Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici, di Gianandrea Gaiani

Il ritiro russo da Kherson tra risvolti militari e politici

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Dopo nove mesi di sanguinose battaglie in cui i russi puntavano a sfondare verso Mikolayv e gli ucraini a raggiungere la riva destra del Dnepr la battaglia per la città di Kherson e i territori dell’omonima regione posti oltre il grande fiume sembra potersi risolvere con il ritiro delle forze di Mosca.

L’annuncio russo del ritiro dai territori sulla riva destra del Dnepr potrebbe segnare una svolta, forse più politica che militare, nel conflitto in Ucraina.

Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha ordinato il 9 novembre il ritiro delle truppe da Kherson, inclusa la città omonima, e il loro rischieramento sulla sponda sinistra del fiume dove da settimane erano in corso lavori di costruzione di fortificazioni e linee difensive.

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I vertici ucraini, incluso il presidente Volodymyr Zelensky, hanno mostrato per ora molta cautela nei confronti dell’annuncio. Le forze di Mosca sul lato destro del Dnepr sono stimate in oltre 20 mila uomini (addirittura 40 mila secondo alcune stime) appartenenti ai migliori reparti di fanteria leggera (fanteria di Marina e truppe aviotrasportate) che finora hanno difeso con successo la testa di ponte oltre il Dnepr che avrebbe dovuto aprire ai russi la strada per prendere Odessa attaccandola da nord invece che dal mare.

Dall’estate scorsa invece le forze di Mosca sono sulla difensiva, attaccate da oltre 100 mila soldati ucraini che secondo diverse fonti hanno subito perdite spaventose pur conquistando alcune porzioni di quel territorio.

Dal primo ottobre le forze ucraine hanno liberato 41 insediamenti in questa regione, ha detto ieri su Telegram il comandante delle forze armate di Kiev, Valery Zaluzhnyi. “L’avanzata delle nostre truppe nella profondità della difesa nemica è arrivata a 36,5 chilometri”, specifica Zaluzhnyi, “la superficie totale del territorio riconquistato raggiunge i 1.381 chilometri quadrati ed è stato ripristinato il controllo su 41 insediamenti” (nel video e nella foto sotto truppe ucraine dotate di mezzi blindati occidentali e australiani nella regione di Kherson).

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Solo nell’ultimo giorno “in direzione di Pervomaiske-Kherson siamo avanzati di 7 chilometri, abbiamo preso il controllo di 6 insediamenti e l’area del territorio liberato è di 157 chilometri quadrati”, ha aggiunto il comandante in capo delle forze armate ucraine.

Completata ieri anche la liberazione della regione di Mykolaiv, di cui in realtà i russi avevano occupato solo una piccolissima parte (annessa alla regione di Kherson) intorno alla cittadina di Snihurivka, snodo delle diverse strade della sponda destra del fiume Dniepr, caduta in mano russa in marzo e a quanto sembra riconquistata in queste ore dagli ucraini.

Il ritiro dalla città di Kherson costituisce una sconfitta sul piano militare e simbolico per i russi poiché la città è l’unico capoluogo regionale conquistato dall’inizio del conflitto e la regione di Kherson è una delle quattro annesse alla Federazione Russa in seguito ai referendum di fine settembre.

Una sconfitta, o più probabilmente un ridimensionamento delle ambizioni dell’operazione speciale varata da Mosca il 24 febbraio, ma non una disfatta.

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I russi sembrano essersi ritirati in buon ordine lasciando agli ucraini una città e numerosi villaggi quasi disabitati, ampiamente devastati dai bombardamenti ucraini e dalle demolizioni dei russi e con ogni provabilità massicciamente minati dalle truppe di Mosca per complicare le operazioni al nemico.

Nonostante l’annunciato ritiro, il Cremlino ha escluso qualsiasi modifica dello status della regione di Kherson conseguentemente al ritiro delle truppe russe sulla riva sinistra del Dnepr poiché il territorio fa parte “della Federazione Russa, questo status è legalmente definito e fissato.

MOSCOW, RUSSIA - DECEMBER 19, 2019: Russia's Presidential Spokesman Dmitry Peskov looks on during the 15th annual end-of-year news conference by Russia's President Vladimir Putin at the World Trade Centre. Mikhail Metzel/TASS Ðîññèÿ. Ìîñêâà. Ïðåññ-ñåêðåòàðü ïðåçèäåíòà ÐÔ Äìèòðèé Ïåñêîâ íà áîëüøîé åæåãîäíîé ïðåññ-êîíôåðåíöèè ïðåçèäåíòà ÐÔ Âëàäèìèðà Ïóòèíà â Öåíòðå ìåæäóíàðîäíîé òîðãîâëè íà Êðàñíîé Ïðåñíå. Ìèõàèë Ìåòöåëü/ÒÀÑÑ

Non ci sono e non possono esserci cambiamenti”, ha affermato il portavoce presidenziale Dmitry Peskov, in un riferimento all’annessione della regione il 30 settembre scorso.

Quanto al ritiro russo e se questo possa apparire come un colpo al prestigio della dirigenza russa, Peskov ha detto che “esistono valutazioni opposte in proposito.

E in ogni caso la situazione non è umiliante. Ma non vorremmo commentare né in un modo e né in un altro. Il conflitto in Ucraina potrà finire dopo il raggiungimento degli obiettivi o terminare con il raggiungimento degli obiettivi attraverso negoziati pacifici. Kiev non vuole negoziati, quindi l’operazione militare speciale continua”. L’impressione è quindi che il Cremlino tenda a non commentare il ritiro da Kherson tenere Vladimir Putin al riparo da critiche e valutazioni negative circa l’andamento del conflitto.

“La giustizia sarà ristabilita, tutte le terre della regione di Kherson saranno riprese sotto il controllo delle forze alleate di Mosca” ha affermato il governatore ad interim della regione, Vladimir Saldo.

“La nostra terra nella regione di Kherson, tutto il suo territorio, tutti i suoi residenti faranno di certo parte della Federazione Russa”, ha concluso il governatore.

OCTOBER 16, 2022. Engagement of an Uragan multiple rocket launcher system of the Russian Central Military District under cover of electromagnetic complexes. Artillery units are protected by electromagnetic systems that monitor the sky and destroy detected enemy drones with an electromagnetic pulse. Best quality available. Video screen grab. A STILL IMAGE TAKEN FROM A VIDEO PROVIDED BY A THIRD PARTY ON 16 OCTOBER 2022. EDITORIAL USE ONLY. Russian Defence Ministry/TASS Áîåâàÿ ðàáîòà ðàñ÷åòîâ ðåàêòèâíûõ ñèñòåì çàëïîâîãî îãíÿ (ÐÑÇÎ) "Óðàãàí" Öåíòðàëüíîãî âîåííîãî îêðóãà (ÖÂÎ), äåéñòâóþùèõ ïîä ïðèêðûòèåì ðàñ÷åòîâ ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ.  ðàéîíàõ äèñëîêàöèè è áîåâûõ ïîçèöèé ïîäðàçäåëåíèÿ àðòèëëåðèè íàõîäÿòñÿ ïîä çàùèòîé ýëåêòðîìàãíèòíûõ êîìïëåêñîâ, ðàñ÷åòû êîòîðûõ âåäóò íàáëþäåíèå çà âîçäóøíûì ïðîñòðàíñòâîì è óíè÷òîæàþò ýëåêòðîìàãíèòíûì èìïóëüñîì îáíàðóæåííûå äðîíû ïðîòèâíèêà. Ñíèìîê ñ âèäåî. Ìàêñèìàëüíî âîçìîæíîå êà÷åñòâî. Ïðåññ-ñëóæáà Ìèíîáîðîíû ÐÔ/ÒÀÑÑ ÏÐÅÄÎÑÒÀÂËÅÍÎ ÒÐÅÒÜÅÉ ÑÒÎÐÎÍÎÉ 16 ÎÊÒßÁÐß 2022. ÒÎËÜÊÎ ÄËß ÐÅÄÀÊÖÈÎÍÍÎÃÎ ÈÑÏÎËÜÇÎÂÀÍÈß

Per il governo ucraino le forze armate russe vogliono “ridurre in macerie” Kherson, da cui si sono appena ritirate, e stanno “minando tutto” ha detto ieri il consigliere presidenziale ucraino Mykaylo Podolyak al quotidiano Ukrainska Pravda precisando che a Kherson ci sarebbero ancora militari russi e non si vedrebbero segni di ritirata e aggiungendo le forze armate ucraine non possono “né confutare né confermare le informazioni sul cosiddetto ritiro delle truppe russe da Kherson”.

Un ripiegamento che fa seguito al repentino ritiro in settembre dalla regione di Kharkiv di fronte all’offensiva ucraina che sfondò facilmente linee difensive quasi del tutto sguarnite di armi e truppe co sente do agli ucraini di mettere le mani su almeno un centinaio di mezzi corazzati e d’artiglieria russi.

 

Evacuati i civili

Il comandante delle truppe russe in Ucraina, il generale Sergey Surovikin (nella foto sotto), ha ricevuto dal ministro Shoigu l’ordine di avviare il ritiro secondo un piano messo a punto dallo stesso Surovikin subito dopo aver assunto il comando, quando diede il via all’evacuazione di tutti i civili che volevano lasciare le loro case a Kherson e negli altri centri sulla riva sinistra del Dnepr.

Un esodo che ha visto muoversi verso la Crimea e il territorio russo 88 mila abitanti della città (che prima della guerra ne contava 300 mila) e 115 mila dell’intera regione.

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Di fatto i russi hanno evacuato la popolazione, fedele a Mosca, per sottrarla ai bombardamenti ucraini e soprattutto alle feroci rappresaglie che le milizie nazionaliste inserite nei servizi di sicurezza di Kiev hanno perpetrato (nel silenzio dei media occidentali) nei territori riconquistati dall’esercito ucraino.

Per Kiev si tratterebbe in realtà di deportazione della popolazione ucraina ma questa valutazione, comprensibile in termini di propaganda, non sembra credibile. Oltre 3 milioni di cittadini ucraini hanno infatti trovato rifugio in Russia e almeno altrettanti vivono nei territori controllati da Mosca e dalle forze secessioniste mentre in diverse aree lungo la prima linea vi sono varchi (come nell’oblast di Zaporizhzhia) in cui i cittadini ucraini possono muoversi tra i territori controllati da Kiev e quelli in mano a russi e separatisti.

Ovviamente il governo ucraino tendeva negare che quella in corso sia anche una guerra civile come dimostrano gli oltre 50 mila combattenti ucraini degli eserciti secessionisti di Donetsk e Luhansk e i il fatto che a Kiev sono stati messi fuori legge 12 partiti, incluso quello arrivato secondo alle ultime elezioni, con l’accisa di essere “filorussi”.

Sotto l’incalzare di forze ucraini numericamente preponderanti (Kiev ha pochi giorni fa avviato il reclutamento di altri 100 mila uomini) Surovikin ha suggerito la “decisione difficile” di arretrare la linea di difesa lungo la sponda sinistra del Dnepr.

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“Capisco che questa sia una decisione molto difficile”, ha detto Surovikin, spiegando che è legata anche all’eventualità di un attacco di Kiev alla diga di Novaya Kakhovka, più volte colpita dai razzi ucraini nei giorni scorsi.

“In questo caso ci sarebbe un’ulteriore minaccia per la popolazione civile e il completo isolamento del nostro gruppo di truppe sulla riva destra del Dniepr. In queste condizioni, l’opzione più appropriata è organizzare la linea difensiva lungo la riva sinistra”, ha detto Surovikin senza indicare una data precisa per il ritiro precisando che l’operazione avverrà “nel prossimo futuro”.

In realtà già la mattina dell’11 novembre diversi elementi sembrano indicare che il ritiro è stato quasi completato. Soprattutto il danneggiamento del ponte Antonovsky (nella foto a sinistra) sul fiume Dniepr, a Kherson.

L’infrastruttura per mesi è stata utilizzata per rifornire le truppe russe al di là del fiume e per questo a lungo bersagliata dai razzi dei sistemi HIMARS impiegati dagli ucraini.

Il giornalista russo della Komsomolskaya Pravda, Oleksandr Kots, ha pubblicato su Telegram un video della distruzione del ponte, al quale mancano due campate: una demolizione attuata quindi con ogni probabilità dai russi in ritirata che inibisce al nemico l’uso del ponte ma non ne impedisce domani la ristrutturazione.

 

Conseguenze militari

Il ritiro russo consentirà di ridurre l’impegno in prima linea di molti reparti in quel settore, di rafforzare le difese a Luhansk e di condurre offensive in altri settori come quello di Donetsk dove i russi hanno ripreso ad avanzare anche se con progressi lenti sul terreno.

Certo Mosca confermerebbe così di aver assunto un assetto prettamente difensivo come nell’oblast di Luhansk con la costituzione della cosiddetta “Linea Wagner”, propedeutico in questa fase al tentativo di sviluppare una trattativa per concludere il conflitto.

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Meglio però non dimenticare che circa un terzo dei 300 mila riservisti mobilitarti sono già stati assegnati ai reparti e in futuro amplieranno le opzioni in mano al comando russo per sostenere la difesa dei territori occupati o per alimentare nuove offensive.

A sostenere le buone ragioni del piano di ritirata sono scesi in campo anche i due maggior esponenti del fronte nazionalista-patriottico e fautori della guerra in Ucraina: il leader della milizia privata Wagner, Yevgeny Prigozhin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov, vicino al Cremlino.

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Segno che questa volta non ci saranno faide contro i comandanti militari come è accaduto nei mesi scorsi e che tutti a Mosca concordano nel ridurre il rischio di lunghe battaglie d’attrito che comporterebbero gravi perdite.

Oltre ad azzerare per il momento le possibilità russe di prendere Mykolayv e Odessa, il ritiro oltre il Dnepr comporta anche una maggiore esposizione della Crimea e soprattutto dell’istmo che collega la penisola ai territori ucraini sotto il controllo russo all’artiglieria lungo raggio ucraina che dalla riva sinistra del fiume avrà a tiro gli obiettivi nell’istmo situati a poco più di 70 chilometri in linea d’aria.

 

Aspetti politici

A Kiev non mancano le reazioni perplesse all’annuncio russo. Podolyak ha fatto sapere di “non vedere segnali che la Russia lascerà Kherson senza combattere”. Anzi ha affermato che parte del contingente “rimane all’interno della città”, mentre si prevede l’arrivo di nuovi rinforzi russi nella regione. “Noi liberiamo territori sulla base di informazioni di intelligence, e non di dichiarazioni alla tv” che appaiono come una “messa in scena”.

In realtà già il 9 novembre fonti militari ucraine confermavano il ritiro russo da alcuni settori. “Oggi, i russi hanno effettivamente iniziato a far crollare l’intera linea del fronte di Kherson e hanno iniziato una ritirata di massa. Nel settore di Berislav, gli occupanti sono scomparsi in un certo numero di insediamenti. Cioè, non ci sono occupanti lì per ora. I russi se ne vanno in massa, ma quando se ne vanno fanno saltare in aria i ponti” ha detto Serhii Khlan, consigliere dell’amministrazione militare regionale di Kherson.

Khlan ha aggiunto che i russi stanno rafforzando le difese sulla sponda sinistra per lasciare in modo più sicuro la sponda destra della regione di Kherson: “Oggi stanno cercando di rafforzare alcune delle loro posizioni al fine di frenare l’offensiva delle forze armate e ritirarsi in sicurezza dalla riva destra del Dnipro”.

La stessa fonte ha confermato che “gli occupanti hanno fatto saltare in aria non solo i ponti Daryiv e Tyagin ma anche il ponte all’uscita da Snigurivka verso Kherson, il ponte Mylovi a il Novokairy”.

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I piani di ritiro russi sembrerebbero quindi confermati dal fatto che sono stati fatti esplodere almeno 5 ponti, per rallentare l’avanzata nemica, ma in guerra non si può mai escludere che venga utilizzata l’arma dell’inganno così come pare scontato che i russi in ritirata abbiano lasciato molte aree minate per mettere in difficoltà gli ucraini.

“Gli invasori russi continuano a depredare gli insediamenti dai quali si stanno ritirando e il nemico sta anche cercando di danneggiare il più possibile le linee elettriche e altri elementi dei trasporti e delle infrastrutture critiche dell’oblast di Kherson” ha reso noto lo Stato maggiore delle forze armate ucraine.

Atteggiamenti consueti per ogni esercito che si ritiri senza voler lasciare nulla di utile al nemico: in questo caso si tratta della strategia della “terra bruciata” lasciata al nemico attuata su scala ben più ampia dai russi in ritirata contro le truppe napoleoniche e dell’Asse.

“Gli Stati Uniti hanno rilevato alcuni segnali che fanno pensare ad un possibile ritiro russo dalla città di Kherson”, ha dichiarato il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan.

Altri segnali sembrerebbero indicare la volontà russa di ritirarsi oltre il Dnepr, come il reiterato invito e Kiev a negoziare sulla base della “attuale situazione”, come ha fatto sapere per ultima la portavoce del ministero di esteri Maria Zakharova.

