (sono ormai trascorsi vent’anni) sorreggerò la mia memoria con i dati riportati in quattro interrogazioni parlamentari di cui sono stato co-firmatario insieme ai colleghi Parlato (la prima) e Landolfi (le altre tre). Si tratta, per l’esattezza, della n. 4/00234 del 29 aprile 1994 – due settimane dopo l’inizio della XII Legislatura – e delle nn. 4/00778, 4/00779, 4/00780 del 20 maggio del medesimo anno. Tutte rimaste senza risposta da parte del governo del tempo.

La prima interrogazione era per certi versi anomala, perché quasi interamente dedicata ai prodromi di privatizzazione della Società Autostrade. In premessa si affermava che i dirigenti della predetta Società erano stati fra i partecipanti al convegno del “Britannia”, nel corso del quale «fu deciso, oltre al resto, la dismissione delle aziende italiane a partecipazione statale». Si proseguiva con la notizia – rimbalzata addirittura da Pechino – che «le procedure di vendita sono a buon punto per Maccarese e Italstrade, e c’è la conferma della volontà di quotare in borsa, scendendo sotto il 51 per cento, anche le azioni ordinarie della Società Autostrade».

 

 

 

PRIVATIZZAZIONI

CON LO SCONTO DEL 30%

Le altre interrogazioni seguivano a distanza di un mese, ed erano sostanzialmente un unicum suddiviso in tre puntate. È da notare che gli atti ispettivi riguardavano fatti avvenuti durante gestioni governative precedenti (il 7° governo Andreotti, il 1° governo Amato ed il governo Ciampi), ma che comunque il nuovo gabinetto (il 1° governo Berlusconi) non riterrà di fornire risposta alcuna: come se – al di là delle divisioni partitiche – i governi di ogni colore politico fossero tenuti a non ostacolare il disegno di spoliazione dell’economia italiana.

La seconda interrogazione (la prima della terna principale) esordiva citando le rivelazioni contenute nell’articolo de “L’Italia settimanale” del 3 febbraio 1993. Riporto testualmente il brano: «2 giugno 1992: muore il giudice Falcone. Mentre l’Italia si indigna e scende in piazza, qualcun altro dà il via alla svendita dello Stato. Prime vittime “annunciate”, i patrimoni industriali e bancari più prestigiosi. Il nome dell’operazione è “privatizzazione”. Formula magica presentata alla collettività come unica cura per risanare la nostra economia e che, invece, nasconde un business dalle proporzioni incalcolabili, patti di sangue tra le famiglie più influenti del capitalismo, dinastie imprenditoriali, banche e signori della moneta. Accordi e strategie politiche ben precise con un minimo comun denominatore: scippare agli Stati, considerati un inutile retaggio del passato e un odioso freno alla globalizzazione del mercato, la sovranità monetaria.

L’Italia un’espressione geografica delle lobby, dell’impero multinazionale anglo-americano? E quanto viene deciso, anzi, ufficialmente sancito il 2 giugno 1992, a bordo del regio yacht “Britannia” (che si trova “per caso” nelle nostre acque territoriali) dai rappresentanti della BZW (la ditta di brocheraggio della Barclay’s), della Baring & Co, della S.G. Warburg e dai nostri dirigenti dell’ENI, dell’AGIP, da Mario Draghi del ministero del Tesoro, da Riccardo Gallo dell’IRI, Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop e da alti funzionari della Comit, delle Generali e della Società Autostrade. Lo rivela un documento dell’Executive Intelligence Review.

Poche ore di discussione e l’affare prende corpo. Al Governo il compito di giustificare la filosofia dell’operazione (con una adeguata campagna-stampa di drammatizzazione dei dati del deficit pubblico) …

Anche la svalutazione della lira [avvenuta tre mesi dopo] è stata soltanto un comodo affare per le finanziarie di Wall Street. Calcolato in dollari, l’acquisto delle nostre imprese da privatizzare, è diventato infatti, per gli acquirenti americani, meno costoso del 30 per cento. La stessa lira si va assestando, ormai, sul valore politico di circa 1.000 lire a marco, esattamente come da richiesta (imposizione) internazionale. Ma non bisogna stupirsi. Il disegno di espansione delle grandi finanziarie anglo-americane è noto, e viene da lontano.»

 

 

 

BENIAMINO ANDREATTA,

IL MAESTRO DI ROMANO PRODI

Venivano dunque fatti i primi nomi: su tutti, spiccava quello di Mario Draghi, allora Direttore Generale del Tesoro: l’uomo che avrebbe poi gestito le privatizzazioni italiane. Ma su Draghi avrò modo di tornare: sul suo ruolo, sui suoi collegamenti, sui suoi rapporti con la banca d’affari Goldman & Sachs, sul conflitto con Cossiga (che in diretta tv lo attaccherà con incredibile veemenza), sulla sua sfolgorante carriera fino al seggio più alto della Banca Centrale Europea.

E, tuttavia, un altro nome “pesante” veniva fuori da questa prima interrogazione, che così proseguiva: «se sia noto [al Presidente del Consiglio] quanto ha inoltre pubblicato l’EIR “Executive Intelligence Review” a pagina 30 del numero del 18 marzo scorso, e cioè che tra i partecipanti alla riunione sul panfilo della regina Elisabetta d’Inghilterra vi sarebbe stato anche il senatore Andreatta, poi divenuto ministro del Bilancio [nel 1° governo Amato].»

Un nome – quello del senatore Beniamino Andreatta – di importanza rilevantissima, ed assai significativo. Oltre ad aver ricoperto incarichi ministeriali in una mezza dozzina di esecutivi della “prima repubblica”, si era illustrato, in particolare, per essere stato il ministro del Tesoro che aveva posto le premesse – già nel lontano 1981 – per la privatizzazione della Banca d’Italia; ed aveva anche svolto un ruolo di apripista per la politica di dismissioni generalizzate che sarà messa in atto un decennio dopo.

Ad Andreatta faceva pieno riferimento il “giovane” cinquantenne Romano Prodi, suo allievo prediletto e suo assistente alla cattedra di economia politica dell’Università di Bologna. Nel 1992 l’ex giovane Prodi era già abbastanza cresciuto politicamente, al punto da aver ricoperto un primo lungo mandato alla presidenza dell’IRI (dall’82 all’89). Ma sarà dal 1993 – chiamato una seconda volta all’IRI dal Presidente del consiglio Ciampi – che il beniamino di Beniamino darà il meglio di sé, imponendosi come il protagonista assoluto della stagione di privatizzazioni in Italia.

 

 

GLI “INVISIBILI”

E LE BANCHE AMERICANE

La terza interrogazione (la n. 4/00779 del 20 maggio 1994) alzava il tiro.

Si prendevano le mosse sempre dall’articolo de “L’Italia settimanale” – che a sua volta aveva rilanciato informazioni provenienti dalla “Executive Intelligence Review” – per affrontare il tema delle privatizzazioni nel suo insieme ed in una duplice ottica: quella dell’interesse delle multinazionali e della finanza speculativa, ansiose di mettere le mani sulla corteggiatissima industria pubblica italiana; e quella – contrapposta – della nostra economia nazionale, che da una politica di dismissioni generalizzate sarebbe certamente uscita (come la realtà di oggi inoppugnabilmente dimostra) notevolmente indebolita. Si riteneva, in sostanza, che gli “invisibili” che avevano organizzato e gestito il convegno del “Britannia”, avessero agito anche in nome e per conto dei banchieri di Wall Street, chiamati in causa direttamente dall’articolo del settimanale di Veneziani in uno con i loro colleghi della City londinese:

«La società Mont Pelerin, che per 12 anni ha dominato l’economia inglese, sir Leon Brittan, ex-commissario della CEE e vecchio esponente del governo della Thatcher, il club segreto dei Bilderberg (frequentato dal nostro Agnelli, da Kissinger, da Rothschild), i loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, della Merrill Lynch, della Salomon Brothers, i loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell’OCSE, eccetera. Personaggi, sigle e organizzazioni, che non spuntano a caso, fanno parte della storia. Sono la storia. Ricorrono in tutti gli importanti processi di trasformazione dell’economia mondiale.

Tre di queste finanziarie, ad esempio, sono direttamente “interessate” alle nostre privatizzazioni. Collaborano, infatti, con il governo. Vediamo qualche dettaglio che le riguarda: la Goldman Sachs (la prima di Wall Street, adesso anche con sede “operativa” a Milano) è uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore della moneta. Il suo leader supremo, Robert Ruin, sarà il capo del consiglio di sicurezza nazionale del neo-presidente Clinton.