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Il che significherebbe trattare accettando che i russi mantengano il controllo dei territori a oggi sotto il loro controllo. Scontata la risposta negativa degli ucraini che confermano di voler trattare solo dopo il ritiro totale dei russi dal territorio ucraino.

Il ritiro russo da Kherson rappresenta un importante segnale politico inviato da Mosca ma rivolto all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti, non agli ucraini. Non deve sfuggire che l’annuncio del ritiro è stato effettuato il giorno dopo le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: circostanza definita “curiosa” dal presidente Joe Biden che considera il ritiro annunciato un “ulteriore segnale dei problemi che i russi stanno affrontando”. Difficile però non trovare nella coincidenza temporale la conferma che Washington e Mosca stanno trattando segretamente una via d’uscita dal conflitto.

Certo Biden ha aggiunto che “rimane da vedere se le autorità ucraine saranno pronte a scendere a compromessi con la Russia” ma è altrettanto chiaro che tali opzioni non sono nelle mani di Kiev.

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L’Ucraina è in ginocchio tra danni di guerra, morti militari re civili, black-out elettrico che minaccia di costringere milioni di cittadini a cercare un rifugio in Europa per l’inverno. Solo il sostegno militare ed economico dei paesi della NATO consente a Kiev di continuare a combattere, a dare da mangiare alla popolazione, a pagare gli stipendi con un PIL quasi dimezzatosi dall’inizio della guerra e che il blackout elettrico divenuto ormai una costante quotidiana potrebbe ridurre di un ulteriore 40 per cento.

E’ evidente quindi che l’Occidente ha a disposizione la leva degli aiuti militari ed economici per indurre Zelensky a trattare. Forse non a caso ieri, mentre il Pentagono annunciava nuovi aiuti militari caratterizzati da forniture di missili antiaerei, il Wall Street Journal ha reso noto che il Pentagono ha deciso di non fornire a Kiev i grandi droni armati americani Grey Eagle nel timore che questo potesse portare a un’escalation del conflitto.

Anche tenendo conto che molti ambienti politici statunitensi (in maggioranza repubblicani ma anche democratici) sono stanchi di questa guerra, per le conseguenze economiche e perché ne temono i rischi di potenziale escalation non si può escludere che il Congresso uscito dalle elezioni di mid-term possa imprimere una svolta nella gestione del conflitto impostata finora dagli Stati Uniti sulla volontà di prolungarlo per logorare la Russia.

Il ritiro russo da Kherson offre quindi a Washington una ulteriore opportunità per indurre gli ucraini a sedersi al tavolo delle trattative potendo vantare successi militari e ridotte ambizioni territoriali da parte di Mosca.

Con un tempismo non casuale l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, ha detto in un’intervista apparsa oggi sul quotidiano russo Izvestija che gli Stati Uniti potrebbero porre fine al conflitto in Ucraina con “uno schiocco di dita”.

@GianandreaGaian

Foto: Ministero della Difesa Russo, Ministero della Difesa Ucraino, Telegram

Mappe: Institute for the Study of the War

 

Quello che i media non hanno raccontato del discorso di Xi Jinping, di Mauro Bottarelli

Stavolta, Xi Jinping l’ha fatta breve. Ha tagliato corto. Solo 100 minuti di discorso. All’ultimo Congresso del PCC aveva parlato per tre ore. Nonostante questo, i media italiani non hanno perso l’abitudine di trattare la Cina con la supponenza di chi, in fondo, ritiene quel Paese nulla più che una fabbrica di chincaglieria a cielo aperto, una sartoria da sottoscala globale dove si cuciono orli e palloni. Complimenti, d’altronde ognuno si suicida come preferisce. Basta dare un’occhiata ai resoconti sui giornali: Taiwan e Covid. Di fatto, le uniche materie di cui si conosceva già a menadito la posizione del Presidente cinese.

Qualcuno, forse in vena di bizzarrie, ha sottolineato il passaggio su Hong Kong e il ritorno all’ordine dell’ex colonia garantito dalla Cina, dopo decenni di caos. Altri, invece, hanno proseguito con la manfrina di Pechino che starebbe voltando le spalle all’alleato russo, facendosi forte della non menzione esplicita della questione ucraina. Peccato che poco prima dell’apertura dei lavori del Congresso, il ministero degli Esteri cinese – per la prima volta dall’inizio del conflitto – abbia diramato l’ordine di evacuazione dei propri cittadini dall’Ucraina.

Seguito a stretto giro di posta dalla Serbia, la quale ha chiuso tutti gli uffici diplomatici nel Paese. Giova ricordare come Belgrado sia stata la prima a consigliare l’evacuazione dall’Ucraina ai propri connazionali: lo fece in forma ufficiale l’11 febbraio scorso, due settimane prima dell’inizio delle operazioni. Guarda caso, droni all’attacco del centro di Kiev.

Non c’è nulla da fare, continuiamo a trattare l’altra metà (abbondante) del mondo come colonie di inferiori da compatire e convertire. Peccato che ora cominciamo a pagare seriamente il prezzo di tutto ciò. Deve far riflettere, ad esempio, non solo e non tanto la messa in guardia di Xi Jinping ai suoi connazionali rispetto alle sfide senza precedenti che ci attendono, bensì il suo ribadire in maniera ancora più esplicita un concetto espresso chiaramente nel luglio del 2021, in occasione del 100° anniversario dalla fondazione del Partito comunista cinese. Ovvero, la Cina non cerca e non cercherà mai l’egemonia globale. Un chiaro monito a non confondere gli interessi commerciali con l’imperialismo geopolitico.

E se ovviamente balza alla mente come Pechino abbia ormai colonizzato mezza Africa, giova ricordare come lo abbia fatto tramite prestiti a quei Governi: esattamente la stessa politica posta in essere dal Fmi. Il quale, però, appare sempre meno affidabile, se si preferisce l’abbraccio cinese al nodo gordiano di Washington. La quale usa il Fondo proprio per finalità geopolitiche, basti vedere il trattamento di favore accordato all’Ucraina fin dai tempi di Poroshenko.

Ma attenzione, perché ciò che Xi Jinping ha voluto dire all’Europa sta tutto in questi due grafici, ovvero nella presa d’atto di un’egemonia che Pechino si trova ad amministrare quasi involontariamente e per conto terzi. Anzi, per gentile concessione.

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La Germania oggi vede nella Cina il suo primo partner commerciale, ma con una dinamica che, a causa della crisi energetica e dell’inflazione, nell’ultimo periodo ha patito una biforcazione epocale: esportazioni tedesche verso la Cina stagnanti, esplosione dell’export cinese verso Berlino. Da una dinamica simile non si esce. Ma ancora più esiziale è quanto mostrato dalla seconda immagine: fatto 100 della platea di oltre 40 esportatori verso la Russia, oggi Pechino pesa per 52.

Ovvero, il 52% delle importazioni totali di Mosca è garantito dalla sola Cina. Esattamente il piano di Washington: polarizzare al massimo gli equilibri, spingendo la Russia nell’abbraccio ritenuto mortale con Pechino e, soprattutto, recidere del tutto il cordone ombelicale politico, culturale e commerciale della Federazione Russa con l’Europa. Ovviamente, utilizzando l’arma delle sanzioni e della crisi energetica. La quale, giova ripeterlo, sta facendo il solletico agli Usa rispetto ai disastri epocali che sta sostanziando nel Vecchio Continente.

Altresì non è un caso che persino un alleato storico degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita si sia stufata dell’atteggiamento rapace di Washington e abbia deciso di fare fronte comune con Mosca in sede Opec+, tagliando la produzione di petrolio e facendo infuriare la Casa Bianca. La quale, focalizzata com’è sul midterm, avrebbe operato moral suasion su Ryad affinché attendesse un mese prima di rendere operativa la decisione. Ovvero, dopo l’8 novembre, in modo da non generare aumenti dei prezzi alla pompa prima del voto.

Ecco come gira il mondo, ecco cosa non vi hanno raccontato del discorso di Xi Jinping, una vera e propria lectio magistralis di geopolitica per il nuovo millennio. Certo, lo scambio di cortesie fra Berlusconi e Meloni appare culturalmente e intellettualmente più alto e degno di approfondimento, lo capisco. Non capiamo quale rivoluzione si stia compiendo sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, decisione dopo decisione. E, nel caso dell’Europa, errore dopo errore. Ma lo capiremo. A breve. E con la spietatezza che la realtà tiene in serbo per gli stupidi e i boriosi.

Nel silenzio generale, il Belgio la scorsa settimana si è astenuto rispetto all’ottavo pacchetto di sanzioni contro la Russia, di fatto aggiungendo spaccatura a spaccatura nel fronte europeo, dopo il blitz tedesco sul fondo di sostegno contro il caro-bollette. E domenica Parigi ha vissuto un’anticipazione violenta e di massa di quanto la attende questa settimana, a partire dallo sciopero generale indetto per oggi dalla Cgt contro il caro-vita. Ovviamente, nemmeno un’immagine o una parola nei tg. Ma questo video dell’emittente all-news francese BFMTV parla chiaro: a detta del ministro con delega ai Trasporti, Clément Beaune, un ritorno alla normalità non è previsto, né preventivabile fino alla settimana prossima. Ma si sa, in Italia certe realtà scomode è meglio nasconderle sotto il tappeto, almeno finché si può.

E attenzione a questo ultimo grafico: quei diavoletti di Goldman Sachs, infatti, hanno deciso di ingannare il tempo dei 100 minuti di intervento di Xi Jinping calcolando la frequenza ponderata nell’utilizzo dei termini crescita e sicurezza rispetto ai due precedenti discorsi inaugurali dei congressi del PCC. Come notate, l’economia è rimasta stabile a livello di menzioni. Ma la sicurezza è schizzata.

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Ovvero, c’è la forte possibilità che Pechino decida di seguire l’esempio statunitense, puntando meno su settori a bolla ciclica come l’immobiliare e concentrando gli sforzi sul moltiplicatore storico del Pil. Ovvero, il warfare. La deterrenza genera crescita, d’altronde. E un domani, può tradursi in qualcosa di più concreto e terribilmente distruttivo di una mera minaccia. Siamo nel pieno di uno snodo della Storia. E ci limitiamo a fotografare il panorama come turisti.

Quello che i media non hanno raccontato del discorso di Xi Jinping

La guerra segreta di Zelensky tra purghe e complotti, di Gianandrea Gaiani

https://www.analisidifesa.it/2022/07/la-guerra-segreta-di-zelensky-tra-purghe-e-complotti/

(aggiornato alle 13,55)

Le “purghe” senza precedenti negli ambienti dei servizi di sicurezza ucraini (SBU) sembrano allargarsi anche a magistratura, vertici militari ed esponenti politici.

Il 17 luglio il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha licenziato il capo del Servizio di sicurezza nazionali (SBU), Ivan Bakanov, e la procuratrice generale, Irina Venediktova in base dell’articolo 47 della Carta disciplinare delle forze armate ucraine. L’articolo recita che un ufficiale o un funzionario può essere rimosso per “mancato esercizio delle funzioni, che ha provocato vittime umane o altre gravi conseguenze” o ha creato situazioni tali da poter portare a queste conseguenze.

Circa Bakanov, il presidente ha dichiarato che “questa persona è stata licenziata da me all’inizio dell’invasione su vasta scala e, come si può vedere, tale decisione era assolutamente giustificata”, ha dichiarato il presidente ucraino. “Sono state raccolte prove sufficienti per la notifica, a questa persona, di sospetto tradimento. Tutte le sue azioni criminali sono documentate.

Tutto ciò che ha fatto in questi mesi e anche prima riceverà un’adeguata valutazione legale. Il presidente ha aggiunto che “saranno ritenuti responsabili anche tutti coloro che assieme a lui facevano parte di un gruppo criminale che ha lavorato nell’interesse della Federazione russa”. Il riferimento è al passaggio di informazioni segrete al nemico e ad altre forme di collaborazione coi servizi speciali russi. “Sono state prese decisioni sul personale nei confronti dei capi regionali del settore della sicurezza Kherson, Kharkiv.

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Il presidente ucraino ha reso noto che sono stati avviati 651 procedimenti criminali per tradimento e collaborazionismo. “In particolare, oltre 60 impiegati dell’ufficio del procuratore e dell’SBU sono rimasti nel territorio occupato e stanno lavorando contro il nostro Stato”.

Queste rimozioni hanno dato il via a “purghe” che starebbero colpendo molti ufficiali dello SBU accusati di collusione con i russi nelle zone occupate dalle truppe russe e dai secessionisti del Donbass accompagnati da rastrellamenti in tutte le aree a ridosso del fronte (quindi Mikolayv, Odessa, Kharkhiv, Dniptro, Zaporizhzhia e altre regioni dove la precisione dei raid missilistici russi (soprattutto contro i depositi di armi e munizioni giunte dall’Occidente) induce gli ucraini a ritenere vi siano molti “collaborazionisti” tra i civili e i funzionari pubblici.

Rastrellamenti e rappresaglie nei confronti di “collaborazionisti” o supposti tali erano già stati segnalati nelle aree intorno a Kiev e Sumy da dove le truppe russe si erano ritirate a fine marzo .

Oggi l’SBU ha reso noto di aver identificato “tutti i collaboratori che si sono uniti alla direzione principale del Ministero degli affari interni della regione di Kherson creata dall’amministrazione dell’occupazione. Sono stati raccolti i dati di ciascun collaboratore, documentata l’attività criminale e stabilite posizioni e movimenti: 26 rappresentanti del dipartimento regionale del Ministero degli Affari Interni che si nascondono nel territorio temporaneamente occupato della regione di Kherson, hanno già ricevuto avvisi di garanzia. 14 di loro sono ex dipendenti della polizia nazionale”.

Zelensky aveva annunciato nei giorni scorsi il licenziamento di altri 28 membri dell’SBU, epurazione che potrebbe indicare che qualcosa di grave sta succedendo a Kiev anche se le voci diffusesi nei giorni scorsi di un tentato golpe e attentato contro il presidente non hanno trovato conferme.

Oggi il presidente ha cacciato  Ruslan Demchenko, primo vice segretario del Consiglio di Sicurezza e Difesa Nazionale già accusato dal giornalista ucraino Yurii Butusov di essere un agente russo.

Diverse le possibili interpretazioni della situazione attuale: Zelensky potrebbe voler punire i vertici dei servizi di sicurezza a causa del pessimo andamento della guerra e soprattutto per l’elevato numero di civili che restano nelle zone interessate dall’avanzata russa.

Non si può escludere che il presidente cerchi capri espiatori per giustificare gli insuccessi recenti e quelli forse imminenti, oppure che punti a consolidare il suo potere rimuovendo periodicamente funzionari divenuti troppo potenti e quindi potenzialmente pericolosi.

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Al di là del linguaggio propagandistico e della retorica sull’unità nazionale contro l’invasore, non va dimenticato che il conflitto in corso è anche una guerra civile con parte della popolazione delle regioni orientali e oltre 50 mila combattenti ucraini schierati al fianco dei russi.

Da quanto apprendiamo da fonti ucraine, in molti negli ambienti militari, di sicurezza e politici di Kiev trovano sempre di più ingiustificato combattere, subire ampie perdite e vedere devastata l’intera Ucraina nel vano tentativo di mantenere il controllo su Donbass e altri territori dove gran parte della popolazione guarda con ostilità (ricambiata) a Kiev.

Un accordo con i russi porterebbe alla perdita di almeno il 25 per cento del territorio nazionale ma consentirebbe all’Ucraina di sopravvivere e di puntare a ricevere aiuti militari dalla NATO ed economici dalla UE in vista di una possibile adesione a quest’ultima organizzazione.

Per evitare contestazioni Zelensky ha già messo fuorilegge 12 partiti, incluso quello Comunista a cui sono stati confiscati beni mobili e immobili: di fatto ogni forma di opposizione viene gestita con le leggi entrate in vigore dopo l’inizio della “operazione speciale” russa in Ucraina come “tradimento” e “complicità con gli invasori” anche se in molti casi il sospetto è che si tratti di una faida tra Zelensky e l’ex presidente Petro Poroshenko a cui da fine maggio sembra venga impedito di lasciare l’Ucraina.

Le recenti purghe sono state accolte con sarcasmo a Mosca dove la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, sul suo canale Telegram ha commentato che “la denazificazione è in pieno svolgimento”.

Del resto le citate rimozioni sono solo le ultime in ordine di tempo di una lunga serie. Il 18 luglio è stata rimossa dal Parlamento la ministra per le Politiche sociali Maryna Lasebna, mentre è stato arrestato l’ex capo del servizio di sicurezza in Crimea Oleh Kulinich.

Recentemente era stato rimosso il difensore civico Lyudmila Denisova (considerata politicamente vicina a Poroshenko) licenziata con l’accusa di inventare reati falsi o di aggravarne altri.