La Salomon Brothers gestisce il greggio mondiale ed opera prevalentemente nel settore delle materie prime. Il suo nuovo presidente, Warren Buffett, è il principale azionista del “Washigton Post”, della rete televisiva ABC e ha forti interessi nella Wels Fargo Bank e nell’American Express.

La Merrill Lynch, infine, incaricata dall’IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano, ha occupato spesso le cronache per alcune operazioni di riciclaggio del denaro sporco tra l’Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano (la famosa “pizza connection”, il processo alla famiglia mafiosa newyorkese dei Bonanno)…»

Attenzione ad alcuni nomi, ad alcune sigle, ad alcune ragioni sociali che in questi anni abbiamo imparato a conoscere, ma che all’epoca – esattamente vent’anni fa – erano quasi del tutto ignoti al pubblico italiano. Veniva chiamato in causa per la prima volta il Bilderberg, allora semisconosciuto club di ricconi ed oggi ritenuto il sancta sanctorum del “governo mondiale”, responsabile delle scelte che decidono il destino di intere nazioni. Si facevano, poi, i nomi di certe grandi “banche d’affari”, alcune delle quali appartenenti al gotha dell’alta finanza ebraica negli Stati Uniti.

Di una di queste, in particolare, la Goldman & Sachs, avremo modo di parlare più avanti, sia per il suo ruolo di advisor nelle privatizzazioni italiane, sia per il rapporto diretto, per il vero e proprio cordone ombelicale che, segnatamente per un certo lasso di tempo, la ha collegata a Mario Draghi, il dominus delle dismissioni made in Italy.

Ritornando all’interrogazione, comunque, questa si chiudeva con l’invito al governo ad attivarsi in tutte le sedi per tutelare gli interessi nazionali, e con una nota polemica anche nei confronti della magistratura romana (competente se non altro per territorio) che non aveva ritenuto di esperire indagini sull’accaduto: «se possa rispondere in tutto od in parte al vero quanto precede, che all’interrogante sembra di inaudita gravità e gravemente lesivo degli interessi economici e produttivi, oltre che sociali ed occupazionali dei cittadini italiani nonché della stessa indipendenza italiana; in presenza di simile squallida “strategia” di colonizzazione dell’Italia da parte delle multinazionali, quali provvedimenti il Governo intenderebbe immediatamente assumere, ove quanto sopra risultasse vero, nei confronti di esponenti e dirigenti ministeriali e di aziende a partecipazione pubblica, perché le loro gravissime responsabilità fossero colpite; se consti che su tali “notizie di reato”, che tali l’interrogante ritiene ben possano definirsi, pubblicate da “L’Italia settimanale”, la magistratura romana abbia aperto indagini.»

 

 

 

INTERROGAZIONI (E INTERROGATIVI)

SENZA RISPOSTA

Naturalmente, neanche questa interrogazione – come tutte le altre della serie – ebbe il bene di una risposta da parte del Presidente del Consiglio, che al tempo era il neo-eletto Silvio Berlusconi.

Esattamente come le medesime interrogazioni – presentate nella legislatura precedente dall’onorevole Antonio Parlato – non avevano ottenuto risposta dai Presidenti del Consiglio di allora, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

Esattamente come – aggiungo ancòra – non ha successivamente avuto risposta una mia interrogazione del 1999 sul ruolo del dottor Mario Draghi – sempre lui! – nella privatizzazione di Medio Credito Centrale e Banco di Sicilia;[1]  l’interrogazione era rivolta al Ministro del Tesoro, che all’epoca (governo D’Alema) era Giuliano Amato.

Guarda caso, tutte le interrogazioni relative alle privatizzazioni – almeno quelle di cui sono stato firmatario o co-firmatario – non hanno avuto la fortuna di ricevere una risposta da parte dei governi in carica, fossero questi di destra o di sinistra, indifferentemente.

Eppure il Governo è tenuto a rispondere agli “atti di sindacato ispettivo” (così tecnicamente si definiscono le interrogazioni parlamentari). Può, in verità, avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma, in questo caso, deve obbligatoriamente comunicare le motivazioni della mancata risposta. Cosa che – neanche questa – è stata fatta.

Evidentemente, quelli delle privatizzazioni sono argomenti-tabù. Il buon parlamentare della prima o della seconda repubblica – anche qui non fa differenza – deve limitarsi a prendere lo stipendio e a non fare domande. Come nelle gangster story cinematografiche.

 

UN ALTRO NOME ILLUSTRE:

GUIDO CARLI

La quarta e ultima interrogazione della serie “Britannia” era interamente dedicata a colui che – ad onta della sua posizione defilata – era forse il personaggio centrale della vicenda: quel Mario Draghi che, benché allora poco noto al grande pubblico, poteva a buon diritto essere considerato un’autentica eminenza grigia dell’economia italiana nell’ultimo scorcio della “prima repubblica”. Manager dalle indubbie capacità, Draghi era cresciuto professionalmente in àmbito anglosassone, ricoprendo per un lungo periodo – dal 1984 al 1990 – la carica di Direttore esecutivo della World Bank, la Banca Mondiale.

Per avere un’idea dell’ambiente frequentato da Draghi nel periodo forse più importante per la sua formazione culturale e professionale, basti pensare che, negli anni della sua direzione, presidenti della WB erano stati un dirigente della Bank of America e, in un secondo tempo, un senatore dello Stato di New York. Fra i loro successori – tanto per rendere l’idea del “clima” – vi saranno, fra gli altri, un dirigente della J.P.Morgan ed un top manager della Goldman & Sachs. Al riguardo, i lettori ricorderanno quanto ho già avuto modo di dire nella scorsa puntata su queste banche “d’affari”; sulla G&S, in particolare: la prima ad avere – previdentemente – aperto una sede “operativa” in Italia, e l’unica che successivamente potrà vantarsi di aver avuto sui suoi libri paga il futuro Governatore della Banca Centrale Europea.

Tornando a Draghi, questi – nonostante gli inizi più che promettenti di una luminosa carriera in quel di Wall Street – nel 1990 lasciava l’America e rientrava in Italia, dove però – provvidenzialmente – l’anno seguente era chiamato a ricoprire la carica di Direttore Generale del Ministero del Tesoro. Ministro del tempo era Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e co-autore con Giuliano Amato – lo ricordavo prima – della legge-delega che ne aveva avviato la privatizzazione. Carli era uno dei pionieri e degli alfieri della politica di privatizzazioni in Italia, ed apparteneva alla medesima cordata del senatore Beniamino Andreatta, l’unico uomo di governo – credo – ad essere stato invitato alla crociera del “Britannia”.

Guido Carli darà anche il via libera a Draghi per partecipare al medesimo incontro, stando almeno a quanto lo stesso Draghi dichiarerà in una successiva audizione alla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati («chiesi l’autorizzazione al ministro dell’epoca, che non sollevò alcuna obiezione ed anzi mi invitò a parteciparvi»).

 

 

 

L’AUDIZIONE DI MARIO DRAGHI

ALLA COMMISSIONE BILANCIO

E continuiamo con l’audizione di Draghi, ampiamente citata nell’interrogazione; audizione che – al tempo – era stata contrassegnata dalle puntuali osservazioni dell’ on. Antonio Parlato. Parlato – come detto – era stato il presentatore di quelle stesse interrogazioni nell’XI Legislatura (1992-1994), “passandole” poi a me ed al collega Landolfi nella XII.

Orbene, in quella audizione (svoltasi nel marzo 1993) Mario Draghi aveva cercato di banalizzare la vicenda, dichiarando che si era trattato di uno dei tanti convegni dedicati alle privatizzazioni, e che lui aveva svolto solamente l’introduzione alla conferenza, dopo di che si era allontanato prima che si affrontassero temi specifici.

No, non ci trovava nulla di male, perché «una di queste conferenze – sono parole sue – era prevista sulla nave della regina Elisabetta e quindi del governo inglese, come si sarebbe potuta tenere nella sala di un albergo o in una sala per congressi».

Naturalmente, non lo sfiorava neanche l’idea che, in materia di privatizzazioni, l’Inghilterra potesse avere interessi opposti a quelli dell’Italia: questo non lo diceva, ma una cosa del genere non era neanche presa in considerazione.

Quanto all’ipotesi – riecheggiata da Parlato – che la recente svalutazione della lira (settembre 1992) potesse essere stata provocata per consentire alle multinazionali angloamericane di acquistare le nostre aziende pubbliche con uno sconto del 30%, ciò non appariva credibile al serafico manager.