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Nei giorni scorsi Zelensky aveva licenziato il capo dell’SBU di Kharkiv, Roman Dudin mentre il 28 giugno era stato rimosso il capo dell’amministrazione militare regionale di Kherson, Hennadii Lahuta e il vice ministro per il Digitale Senik Dmytro Yurievic.

Il 14 giugno era stato licenziato il capo dell’amministrazione militare di Chernivtsi e al capo dell’agenzia dei Progetti per le infrastrutture Kryvoruchko Olena. A fine marzo era stata la volta del capo del dipartimento sicurezza interna Andriy Olehovych Naumov e il capo dell’SBU a Kherson (città conquista rapidamente dai russi a fine febbraio), Serhiy Oleksandrovych Kryvoruchko.

Per tutti l’accusa è di tradimento. Le ‘purghe’ di Zelensky non hanno risparmiato neppure il corpo diplomatico: il 25 giugno il presidente ucraino aveva rimosso dal loro posto gli ambasciatori di Georgia, Slovacchia, Portogallo, Iran, Libano. Il 9 luglio era stata invece la volta degli ambasciatori in Germania, Ungheria, Repubblica Ceca, Norvegia e India.

Un parlamentare vicino all’ex presidente Poroshenko (nazionalista e ostile alla Russia), Oleg Sinyutka, ha dichiarato in parlamento che “il paese sta scivolando gradualmente verso una forma di governo dittatoriale” come riporta l’agenzia Adnkronos anche se tali valutazioni vengono solitamente ignorate dalla gran parte dei media occidentali, sempre più “militanti”.

Al di là delle comprensibili esigenze di mantenere la compattezza in una nazione in guerra, va rilevato che l’Ucraina neppure prima dell’attacco russo brillava per democrazia e trasparenza, come abbiamo recentemente illustrato su Analisi Difesa citando le classifiche stilate da importanti centri studi internazionali.

Foto Ministero della Difesa Ucraino

 

https://www.analisidifesa.it/2022/07/smettiamo-di-fingere-di-non-essere-anche-noi-in-guerra-contro-la-russia/

Smettiamo di fingere di non essere anche noi in guerra contro la Russia

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C’è una immagine che continua a tornarmi alla mente ogni volta che si parla del terribile scontro in atto fra la Russia e l’Ucraina, nonché del ruolo, ad esso strettamente connesso, che viene svolto in questo periodo dagli Stati europei.
L’immagine è purtroppo quella manzoniana dei capponi che Renzo Travaglino porta in regalo all’avvocato Azzeccagarbugli e che, benché legati a testa in giù e chiaramente avviati ad un triste destino, continuano, incapaci di fare altro, a beccarsi ferocemente fra di loro.

È una immagine che si fa poi ancora più vivida quando dalla condizione Europea si passa ad esaminare quella di una Italia che a tutt’oggi continua imperterrita ad adottare moduli di comportamento, soprattutto politici, già discutibili allorché le cose andavano bene ad assolutamente inaccettabili per chi invece si trova nel bel mezzo di una guerra.

Anche se non vogliamo ammetterlo ufficialmente e ci appigliamo ad ogni bizantinismo disponibile per negarlo, è infatti l’Occidente, l’intero Occidente in tutte le sue componenti e non soltanto l’Ucraina, che sta combattendo contro la Russia in questo momento.

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Si tratta di un fatto di cui il nostro avversario si è reso pienamente conto, come ci ricordano ogni giorno le sue azioni sul terreno, le sue scelte in ambito internazionale ed infine le dichiarazioni, sempre in quel senso, dei suoi esponenti politici di rilievo.

Anche se Il Presidente Putin fosse pazzo – e non lo è – vi sarebbe sempre da riconoscergli una adamantina coerenza perlomeno nel mantenere questo atteggiamento.

Dall’altra parte invece noi abbiamo adottato un comportamento schizofrenico , tirando il sasso ma cercando nel contempo di nascondere la mano, forse sperando che il tutto possa alla fine risolversi in una limitata ” proxy war ” , vale a dire in uno scontro che si esaurisca entro i confini dell’unico stato della nostra parte per il momento direttamente coinvolto e comporti invece per la grande maggioranza di noi soltanto uno sforzo di supporto , che potrà magari rivelarsi molto oneroso sotto molti aspetti ma non ci costerà  mai quell’insieme di lutti, rovine e lacrime che produce un vero conflitto.

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È abbastanza logico che ciò avvenga, considerato come, sulla scia degli Stati Uniti, anche l’Europa avesse finito nei decenni successivi al crollo del Muro di Berlino con l ‘adottare progressivamente un sistema di confronto bellico che limitava il vero intervento dell’Occidente soltanto all’erogazione del fuoco e ad altri compiti connessi al suo elevato livello tecnologico, lasciando invece invariabilmente a sole forze locali il privilegio di scendere sul terreno, di combattere ….e di conseguenza di morire.

Così nella ex Jugoslavia ci siamo prima battuti contro i Serbi lasciando che fossero i Croati ad affrontarli da soli sul terreno, poi più a sud abbiamo utilizzato i Kosovari, ma curandoci bene di non mettere un solo “boot on the ground ” sino alla firma della tregua.

DONETSK REGION, UKRAINE - MAY 22, 2022: Servicemen of the People's Militia of the Donetsk People's Republic at a military vehicle in Mariupol which is controlled by the Donetsk People's Republic. Tension began to escalate in Donbass in February 2022. The Russian Armed Forces are conducting a special military operation in Ukraine following requests for assistance from the leaders of the Donetsk People's Republic and Lugansk People's Republic. Vladimir Gerdo/TASS Óêðàèíà. Äîíåöêàÿ îáëàñòü. Ìàðèóïîëü. Âîåííîñëóæàùèå Íàðîäíîé ìèëèöèè ÄÍÐ ó âîåííîé òåõíèêè. Â îòâåò íà îáðàùåíèå ðóêîâîäèòåëåé ðåñïóáëèê Äîíáàññà ñ ïðîñüáîé î ïîìîùè Âîîðóæåííûå ñèëû ÐÔ ïðîâîäÿò ñïåöèàëüíóþ âîåííóþ îïåðàöèþ íà Óêðàèíå. Âëàäèìèð Ãåðäî/ÒÀÑÑ

In Afghanistan infine l’onore di travolgere i talebani dopo gli attentati delle Torri Gemelle + stato lasciato ai  tagiki, agli uzbeki, agli hazara e alle altre minoranze della “Alleanza del Nord”, mentre la NATO ha scelto di entrare nel quadro soltanto in un momento decisamente successivo, allorché sembravano esistere  ragionevoli speranze di ricostruire il paese in tempi accettabili.

Questo significa che anche nel conflitto in atto  noi saremmo disposti a combattere ” sino all’ultimo soldato ucraino ” e non oltre?  Un timore che sempre più di frequente comincia a trasparire dai discorsi del Presidente Zelensky.

Probabilmente se potessimo lo faremmo e forse questa era l’idea iniziale di molti dei protagonisti coinvolti, ivi compresa una Italia che almeno a parole si incancrenisce in quel rifiuto della “guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali” sancito dalla nostra Costituzione al punto tale da rifiutare di rendersi conto di alcune delle realtà che ha vissuto o da camuffarle, se del caso, sotto circonlocuzioni giuridiche estremamente precise soltanto nel non dire nulla.

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Così siamo andati alla prima guerra del Golfo nel quadro di “una operazione di polizia internazionale condotta sotto l’egida delle Nazioni Unite per il ripristino della sovranità kuwaitiana”, mentre successivamente, prima nel caso del Kosovo, poi in quello della Libia, la parola “guerra ” non è stata mai pronunciata e almeno in una occasione il Governo Italiano è arrivato a negare anche un coinvolgimento delle nostre forze che in effetti invece era avvenuto.
Rifiutare di accettare di essere in realtà coinvolti in una grande guerra anche questa volta è molto più difficile, anche se forse non del tutto impossibile, almeno per qualche tempo ancora.

Sta comunque divenendo progressivamente sempre più chiaro come questo non sia solo un conflitto limitato che abbia come posta la definizione delle frontiere della Ucraina ma si configuri invece come l’inizio di un cambiamento epocale destinato a condizionare in maniera diversa da quella attuale i futuri equilibri di potere del mondo.
Come tale esso è uno scontro di giganti che assume sempre di più, giorno dopo giorno una configurazione in tal senso.

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Ricordate quali fossero sino a pochi anni fa i “rogue states”, ossia le nazioni considerate dall’Occidente come “Stati canaglia “?

Erano la Corea del Nord, l’Iran, lo Yemen, la Siria, la Libia, tutti paesi di limitato rilievo, con l’unica eccezione dell’Iran.  Ora, come indicato dagli USA e confermato di recente dal nuovo Concetto Strategico approvato a Madrid dalla Nato, sono invece la Russia, la Cina e un Iran cui pare riservato il privilegio di essere sempre presente in liste di questo genere.

Inoltre la guerra non è più soltanto quella di un tempo, vale a dire la guerra guerreggiata da combattere con il fucile in mano, l’elmetto in testa e le bombe a mano nel tascapane.

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Si tratta invece di un fenomeno ben più complesso, che va sotto il nome di “guerra ibrida ” ed investe tutti i settori in cui un attacco comunque condotto potrebbe indebolire l’avversario, anche soltanto potenziale.

Nel complesso si tratta di un tipo di Guerra in cui già da parecchio tempo la Russia si è scelta l’intero Occidente come avversario, scatenando offensive informatiche mirate, corrompendo, uccidendo, cercando di falsare i risultati di democratiche elezioni. Siamo in guerra da tempo dunque: una guerra non dichiarata ma nel contempo estremamente dura, guerra per la sopravvivenza ….quella guerra che con una visione ben più precisa della nostra il Santo Padre aveva da tempo individuata e definita come ” una guerra mondiale a pezzi”.

Come se ciò non bastasse da quando abbiamo iniziato a sostenere l’Ucraina fra noi e la Russia sono intercorsi una serie di atti che non sono certo stati di cortesia e che in altri tempi avrebbero costituito un preciso ed inequivocabile casus belli.

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Abbiamo deciso contro Mosca una pesantissima serie di sanzioni economiche? Non dimentichiamoci che anche se gli USA tendono a passare la cosa sotto silenzio l’attacco di Pearl Harbour altro non fu che la reazione di Tokyo ad analoghe sanzioni decise da Washington nei riguardi del Giappone.

Da tempo poi vi è un flusso continuo di armi, munizioni, materiali ed istruttori che parte dai nostri paesi ed è diretto in Ucraina. Per tacere poi dei volontari che vanno nella medesima direzione senza essere minimamente ostacolati … e c’è da chiedersi quanta parte del famoso “Battaglione Azov” fosse composta da cittadini dei nostri paesi.
Si aggiunga a questo una efficace, articolata ed onnipresente attività informativa che dal locale, al tattico ed allo strategico copre tutti i settori di interesse delle forze ucraine ed il quadro del nostro pressoché totale coinvolgimento diverrà completo.

Possiamo quindi ancora sostenere con un filo di logica di non essere in guerra? Di sicuro no, e sarebbe probabilmente bene che anche noi arrivassimo ad accettare in pieno questa scomoda verità. Se non altro per essere pronti domani ad affrontarne eventualmente le sgradite conseguenze!

Foto: Ministero della Difesa Ucraino, Ministero della Difesa Russo e TASS

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (seconda parte), di Andrea Gaspardo

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (seconda parte)

https://www.difesaonline.it/mondo-militare/analisi-sullandamento-della-guerra-ucraina-scenari-tattico-strategici-e-0?fbclid=IwAR3ytHcQ0KY1X0vOb5rC_1TLxvgmP6Im_rEgI_-o4L4anM1-0MgT5Wnvc5o

(di Andrea Gaspardo)
02/05/22

Abbiamo già parlato abbondantemente nella prima parte di questa analisi dell’Ucraina e della sua situazione; adesso è arrivato il momento di parlare della Russia.

Recentemente sì è parlato molto (forse anche a sproposito) del fatto che la guerra e le sanzioni internazionali stiano “dissanguando la Russia” e la stiano portando “al limite del collasso”. Non parlerò ora del regime sanzionatorio al quale la Russia è sottoposta al momento, rimandando tale analisi almeno fino alla fine di maggio quando assieme al mio collega Paolo Silvagni affronterò lo spinoso argomento con l’attenzione scientifica che merita ed una volta che una serie di trend macroeconomici diventeranno finalmente chiari. Una cosa però la posso già anticipare: il regime di sanzioni a cui la Russia è attualmente sottoposta è stato messo in piedi per “espellere la Russia dall’economia mondiale”, ma NON è studiato per avere effetti sull’andamento delle operazioni militari in corso. Tradotto in parole povere, qualsiasi cosa avvenga all’economia della Russia, il paese ha la capacità di proseguire lo sforzo bellico per 6-12 mesi se necessario, indipendentemente da tutto il resto.

In ogni caso, ripeto, le questioni economiche e finanziarie verranno trattate metodicamente al momento opportuno.

Venendo ora alla questione del “dissanguamento delle Forze Armate Russe”, questa è diventata una popolare teoria che circola nel mondo giornalistico e non solo dopo che è stata per la prima volta propagandata dal generale americano Frederick Benjamin “Ben” Hodges III in un’intervista con i media australiani. Originariamente Hodges era partito da una previsione assai più modesta (e corretta) in base alla quale le forze russe impegnate nell’offensiva attorno a Kiev stavano incontrando gravi problemi di approvvigionamento perché le loro linee logistiche non erano state adeguatamente predisposte per sostenere quello sforzo prolungato nel tempo. Tale “dettaglio” era già stato ampiamente notato dagli addetti ai lavori già dopo i primi 3 giorni di guerra, quindi ben prima che ne parlasse Hodges. Successivamente, il generale ha rincarato la dose ed ora parla apertamente (ma a dire la verità si trova in buona compagnia, come dimostra il caso del generale Camporini) di “collasso del sistema militare russo” preso nel suo complesso.

Ho già ampiamente parlato in tutta una serie di analisi dedicata alla guerra aerea che i russi non solo non stanno rallentando il ritmo delle loro operazioni aeree, ma lo stanno addirittura accelerando. Inoltre, in barba a tutti coloro che parlavano e continuano a parlare di “scarsità di missili e bombe intelligenti o meno”, la campagna di attacchi a mezzo di missili balistici e missili da crociera di tutti i tipi da parte della Russia sta continuando imperterrita, ed anzi più passa il tempo e più gli osservatori di mezzi militari riescono a notare come nuove versioni e tipologie di missili stiano venendo di volta in volta schierate dalle forze di Mosca a partire dall’analisi dei frame dei video reperibili in Internet così come dalle foto dei frammenti degli ordigni diffuse anche dai canali di informazione ucraini.

Tale stato di cose ha solo due spiegazioni razionali:

– ipotesi numero uno: i servizi d’intelligence occidentali e gli “esperti” vari ed eventuali hanno grandemente sottovalutato la consistenza numerica pregressa degli arsenali missilistici di Mosca;

– ipotesi numero due: la Russia ha una capacità produttiva in corso d’opera che le garantisce di ripianare passo passo gli arsenali che vengono “consumati”.

Personalmente io opto per l’ipotesi numero uno, dato che, probabilisticamente parlando, è la più realistica e non sarebbe nemmeno la prima volta che le agenzie di spionaggio occidentali sbagliano nel valutare la consistenza degli arsenali del Cremlino. Possiamo quindi già dire che, per lo meno nel settore aereo e missilistico, la previsione di Hodges non è al momento supportata dai fatti. Passando invece al fronte terrestre, che è la vera specialità di Hodges, essendo egli un generale dell’esercito, per valutare se veramente le Forze di Terra Russe siano al limite del collasso, bisogna necessariamente capire l’entità complessiva delle perdite sia umane che materiali che esse hanno subito e se il paese sia in grado di “sostenerle e sostituirle”.

Partiamo da alcune categorie di mezzi, in particolare quelli che rappresentano il pilastro centrale delle dottrine militari russe: i carri armati e l’artiglieria. Consultando le fonti aperte utilizzate dalla maggior parte dei mezzi di informazione e di disinformazione attivi nel contesto di questa guerra sappiamo per certo che, al momento della stesura di questo pezzo, le Forze Armate Russe e le Forze Unificate della Novorossiya hanno sicuramente (ma il numero reale è senza dubbio più alto) perso 584 carri armati (16 T-64, 357 T-72, 111 T-80, 18 T-90 e 82 carri di tipo non definito). Nonostante sulla carta queste sembrino perdite gravi, data l’enorme disponibilità di carri da parte delle Forze Armate Russe (si stima che la Russia possieda tra i 23.000 ed i 25.000 carri armati, ma alcune stime parlano addirittura di 33.700 (!), sia in servizio presso le unità di prima linea che immagazzinati in una delle molteplici basi che si trovano su tutto l’immenso territorio del paese), esse non possono certo essere definite “perdite debilitati” (stiamo parlando del 2,6-2,3% del totale, nel caso migliore, e del 1,7% nel caso peggiore). Non solo, oltre al gran numero di carri a disposizione nei magazzini, la Russia possiede anche delle formidabili strutture produttive che le garantirebbero di ripianare in un batter di ciglio le perdite subite.