Così come non gli appariva credibile che alcuni soggetti stranieri avessero potuto condizionare l’andamento della nostra valuta: «Mi riesce altresì difficile comprendere come il tasso di cambio di quella che è la quinta o la sesta potenza industriale del mondo, possa essere influenzato da operatori, tutto sommato individuali, o da tre, quattro, cinque o anche dieci banche d’investimento, su un arco temporale ormai molto lungo.»

Certo, si stenta a credere che il Direttore Generale del Tesoro ignorasse che la ricordata svalutazione del 30% della lira italiana (che peraltro ci aveva causato una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari) fosse stata in larghissima misura determinata – a monte – da un singolo speculatore finanziario, l’ebreo-ungherese naturalizzato americano George Soros; il quale nell’occasione avrebbe realizzato un guadagno astronomico, probabilmente pari a 400 miliardi di lire (ma in rete circolano cifre ben maggiori).

D’altro canto, Soros è stato considerato tutt’altro che un nemico dal “partito delle privatizzazioni” italiano. Tanto da essere, incredibilmente, insignito di una laurea honoris causa dall’Università di Bologna; laurea – si dice – conferitagli su input del privatizzatore numero uno della Repubblica Italiana, Romano Prodi, docente di quell’Ateneo.

Ma torniamo all’interrogazione parlamentare: «Considerato che da quanto precede – concludevamo l’onorevole Landolfi ed io – le responsabilità della Gran Bretagna, attraverso sia la disponibilità dello yacht di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, che gli inquietanti incontri che vi furono organizzati e per quanto altro lo stesso Direttore Generale del Tesoro ha dichiarato, appaiono atti chiaramente ostili nei confronti della Nazione italiana, se voglia chiedere le opportune, immediate, esaurienti spiegazioni all’ambasciatore del Regno Unito presso la Repubblica Italiana, giudicando gli interroganti gravissimo l’accaduto ed ancor più preoccupante il seguito che ne è derivato, avuto riguardo alle speculazioni sulla lira ed allo stesso percorso delle “privatizzazioni”.»

Fin qui l’interrogazione.

 

LA FOLGORANTE CARRIERA

DI SIR DRAKE

Mi sembra opportuno, tuttavia, aggiungere alcune righe per ricordare le ulteriori tappe della brillante carriera di Sir Drake (come lo chiama Veneziani). Il nostro manteneva la poltrona di Direttore Generale del Tesoro fino al 2001, attraversando indenne 10 anni di intemperie politiche e 10 diversi governi, di destra e di sinistra.

Dall’anno successivo alla crociera del “Britannia” – e anche qui fino al 2001 – andava ad occupare un’altra ambita ed assai strategica poltrona, quella di Presidente del Comitato Privatizzazioni. In tale veste – apprendo da Wikipedia – «è stato artefice delle più importanti privatizzazioni delle aziende statali italiane». Non da solo, in verità. Durante la sua permanenza alla presidenza del Comitato Privatizzazioni (1993-2001) si avvicendavano diversi Presidenti del Consiglio, diversi Ministri del Tesoro, diversi Ministri dell’Industria, diversi Presidenti dell’IRI. Fra gli altri, Romano Prodi: Presidente dell’IRI (per la seconda volta) dal 1993 al 1994, Presidente del Consiglio dal 1996 al 1998, prima di diventare – nel 1999 – Presidente della Commissione Europea.

Ma torniamo a Draghi. Nel 2001 lasciava la Direzione del Tesoro e il Comitato Privatizzazioni, e nel 2002 approdava leggiadramente in Goldman & Sachs. Non da semplice manager, ma addirittura da Vicepresidente con competenza sull’area europea, oltre che da membro del suo Management Committee Worldwide. Scelta forse poco elegante, considerato che la G&S era stata fra i protagonisti delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano: non soltanto era stata advisor (cioè consulente e valutatore) per la privatizzazione di Credito Italiano, Fintecna e probabilmente anche di altre aziende, ma aveva acquistato in prima persona consistenti pezzi del nostro patrimonio nazionale: in particolare, l’intera proprietà immobiliare dell’ENI, che si era aggiunta ad altre importanti acquisizioni immobiliari (provenienti da Fondazione Cariplo, RAS, Toro, eccetera).

Draghi, comunque, restava in Goldman Sachs fino all’ultimo giorno del 2005. Nel 2006, con un altro dei suoi folgoranti rientri in patria, era nominato Governatore della Banca d’Italia. A designarlo era il Presidente del Consiglio del tempo, Silvio Berlusconi, sembra – a giudicare dalla telefonata di cui parlerò – su pressioni di Francesco Cossiga; il quale poi – per motivi che ignoro – si sarebbe pentito amaramente di quel passo.

Ricordo (e ne conservo la registrazione) l’invettiva del vecchio leone in diretta tv, rispondendo ad un trasecolato Luca Giurato che gli aveva chiesto un pare sull’ipotesi di Draghi a Palazzo Chigi: «Un vile, un vile affarista… Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana… e male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura [per la Banca d’Italia?] a Silvio Berlusconi… È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica… la svendita dell’industria pubblica italiana quand’era Direttore Generale del Tesoro…»

Chiusa la parentesi Cossiga. Draghi rimaneva alla Banca d’Italia fino al 2011, quando spiccava il grande balzo: Governatore della Banca Centrale Europea.

Carriera folgorante, come si vede. Come parimenti folgoranti sono state le carriere di altri due “Goldman boys”: Mario Monti e Romano Prodi, entrambi consulenti della G&S per diversi anni. Prodi – vorrei sbagliare – ce lo ritroveremo prima o poi alla Presidenza della Repubblica. A meno che, naturalmente, il “Colle più alto” non venga destinato (chissà da chi?) proprio a Mario Draghi.

In ogni caso – sono pronto a scommettere – il successore di Re Giorgio sarà targato Goldman Sachs.

 

UNA LETTERA

DELL’AMBASCIATORE INGLESE

Pochi giorni dopo la presentazione delle ultime interrogazioni, il 31 maggio di quel 1994, l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, Patrick Fairweather, prendeva carta e penna e indirizzava una lunga missiva al senatore Valentino Martelli. Attenzione: Valentino e non Claudio, il noto cardiochirurgo e non il “piumino di cipria” della prima repubblica. Martelli era stato eletto nelle liste di Alleanza Nazionale – secondo quanto si sussurrava nei corridoi di Palazzo Madama – “in quota Cossiga”; anzi – secondo le medesime voci – era “l’uomo di Cossiga in AN”. È possibile, quindi, che i suoi ottimi rapporti con l’ambasciatore Fairweather avessero una matrice cossighiana; ma è anche possibile che fossero dovuti al fatto che lo stesso Martelli avesse a lungo soggiornato ed operato a Londra. Sia come sia, questo era il testo della lettera dell’ambasciatore:

«Caro senatore Martelli, fin dal nostro interessante colloquio del mese scorso, mi sono reso conto che all’interno di Alleanza Nazionale continuano le preoccupazioni circa un seminario sulle privatizzazioni che si è svolto nel giugno 1992 a bordo dello Yacht Reale “Britannia”. Sono consapevole che due interrogazioni parlamentari presentate da due suoi colleghi di partito alla Camera, Landolfi e Rallo, richiedono un chiarimento da parte mia. La partecipazione a questo seminario sulle privatizzazioni era intesa (…) come un’occasione per banchieri ed altri esperti inglesi di spiegare le diverse tecniche che potrebbero essere usate quando e se fosse stata presa la decisione di privatizzare l’industria pubblica italiana. Il seminario era stato organizzato dai “British Invisibles” (Invisibili Inglesi), un’associazione di banchieri e specialisti finanziari londinesi, e dal personale di questa Ambasciata. (…) Hanno partecipato circa 90 fra dirigenti e manager dell’industria italiana, principalmente ma non esclusivamente dall’area delle partecipazioni statali. Il seminario è stato presentato dal professor Mario Draghi, Direttore Generale del Tesoro, che tenne a precisare che a quella data nessuna decisione era stata presa sulla concessione di contratti di consulenza a soggetti inglesi o ad altre banche o istituti finanziari. A far tempo da quella data, alcune ma non tutte le banche i cui rappresentanti parteciparono a quel seminario, hanno avuto qui dei contratti di consulenza o di altro tipo di valutazione. Continua l’intenso interesse italiano per l’esperienza britannica in questo settore, ed io e il mio personale facciamo del nostro meglio per soddisfarlo. Ma il suggerire che la partecipazione ad un seminario su un tema d’attualità in una prestigiosa locazione possa aver avuto un motivo più sinistro che il desiderio di promuovere – del tutto legittimamente – la competenza britannica in questo settore, è completamente infondato. Naturalmente, sarò lieto per qualunque azione Lei possa fare per evitare che queste storie sensazionali e senza basi sul seminario del Britannia possano guadagnare credito fra i Suoi colleghi. Spero che, a tal fine, vorrà far circolare copie di questa lettera.»