Dall’Unione Sovietica, la Russia ha ereditato un possente complesso militar-industriale che, tra gli altri, conta 5 grandi fabbriche per la produzione di carri armati ed altri veicoli corazzati, centrate attorno al grande complesso di Uralvagonzavod, situato a Nizhny Tagil, nel centro della Russia. Sin dall’inizio della guerra, diverse agenzie di stampa hanno rilanciato più e più volte la notizia secondo la quale le fabbriche russe di carri armati avrebbero fermato la produzione a causa della mancanza di parti di ricambio. Prima di tutto, è necessario menzionare che a dare tale notizia per primi sono stati i servizi segreti di Kiev, e questo dovrebbe far automaticamente sorgere ben più di un sospetto. Secondariamente, la nozione che all’improvviso le fabbriche di carri armati si ritrovino senza parti di ricambio cozza sonoramente con quelle che sono consolidate politiche industriali e militari già di prassi in epoca sovietica e che la moderna Russia ha semplicemente continuato per inerzia.

Secondo la testimonianza di Jens Wehner, veterano carrista, direttore del “Panzermuseum” della Bundeswher e profondo conoscitore della Storia militare corazzata contemporanea: “La prassi consolidata dei russi è quella di mantenere presso le loro fabbriche scorte di materiali tali da poter garantire la prosecuzione dell’output produttivo per un intero anno anche in presenza di un blocco completo delle forniture. Ciascuna delle grandi fabbriche russe ha la capacità di produrre 800 carri armati T-72 alla settimana, che diventano 3.200 in un mese per un singolo stabilimento e 16.000 se contiamo il lavoro di tutti gli stabilimenti in caso di una situazione di guerra totale, e questo semplicemente rendendo più efficace l’organizzazione ordinaria dei due turni produttivi, senza nemmeno introdurre il terzo turno giornaliero come fu durante la Seconda Guerra Mondiale”. Ad una prima lettura tali cifre possono apparire esagerate tuttavia esse acquisiscono un loro senso per coloro che sono informati sulle prassi produttive che la Russia ha ereditato dall’Unione Sovietica e che prevedono, letteralmente, in situazioni di emergenza, di produrre in massa mezzi appartenenti a sottovarianti depotenziate (i cosiddetti “modelli scimmia”) che andrebbero poi ad equipaggiare le unità della riserva. In ogni caso torneremo su questo argomento così come sulle stime relative alla disponibilità delle riserve di equipaggiamenti russi in uno speciale addendum che verrà pubblicato in seguito.

Al momento ciò che stiamo assistendo, filtrando le notizie provenienti dalle retrovie russe, lascia intravvedere uno scenario nel quale le fabbriche russe hanno mantenuto un moderato regime produttivo sufficiente a ripianare la perdite subite mentre i tecnici ed i meccanici delle unità di deposito stanno lavorando alacremente in tutte le basi-deposito per rimettere in servizio i mezzi (non solo carri armati) immagazzinati laggiù.

Alcuni effetti di questa nuova tendenza si stanno già vedendo sul campo di battaglia. Nel corso dei recenti combattimenti nell’area del Donbass, gli ucraini sono riusciti a mettere fuori combattimento alcuni carri armati T-64 dello schieramento avversario. A prima vista sembrava che tali carri fossero dei mezzi ucraini (il T-64 infatti è il carro da battaglia più numeroso delle Forze Armate Ucraine) catturati nel corso dei combattimenti e poi utilizzati dalle Forze Unificate della Novorossiya (lo strumento militare congiunto delle cosiddette Repubblica Popolare di Lugansk e Repubblica Popolare di Donetsk) come è da prassi già dal 2014. Eppure ad un’ispezione più accurata gli armati di Kiev si sono resi conto che tali mezzi non fossero né ucraini né “separatisti” bensì russi! Analizzando i numeri di riconoscimento è infatti ben presto diventato palese che i T-64 in questione appartenevano ad una “unità deposito” situata nel territorio di Khabarovsk, nell’Estremo Oriente Russo, erano stati riattivati due settimane prima e successivamente trasferiti lungo la ferrovia Transiberiana fino all’oblast’ di Rostov dove erano stati assegnati ad una unità di riservisti appena richiamata alle armi. Non si deve però pensare che si tratti di un caso isolato, dato che, dagli inizi di aprile gli ucraini hanno segnalato un numero via via crescente di casi in cui le loro Forze Armate hanno distrutto o catturato mezzi russi provenienti dagli arsenali della riserva.

Abbiamo parlato fino ad ora dei carri armati, adesso è necessario dedicare un doveroso spazio alla “Regina dei Campi di Battaglia”: l’artiglieria.

Parlare di Storia militare russa equivale a parlare di artiglieria, dato che, sin dall’epoca di Pietro I il Grande, l’artiglieria russa si è rivelata sovente l’arma vincente per decidere il risultato finale delle battaglie. Sempre consultando le stesse fonti aperte che illustrano le perdite di materiale bellico sofferte dalle Forze Armate Russe e dalle Forze Unificate della Novorossiya, si nota che, nel settore delle “bocche da fuoco” di tutti i tipi (partendo dai mortai pesanti ed arrivando fino ai lanciarazzi multipli) quelle perse dagli armati del Cremlino assommano a 230 esemplari, il che non è nulla se consideriamo l’immensa dotazione di artiglieria sia in servizio attivo che in riserva che è a disposizione della Russia. Non solo infatti la Russia possiede complessivamente più “bocche da fuoco” di qualsiasi altro paese al mondo, ma addirittura surclassa tutti i possibili avversari in ogni singola categoria di “armi d’artiglieria”, non importa se si tratti di mortai pesanti, cannoni campali, cannoni anticarro, obici, semoventi, lanciarazzi multipli e chi più ne ha, più ne metta.

La pressoché totale assenza dell’artiglieria russa nei primi giorni di guerra (con l’eccezione del Primo Fronte, quello del Donbass) è stata uno dei grandi “misteri” di questa guerra che hanno affascinato gli analisti. Le spiegazioni più probabili per giustificare tale “mancanza” sono essenzialmente due:

– primo; come tutti gli esperti del variegato mondo dell’artiglieria possono confermare, un “treno d’artiglieria” composito e completo “appesantisce” enormemente le armate in movimento e questo non lo rende ideale per un’armata meccanizzata impegnata in una guerra lampo ad alta intensità come aveva immaginato Putin da principio;

– secondo; dato l’enorme potenziale distruttivo rappresentato da uno sbarramento d’artiglieria campale, è tutt’altro che peregrina l’ipotesi che, volendo inizialmente arrecare il minor danno possibile alle città ed alle infrastrutture dell’Ucraina, i russi abbiano deciso deliberatamente di non schierarla proprio per mantenere inizialmente basso il livello dello scontro anche al rischio di esporsi a loro volta all’artiglieria ucraina (che non è tanto dissimile da quella russa anche se, prevedibilmente, meno numerosa).

Ovviamente l’evoluzione successiva del conflitto ha fatto saltare tutti i parametri iniziali ed ora i russi non hanno più remore ad utilizzare la loro potenza di fuoco sia in campo aperto che contro le città ucraine che oramai sono state sovente attaccate dalle truppe russe utilizzando proprio l’artiglieria ed i mezzi corazzati.

In ogni caso, al momento le Forze Armate Russe non sono ancora in grado di mettere insieme le forze per un “colpo decisivo” in Ucraina, e questa è una delle ragioni del perché stiano optando per il proseguimento della corrente fase di guerra di logoramento.

Non bisogna però credere che questo stato di cose continuerà indefinitamente. Come già accennato precedentemente, ci sono tutte le ragioni per credere che gli obiettivi iniziali della Russia non siano affatto cambiati e che alla attuale “Fase 2” della guerra seguirà una “Fase 3”.

Le vere incognite a questo punto sono: capire quando questa fase scatterà e valutare il grado di preparazione dei contendenti quando l’evento si presenterà. Come tutti hanno visto, le Forze Armate Russe si sono ritirate dal nord e dal nord-est dell’Ucraina giù fino alla città di Kharkov e hanno riposizionato le truppe appartenenti alla “prima ondata d’attacco” nel Donbass e nel sud dell’Ucraina, tuttavia, in termini strategici questo non vuol dire assolutamente nulla.

È necessario qui porre infatti l’accento non tanto su ciò che sta avvenendo sulla linea del fronte, bensì su quanto avviene nelle retrovie. Prima di tutto, in Russia sta avvenendo una mobilitazione senza precedenti dei riservisti della quale c’è poca o nulla traccia nei nostri mezzi di informazione (ma anche in quelli russi, a dire la verità).

Ha fatto “sensazione” nei nostri media principali la notizia che, con un decreto presidenziale divenuto effettivo il 1 di aprile 2022, Putin abbia disposto l’arruolamento di 134.500 soldati di leva (la cosiddetta “leva di primavera”) i quali dovrebbero poi essere rincalzati da altri 134.500 che dovrebbero essere arruolati in ottobre (la cosiddetta “leva di autunno”) anche se in realtà tali provvedimenti rappresentano la norma.

Ciò che invece è completamente sfuggito ai “radar” della nostra informazione è invece il fatto che, parallelamente, le autorità di Mosca abbiano sospeso qualsiasi provvedimento di “smobilitazione” riguardante i coscritti arruolati durante le leve della primavera e dell’autunno 2021 (che avrebbero dovuto vedere la fine del loro anno di leva obbligatoria rispettivamente al termine di marzo ed alla fine di settembre di quest’anno) e che con i nuovi provvedimenti sono a tutti gli effetti “veterani soggetti al servizio in maniera indefinita e fino al nuovo ordine”. Non solo, a fianco della cancellazione dei provvedimenti di “smobilitazione”, le autorità russe hanno anche iniziato a richiamare in servizio i riservisti presi tra gli uomini di età compresa tra i 19 ed il 42 anni che hanno prestato servizio di leva o sotto contratto nei 15 anni precedenti. Tale mobilitazione non è stata annunciata a livello nazionale, ma sta venendo portata avanti dai vari commissariati militari a livello delle singole unità territoriali in cui è divisa la Federazione Russa.

A questo punto è necessario chiederci: quali sono le capacità di mobilitazione della Russia per quella che si prospetta come una lunga e sanguinosa guerra? La risposta in questo caso non è semplice.

Per prima cosa è necessario partire dicendo che, ad oggi, la popolazione della Russia assomma a 145,5 milioni di abitanti ai quali vanno aggiunti 11,6 milioni di immigrati che vivono stabilmente nel territorio russo, per un totale di 157,1 milioni di persone che costituiscono il “bacino demografico” di riferimento. La presenza della popolazione immigrata va specificata perché una legge approvata nel 2010 rende i cittadini stranieri residenti nel territorio russo passibili di arruolamento in caso di grave crisi nazionale. Inoltre essendo la stragrande maggioranza degli immigrati in terra russa provenienti dai paesi ex-sovietici, avendo una sufficiente padronanza della lingua russa ed avendo a loro volta prestato servizio militare di leva nelle Forze Armate Sovietiche oppure in quelle delle repubbliche ex-sovietiche (le quali sono sostanzialmente modellate sul modello di quelle russe), il loro assorbimento nei ranghi delle Forze Armate Russe non costituisce affatto un problema insormontabile.

Nel 2016, nel corso della crisi NATO-Russia immediatamente successiva all’abbattimento di un Su-24 russo sui cieli della Siria da parte delle Forze Aeree Turche, le Forze Armate Russe testarono per la prima e unica volta dalla fine della Guerra Fredda la loro capacità di mobilitazione complessiva nel caso di scoppio di un nuovo conflitto mondiale. Ne risultò che, in caso di un conflitto di larga scala, la Russia avrebbe potuto mobilitare 40.000.000 di uomini. Si convenne tuttavia che tale sforzo avrebbe potuto essere sostenuto solamente per pochissime settimane (probabilmente 1 mese o poco più) perché avrebbe irrimediabilmente comportato la paralisi dell’economia del paese pur avendo la Russia ampie riserve di armamenti tali da poter equipaggiare tutti i potenziali soldati (per creare un raffronto basterà ricordare che il numero totale di soldati che vennero arruolati nelle Forze Armate Sovietiche nel corso della Seconda Guerra Mondiale fu di 34.600.000 su una popolazione totale di 200 milioni di abitanti). Nella successiva riorganizzazione della riserva, i pianificatori del Cremlino decisero di considerare come potenziali riservisti tutti i maschi adulti che avessero svolto il periodo del servizio militare nei 15 anni precedenti; così facendo ridussero il bacino di arruolamento alla comunque ragguardevole cifra di 20.000.000 di uomini, che da allora è rimasta il riferimento ideale.

Dire però che la Russia sia pronta a mobilitare 20 milioni di uomini per la guerra in Ucraina è altrettanto irrealistico, e non solamente perché tale numero metterebbe comunque le risorse del paese sotto stress, ma anche perché l’organizzazione, il comando ed il controllo di una tale massa di armati risulterebbe a priori impossibile. Anche il questo caso può risultare utile un raffronto con la Seconda Guerra Mondiale:

– 22 giugno 1941: al momento dell’inizio dell’Operazione Barbarossa le Forze Armate Sovietiche avevano sotto le armi 5.500.000 soldati rincalzati da 12.000.000 di riservisti;

– 7 giugno 1942: alla vigilia dell’inizio dell’offensiva delle forze dell’Asse contro il Caucaso e Stalingrado, i sovietici potevano contare su 9.350.000 uomini sull’intero Fronte Orientale;

– 9 luglio 1943: al principio della battaglia di Kursk, le Forze Armate Sovietiche contavano in tutto 10.300.000 (il picco raggiunto dall’epoca dell’Operazione Barbarossa);

– 22 giugno 1944: alla vigilia dell’Operazione Bagration, nel corso della quale i tedeschi subirono la loro sconfitta decisiva per le sorti della guerra nel Fronte Orientale, i sovietici contavano 6.425.000 uomini;

– 1 gennaio 1945: all’inizio dell’offensiva finale contro il Terzo Reich, le Forze Armate Sovietiche contavano 6.532.000 uomini;

– 1 aprile 1945: al momento dell’inizio della battaglia di Berlino, i sovietici potevano contare complessivamente su 6.410.000 soldati in totale.

Dallo studio di questi dati si evince che, sebbene nell’immaginario popolare i russi (e/o i sovietici) siano noti per essere coloro che impiegano grandi eserciti, nondimeno anch’essi devono obbedire alla “tirannia della legge sul comando e controllo” in base alla quale l’impiego di una grande massa di soldati in assenza degli adeguati sistemi di comando e controllo rischia addirittura di essere controproducente.

A ben vedere, l’intera revisione della strategia di guerra russa dai primi di marzo fino ad ora ha a che fare proprio con questo: riorganizzare le forze presenti in Ucraina, accrescerle numericamente e dotarle della potenza di fuoco adeguata e supportarle con linee logistiche tarate in modo da consentire la riuscita della missione e “governare” l’intero processo in modo tale che lo strumento militare funzioni come una macchina ben oliata e non come un’accozzaglia raffazzonata di forze come è stato nel primissimo periodo di guerra. Il primo passo giusto in questa direzione è stata la nomina, l’8 di aprile, del generale Aleksandr Vladimirovich Dvornikov, comandante del Distretto Militare Meridionale ed in precedenza comandante in capo delle forze russe e siriane durante la Guerra Civile Siriana, a responsabile di tutte le operazioni in Ucraina. Tale nomina ha finalmente creato una linea di comando coerente ed una struttura “amministrativa” che può dirigere i movimenti delle truppe così come l’allocazione delle risorse. Parallelamente è accelerato in processo di mobilitazione delle riserve così come la riattivazione degli arsenali precedentemente posti in magazzino.

Non è chiaro esattamente quanto tempo ci vorrà ai russi per raccogliere tutte le forze delle quali avranno bisogno per condurre nuovamente un’offensiva di larga scala volta alla sottomissione dell’intera Ucraina. Nel periodo compreso tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, nel corso dell’Operazione Desert Shield (Scudo del Deserto), gli Stati Uniti e la Coalizione Internazionale necessitarono di 5 mesi per raccogliere la forza di 1.000.000 di uomini necessari a demolire le difese irachene nel corso dell’Operazione Desert Storm (Tempesta del Deserto).

Secondo diverse stime che mi trovano d’accordo, per infliggere un colpo da K.O. all’Ucraina, la Russia avrebbe bisogno di schierare una forza di 3.000.000-3.500.000 di uomini supportati dalla necessaria potenza di fuoco da impiegare un’unica volta per un’operazione di breve periodo oppure in scaglioni successivi per un tempo più lungo.

Contrariamente a quanto affermano i nostri mezzi di informazione (o di propaganda), sempre pronti a dipingere la Russia come “un paese allo stremo e sul punto si collassare”, la Russia sta effettivamente lavorando alacremente per raccogliere tali riserve. Un esempio in tal senso lo si ha monitorando l’attività dei velivoli da trasporto aereo.