Fin qui la lettera, che chiaramente mirava a minimizzare quanto avvenuto. Peraltro, era certamente inconsueto che alcune interrogazioni parlamentari – evidentemente “scomode” al punto da non ricevere le dovute risposte del Governo – avessero invece un riscontro da parte dell’ambasciatore di uno Stato straniero.

 

 

 

FINI, A LONDRA,

SOSTIENE LE PRIVATIZZAZIONI

Qualche tempo appresso, comunque, il senatore Martelli si rifaceva vivo con una telefonata. Mi comunicava che Gianfranco Fini avrebbe prossimamente compiuto una non meglio specificata “visita” a Londra, aggiungendo che, in tale occasione, le famose interrogazioni avrebbero potuto “disturbare”. Non ricordo – a distanza di vent’anni – se aggiungesse altro. Ricordo soltanto di aver risposto che restavo in attesa di conoscere la risposta del Governo per decidere se dichiararmi soddisfatto o meno. Il Governo – come già detto – non rispose mai. Ancora oggi, se in internet si digita “camera dei deputati michele rallo” seguito dal numero di una di quelle interrogazioni, si può apprendere che l’iter dell’atto ispettivo è “in corso”.

Della trasferta londinese di Fini, intanto, si parlava già sulla stampa. Il “Corriere della Sera” del 21 gennaio 1995 titolava: «Fini a Londra: polemica sul Times, colazione alla Rotschild». Nel contesto si riferiva di una “colazione di lavoro” che la Banca Rotschild avrebbe organizzato «per sentire cosa propone Fini», riportando anche una premonitrice voce di corridoio: «arriverà fascista e partirà conservatore».

Ma il leader di AN non aspettava di ripartire da Londra per vestire i panni del conservatore e, appena messo piede sul suolo britannico, così rispondeva a chi gli chiedeva un giudizio sul Duce: «Mussolini è già stato condannato dalla Storia. Non ho bisogno di condannarlo io». Lo riferiva il “Corriere della Sera” del 16 febbraio. Non era ancòra l’invettiva contro «il male assoluto» pronunciata qualche anno dopo in Israele, ma era un buon inizio.

La trasferta londinese, tuttavia, non era incentrata su disquisizioni di carattere storico, ma su argomenti assai più concreti. Gli interlocutori di Fini – tra i quali primeggiavano banchieri ed operatori di borsa – sembravano preoccuparsi soprattutto delle posizioni che la Destra italiana aveva sui temi di natura economica: AN era un partito liberista o statalista? Era a favore o contro lo Stato sociale? Era a favore o contro la moneta unica europea? «E più e più volte: – cito sempre dal Corrierone – siete a favore delle privatizzazioni?» Gianfranco Fini – riferiva l’inviata Lucia Annunziata – «ha fatto di tutto per rispondere», spesso cedendo la parola al professor Pietro Armani, suo “consigliere economico” nuovo di zecca e con alle spalle una lunga permanenza alla Vicepresidenza dell’IRI (anche durante la gestione Prodi). Il messaggio, comunque, era chiaro: «Il presidente di AN parla a favore delle privatizzazioni… – riferiva “Repubblica” del 15 febbraio – che la City e Banca Rotschild ascoltino…»

Certo che, in quel contesto, le irriverenti interrogazioni sull’affare del “Britannia” dovessero «disturbare».

 

 

 

I MIEI ATTRITI

CON ALLEANZA NAZIONALE

Il sottoscritto, intanto, cercava di apprendere i primi rudimenti della politica praticata ad alti livelli. Venivo da una solida esperienza maturata negli organismi di partito e nelle aule del Consiglio Comunale trapanese, ma i misteri dei palazzi romani erano ben altra cosa. Alcuni particolari mi sfuggivano, non ricollegavo perfettamente fatti ed antefatti, non mi riusciva di posizionare correttamente tutte le tessere del mosaico, dei mosaici che confusamente andavano componendosi.

Anche la mia personale vicenda politica era tutta un rebus. L’unica cosa certa era che il mio fin’allora amichevole rapporto con Fini era precipitato. Non credo per quelle interrogazioni. O forse si?

Fatto sta che, quando l’on. Antonio Parlato, durante il Congresso di Fiuggi (gennaio 1995) sottoponeva a Gianfranco Fini l’elenco dei deputati del “gruppo Sud” da inserire nel Comitato Centrale della nascente Alleanza Nazionale, il mio nominativo veniva cassato personalmente dal Presidente. «Non mi spiego perché…», mi disse allora don Antonio. Non me lo spiegavo neanch’io.

E non finiva lì. Perché, da allora in poi, mi trovavo a subire una serie continua di iniziative non proprio amichevoli da parte del vertice del mio partito: il veto opposto al nominativo che avevo proposto come mio successore alla Segreteria provinciale di AN (si trattava di Nicola Tardia); il successivo commissariamento della Federazione di Trapani, e ciò malgrado i positivi risultati elettorali ed il trend in costante crescita; e, da ultimo, il tentativo di non ricandidarmi alle elezioni nazionali del 1996: tentativo andato a vuoto solamente per la solidarietà di Forza Italia e, personalmente, del senatore Antonio D’Alì. Allora – ricordo – io e i miei amici imputammo quei fatti all’antagonismo che, tradizionalmente, caratterizzava i rapporti “interni” tra la Federazione di Trapani ed il Coordinamento regionale di Palermo. Ma, probabilmente, le cause erano altre.

In ogni caso – voglio precisare – non ho elementi tangibili per asserire che, all’origine degli attriti fra me e il vertice dell’ex mio partito, vi fossero le interrogazioni sul “Britannia”. Ma non ho certamente elementi per asserire il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICI

 

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

ITALIANA

 

 

”PRODI E DE BENEDETTI:  ATTENTI A QUEI DUE”

UN ARTICOLO DI MICHELE RALLO

PUBBLICATO SU “LA RISACCA” DEL GIUGNO 2012

 

C’era una volta l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto nel 1933 da Benito Mussolini, poi conservato ed anzi rilanciato e ampliato dai partiti antifascisti nel dopoguerra. Si trattava di un ente pubblico che riuniva varie aziende statali o “partecipate” dallo Stato (un migliaio nel periodo di massima espansione), molte delle quali ai primi posti nelle graduatorie mondiali dei rispettivi segmenti economici: Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Finsider,  Finmeccanica, Fincantieri, RAI, Iritecna, Telecom, Alitalia, Tirrenia, Società Autostrade, Alfa Romeo, Montedison, e così via. All’IRI faceva capo anche la SME, che controllava in tutto o in parte le maggiori società italiane operanti nel comparto alimentare: Star, Cirio, Pavesi, Bertolli, De Rica, Motta, Alemagna, Italgel, Surgela, Supermercati GS, Autogrill, eccetera.

Naturalmente, saltiamo a piè pari la tematica delle privatizzazioni: il discorso ci porterebbe troppo lontano, ma vorremmo tornare a parlarne in una delle prossime occasioni. E tuttavia, pur tralasciamo la tematica complessiva delle privatizzazioni, non possiamo non prendere le mosse dall’avvenimento che rappresenta un vero e proprio spartiacque nelle recente storia dell’IRI in generale e della SME in particolare: ci riferiamo alla nomina – nel 1982 – di Romano Prodi alla presidenza dell’IRI. Prodi era un noto economista democristiano (ma “aperto a sinistra”), docente universitario come quasi tutti i suoi familiari (la moglie e cinque dei suoi sei fratelli), massimo esponente della Nomisma, la società di consulenza che sarà agli onori delle cronache per avere acquisito varie commesse da parte del Governo italiano e della Commissione europea. Lo spazio tiranno ci impone di tralasciare anche qui tanti fatti importanti e di saltare direttamente al 1985, quando il governo italiano decideva di cedere gli asset dell’industria alimentare (erroneamente giudicati “non strategici”) e il presidente Prodi impostava la trattativa con l’industriale Carlo De Benedetti, editore del quotidiano “Repubblica” e nume tutelare dell’intesa fra PCI e sinistra DC, diventato da pochi mesi un industriale alimentare grazie all’acquisto della Buitoni. Prodi e De Benedetti chiudevano subito un accordo preliminare che prevedeva il passaggio di mano del 64,36% del capitale della SME dietro un corrispettivo di 437 miliardi di lire (497, considerati gli interessi per la diluizione in 4 rate). Inoltre, al prezzo simbolico di 1 lira, la Buitoni avrebbe acquisito anche la consociata SIDALM (Motta e Alemagna), avente un valore d’avviamento negativo. Il prezzo convenuto equivaleva ad una valutazione di 1.107 lire per ciascuna azione SME, nel momento in cui la loro quotazione in borsa era di 1.275 lire. Quindi, prescindendo da ogni valutazione sull’enorme potenziale dell’industria alimentare italiana, uno sconto in partenza di 168 lire ad azione, più o meno il 13%.

A quel punto, il Presidente del Consiglio del tempo, Bettino Craxi, si rendeva conto che l’Italia stava per svendere un bene prezioso per pochi spiccioli, e si rivolgeva al suo amico Silvio Berlusconi (all’epoca non ancora impegnato in politica) perché mettesse su una “cordata” imprenditoriale in grado di presentare una offerta concorrenziale rispetto a quella del gruppo De Benedetti.

Ma, mentre Berlusconi incominciava a cercare compagni di strada, al consiglio d’amministrazione dell’IRI giungeva già una prima offerta in aumento: 550 miliardi, offerti da uno studio legale milanese a nome di un gruppo rimasto anonimo. Seguiva l’offerta del sodalizio Berlusconi-Barilla-Ferrero, quantificata in 600 miliardi, ed altra offerta di pari importo da parte della Lega delle Cooperative. Ultima offerta, infine, da parte della Cofima per 620 miliardi.

A quel punto, però, il governo riconsiderava l’intera vicenda e decideva di non vendere più, né a De Benedetti né ad altri, né per 437 miliardi né per 620. Bettino Craxi aveva ottenuto il suo scopo – evitare che la SME venisse svenduta al peggiore offerente – e rilanciava sul tavolo della grande politica: conservare la SME al patrimonio nazionale, ed anzi rafforzarla con adeguati investimenti per farne un grande polo agro-alimentare che fungesse da volano per l’agricoltura italiana.

Ancora un volo pindarico, e giungiamo al 1992, quando Craxi veniva travolto dal ciclone “mani pulite” e costretto a farsi da parte. Il progetto di creare un grande polo agro-alimentare aveva fatto, nel frattempo, discreti passi in avanti, ma si scontrava adesso con le nuove parole d’ordine che seguivano alla crisi del comunismo internazionale e, in Italia, alla acquisizione dei postcomunisti alla politica liberista. Queste nuove parole d’ordine erano: globalizzazione dell’economia, fiducia dei mercati, riforme “strutturali” e, naturalmente, privatizzazioni. Fra le prime ad essere destinate alla privatizzazione, ovviamente, erano le industrie alimentari, con conseguenze che – a modesto parere dello scrivente – si sono poi dimostrate catastrofiche per gli interessi nazionali.

C’erano stati, frattanto, alcuni passaggi che avranno una forte incidenza anche sulle privatizzazioni del settore agro-alimentare: nel giugno 1992 l’agenda delle nostre privatizzazioni era stata discussa in un summit fra banchieri inglesi e manager pubblici italiani che si era svolto a bordo dello yacht reale “Britannia” ancorato al porto di Civitavecchia; nel settembre 1992 la lira era stata svalutata del 30%, la qualcosa avrebbe determinato uno sconto di eguale valore su tutti i pacchetti azionari che saranno ceduti negli anni seguenti; nel 1993, infine, Romano Prodi era ritornato alla presidenza dell’IRI, dove rimarrà fino all’anno successivo.

In conclusione, fra il 1993 e il 1996, le aziende del gruppo SME venivano inesorabilmente privatizzate, depauperando l’economia reale della nazione italiana di un patrimonio vastissimo e, soprattutto, ricco di potenzialità enormi. Nonostante ciò, e nonostante i prezzi pagati fossero calcolati in lire che la svalutazione aveva privato di quasi un terzo del loro valore, la vendita di quelle aziende fruttava all’IRI (e quindi allo Stato italiano) qualcosa come 2.044 miliardi di lire. Altro che i 437 miliardi del patron di “Repubblica”!

A conclusione dell’intricata vicenda, comunque, ad essere rinviato a giudizio era il solito Berlusconi, accusato di avere corrotto alcuni magistrati per impedire che De Benedetti realizzasse un buon affare.

Infine, secondo il nostro costume, segnaliamo le fonti da cui abbiamo desunto le notizie che abbiamo citato. Si tratta, al 90%, di fonti assolutamente neutre, come l’esauriente voce di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/ Vicenda_SME. Per chi voglia aggiungere un pizzico di sale all’approfondimento, poi, è sufficiente digitare prodi AND de benedetti su un qualunque motore di ricerca, e se ne leggeranno delle belle…

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DEL BANCO DI SICILIA

 

 

 

XIII LEGISLATURA

DELLA REPUBBLICA ITALIANA

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/26229 presentata da RALLO MICHELE

(ALLEANZA NAZIONALE)

in data 19/10/1999

Al Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

Per sapere – premesso che:

– sono state avviate le procedure per la privatizzazione del Mediocredito Centrale SpA, banca che detiene il controllo del 61 per cento del Banco di Sicilia;

– il relativo bando precisa che “l’alienazione verrà effettuata mediante trattativa diretta e/o offerta pubblica di vendita”;

– il medesimo bando di gara precisa inoltre che la privatizzazione del Mediocredito Centrale-Banco di Sicilia dovrebbe contribuire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito Centrale”;

– in esito al citato bando, sono pervenute tre offerte: le prime due, da parte del Banco di Roma e di Unicredito per il totale di Mediocredito centrale; la terza, da parte di un gruppo di banche popolari (Popolare di Vicenza, Popolare di Bergamo, Popolare di Bergamo, Popolare di Emilia-Romagna, Cardif) per il 30 per cento di Mediocredito centrale, ponendo sul mercato il restante 70 per cento attraverso una offerta di pubblica vendita aperta all’azionariato degli imprenditori, in particolare siciliani, e degli stessi dipendenti;

– a quattro giorni dalla scadenza per i rilanci sulle offerte, peraltro provocando il rinvio di una settimana del processo di privatizzazione, il ministero del tesoro ha comunicato alle banche interessate, per il tramite degli advisor J.P. Morgan e C.S. First Boston, che “nella cessione del Mediocredito Centrale verranno preferite le soluzioni che offrono maggiori garanzie in termini di stabilità, e pertanto verranno privilegiate le offerte definitive che permettano la dismissione totale del Tesoro nel Mediocredito”;

– tale intervento da parte del Ministero interrogato sembrerebbe prefigurare una pesantissima ingerenza nel processo di privatizzazione, inteso a favorire l’offerta del Banco di Roma ed a mettere fuori gioco quella del raggruppamento delle Popolari, e ciò – prescindendo dall’aspetto etico della vicenda – contravvenendo a quanto previsto dal bando di gara, che indica esplicitamente l’offerta di pubblica vendita tra i sistemi validi per la partecipazione alla gara, ed identifica fra gli scopi della privatizzazione l’obiettivo di pervenire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito”;

– non vanno peraltro sottaciute le gravissime implicazioni economiche e sociali che la presa di posizione di codesto Ministero provocherebbe, considerato che il prevalere dell’offerta del Banco di Roma avrebbe come immediata conseguenza la chiusura, in Sicilia e nel Lazio, di decine e decine di sportelli e l’emergere di almeno di 3.000 unità lavorative in esubero;

– altro pesantissimo effetto di una tale scelta sarebbe quello della perdita di una identità autonoma del Mediocredito Centrale, per tacere della totale cancellazione del Banco di Sicilia da una realtà economica quale quella siciliana, peraltro drammatica sotto diversi punti di vista;

– in tutta la complessa vicenda, sembra che un ruolo di primo piano sia stato svolto dal direttore generale del ministero del Tesoro dottor Mario Draghi, responsabile – secondo alcuni – della scelta di non ricorrere a regolari gare per l’individuazione degli advisors chiamati a gestire fasi delicatissime nei processi di privatizzazione, giustificando tale scelta con l’attribuzione a tali figure di un ruolo di semplici collocatori, cosa giudicata da molti non vera.