Sin dall’inizio della Guerra Russo-Ucraina, sia i velivoli da trasporto della V-VS che quelli della MA-VMF (l’Aviazione della Marina) per complessivi 900 velivoli sono stati impegnati in un costante ponte aereo tra gli angoli più sperduti del paese e le basi situate in prossimità del fronte di guerra. Non solo, dato che le sanzioni occidentali hanno avuto l’effetto di provocare la messa a terra di un gran numero di velivoli di produzione occidentale in servizio presso le compagnie aeree russe per mancanza dei necessari certificati di idoneità al volo, tali velivoli sono stati puntualmente requisiti dalla V-VS per contribuire alle operazioni di trasporto. Inoltre, come segnalato sin dall’inizio della guerra dal mio contatto Vedetta 1 specializzato nel monitoraggio delle operazioni aeree ed esperto nel settore aeronautico, la Guerra Russo-Ucraina ha visto da parte russa anche la mobilitazione massiccia degli assets aerei della Rosgvardia, delle Guardie di Frontiera dell’FSB, dell’EMERCOM e persino dei 31 aerei facenti parte dello Squadrone Aereo Presidenziale.

Il ponte aereo non è l’unico strumento mediante il quale la Russia sta spostando uomini e mezzi dagli angolo più sperduti “dell’impero” fino alla linea de fronte. Il maggior sforzo infatti avviene via ferrovia, come da tradizione puramente russa; ed infatti lo scoppio della Guerra Russo-Ucraina ha coinciso con una mobilitazione senza precedenti delle Truppe Ferroviarie Russe, le quali sono entrate in azione persino in Ucraina con la missione di riparare il tracciato ferroviario locale martoriato nel corso dei combattimenti e portare i necessari rinforzi quanto più vicino possibile alla linea del fronte.

Molto attivo anche il trasporto su strada anche se un suo eccessivo utilizzo nella primissima fase della guerra ha provocato spaventosi ingorghi soprattutto lungo il tracciato stradale degli oblast’ russi prospicienti l’Ucraina, fatto questo che ha in parte contribuito al fallimento della “guerra-lampo” iniziale.

Un ultimo elemento che è necessario ricordare è che la presente Guerra Russo-Ucraina ha visto anche una mobilitazione massiccia delle forze paramilitari e di sicurezza interna della Russia come: la polizia, la Rosgvardia, gli OMON, i SOBR, le forze paramilitari dell’FSB, ecc… le quali sono state schierate in Ucraina con compiti operativi sia di controllo delle aree occupate che in supporto delle operazioni sia offensive che difensive delle Forze Armate impegnate sul terreno. Anche se tale segnalazione può sembrare ai più niente meno che una nota a piè pagina, in realtà il fatto che la leadership di Mosca abbia deciso di schierare pesantemente in Ucraina anche le proprie forze paramilitari e di sicurezza interna (truppe adattissime ai compiti di controllo del territorio e di lotta antiguerriglia) è in realtà in importantissimo segnale indicatore del fatto che i russi si aspettino un coinvolgimento in loco per molto tempo e di quali potrebbero essere i piani di lungo periodo del Cremlino per l’Ucraina.

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (prima parte)

Foto: MoD Fed. Russa

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (prima parte), di Andrea Gaspardo

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (prima parte)

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(di Andrea Gaspardo)
29/04/22

Dopo aver parlato abbondantemente nelle ultime analisi delle operazioni aeree, navali e terrestri avvenute sino ad ora nella Guerra Russo-Ucraina, chiudiamo la nostra serie riguardante questo aggiornamento sulla guerra in corso a oltre due mesi dal suo inizio parlando di alcune considerazioni di carattere tattico-strategico cercando inoltre di formulare degli scenari relativi a come la situazione potrebbe evolvere nel futuro per i due contendenti.

Alla luce degli eventi e delle rilevazioni fatte sul campo dall’inizio della guerra sino ad ora, possiamo dire che il piano originale di Putin, e quanto meno di una parte del suo establishment, fosse quello di ottenere una facile e rapida vittoria. Le direttive operative conseguentemente trasmesse alle Forze Armate Russe per la pianificazione dell’invasione presentavano degli scenari ottimistici che si sono rivelati assolutamente non corretti.

Globalmente, la strategia russa nella prima fase della guerra (grosso modo i primi 11 giorni di conflitto) che io avevo battezzato in maniera arbitraria “Sciame di Fuoco” prevedeva una sorta di riedizione in stile ancora maggiore della campagna “Shock and Awe” (traducibile come “Colpisci e Terrorizza”) con la quale gli Stati Uniti piegarono l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003.

Il risultato di questa prima fase del conflitto è stato decisamente in chiaroscuro. Se, da un lato, la Russia ha raggiunto un dominio totale sul fronte navale (al netto della perdita della nave da sbarco anfibio BDK-65 Saratov e dell’incrociatore Moskva che, al netto del danno d’immagine ed operativo, comunque non cambiano l’equilibrio di potere raggiunto nel Mar Nero) e la completa superiorità aerea, dall’altro le colonne corazzate e meccanizzate delle sue forze di terra non sono riuscite ad avere la meglio sui difensori ucraini che, nella maggior parte dei fronti, sono riusciti a contenere i russi applicando in maniera intelligente i dettami della dottrina militare sovietica denominata “lo scudo e la spada” che prevede di ingaggiare il nemico in battaglie d’arresto (possibilmente canalizzandone la spinta offensiva verso posizioni difensive già preparate) accompagnate da veloci contrattacchi da parte delle unità di manovra posizionate in riserva in modo da infliggere il maggiore danno possibile agli attaccanti.

Se la nozione che le Forze Armate Ucraine stiano applicando tattiche di guerra prese dai manuali ereditati dall’Unione Sovietica può sembrare strana di primo acchito, non bisogna dimenticare che oltre il 90% degli arsenali dell’Ucraina sono in effetti ereditati proprio dal periodo sovietico e la quasi totalità degli ufficiali che prestano servizio nelle Forze Armate ha iniziato la propria carriera nel corso del suddetto periodo sovietico o nei primi 22 anni di vita indipendente del paese, quando le dottrine militari sovietiche e russe erano le uniche ad essere insegnate ed assimilate.

Ciò che differenzia le Forze Armate Ucraine del 2022 da quelle del 2014 (che dimostrarono una resa operativa molto modesta) non è quindi né il materiale bellico né le dottrine militari impiegate, bensì il recupero della disciplina, dello spirito di corpo e dell’addestramento (in poche parole: “le basi” su cui si fonda qualsiasi istituzione militare!), tutti elementi che nel periodo tra il 1991 ed il 2014 erano stati lasciati letteralmente deperire.

Non è chiaro se questo processo di “trasformazione”, o per meglio dire di “recupero delle basi fondamentali”, sia passato inosservato agli occhi dell’intelligence russa. Di sicuro lo è stato agli occhi delle agenzie di intelligence e delle forze armate dei paesi occidentali i quali hanno continuato a produrre report molto critici sullo stato dello strumento militare di Kiev. Il tenore di alcuni di questi era giustificato, ma altri sono stati decisamente ingenerosi.

Dall’altro lato della barricata, la precisione con la quale la Russia ha condotto la sua campagna aerea e soprattutto missilistica, in particolare mettendo a segno una serie di colpi micidiali contro installazioni ucraine che, al momento di essere colpite, erano piene di soldati o di volontari stranieri, denota una eccellente presenza sul terreno di asset delle varie agenzie di spionaggio russe (SVR, FSB, GRU/GU) le quali hanno continuato a rifornire costantemente il Quartier Generale con un “fiume” di informazioni utili a continuare gli attacchi aerei e missilistici in maniera sostenuta.

Questa presenza massiccia delle agenzie di intelligence russe in terra ucraina cozza fragorosamente con la nozione secondo la quale gli “apparati” non fossero informati e non avessero il polso della reale situazione esistente all’interno del paese. Ecco perché l’autore della presente analisi ritiene (ma è una opinione personale al momento non supportata da alcuna evidenza “forte”) che i gravi errori commessi dalle Forze di Terra nella pianificazione e nella condotta delle operazioni iniziali siano da attribuire primariamente ad un fallimento nella capacità di analisi della leadership politica (Putin ed il suo circolo di più stretti collaboratori) che non alla negligenza degli altri “apparati”. Fatto sta che, a partire dal 1 di marzo, e mentre la fase “Sciame di Fuoco” della guerra era ancora in corso, le Forze Armate Russe avevano già iniziato il lungo e doloroso processo di svolta verso la seconda e la terza fase del conflitto.

La seconda fase della Guerra Russo-Ucraina, che qui battezzeremo “Operazione Pitone”, iniziata pressappoco all’indomani della prima settimana di marzo, e in realtà tutt’ora in corso, è stata ed è caratterizzata da una progressiva e crescente opera di “strangolamento” e distruzione della capacità dello stato ucraino sia di resistere a livello militare che di continuare a funzionale a livello economico-sociale.

L’entità dei danni provocati e la decisione da parte della leadership politica e militare di continuare la campagna in maniera protratta nel tempo spingono l’autore della presente analisi ad affermare che l’obiettivo iniziale della campagna di Putin, sostanzialmente quello di sottomettere l’intera Ucraina, non sia in realtà cambiato e la decisione di ritirare le truppe da alcune aree per concentrare l’azione offensiva nel Donbass e nell’area meridionale dell’Ucraina sia solo di natura “tattica e temporanea” ma che non sia per niente rivelatrice di un cambiamento negli orientamenti strategici di fondo da parte di Mosca.

A questo punto, dopo oltre sessanta giorni di guerra è necessario chiederci esattamente: che cosa è rimasto dell’Ucraina? Perché proprio a partire dalla risposta a tale domanda possiamo poi capire quali eventuali possibilità di resistenza sono rimaste al paese azzurro-giallo al di là del successo della strategia difensiva portata avanti sino ad ora e che, a modesto avviso dello scrivente, a questo ritmo non è sostenibile nel lungo periodo.

Secondo i dati ufficiali diffusi quasi tre settimane fa del Ministro delle Finanze della Repubblica d’Ucraina, Sergey Mikhailovich Marchenko, e a me comunicati dal mio collega Paolo Silvagni:

– il deficit dello stato ucraino per il mese di marzo è stato di 2,7 miliardi di dollari;

– il deficit stimato per i mesi di aprile e maggio dovrebbe aggirarsi tra i 5 ed i 7 miliardi di dollari;

– il 30% delle aziende ucraine ha completamente cessato qualsiasi attività;

– i danni fino ad ora accertati alle infrastrutture civili e militari ammontano a 270 miliardi di dollari;

– le perdite totali accertate sofferte dall’economia ucraina dall’inizio del conflitto assommano a 600 miliardi di dollari (una cifra superiore al valore del PIL a parità di potere d’acquisto dell’Ucraina per l’anno 2021 come da me segnalato nella mia passata “Analisi della delicatissima situazione economico-sociale dell’Ucraina”!);

– i danni al patrimonio edilizio viaggiano ormai verso quota 1 trilione di dollari;

– è stato fino ad ora distrutto il 27% di tutto il sistema viario del paese (strade, autostrade, ferrovie);

– dall’inizio del conflitto le importazioni sono calate di 2/3 mentre le esportazioni si sono dimezzate;

– il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Unione Europea hanno approvato prestiti eccezionali per 5,6 miliardi di dollari sufficienti solamente a prolungare l’agonia.

Questi agghiaccianti dati economici vanno letti in contemporanea ai dati socio-demografici forniti tanto dal governo ucraino quanto dalle principali organizzazioni internazionali come l’UNICEF:

– fino ad ora la guerra ha provocato oltre 13 milioni di sfollati sia all’interno che all’esterno del paese;

– quasi 5,5 milioni di ucraini (per la quasi totalità donne e bambini al di sotto dei 18 anni) sono già profughi all’estero ed il numero cresce costantemente di 100.000 unità ogni singolo giorno;

– circa 4,8 milioni di bambini ucraini (2/3 del totale) sono sfollati dalle loro case e 1,8 milioni hanno già dovuto abbandonare il paese;

– secondo le proiezioni più realistiche, entro i primi di giugno il numero di profughi ucraini all’estero rischia di raggiungere gli 10 milioni;

– alcune proiezioni per il momento definibili come “catastrofiste”, ma niente affatto da sottovalutare, parlano della possibilità che, qualora il conflitto si protragga per altri 6/7 mesi, esso possa causare la morte di fino a 3 milioni di ucraini (per la stragrande maggioranza uomini) e la fuga di altri 20 milioni o più.

Questi dati, agghiaccianti tanto quanto quelli economici, devono essere valutati in rapporto alla popolazione dell’Ucraina la quale (con l’esclusione della Crimea e del Donbass, ma senza considerare i dati della diaspora) alla vigilia delle ostilità era stimata in 37,5 milioni di abitanti. Si capisce quindi che, anche nell’ipotesi (a mio avviso remota) di una “vittoria militare”, c’è il pericolo reale che l’Ucraina diventi in ogni caso un “not viable state”, cioè uno “stato non sostenibile” (o per meglio dire: uno stato non in grado di sostenersi da solo).

Questi dati economico-finanziari e socio-demografici devono essere tenuti ben presenti dalla leadership di Kiev, e dal presidente Zelensky in particolare in quanto comandante in capo, quando si tratta di prendere decisioni fondamentali per il futuro e la sopravvivenza non solamente “politica” ma financo “fisica” del popolo e dello stato ucraino. Dopo aver presentato questi dati nudi e crudi che fotografano, per così dire, il “termometro” del precipitare della situazione del paese cerchiamo ora di valutare le capacità di resistenza dell’Ucraina. Come descritto già in passato in altre analisi, alla vigilia dell’esplosione del conflitto, le capacità di mobilitazione di tutte le forze militari e paramilitari dell’Ucraina erano di circa 1.610.000 uomini così divisi:

– Forze Armate: 250.000 soldati più 900.000 riservisti;

– Guardia Nazionale: 50.000 uomini;

– Guardia di Frontiera: 50.000 uomini;

– Servizio di Emergenza dello Stato: 60.000 uomini;

– forze paramilitari del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina, SBU: 30.000 uomini;

– Polizia Nazionale: 130.000 poliziotti;

– Forze di Difesa Territoriali: 10.000 uomini in servizio attivo più 130.000 volontari.

Nonostante tale apparentemente mastodontica cifra, pare che gli ucraini abbiano già superato (per bocca dello stesso presidente Zelensky e del ministro della difesa Reznikov) la soglia di mobilitazione sopra riportata, e che sia proprio questa la ragione per la quale, in base alle normative della “direttiva sulla mobilitazione generale e la legge marziale”, a tutti gli uomini di età compresa tra i 18 ed i 60 anni (con alcune limitate eccezioni) è in questo momento vietato lasciare il paese. Dobbiamo però capire una cosa; anche se l’Ucraina riuscisse a mobilitare ulteriori risorse umane oltre a quelle menzionate di sopra, ciò non vuole dire che esse possano avere un impatto reale sulla situazione a livello tattico, pur conservando una certa valenza a livello strategico.

Che cosa significa questo pensiero? Molto semplicemente che, al di là dei numeri sulla carta, la capacità da parte di un paese di utilizzare al meglio le sue riserve sia umane che materiali nel corso di un conflitto dipende dal fatto che esse siano state o meno organizzate in unità coerenti già in tempo di pace, in modo che tali unità possano poi essere tempestivamente attivate in tempo di guerra per far sentire da subito la propria presenza già dai primi “scambi convenzionali” sul terreno.

Nel caso ucraino, l’insieme delle forze sopra elencate rappresenta il totale di truppe sia di prima linea che di riserva organizzate in modo tale da poter essere schierate da subito o in tempi ragionevolmente contenuti sulla linea del fronte. Tuttavia, per mobilitare ogni ulteriore scaglione di riserve oltre a quelle già menzionate, l’Ucraina si troverebbe in difficoltà perché dovrebbe innanzi tutto organizzare i nuovi combattenti in unità funzionali al tipo di operazioni alle quali verranno destinati. Secondariamente, tali unità dovrebbero poi essere sottoposte ad un soddisfacente processo di addestramento e familiarizzazione con i nuovi sistemi d’arma e le procedure operative. Solo dopo aver superato questo iter (che può richiedere settimane o addirittura mesi) le nuove unità militari possono essere dispiegate sulla linea del fronte. Purtroppo per gli ucraini, tale orizzonte temporale rappresenta letteralmente “un lusso” che non si possono permettere, e la cosa triste è che l’opposto non costituisce un’opzione dato che, come la Storia insegna, mandare al fronte in fretta e furia delle unità raffazzonate all’uopo (anche quando siano ben equipaggiate!) senza un addestramento e un’organizzazione coerente significa letteralmente utilizzare le proprie risorse umane come carne da macello.