Se non ritenga che la ricordata scelta in ordine ai criteri di individuazione degli advisors possa essere scaturita nell’incontro che il 2 giugno 1992, in acque territoriali italiane, avvenne a bordo del “Britannia”, yacht di proprietà della regina d’Inghilterra, tra rappresentanti di alcune banche inglesi ed esponenti del mondo finanziario italiano, incontro cui partecipò il dottor Mario Draghi – anche all’epoca direttore generale del ministero del tesoro – come riportato nel corso di una audizione presso la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati il 3 marzo 1993;

se non ritenga opportuno, altresì, porre in essere tutte le misure atte a garantire la massima trasparenza nei processi di privatizzazione in genere e, per quanto in particolare attiene a quello in argomento, ad assicurare il rispetto dei termini del relativo bando di gara;

se non intenda operare al fine di evitare che la privatizzazione del Mediocredito centrale Banco di Sicilia possa produrre effetti devastanti sul sistema creditizio nazionale, e siciliano in particolare.

 

 

NOTIZIE SULL’AUTORE

 

 

Michele Rallo è nato a Trapani nel 1946. È entrato giovanissimo in politica, iscrivendosi nel 1963 alla Giovane Italia, l’organizzazione studentesca del MSI. Il suo primo incarico elettivo è del 1967, quando nelle liste del FUAN viene eletto “deputatino” all’Organismo Rappresentativo Universitario.

Da allora ha svolto una intensa attività politica e amministrativa, confortato da un ampio sostegno popolare che si è sostanziato in un crescente consenso elettorale. È stato Consigliere al Comune di Trapani per tre mandati (dal 1980 al 1994) e Deputato al Parlamento Nazionale per due legislature (dal 1994 al 2001).

Ha svolto intensa attività giornalistica sulla stampa locale fin dal 1966, quando comparvero i suoi primi articoli su “Libeccio” e “Tribuna Trapanese”, proseguendo poi fino ad oggi, con l’assidua collaborazione al settimanale “Social” ed al mensile “La Risacca”.

Sulla stampa nazionale, è stato per dieci anni (dal 1968 al 1978) notista di politica estera per il quotidiano missino “Il Secolo d’Italia”, e collaboratore di prestigiose riviste culturali e di approfondimento storico: ultime – in ordine di tempo – il mensile “Storia in Rete” ed il trimestrale spagnolo “Revista de Historia del Fascismo”.

Ha pubblicato numerosi libri di soggetto storico presso l’editrice romana Settimo Sigillo. Dopo l’uscita del suo ultimo volume – “L’Ukraina e il suo fascismo” – in atto lavora ad una ampia ricostruzione della storia diplomatica del 1939.

 

 

 

 

 

 

[1] Il testo di questa interrogazione – benché non strettamente attinente all’argomento – è riportato in appendice.

TRUMP 2: IL MONDO STA CAMBIANDO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

TRUMP 2: IL MONDO STA CAMBIANDO

 

 

Esiste una nettissima differenza fra come “quelli che contano” accolsero il “Trump 1” (quello del 2017) e come la settimana scorsa hanno accolto il “Trump 2”. Il primo era considerato un fenomeno passeggero, un tizio che per puro caso era riuscito a battere Hillary Clinton, imbucandosi alla Casa Bianca. Si pensava che sarebbe stato facile liquidarlo, magari organizzando qualche protesta woke per la solita canagliata del solito poliziotto violento, o scagliandogli contro qualche attricetta alla ricerca di pubblicità gratuita e/o qualche baldo magistrato di belle speranze. E – la mia è solamente una teoria complottista – se proprio The Donald si fosse ostinato a non voler sloggiare dalla studio ovale, allora sarebbe forse bastato qualche provvidenziale “aiutino” per limare i risultati negli Stati-chiave e scongiurare il pericolo di una sua rielezione.

Bene, se questo era il clima del 20 gennaio 2017, completamente diverso è stato quello del 20 gennaio 2025. Adesso nessuna facile ironia, nessun sorrisetto di condiscendenza, nessun ottimismo da salotto radical chic, né dagli avversari politici né dai commentatori “indipendenti” di giornali e tv (anche nostrani); ma soltanto una cupa rassegnazione a quello che potrebbe essere lo spartiacque fra il mondo sognato da lor signori e il ritorno ad un mondo “normale”, senza la dittatura del “politicamente corretto”, senza il ridicolo della cancel culture, senza la follìa del gender, senza l’autolesionismo dello ius soli e dell’accoglionimento generale, senza l’obbrobrio dei una incredibile ideologia green che minaccia interi comparti della nostra economia.

Si, il clima diverso non lo si avvertiva soltanto, ma era concreto, palpabile. Chiaro e evidente come certe imbarazzate giustificazioni sul recente passato, come certe improvvise conversioni, come certe divertenti rincorse per balzare sul carro del vincitore.

Non è soltanto effetto della dimensione della vittoria trumpiana del novembre scorso. È la quasi certezza che sia davvero finita un’epoca e che ne stia iniziando un’altra, destinata a durare anche quando l’attempato Trump avrà terminato il suo secondo quadriennio. Dopo di lui verrà probabilmente il suo giovane vice, J.D. Vance, e poi altri che – repubblicani o democratici che siano – si muoveranno comunque al di fuori dell’ubriacatura autolesionista che ha infettato l’America e l’intero Occidente in questi ultimi anni.

Perché dico questo? Perché la vittoria trumpiana non è arrivata da sola, ma è stata invece accompagnata da una serie di terremoti politici sull’altra riva dell’Atlantico. A cominciare dai grandi paesi europei, dalla Francia, dalla Germania, dalla stessa Italia (malgrado il moderatismo della Meloni), per continuare con i più piccoli: l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Romania, e gli altri, man mano che andranno a svolgersi le elezioni.

Finora la cupola fedele all’UE e alla NATO è riuscita a limitare i danni, ricorrendo a trucchetti antidemocratici come quello di promuovere alleanze “antifasciste” di tutti gli altri partiti. Ma fino a quando riusciranno ad imporre un andazzo del genere? In Austria – è notizia di questi giorni – i popolari sembrano essersi rassegnati a governare insieme ai sovranisti filoputiniani. In Francia il presidentuzzo Macron è riuscito ad assemblare tutti i partiti per evitare la vittoria della Le Pen, ma non riesce a mettere insieme un governo con un minimo di respiro. In Romania sono stati costretti ad annullare il primo turno delle presidenziali per scongiurare il pericolo di un trionfo del candidato nazionalista al secondo turno, ma il risultato sarà probabilmente confermato a breve, quando le elezioni dovranno essere ripetute. E in Germania ci si avvicina alle elezioni con AfD a un passo dal diventare il primo partito tedesco.

Ecco perché, questa volta, Trump fa più paura agli “anti”. Perché è l’espressione americana di un fenomeno globale, perché è il prodotto di una reazione dei popoli occidentali contro chi li voleva privare delle loro identità nazionali, etniche, culturali, religiose, finanche della identità sessuale dei singoli individui.

Certo, “loro” non si rassegneranno facilmente. Ma, a meno di voler imporre il “modello Romania” dappertutto (come ventilato nei giorni scorsi dall’ex commissario europeo Breton) la “resistenza” avrà ben poche speranze di successo.

Ben venga, quindi, la “nuova età dell’oro” americana. Ma, occhi aperti: con Trump o con Biden o con chiunque altro, gli interessi americani (e inglesi) sono contrari agli interessi europei.

Il nostro interesse, per esempio, è quello di essere “dipendenti dal gas russo”. L’interesse degli USA, al contrario, è quello di venderci il loro gas. A prezzi da capogiro, naturalmente.

RALLO – Trump 2 (575)

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PROVE GENERALI DI GUERRA MONDIALE, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

PROVE GENERALI

DI GUERRA MONDIALE

 

 

Mi rendo conto di avere sbagliato. Per eccesso di ottimismo. A febbraio scrivevo che ci attendevano dieci mesi terribili – da allora alle elezioni presidenziali americane – durante i quali il Deep State di Washington avrebbe tentato il tutto per tutto per scongiurare l’eventualità che, con la prevedibile vittoria di Donald Trump, venisse interrotto il cammino verso la terza guerra mondiale. Sarebbe avvenuto di tutto – preconizzavo – compreso un attentato a Trump e la provvidenziale uccisione dell’attentatore, comprese le forzature più o meno gentili per fare ritirare Biden, comprese tante altre cose… Sarebbe avvenuto di tutto – «e non solo in America» precisavo – pur di evitare la vittoria di Trump e, in ogni caso, per impedire che questi, se eletto, potesse metter fine alla guerra della NATO contro la Russia.