Osservando il modus operandi delle Forze Armate Ucraine dall’inizio della guerra fino ad ora, ponendo particolare attenzione alle rotazioni alle quali sono sottoposte le brigate (41 in totale) che costituiscono i veri elementi di manovra delle Forze di Terra di Kiev, si capisce che gli ucraini hanno adottato la tattica di mantenere quanto più a lungo possibile tali unità sulla linea del fronte in modo da poter ottenere la maggiore resa operativa possibile pena l’inevitabile logoramento e la crescita delle perdite. Quando il logoramento di tali unità raggiunge la soglia del 70%, al punto da diventare tatticamente inservibili, esse vengono ritirate dal campo di battaglia e l’ossatura costituita dai veterani dei precedenti scontri viene rimpolpata dai “riservisti addizionali” i quali vengono molto rapidamente istruiti ed “acclimatati” alla loro nuova missione dai veterani superstiti che in tal modo li preparano. Quando questo processo viene ritenuto completato (e nell’Ucraina odierna questo significa letteralmente in una manciata di giorni!) le unità vengono nuovamente inviate al fronte, e la giostra continua. Ecco dunque che gli uomini appartenenti alle grandi riserve addizionali non raggruppati in unità pre-organizzate finiscono semplicemente per fungere da serbatoio di reclutamento per le unità già esistenti garantendo ad esse di continuare a combattere indefinitamente (o per lo meno, finché ci sono riserve da gettare in battaglia!), ma questo sacrifica la possibilità che tutti questi riservisti possano creare delle nuove unità ex-novo. Ecco dunque che le, sulla carta, vaste riserve di uomini delle quali Kiev dispone hanno una valenza più che altro strategica e non tattica.

Lo stesso discorso lo si può fare per quanto riguarda gli armamenti, in particolare le forniture provenienti dai paesi occidentali. Nonostante una propaganda occidentale che a tratti potremmo definire “martellante” (per usare un eufemismo), l’Ucraina ha fino ad ora combattuto la guerra ed ottenuto i risultati sul campo largamente grazie ai “mezzi propri”. Gli arsenali a disposizione di Kiev si dividono essenzialmente in 3 tipologie:

– quelli ereditati dal periodo sovietico (90%);

– quelli acquistati all’estero o prodotti dalle industrie nazionali negli ultimi 8 anni di crisi (9%);

– le nuove forniture ottenute soprattutto dall’Occidente subito prima e nel corso del presente conflitto (1%).

Nonostante da subito i russi abbiano pesantemente bombardato le basi militari ed i siti di stoccaggio ucraini con i missili balistici, i missili da crociera e con le loro Forze Aeree, gli ucraini sono stati comunque in grado di salvare una parte dei loro arsenali ed imbastire una campagna difensiva molto efficace (al netto dei macroscopici errori commessi dai loro nemici). Tuttavia le scorte di armi non sono infinite e già oggi siamo in possesso di ampio materiale fotografico che testimonia come le autorità kieviane stiano distribuendo ai riservisti anche grandi quantità di materiale risalente addirittura alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto nel campo delle armi leggere per la fanteria.

Particolarmente delicata è poi la questione dei mezzi pesanti, come i carri armati. Ufficialmente le Forze Armate Ucraine hanno iniziato il conflitto avendo circa 4000 carri armati a loro disposizione, ma i numeri effettivi in servizio erano assai più bassi tanto da far dire alla maggior parte degli analisti che essi si aggirassero attorno ai 1000.

Da quando la campagna di bombardamento aereo da parte dei velivoli di Mosca ha cominciato ad assumere i contorni di una vera e propria “guerra d’annientamento”, gli ucraini hanno progressivamente visto demolite le loro industrie del comparto della Difesa una dietro l’altra e questo (unito alla distruzione dei depositi di carburante, sui quali si sono concentrate le attenzioni russe nelle ultime settimane) sta già avendo gravi effetti sulle capacità di manutenzione e riparazione dei mezzi danneggiati così come sulla mobilità in generale delle principali unità di manovra ucraine.

Gli ucraini hanno dato prova di caparbietà ed ingenuità e, spinti dalla contingenza, hanno preso di petto il problema decidendo saggiamente di rimettere in servizio quanti più mezzi possibili tra quelli catturati ai russi, ma come è facile capire, questo è un palliativo buono per il breve periodo (e comunque i russi ed i donbassiani stanno facendo la stessa identica cosa!).

Non molto tempo fa la Ministra degli Affari Esteri della Repubblica Federale di Germania, Annalena Baerbock, aveva annunciato che la Germania era pronta a fornire a Kiev l’equivalente di 500 milioni di dollari di aiuti. Ebbene, ad un’attenta analisi della situazione sul terreno si nota che 500 milioni di dollari ammonta al totale che Kiev deve spendere ogni giorno solamente per soddisfare le necessità relative al munizionamento.

È stato calcolato che per ottenere risultati decisivi sul terreno l’Ucraina dovrebbe ricevere seduta stante oltre 100 miliardi di dollari di armamenti, soprattutto pesanti, per riuscire ad infliggere ai russi perdite debilitati, ma è facile capire che tale programma di aiuti è semplicemente insostenibile.

La scelta da parte degli Stati Uniti e di molti loro alleati occidentali di fornire agli ucraini numeri importanti di armi appartenenti a particolari categorie come i missili anticarro FGM-148 Javelin e NLAW ed i missili antiaerei spalleggiati FIM-92 Stinger e Piorun, più altre armi destinate generalmente alla fanteria, avrebbe senso nel caso ci trovassimo in una situazione di conflitto a bassa intensità di durata decennale come fu la Guerra Sovietica in Afghanistan, ma la fattispecie in questione è completamente diversa dato che la Guerra Russo-Ucraina è in realtà un grande conflitto convenzionale tra paesi stile Seconda Guerra Mondiale ed ogni raffronto con i conflitti avvenuti dal 1945 ad oggi ha poco o niente senso.

In questo scenario ciò che bisogna fare è valutare la potenza di fuoco complessiva, le capacità dei contendenti di rigenerare riserve sia tattiche che strategiche di uomini e materiali, la resilienza dei sistemi economico-finanziari, la determinazione delle opposte popolazioni e leadership di combattere fino in fondo per raggiungere i propri obiettivi irrinunciabili.

Per quanto riguarda l’Ucraina, la leadership politica del paese, rappresentata dal presidente Zelensky pare si sia decisamente orientata verso la soluzione militare del conflitto ed in questo è sostenuta da praticamente tutto lo spettro politico e da una larga fetta della popolazione (a quanto però ammonti questa percentuale, non è dato saperlo con precisione assoluta dato che esistono segnali contrastanti provenienti dall’interno dell’Ucraina così come dalle comunità della diaspora). Tuttavia il fervore nazionalista dimostrato dagli ucraini fino a questo momento rischia di ritorcersi contro gli ucraini stessi nel caso essi trascinino la Russia in una guerra di logoramento che essi non hanno alcuna possibilità di vincere sacrificando al contempo la possibilità di negoziare una pace, o quanto meno un armistizio, che gli consentirebbe di conservare delle leve spendibili per il futuro.

Come raccontano i dati esposti sopra in maniera inequivocabile, sotto la pressione armata russa, l’Ucraina sta andando rapidamente incontro ad un processo di violenta destrutturazione tanto dell’economia quanto della società tutta. Le Forze Armate e le varie altre istituzioni preposte alla difesa del paese che io ho menzionato di sopra possono anche decidere di combattere ad oltranza ma, ad un certo punto, la loro resistenza diventerà insostenibile se il paese nella sua complessità non è più in grado di sostenere i costi della guerra).

Anche in tempo di guerra l’economia deve poter continuare ad operare (seppure a “scartamento ridotto”) ma se ciò diventa materialmente impossibile allora ad un certo punto tutto ciò che sarà rimasto da fare alla popolazione civile ucraina sarà di fare tutto ciò che è possibile per sfamarsi. Quello sarà precisamente il momento nel quale l’Ucraina vedrà seriamente compromessa la sua capacità di resistere.

Probabilmente a Washington si sono accorti di tutti ciò, ed è per questo che il presidente Biden sta ora facendo pressione sul Congresso affinchè venga approvato un piano di aiuti sia militari che economici all’Ucraina pari a 33,1 miliardi di dollari. È assai probabile che, infine, tale piano verrà approvato, tuttavia anche questa apparente “ondata di vita” non riuscirà affatto a cambiare il trend che, ogni giorno che passa, fa intravvedere all’orizzonte scenari cupi per il futuro dell’Ucraina.

Analisi sull’andamento della guerra in Ucraina: scenari tattico-strategici e considerazioni generali (seconda parte

Vincitori e vinti nella guerra in Ucraina, di Gianandrea Gaiani

Vincitori e vinti nella guerra in Ucraina

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In attesa di sviluppi militari e diplomatici che definiscano il possibile esito del conflitto tra russi e ucraini, è forse possibile evidenziare chi siano già oggi gli sconfitti e i vincitori nella guerra iniziata in Ucraina nel 2014 ma allargatasi a uno scontro convenzionale su vasta scala a partire dal 24 febbraio 2022.

Il tema verrà sviluppato presto in modo più analitico e organico ma pare evidente che gli sconfitti siano almeno tre:

  • l’Ucraina che uscirà in ogni caso devastata e probabilmente divisa dal conflitto, col rischio di subire pesanti condizioni di pace o perdite territoriali oltre ai gravi danni economici, umani e materiali.
  • la Russia che al di là dei possibili successi militari verrà forse a lungo emarginata dall’Occidente, tagliata fuori da quell’Europa a cui appartiene, sottoposta a sanzioni e costretta a guardare all’Asia dove l’attende il poco tranquillizzante abbraccio della Cina
  • l’Europa, costretta a fare i conti con la propria incapacità e irrilevanza geopolitica, con la pochezza della sua classe dirigente e con una disastrosa, devastante crisi economica ed energetica generata dalla sua stessa insipienza e dall’aver colpevolmente lasciato agli Stati Uniti (proprio come fece negli anni ’90 con la crisi in ex Jugoslavia) la gestione della sua sicurezza.

I vincitori assoluti di questa guerra sembrano quindi essere inevitabilmente Cina e Stati Uniti: i primi costituiscono una rilevante ancora di salvezza per la Russia non solo perché sono e saranno ancor di più grandi acquirenti del suo gas ma perché l’impoverimento e indebolimento russo aumenterà presumibilmente il peso di Pechino in Asia e nell’Indo-Pacifico.

Family photo - Extraordinary Summit of NATO Heads of State and Government

I secondi sono tornati a dominare un’Europa che, da tempo prima potenza economica del mondo in termini di PIL, sembrava voler trovare una propria dimensione strategica e militare indipendente da Washington.

Inoltre, l’impoverimento dell’Europa che a causa del caro-energia vedrà i suoi prodotti perdere competitività sui mercati globali, favorirà soprattutto Washington e Pechino, rispettivamente seconda e terza potenze economiche mondiali.

Sul piano militare è difficile non notare che se dall’estate scorsa la “difesa europea” era tornato in auge sull’onda dell’umiliante sconfitta in Afghanistan incentrata sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti, oggi si parla di “forze armate europee” complementari o addirittura integrate alla NATO.

Certo la paura (dei russi) “fa 90” in nazioni europee in cui il concetto di guerra era stato ormai rimosso e dimenticato ma è evidente che uno strumento militare della Ue, ammesso che possa un giorno concretizzarsi, avrà un senso solo se ci renderà autonomi dagli USA. Se le due guerre mondiali hanno fatto perdere all’Europa la predominanza strategica e coloniale sul mondo, la guerra in Ucraina rischia di togliere al Vecchio Continente anche la supremazia economica faticosamente riconquistata negli ultimi decenni.

La forte convergenza di vedute circa la guerra in Ucraina tra Stati Uniti ed Europa emersa nei recenti vertici di Bruxelles della NATO e del Consiglio d’Europa avrebbe dovuto far sorgere qualche interrogativo poiché gli interessi, a cominciare da quelli energetici e geopolitici, dell’Europa divergono in modo evidente da quelli di Washington.

A minare questa fittizia unità di intenti tra USA ed Europa hanno provveduto le ultime gaffes (ma saranno davvero tali?), del presidente statunitense Joe Biden.

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“Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere”, ha detto Biden in Polonia, poche ore dopo aver accusato il presidente russo di essere “un macellaio”.

Possibile ma improbabile che sia stato ispirato da quel ministro europeo che aveva definito Putin “l’animale più atroce” anche se le frasi di Biden hanno avuto un’ampia eco costringendo molti in Occidente a rettificare o prendere le distanze.

Un portavoce della Casa Bianca ha specificato che il presidente non si riferiva al potere di Putin in Russia ma al potere che il presidente russo vuole esercitare sui paesi vicini e il segretario di Stato Anthony Blinken ha precisato che Washington non ha un piano per il cambio di regime a Mosca.

Rettifiche poco efficaci che non sono riuscite a fugare la sensazione di una profonda inadeguatezza del presidente degli Stati Uniti che tratta Putin come si trattasse di un Saddam Hussein, un Muhammar Gheddafi o un Bashar Assad da togliere rapidamente di mezzo.

Samuel Charap, esperto di Russia presso la Rand Corporation ritiene che le dichiarazioni di Biden esasperino in Russia “la percezione delle minacce esistenti relativamente alle intenzioni americane. I russi potrebbero essere molto più inclini a compiere gesti ostili come risposta, anche più di quanto già non siano”.

Citando ex funzionari e analisti, il Washington Post ha sottolineato come le parole di Biden pongano gravi implicazioni sulla capacità degli USA di contribuire a mettere fine alla guerra o di impedirne l’ampliamento. Ma soprattutto occorre chiedersi se la fine delle ostilità il più presto possibile sia un obiettivo che Washington (e con lei Londra) intenda perseguire.

Sono infatti troppe le affermazioni fuori luogo di Biden nei confronti di Putin (definito nelle scorse settimane anche “un assassino” e “un criminale di guerra”) per considerarle semplici e frequenti cadute di stile, inopportune ma non intenzionali.

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Impossibile non notare che tali dichiarazioni sembrano avere l’obiettivo di irrigidire Mosca allontanando l’avvio di negoziati concreti e rischiando di determinare un’accelerazione o un ampliamento di un conflitto che minaccia di travolgere l’Europa.

Difficile credere sia un caso, specie dopo le polemiche degli ultimi giorni scatenate dalle parole di Biden, che oggi è tornato a definire Vladimir Putin dal suo account Twitter personale “un dittatore deciso a ricostruire un impero”. Guarda caso l’esternazione è giunta poche ore dopo l’annuncio che i colloqui tra russi e ucraini in Turchia hanno fatto emergere uno schema di intesa su cui continuare le trattative ma che già prevede una riduzione delle operazioni militari russe nel settore di Kiev, dove le forze di Mosca hanno assunto già da alcuni giorni un assetto difensivo.

Poche ore prima del tweet, in una conferenza stampa, Biden aveva chiarito che i suoi commenti sul leader del Cremlino sono “personali”.

Affermazione forse ancor più imbarazzante degli insulti che Biden ha riservato a Putin ma del resto una guerra prolungata in Ucraina sembra essere negli interessi di Washington che vedrebbe logorarsi la Russia e indebolirsi rapidamente l’Europa, rivale economico e commerciale (a oggi l’angolo più ricco del mondo in termini di PIL) a cui già nel 2014, dopo il golpe del Maidan, Barack Obama (di cui Biden era vice) chiedeva di rinunciare al gas russo sicuro e a buon mercato per acquistare quello statunitense, da fornire liquefatto via nave, in misura insufficiente e a costi ben più alti.

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A Washington si parla ormai apertamente di un duello in atto nell’Amministrazione che vedrebbe da una parte Casa Bianca e Dipartimento di Stato puntare a rafforzare la sfida militare e le provocazioni a Mosca e dall’altro il Pentagono impegnato a smorzare i toni bellicosi, impedendo (finora) che alle armi antiaeree e anticarro fornite alle truppe di Kiev si aggiungessero aerei da combattimento, carri armati e artiglierie.

Negli Stati Uniti la guerra in Ucraina ha fatto precipitare ancora più basso la popolarità di Biden, che vede oggi appena il 40 per cento degli americani approvare il suo operato contro il 55 per cento che lo disapprova.

Un sondaggio pubblicato da NBC News registra come sette americani su 10 abbiano poca fiducia nella capacità del presidente di gestire il conflitto. Ed un numero ancora maggiore, otto su dieci, temono che la guerra provochi l’aumento dei prezzi energetici e addirittura possa portare ad un coinvolgimento delle armi nucleari. E il sondaggio è stato condotto tra il 18 ed il 22 marzo, quindi prima del viaggio di Biden in Europa e delle ultime dichiarazioni che tante polemiche hanno suscitato.

In Europa il primo a “tirare le orecchie” a Biden, affermando di non ritenere Putin un macellaio, è stato il presidente francese Emmanuel Macron, sempre più a disagio di fronte alle dichiarazioni aggressive che Washington dispensa pubblicamente ogni volta che sembra aprirsi la possibilità di negoziati concreti tra i belligeranti.

“Non è il momento di alimentare un’escalation ne’ di parole ne’ di azioni”, ha ammonito Macron che punta a un nuovo incontro con Putin per dare un ruolo alla Francia e all’Europa nelle trattative.

“Non stiamo cercando un cambio di regime, spetta ai cittadini russi decidere se lo vogliano o meno”, ha dichiarato l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell (nella foto sotto): “Quello che vogliamo è impedire che l’aggressione continui e fermare la guerra di Putin contro l’Ucraina”.

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Persino l’alleato NATO più fedele, la Gran Bretagna, ha preso le distanze da Biden con il ministro dell’Istruzione Nadhim Zahawi mentre il loquace Boris Johnson questa volta non ha speso una sola parola sulle affermazioni sopra le righe del presidente americano.

Ad Ankara anche Recep Tayyp Erdogan ha mostrato insofferenze per le parole di Biden. “Se tutti bruciano i ponti con la Russia, chi parlerà con loro alla fine?”.

Nonostante le critiche diffuse la politica della Casa Bianca difficilmente cambierà rotta a conferma della divergenza di interessi che separa ormai da tempo gli USA dall’Europa e della pochezza di una Ue che invece di assumere iniziative per risolvere la guerra in Ucraina (cominciata otto anni or sono non un mese fa), ha preferito lasciarsi “commissariare” dagli USA nella tutela dei suoi interessi strategici.

La presenza di Biden al Consiglio d’Europa (organismo da cui è stata appena estromessa la Russia) non è apparsa come la cortesia che una grande potenza accorda a un ospite di riguardo ma un omaggio a chi è venuto da oltreoceano per dettare termini e condizioni del nostro vassallaggio, con tutte le relative conseguenze sul piano politico, strategico, economico e energetico.

https://www.analisidifesa.it/2022/03/vincitori-e-vinti-nella-guerra-in-ucraina/

Escalation tra Russia e Ucraina di Mirko Molteni

Escalation tra Russia e Ucraina: Putin riconosce i secessionisti di Donetsk e Lugansk

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Dopo mesi di tensione crescente sui confini fra Russia, Bielorussia e Ucraina, l’annuncio il 15 febbraio 2022 di un parziale ritiro dell’imponente schieramento russo, che avrebbe toccato, fino a quel momento, una punta massima di 147.000 soldati in posizioni avanzate (entro 300 chilometri dai confini ucraini), sembrava aver aperto la prima concreta possibilità di calo della tensione, almeno nel breve periodo.

Ma la sera del 21 febbraio il presidente russo Vladimir Putin ha infine rotto gli indugi, dopo essersi consultato col Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, decidendo di riconoscere le due repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk.

Il discorso di Putin si è caratterizzato anzitutto per l’attacco frontale all’intera classe dirigente ucraina, rea ai suoi occhi di aver fatto diventare il paese una sorta di colonia della NATO: “Gli ucraini” sono dominati da oligarchi interessati solo ai loro soldi e alle loro aziende, nonché a dividere l’Ucraina dalla Russia. Hanno sfruttato lo sconforto dei cittadini e sono arrivati a un colpo di stato, col sostegno da parte degli Stati Uniti, grazie a milioni di dollari al giorno. C’è stata una corruzione dilagante e gli ucraini si sono trovati a essere marionette”.

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Il pericolo strategico per la Russia è enorme e Putin ha ricordato una presenza militare della NATO in Ucraina sotto traccia, ma probabilmente non sfuggita all’intelligence dell’FSB e dell’SVR.

“In Ucraina le armi occidentali sono arrivate con un flusso continuo, ci sono esercitazioni militari regolari nell’ovest dell’Ucraina, l’obiettivo è colpire la Russia. Le truppe della NATO stanno prendendo parte a queste esercitazioni, almeno 10 sono in corso, e i contingenti NATO in Ucraina potrebbero crescere rapidamente. I sistemi di comando delle truppe ucraine sono già integrati con la Nato e l’Alleanza ha iniziato a sfruttare il territorio ucraino con infrastrutture missilistiche”.

Teme che anche in Ucraina sorgano basi come quella di Deveselu in Romania e quella di Redzikowo in Polonia, da cui gli americani possano lanciare a sorpresa missili Tomahawk o anche di nuovo tipo, come i Lockheed PRSM a medio raggio: “L’installazione di missili balistici in Ucraina sarebbe una minaccia contro la Russia europea e gli Urali. I missili Tomahawk possono raggiungere Mosca in 35 minuti, i missili balistici in 7 minuti ed i missili ipersonici in 4 minuti. E’ un coltello alla gola della Russia.

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Hanno cercato di tranquillizzarci dicendo che ci vorrà tempo. Sono stati condotti negoziati ma è scritto in molti documenti ufficiali che la Russia è il nemico numero uno dell’Alleanza Atlantica”.

Così ha parlato chiaro l’uomo del Cremlino, dopo che per settimane ha visto gli Stati Uniti e gli alleati europei della NATO glissare, in sostanza, su precise richieste di sicurezza a cui Mosca vorrebbe dare forma scritta per assicurare una stabilità di lungo periodo che l’Occidente vuole soltanto alle sue condizioni, negando parità negoziale alla controparte.

E ponendo così semi di discordia. Le questioni principali sono rimaste sul tappeto, poiché Stati Uniti e alleati non hanno di fatto tenuto conto finora di nessuna delle preoccupazioni della Russia per la propria sicurezza, per le quali il Cremlino aspira ad arrivare a un trattato scritto. Inoltre, il presidente americano Joe Biden, ha più volte ripetuto che “i russi potrebbero invadere l’Ucraina in ogni momento nei prossimi giorni”, sebbene, curiosamente, lo stesso ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, abbia detto che “la Russia non ha ancora organizzato formazioni d’attacco tra le sue forze schierate vicino ai confini”.

Il 20 febbraio una telefonata del presidente francese Emmanuel Macron al collegar russo Vladimir Putin avrebbe propiziato la possibilità di un vertice Putin-Biden. Ma non promette nulla di buono la ripresa di scontri locali nel Donbass, l’area orientale dell’Ucraina in cui dal 2014 le repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, abitate da russofoni, si oppongono all’autorità di Kiev con l’appoggio di Mosca.

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Lo scambio di cannonate e granate di mortaio avrebbe già provocato, fra il 17 e il 21 febbraio, almeno due morti militari fra gli ucraini e due morti civili e uno militare fra i russofoni del Donbass. Le due parti si rimpallano accuse reciproche di provocazione. D’altro canto, il presidente americano Joe Biden per primo non si è fidato dell’annuncio russo di parziale ritiro e di fine delle esercitazioni, convincendo poi a cascata il segretario della NATO Jens Stoltenberg e i governi alleati a ripetere, fra il 16 e il 21 febbraio, che “non si osservano segnali di de-escalation”.

Fra le stime degli ultimi giorni, il 17 febbraio l’ambasciatore americano presso l’OSCE, Michael Carpenter, ha sostenuto che la Russia avrebbe “fra 169.000 e 190.000 soldati” sui confini, poi il 20 febbraio la tv statunitense CNN ha parlato di “120 gruppi tattici a livello di battaglione schierati a 60 chilometri dal confine con l’Ucraina”, oltre a “35 battaglioni da difesa aerea, 500 aerei da caccia e 50 bombardieri medio-pesanti”.

La CBS dal canto suo, cita fonti CIA secondo cui “ai comandanti dell’esercito russo sono già stati consegnati gli ordini di attacco”. Arduo chiaramente discernere quanto si tratti di indiscrezioni plausibili e quanto di “guerra d’informazioni” per favorire una successiva ricostruzione che addossi solo sui russi la colpa di un conflitto.

Stesso discorso per le scaramucce in Donbass, dove l’atteggiamento offensivo che i miliziani filorussi attribuiscono alle forze di prima linea ucraine potrebbe rendere credibile l’ipotesi che Kiev, sentendosi spalleggiata dalla NATO, tenga alta la tensione nella speranza di recuperare quel territorio.

Ma i russi, a loro volta, hanno ribattuto in quei giorni, sia per bocca del presidente Vladimir Putin sia del suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che “gli Stati Uniti non hanno dato risposte soddisfacenti alle nostre precise richieste in fatto di sicurezza”. In sostanza, l’assicurazione scritta che l’Ucraina non entrerà mai nella NATO, il ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai territori degli stati membri dell’Est ammessi nell’ultimo ventennio e il conseguente divieto di basi missilistiche e nucleari sui suddetti territori.

Mosca non ha certo interesse a scatenare di sua iniziativa una guerra che, anche se rimanesse limitata al territorio ucraino, sarebbe dannosa per la sua economia, compromettendo ancor di più i rapporti commerciali con l’Europa Occidentale, già azzoppati dalle sanzioni varate dopo l’annessione della Crimea nel 2014.

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Se infatti i russi hanno il coltello dalla parte del manico per quanto riguarda la dipendenza dell’Unione Europea dal gas russo, che non potrà essere sostituito in tempi brevi da quello di altri fornitori come il Qatar, essi stessi, di riflesso, non possono sperare di recuperare altrettanto in fretta mancati introiti rivolgendosi ad altri compratori, come la Cina, dato che il commercio del gas si basa su investimenti infrastrutturali di lungo periodo. Ovviamente, comunque, la propensione russa a non iniziare un vero conflitto ad alta intensità va considerata al netto di possibili provocazioni sul territorio del Donbass, a cui stiamo purtroppo già assistendo.

In tutto questo, il 19 febbraio Putin ha lanciato alle potenze occidentali un importante messaggio non verbale dirigendo personalmente esercitazioni delle forze missilistiche nucleari russe, in modo da ribadire la propria capacità di deterrenza strategica, e il 20 febbraio ha dichiarato il prolungamento delle esercitazioni congiunte con la Bielorussia, che sarebbero dovute terminare quel giorno “a causa della situazione critica nel Donbass”.

 

Altolà per la NATO

Pur non nutrendo, probabilmente, una reale intenzione di guerra, il presidente Vladimir Putin doveva in qualche modo mostrare i muscoli, come mai aveva fatto prima d’ora, per dare un chiaro segnale alla NATO, pericolosamente arrivata sui suoi confini nell’arco di un ventennio, fino a rendere prevedibile un’adesione dell’Ucraina.

La situazione è poi parsa anche più grave al Cremlino dopo che nel 2021 le stesse autorità ucraine hanno iniziato a parlare con sempre maggiore insistenza di un possibile “recupero della Crimea”. E’ palese che le tensioni perduranti fra Kiev e Mosca rendano troppo pericoloso l’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’alleanza atlantica, poiché un conflitto fra le due parti, magari scaturito da incidenti orchestrati, obbligherebbe anche l’Italia a una guerra globale contro la Russia in virtù dell’articolo 5 dell’Alleanza.

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Una guerra che, a differenza degli interventi militari oltremare, lontano dalle nostre frontiere, a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni, toccherebbe in modo più o meno diretto il territorio nazionale italiano, anche solo per la presenza di basi americane come quelle di Aviano o Sigonella, con la relativa presenza di ordigni nucleari lanciabili da aerei, nella fattispecie le bombe a caduta libera B61 con potenza massima di 340 chilotoni, come anche a Ghedi, dove essi possono esser utilizzati da equipaggi dell’Aeronautica Militare Italiana in regime di “nuclear sharing” su ordine statunitense.

Ecco perchè, se davvero la crisi dovesse a fatica disinnescarsi in questi giorni a patto di promesse, anche dietro le quinte, di un mantenimento dell’Ucraina in uno status tecnicamente neutrale senza farla aderire alla NATO, si può dire che Putin, “tirando la corda” fino a ottenere almeno questo risultato, abbia fatto, sotto sotto, un favore anche all’Italia.

Su questo non sembrano esserci dubbi e, fra l’altro, riteniamo che gli eventi a cui stiamo assistendo dovrebbero insegnare qualcosa a Washington e a Bruxelles, portando a un generale ripensamento del concetto stesso di allargamento indiscriminato della NATO e, teoricamente, di qualsiasi alleanza.

Un patto solidale per la reciproca difesa militare e che presuppone l’automatismo dell’intervento a protezione di un membro attaccato produce davvero sicurezza solo se limitato a un certo numero di paesi le cui politiche estere e strategiche siano abbastanza coordinate fra loro da poter parlare di comunanza di interessi geopolitici.

Se un’alleanza finisce con l’allargarsi a paesi sempre più lontani, come distanza geografica e interessi, dai suoi primi membri storici ciò aumenta esponenzialmente il rischio che l’alleanza in questione venga a trovarsi a contatto con un numero crescente di aree di confine e di potenziali crisi aggiuntive che complichino il quadro, specialmente se uno dei membri risultasse in qualche modo aggredito da un attore esterno a causa di sue avventatezze o “fughe in avanti”.

In buona sostanza, più alleati, più possibilità che uno, o più, di essi si trovi in frizione, lungo i confini esterni dell’alleanza, con un possibile avversario, trascinando in blocco gli altri alleati in un conflitto non voluto e contrario ai loro reali interessi.

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Anche per le alleanze, quindi, si potrebbe ben parlare di una sorta di “punto culminante”, per usare un’espressione che due secoli fa Karl von Clausewitz, uno dei padri della strategia, applicava alle vittorie campali. Un punto, o meglio un apice, oltrepassato il quale, l’aumento del numero dei membri di una coalizione porta più svantaggi che vantaggi, poiché fa moltiplicare i rischi per la sicurezza, anziché diminuirli, spingendo a ritenere vitali scacchieri e situazioni addizionali che in precedenza non erano percepiti tali.

Grandi alleanze possono quindi portare, per il numero stesso delle nazioni impegolatevisi, più facilmente anche a guerre generali, estese su fronti di migliaia di chilometri. Senza contare che, nello specifico caso Russia-NATO, è stata la stessa espansione a Est a far crescere le preoccupazioni di Mosca che si traducono a loro volta nell’aumento di insicurezza sul versante orientale.

Si giunge quindi al paradosso che, se dal 1999 al 2020 ben 14 paesi dell’Europa Centro-Orientale si sono aggiunti ai 16 membri “storici”, cioè i 12 fondatori dell’alleanza nel 1949, fra cui l’Italia, e i 4 aggregatisi dal 1952 al 1982, che contava l’alleanza fino alla fine del XX secolo, tale processo è stato giustificato dalla necessità presunta di proteggere quelle nazioni dal risorgere della potenza russa, la quale però è stata spronata, e indispettita, proprio dal suddetto allargamento, in un tragicomico scambio fra causa ed effetto.

Se a ciò aggiungiamo che i neo-membri dell’ultimo ventennio sono per la maggior parte nazioni medio-piccole, che di fatto hanno aggiunto poco o nulla alla forza militare complessiva della coalizione, si può dire che l’alleanza si sia sobbarcata spese aggiuntive per la difesa di paesi tendenzialmente molto deboli per soli scopi ideologico-politici, ottenendone in cambio l’aumento dei rischi.

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A tal proposito, va ricordato che lo scorso 17 gennaio 2022 perfino sulla prestigiosa rivista americana di politica estera Foreign Affairs si è dato spazio a simili dubbi, con un articolo di Michael Kimmage secondo cui “è tempo per la NATO di chiudere le sue porte”.

“La NATO soffre di un grave difetto di progettazione: l’estensione profonda nel calderone della geopolitica dell’Europa Orientale è troppo grande, troppo mal definita e troppo provocatoria per il suo stesso bene”. E inoltre: “Mettere fine all’espansione della NATO sarebbe un atto di autodifesa per l’alleanza stessa, dandole i doni che conferiscono una più grande limitazione e una più grande chiarezza”.

Se l’Alleanza Atlantica s’è infilata in una simile trappola è stato in sostanza per cercare di perpetuare i risultati del post-Guerra Fredda, emarginando, per quanto possibile, la Russia dall’Europa. Ciò conferma che la NATO, fondata nel 1949 per arginare l’espansionismo di una Unione Sovietica che contava sulla forza sovversiva del comunismo, si è trasformata dopo la fine della Guerra Fredda in uno strumento di contrasto della Russia in quanto tale.

In sostanza, gli Stati Uniti, la potenza leader dell’Alleanza Atlantica, e il loro principale alleato, cioè la Gran Bretagna, hanno continuato a diffidare di Mosca anche dopo la caduta del comunismo, mentre la maggior parte dei paesi continentali tendevano a espandere i loro rapporti commerciali con i russi.

Per gli americani e la dirigenza NATO da essi influenzata, è la Russia in sè, indipendentemente dai colori politici dominanti al Cremlino o alla Duma, che va trattata da perenne sorvegliato speciale. Visto dall’ottica anglosassone, l’espansione della NATO e la sua pressione geopolitico-militare per contenere la Russia, servono per impedire un duraturo sodalizio fra una Mosca più democratica, o comunque meno autoritaria rispetto ai tempi del regime comunista, e un’Europa continentale che a quel punto non avrebbe più bisogno della protezione americana, togliendo significato all’esistenza stessa della NATO, per come è stata concepita finora. In qualche modo, la persistenza del “nemico” è necessaria alla continuazione dell’alleanza.