Orbene, sbagliavo. Perché – mi rendo conto adesso – i tentativi disperati per giungere ad una terza guerra mondiale sarebbero continuati per alcuni mesi: e non solo fino all’insediamento di Donald Trump (a Dio piacendo il 20 gennaio 2025), ma ancòra fino a quando il nuovo Presidente non sarà riuscito a cambiare i vertici dei servizi segreti e di alcuni centri decisionali del Pentagono e del Dipartimento di Stato. E immagino che l’iter non sarà semplice né rapido, tra veti incrociati, sgambetti parlamentari, scandali a orologeria ed altre porcheriose americanate.

Quei vertici sono, infatti, il braccio armato del “Complesso militar-industriale” e dell’altissima finanza dell’anglosfera (USA e Inghilterra in primis). Il braccio – cioè – che prepara la nuova guerra mondiale: da combattersi rigorosamente in Europa, lontano dall’altra costa dell’Atlantico, come la precedente: anche quella preparata e propiziata da lor signori. Checché ne dica la vulgata odierna; come dimostro – mi si perdoni la citazione autopromozionale – nel mio nuovo libro, dedicato alla storia politica e diplomatica del 1939.

Ma torniamo a noi. Anche nel lasso che ci separa dalla sperata rivoluzione nei servizi americani e negli alti gradi della macchina militare e diplomatica, potrà avvenire di tutto e di più. Compreso un altro attentato a Trump; o forse anche al suo vice, quel giovane James David Vance che sembra destinato a succedere a The Donald (e che diventerebbe automaticamente Presidente se Trump venisse eliminato).

Orbene, i primi episodi – gravissimi – di questa lunga vigilia (diciamo: ancòra tre o quattro mesi?) sono già avvenuti. Sono due i più clamorosi, tralasciando i minori. Mi riferisco all’annullamento delle elezioni in Romania ed alla distruzione della Siria.

Procediamo con ordine. Cominciamo dalla Romania. Si è votato per il primo turno delle elezioni presidenziali il 24 novembre. Il risultato (ufficialmente “a sorpresa”, ma in verità preconizzato da diversi addetti ai lavori) ha visto arrivare al primo posto il concorrente nazionalista Calin Georgescu, contrario al sempre più massiccio (e pericoloso) coinvolgimento della Romania nelle grandi manovre della NATO contro la Russia.

Apriti cielo: USA e UE hanno levato alti gemiti su un risultato – nettissimo – che secondo lor signori sarebbe stato propiziato dalla Russia tramite… Tik-tok. Come se gli Stati Uniti non entrassero a  gamba tesa in tutte le competizioni elettorali dell’orbe terraqueo, spandendo a piene mani le bugìe del “politicamente corretto”, ivi comprese le versioni di comodo sull’andamento delle guerre in corso. Le versioni russe, invece, sono rigorosamente bandite, soprattutto in Europa, pena l’accusa di “propaganda putiniana”.

Torniamo alla Romania. Il fatto era che i sondaggi – quelli veri, rigorosamente celati ai comuni mortali – prevedevano che al secondo turno il candidato nazionalista avrebbe stravinto (secondo una fonte addirittura col 63% contro il 37%), la qualcosa avrebbe stroncato sul nascere il progetto – già in fase avanzata – di costruire in Romania la più grande base americana in Europa, in funzione provocatoriamente anti-russa.

Ecco dunque che, a quel punto, la diplomazia americana è scesa in campo con un piglio che è difficile non definire mafioso. Il Dipartimento di Stato ha dichiarato: «Ci saranno gravi impatti se la Romania si allontana dall’Occidente». Ove “Occidente” era chiaramente un sinonimo di “guerra”. Sùbito dopo interveniva l’ambasciata americana a Bucarest, sollecitando perentoriamente una “inchiesta approfondita” sul primo turno presidenziale.

Il governo rumeno si precipitava sùbito a ordinare rigorose verifiche del voto, che però hanno certificato la correttezza delle risultanze elettorali. Ecco allora la carta di riserva: la Corte Costituzionale è accorsa scodinzolando a dichiarare nullo il primo turno presidenziale, inibendo così anche il secondo turno; e ordinando inoltre che le nuove elezioni non si tengano in tempi rapidi, ma dopo un tot di mesi che consentano alla Sigurantza (che ha una lunga esperienza di queste cose, dai tempi di Ceausescu e prima ancòra) di trovare le prove della ingerenza russa. Per loro stessa ammissione, quindi, le prove attualmente non ci sono; ragion per cui la decisione gravissima di annullare le elezioni sarebbe stata presa senza alcuna prova, sulla base soltanto delle lamentazioni di una potenza straniera.

Stessa operazione – sia detto per inciso – era stata tentata poche settimane prima in Georgia, all’indomani delle elezioni che avevano visto la sconfitta del fronte bellicista. Ma lì non si era trovata una Corte Costituzionale disposta a fare il lavoro sporco.

E veniamo al secondo fatto clamoroso: la miracolosa avanzata dell’ISIS (comunque riverniciata) in Siria, con un “esercito di insorti” armato e attrezzato – chissà da chi? – come  una formidabile macchina da guerra, tale da sbaragliare in una settimana o poco più l’esercito regolare di una nazione di media grandezza. Stessa operazione di quella fallita dieci anni fa per l’intervento della Russia; intervento che non si è potuto ripetere adesso, essendo Mosca in tutt’altre faccende affaccendata.

Chi c’è dietro “l’esercito degli insorti”? Solamente la Turchia – come sostengono certi compiacenti organi d’informazione – per scongiurare il pericolo di uno Stato curdo che potrebbe sorgere ai suoi confini? Certamente no. Altri e ben altri sono i padrini e i finanziatori dell’operazione. Probabilmente gli israeliani, per grandi disegni geo-strategici e comunque per interrompere le vie di comunicazione dall’Iran agli Hezbollah libanesi. E probabilmente, assai probabilmente gli americani, per indebolire la Russia che in Siria ha delle preziose basi militari.

Quanti seguono le vicende internazionali ricorderanno certamente che dieci anni fa, quando l’ISIS tentò di impadronirsi di Siria e Irak, si disse da più parti che a investire fiumi di denaro per mantenere e armare lo “Stato Islamico” fossero gli americani e alcuni loro alleati arabi. Ipotesi più che credibile. Anche perché una operazione del genere richiede l’impiego di cifre colossali. Cifre che, ieri come oggi, i turchi – stretti in una crisi economica profondissima – non possono neanche sognarsi.

No, cannoni e dollaroni arrivano da un’altra direzione. Così, se l’Europa dovesse riuscire a evitare una guerra mondiale, dovrà comunque fare i conti con uno Stato terrorista ed esportatore di terrorismo a pochi passi da casa.

Già, perché la “grande alleata” a stelle e strisce è la più pericolosa nemica dell’Europa. Anche se gli europei non l’hanno ancòra capito.

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GOVERNO MELONI AL PALO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

GOVERNO MELONI AL PALO

 

 

L’elettorato italiano è ormai abituato a decretare fulminei trionfi e rovinose cadute delle leadership politiche nazionali. Lo sanno bene Renzi, Grillo, Salvini. Folgoranti carriere politiche bruciate nel giro di un paio d’anni, dal 40% all’1% in un battibaleno.

Alla Meloni, fino a questo momento, sembra sia andata meglio: nonostante qualche scricchiolìo qua e là, la sua popolarità è ancòra intatta, il suo governo ha ancòra la fiducia della maggioranza degli italiani, e il sostegno al suo partito – stando ai sondaggi – viaggia ancòra attorno al 30%. Merito indubbiamente del suo carisma e della sua abilità, ma anche demerito dei suoi avversari, della loro mancanza di carisma, della loro scarsissima abilità.

La Schlein è capace soltanto di rimproverare al governo di centro-destra di non aver risolto i problemi che ha ereditato da vent’anni di governi di centro-sinistra; e il pur dignitoso Conte, abbandonato dal popolo del vaffa, non riesce ad andare oltre il ruolo di modesto, modestissimo comprimario dello schieramento che si autoproclama “progressista”.

Nonostante tutto, però, la mia impressione è che la Meloni abbia raggiunto l’apice della parabola, e che – in tempi più o meno prossimi – possa cominciare la fase discendente. Fase lenta, graduale, rallentata dalla mancanza di una alternativa accettabile, ma comunque una fase calante.

Perché il ciclo positivo si è interrotto? Per mancanza di coraggio nel tenere fede alle promesse radicali del passato (una per tutte: il blocco navale per fermare l’invasione migratoria) e per un eccesso di furbizia nel rendersi gradita ai poteri forti della politica planetaria: gli Stati Uniti di Biden e dei clan Obama e Clinton, e l’Unione Europea delle scelte economiche antitaliane (regole finanziarie insostenibili, transizione ecologica, politica punitiva verso la casa, strangolamento dell’industria automobilistica, sanità pubblica ai limiti di sopravvivenza, pensioni da fame, accoglionimento migratorio, eccetera).

Non soltanto per questo, tuttavia. In mancanza di una alternativa, l’elettorato potrebbe anche perdonare; e finora lo ha fatto. Il problema vero è che, accettando le regole e i cosiddetti valori del “politicamente corretto”  (in realtà si tratta di disvalori) nessun governo è in grado di raddrizzare la baracca.  Occorrono soldi, tanti soldi per permettere allo Stato italiano di fare il suo dovere, che è quello di garantire adeguati standard di vita ai cittadini di quella che continua ad essere pur sempre una delle dieci maggiori economie del pianeta. Certo, se per pagare le pensioni o per assicurare decenti livelli di assistenza sanitaria lo Stato deve farsi prestare i soldi dalle banche private, pagando salatissimi interessi e facendo lievitare il debito pubblico, cosa che peraltro ci è inibita dai cerberi di Bruxelles… certo, se ci si deve uniformare a queste regole balzane, né il governo Meloni né nessun altro governo di qualsivoglia colore politico sarà in grado di produrre risultati positivi. Potrà resistere un paio d’anni o poco più, prima di dover alzare bandiera bianca ed ammettere la sua impotenza.

A quel punto il tal governo crollerà nelle urne, e gli elettori si volgeranno verso qualcun altro che sarà per un momento ritenuto capace di fare meglio.

Ripeto: il governo Meloni non è ancòra a questo punto, né all’orizzonte si profila una alternativa credibile.

Epperò il problema resta sempre quello: se lo Stato non si riprende la sua sovranità anche monetaria, se non si riappropria della facoltà di battere moneta, se non la smette di svenarsi per pagare gli interessi – solo gli interessi! – alle banche, se non manda a quel paese l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, le banche “d’affari” e tutta l’onorata consorteria dell’altissima finanza internazionale… se non si trova il coraggio per scelte di questo tipo, allora ci sarà ben poco da fare, se non tirare onestamente la carretta di un qualunque governo di ordinaria amministrazione. Come il governo Meloni, per l’appunto.

 

 

[“Social” n. 568  ~ 29 novembre 2024]

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FEBBRAIO-NOVEMBRE: DIECI MESI TERRIBILI IN CUI POTRÁ ACCADERE DI TUTTO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

FEBBRAIO-NOVEMBRE: DIECI MESI TERRIBILI

IN CUI POTRÁ ACCADERE DI TUTTO

 

 

Le presidenziali americane si svolgeranno a novembre, fra dieci mesi. Se si votasse oggi, non ci sarebbe storia: Trump asfalterebbe Biden. E questa volta il risultato sarebbe cosí “rotondo” da non poter giovarsi neanche di qualche provvidenziale “aiutino”, come quelli che i trumpiani sospettano siano stati usati nella tornata precedente. A proposito, perché non si è sgombrato il campo dai sospetti? In fondo, sarebbe bastato relativamente poco per una verifica volta ad appurare che i voti realmente espressi corrispondessero a quelli elaborati dai computer di qualche megasocietá dell’universo big tech.

Sia andata come sia andata in passato, questa volta ci saranno pochi spazi per gli “aiutini” di un certo livello. Per gli “aiutini” minori, invece, temo che si continuerá come al solito, ma ció non dovrebbe incidere sui grandi numeri.

Ma lasciamo stare queste considerazioni e veniamo al dunque. Trump, al momento, appare inarrestabile. Nonostante non sia proprio un simpaticone, e nonostante la miriade di azioni giudiziarie promosse contro di lui. L’elettorato, evidentemente, non ci crede. Anzi, crede che si tratti di trappole organizzate ad arte per metterlo fuori gioco. Certamente, i “servizi” di certi fortissimi poteri che manovrano i destini degli USA (e del mondo) potrebbero tentare una mossa disperata: mettere un’arma in mano al mentecatto di turno e spedirlo a compiere un attentato alla vita del candidato repubblicano. Male che vada, si potrá imputare il tutto al solito fanatico isolato, magari poi abbattuto da un provvidenziale proiettile vagante. Oppure cercare un mentecatto dell’altro fronte e mandarlo ad attentare a Biden. In questo caso, si potrá anche montare la solita cagnara contro i gruppi di “estremisti di destra” da cui sicuramente si scoprirá provenire l’attentatore.

Certo, una cosa del genere sarebbe possibile, ma non probabile. Penso piuttosto che il Deep State interverrá sulle strutture ufficiali del Partito Democratico perché mettano a riposo il vecchietto della Casa Bianca. Con le buone o, se necessario, con qualche pressione non proprio gentile.

Lo stesso can-can di questi giorni potrebbe rientrare in tale quadro, con un alto magistrato che assolve Biden da accuse specifiche, ma che trova il modo per infilare nella sentenza alcune considerazioni – non proprio pertinenti – sulla memoria del Presidente. Ed a questa strana sentenza ha súbito fatto séguito una miriade di riflessioni – non proprio lusinghiere – provenienti dal campo democratico sulla luciditá mentale del povero Biden.

Ma, guarda un po’, adesso scoprono l’acqua calda, dopo avere fatto finta di nulla per anni, quando ancóra si credeva – sará un caso – che Trump potesse essere fermato dalle inchieste della magistratura. Eppure, lo stato delle cose era chiaro a tutti. Anche noi ne abbiamo parlato con dovizia di particolari (e di documentazione fotografica).

Si veda, per esempio, il pezzo pubblicato su “Social” del 29 aprile 2022. Si intitolava «Dietro Biden c’è Obama, dietro Obama c’è Soros», e riferiva di due video che circolavano sul web: «Il primo mostra Biden errare imbambolato durante un ricevimento ufficiale, ignorato da un pubblico che riserva le sue attenzioni unicamente a Barack Obama, che é chiaramente la star della serata. Nessuno si fila il Presidente, che si dirige con lo sguardo nel vuoto verso la direzione opposta. Il secondo video mostra Biden che conclude un intervento ufficiale, si volge verso la sua destra e stende la mano a salutare qualcuno… che non c’é. Impiega forse una decina di secondi per rendersi conto che da quella parte non c’é nessuno. Altra svolta a destra, volgendo il viso al muro e le spalle al pubblico, altri interminabili secondi di imbarazzo generale. Infine, una terza virata di 90 gradi – quella buona – e l’incedere con passo malfermo verso la direzione giusta.»

E allora? Si puó credere che queste cose fossero chiare ad un modesto settimanale nella remota Sicilia, e sfuggissero invece agli autorevoli columnist del “New York Times” o del “Washington Post”? Se ne sono accorti solo ora?

Evidentemente il quadro è cambiato: adesso è chiaro che Biden andrebbe incontro ad un disastro sicuro, e si tenta di correre ai ripari. Il vecchietto va eliminato dalla scena politica, possibilmente nel modo piú soft. O, occorrendo, anche ricorrendo alle maniere forti.

Che so? Una inchiesta sul figlio Hunter, quel gentiluomo che è stranamente diventato pezzo grosso della Burisma, la potente holding ukraina che vorrebbe mettere le mani sul gas del Donbass. E qui mi fermo, anche se sono fortemente tentato di andare aventi sul versante ukraino, molto avanti.

Torniamo alle prossime presidenziali americane. Nella impossibilitá di fermare Trump, i poteri forti devono a tutti i costi fermare Biden. Al suo posto, nella sfida con il tycoon repubblicano, dovrá andare Michelle Obama. Stesso clan, stesso ambiente, stessi santi in Paradiso.

Mancano dieci mesi a quelle che sono le elezioni piú importanti dell’orbe terraqueo. Dieci mesi in cui potrá accadere di tutto. E non solo in America.

 

[“Social” n. 533  ~ 16 febbraio 2024]

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