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Anche i russi se ne rendono conto e certo il braccio di ferro è diventato decisivo negli ultimi mesi, essendo ormai Mosca conscia di avere recuperato una forza militare sufficiente a difendere i propri interessi vitali in Europa. Ecco il perchè delle ripetute esercitazioni di massa russe, ineccepibili dal punto di vista del diritto internazionale perchè svolte sul proprio territorio, o su quello dell’alleata consenziente Bielorussia, ma che allarmando Kiev, Washington e Bruxelles, hanno lo scopo di portare finalmente al “dunque” una questione irrisolta da un ventennio e che ha toccato la classica “goccia che fa traboccare il vaso” con l’avvicinarsi di una ventilata ammissione dell’Ucraina nell’alleanza.

 

Biden incoraggia Kiev

La crisi attualmente in corso si è snodata gradualmente a partire dal novembre 2021, ma è il risultato finale di una contrapposizione montata di mese in mese fin dall’insediamento del presidente Joe Biden alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2021, tanto che si può parlare per lo scorso anno di un “primo round” del confronto che potrebbe essere servito a entrambi per “prendere le misure” dell’avversario.

Dopo l’ascesa di Biden, le autorità ucraine devono aver pensato di poter contare su un’amministrazione americana assai più favorevole a Kiev, anche per i passati rapporti d’affari del figlio del presidente, Hunter Biden, con la società ucraino-cipriota Burisma.

Mentre si accrescevano già allora le tensioni in Donbass, fra l’esercito ucraino e le milizie filorusse delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, una stretta contro politici ucraini ritenuti filorussi, aveva spinto già in febbraio Mosca a mobilitare un primo gruppo di 3000 paracadutisti non lontano dalla frontiera.

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Ad aggravare le cose è arrivata il 24 marzo 2021 da parte del presidente ucraino Volodymir Zelensky la firma di un decreto volto a sviluppare “strategie di recupero e de-occupazione delle aree del paese temporaneamente occupate”. Ciò ha fatto temere ai russi la possibile organizzazione di azioni militari da parte di Kiev, appoggiate dagli USA, per recuperare il Donbass e/o la Crimea.

La dirigenza ucraina si è sentita a maggior ragione sostenuta dalla nuova amministrazione della Casa Bianca dopo che, il 2 aprile 2021, si è avuto il primo colloquio telefonico fra Zelensky e Biden, il quale ha parlato di “protratta aggressione russa in Crimea”, senza tener conto che la penisola è ormai annessa alla Russia dal 2014 e che la maggioranza della sua popolazione è russa o pro-russa.

Sempre il 2 aprile è stato visto atterrare a Kiev un aereo da trasporto militare americano C-130J partito dalla base NATO di Ramstein (Germania) per missione ignota. Frattanto, i russi portavano il loro schieramento a 40.000 uomini, secondo l’Ucraina, mentre le milizie del Donbass segnalavano azioni di droni, per ricognizione e anche attacco, sulle loro posizioni. Entro il 6 aprile arrivavano a Kiev senza dichiarazione alcuna su scopi e carico, ancora un grosso aereo C-17 proveniente direttamente dagli Stati Uniti, poi un C-130J e un altro C-17 decollati da Ramstein in Germania. Intanto un aereo spia americano strategico RQ-4 Global Hawk ha sorvolato per molte ore la fascia di confine Ucraina-Russia monitorando tutto coi suoi sensori dalla portata di 250 chilometri.

Il 9 aprile gli Stati Uniti si dicevano “pronti a inviare navi nel Mar Nero per la nuova crisi ucraina”, dopo che la Casa Bianca ha comunicato che “lo spiegamento di forze russe sul confine è il maggiore dal 2014”. E il 13 aprile atterravano a Kiev ancora due C-130 USA, uno proveniente da Riga, in Lettonia, l’altro da Stoccarda.

Nel corso di aprile la tensione era aumentata fino a sfociare nelle espulsioni incrociate di 10 diplomatici russi e 10 americani dalle rispettive nazioni. Il 14 aprile s’è verificato un incidente fra unità navali russe del servizio costiero dell’FSB e ucraine della Guardia Costiera nello stretto di Kerc, unico passaggio nello sbarramento geografico che la Crimea russa pone alla costa ucraina sul Mar d’Azov. Al che il 24 aprile i russi hanno decretato fino al 31 ottobre il blocco dello stretto. Intanto, sempre a fine aprile terminavano le esercitazioni russe, pur mantenendosi cospicui depositi avanzati di mezzi pesanti e munizioni, come quello di Pogonovo, in previsione di nuove manovre.

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Nelle settimane seguenti, gli Stati Uniti sono tornati ad adombrare un possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO e a parole si sono detti “disponibili alla trattativa sul disarmo”, pur, di fatto, non tenendo conto dei perduranti timori russi originati dal ritiro unilaterale degli USA, fin dal 2019, dal trattato INF che vietava missili a medio raggio in Europa, nonché dal sospetto che la base antimissile americana di Deveselu, in Romania, operativa dal 2016, e quella in fase di completamento, previsto in questo 2022, di Redzikowo, in Polonia, possano occultare missili offensivi Tomahawk, o di futuro tipo a medio raggio, come lo sperimentale PRSM (Precision Strike Missile), che Lockheed Martin ha collaudato più volte nel 2021 e la cui gittata massima, non dichiarata sarebbe “superiore a 499 km”.

I russi notano che il modulo di lancio verticale Mk.41 dei missili intercettori SM-3 del sistema imbarcato Aegis, e di quello terrestre Aegis Ashore, nel caso delle suddette basi, è utilizzato anche per i Tomahawk, che così potrebbero essere schierati di nascosto troppo vicini alle frontiere russe. Il 28 maggio 2022, ad aggravare la tensione, Washington affermava che “gli Stati Uniti non torneranno nel trattato Open Skies”, sui “cieli aperti”, che garantiva la sorveglianza aerea reciproca, ma da cui già l’amministrazione precedente, quella di Donald Trump, era uscita nel 2020.

Il Cremlino ha risposto ribadendo che “gli USA hanno perso l’occasione di migliorare la situazione della sicurezza in Europa”. Fra il 10 e il 13 giugno, il viaggio di Biden in Europa, in particolare con l’incontro bilaterale col premier britannico Boris Johnson e poi col G7 in Cornovaglia, nonché il summit NATO del 14 giugno, hanno preparato il terreno a una sorta di “chiamata delle democrazie”, in contrasto con l’asse Russia-Cina.

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Tanto per cambiare, negli stessi giorni la US Navy inviava nel Mar Nero l’incrociatore Laboon, con i suoi 56 Tomahawk, come simbolico messaggio verso Mosca. Già il 12 giugno, prima di incontrare il presidente americano a Ginevra 4 giorni dopo, Putin, intervistato dalla NBC, notava: “Le relazioni con gli USA sono al punto più basso degli ultimi anni. Trump era un uomo straordinario, un uomo di talento, Biden invece è un carrierista”.

Biden, dal canto suo, contribuiva senza rendersene conto a preparare i successivi rialzi di tensione, dichiarando: “La Russia non dovrà superare certe linee rosse. Non vogliamo un conflitto, ma reagiremo ad atti ostili. Per l’adesione dell’Ucraina alla NATO, la presenza di truppe russe su parte del territorio ucraino non costituisce un ostacolo. Ma prima di poter entrare nell’alleanza, Kiev dovrà ripulirsi dalla corruzione e soddisfare una serie di requisiti”. Il 16 giugno a Ginevra, al di là delle cortesie diplomatiche, nel summit Biden-Putin permaneva la frattura sui principali punti chiave.

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Come se non bastasse, la pressione navale della NATO nel Mar Nero tornava ad aumentare dal 23 giugno, quando il cacciatorpediniere britannico Defender sfiorava le coste della Crimea e la base russa di Sebastopoli, suscitando cannonate d’avvertimento da unità navali dell’FSB e anche il sorvolo di un bombardiere Sukhoi Su-24M che ha sganciato in mare bombe pure ammonitrici.

La presenza nell’area di due aerei americani da pattugliamento, un EP-3E Aries e un P-8 Poseidon, ha fatto pensare ai russi che l’incidente fosse organizzato per saggiare la loro reazione difensiva. E il 27 giugno la BBC rivelava documenti segreti, misteriosamente “smarriti” presso una fermata d’autobus, da cui s’arguiva che l’incursione della nave inglese era stata volutamente organizzata per provocare Mosca. Il giorno dopo, 28 giugno, iniziava una grossa esercitazione aeronavale nel Mar Nero, la Sea Breeze, attuata da ben 32 nazioni, fra membri della NATO e altri alleati degli Stati Uniti, con 32 navi, 40 aerei e 5.000 militari.

 

Si riaccende la miccia

Fra agosto e settembre del 2021 gli Stati Uniti e gli alleati europei (Italia compresa) sono stati letteralmente scioccati dalla palese sconfitta subita in Afghanistan dal governo di Kabul, favorita dal troppo rapido ritiro delle truppe straniere, che ha buttato alle ortiche vent’anni di impegno (con morti e feriti) occidentale contro i talebani. La storica disfatta delle nazioni NATO ha fatto sì che i governi atlantici e la grande stampa si lasciassero sfuggire l’occasione immediata di additare la Russia per le sue colossali esercitazioni Zapad 2021, tenutesi dal 10 al 16 settembre con dispiegamento di ben 200.000 uomini, con 80 aerei e 760 mezzi di terra, fra carri armati e altri veicoli.

Partecipavano anche contingenti di varie nazioni come la stessa Bielorussia, sul cui territorio si svolgeva il grosso delle manovre, ma anche rappresentanze di Armenia, India, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Mongolia, Pakistan e Sri Lanka. Pur monitorate dalla NATO, queste manovre non hanno suscitato così tanta preoccupazione come quelle tenutesi tra fine 2021 e inizio 2022, sebbene coinvolgessero un numero superiore di truppe, senza contare che tre anni prima, l’edizione 2018 della Zapad aveva impegnato, pare, addirittura 300.000 uomini.

Alle soglie dell’autunno 2021 la tensione Est-Ovest è risultata incentivata dal blocco del North Stream 2, la seconda tratta del gasdotto russo-tedesco che corre sul fondo del Mar Baltico evitando il territorio ucraino.

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Per la Germania, una notevole risorsa da 55 miliardi di metri cubi all’anno (per tratta) ma di cui gli stessi tedeschi sono stati costretti a privarsi sotto la spinta politica degli Stati Uniti. Il nuovo gasdotto era ormai pronto, in settembre, quando l’agenzia tedesca per le reti, la Bundesnetzagentur, o BnetzA, ha vietato il passaggio del gas con il pretesto della “posizione di monopolio” di Gazprom.

E da allora il North Stream 2 è ancora tutt’oggi a secco. Superato intanto, a fatica, lo smacco da parte dei talebani, la NATO tornava a guardare a Mosca ed espelleva per presunto spionaggio 8 membri della delegazione diplomatica russa presso la sede dell’alleanza a Bruxelles, decretando inoltre il taglio da 20 a 10 del numero dei componenti della suddetta rappresentanza. Il 20 ottobre il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha quindi annunciato la “rottura dei rapporti diplomatici con la NATO a partire dal 1° novembre”, spiegando: “Non ci sono più le condizioni di base per lavorare insieme: la Russia sospenderà la sua missione presso l’Alleanza Atlantica, che non è più interessata a un rapporto equo”.

E’ stato ai primi di novembre che sono iniziate a rimbalzare sulla stampa americana e occidentale in genere, le prime notizie sul fatto che la gran parte delle truppe mobilitate per l’esercitazione Zapad 2021 erano rimaste dislocate a poche centinaia di chilometri dalle frontiere ucraine, con stime iniziali variabili fra 70.000 e 80.000.

Ciò ha fatto sì che il 2 novembre Biden inviasse a Mosca nientemeno che il capo della CIA, William Burns, che peraltro era stato ambasciatore statunitense in Russia dal 2005 al 2008, per ammonire direttamente Putin, del resto in qualche modo suo ex-collega dato il suo passato di ufficiale del KGB. L’impiego di un capo dell’intelligence per una missione diplomatica non è inusuale e già nel 2018 Trump si era avvalso dell’allora capo della CIA Mike Pompeo per preparare le aperture con la Corea del Nord, promuovendolo poi a segretario di Stato.

Ma fra Burns e Putin è probabile che il colloquio riservato sia avvenuto con scambio di reciproche minacce. Nel frattempo, il 12 novembre si apprendeva che “funzionari USA hanno avvisato l’Unione Europea del rischio di invasione russa dell’Ucraina”, esplicitando ormai l’inizio del “secondo round” tuttora in atto. Mosca rispondeva protestando per la partecipazione di bombardieri strategici americani Rockwell B-1B Lancer a esercitazioni nel Mar Nero e inviando a sua volta un paio di Tupolev Tu-160 a volare vicino alla Scozia, sollecitando il decollo su allarme di intercettori Eurofighter Typhoon della Royal Air Force.

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Gli ucraini, intanto, aumentavano a 90.000 soldati la stima delle forze russe schierate, cifra subito ripresa dai media americani. Poco dopo, il 15 novembre, i russi lanciavano un loro messaggio non verbale dimostrando le loro capacità di guerra spaziale con il primo test balistico reale del missile antimissile e antisatellite A-235 Nudol, che dal poligono di Plesetsk ha raggiunto una quota superiore ai 400 chilometri centrando in pieno un vecchio satellite in disuso in orbita polare, l’ex-sovietico Cosmos 1408.

Monito terribile per le forze americane che, in virtù della loro estrema sofisticazione sono anche le più dipendenti al mondo dai satelliti da ricognizione, comunicazione e geoposizionamento. Tutto ciò avveniva nel quadro di tensioni anche fra Stati Uniti e Cina, alleata del Cremlino, motivata dalla questione di Taiwan e anche dalla stipula dell’alleanza AUKUS fra USA, Gran Bretagna e Australia in funzione anticinese.

Il 24 novembre il ministro della Difesa Segei Shoigu si è consultato col collega cinese Wei Fenghe in videoconferenza, lamentando l’esecuzione da parte americana dell’esercitazione Global Thunder con cui le forze aeree strategiche americane si sono addestrate all’attacco atomico contro la Russia: “Questo mese almeno 10 bombardieri pesanti americani si sono addestrati alla specifica ipotesi del lancio di ordigni nucleari sulla Russia, durante le esercitazioni Global Thunder, con voli di avvicinamento sia Est che da Ovest”.

Il 29 novembre, presiedendo a Riga, in Lettonia, una riunione dei ministri degli Esteri della NATO, il segretario Lens Stoltenberg invitava la Russia “alla de-escalation”. Al vertice l’alleanza concordava sul fatto di “affrontare la maggior espansione della sua difesa collettiva dopo la fine della Guerra Fredda”, menzionando “l’assistenza alla Polonia e alle repubbliche baltiche sui confini con Russia e Bielorussia” e l’aumento a 40.000 uomini della Forza di reazione rapida.

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Proprio in Lettonia si svolgevano in quegli stessi giorni le esercitazioni NATO Winter Shield 2021, fino al 4 dicembre. Da Kiev si alimentavano voci di un possibile “colpo di stato” orchestrato da Mosca “attorno all’1-2 dicembre”, poi mai verificatosi.

D’altronde, all’allarme sui 90.000 soldati russi schierati “a 300 km dal confine ucraino”, il Cremlino rispondeva sostenendo che “l’Ucraina ha dislocato metà di tutte le sue forze armate, 125.000 uomini con armi pesante, nel Donbass, aggravando deliberatamente la crisi”.

E il 2 dicembre, nel giorno in cui secondo gli ucraini i russi avrebbero dovuto organizzare un golpe a Kiev, era invece l’FSB ad arrestare in Crimea tre agenti segreti ucraini che avrebbero dovuto far saltare in aria installazioni importanti, come una grande antenna radio per le comunicazioni della Flotta Russa del Mar Nero. Si trattava di Zynovy e Igor Koval (padre e figlio), secondo i russi membri del servizio di sicurezza ucraino SBU, e di Oleksandr Tsylyk, presunto uomo del Direttorato Intelligence del Ministero della Difesa di Kiev.

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Il 4 dicembre 2021 il Washington Post iniziava a diffondere voci di provenienza della CIA e da foto satellitari, secondo cui gli Stati Uniti stimavano possibile “l’invasione dell’Ucraina per l’inizio del 2022 e su più fronti”, vagheggiando il raggiungimento di una forza di 175.000 uomini scaglionati in “100 gruppi tattici” con carri da battaglia e artiglieria.

Il clima in quei giorni iniziava a farsi pesante, col freddo colloquio in videoconferenza fra Putin e Biden il 7 dicembre e la contemporanea (non a caso) attivazione in Alaska del primo esemplare di Long-Range Discrimination Radar (LRDR) alla base aerea Clear. Un nuovo sistema a lunghissimo raggio asservito alla difesa antimissile degli USA e che sarebbe in grado di distinguere le vere testate dalle esche, evitando errori ai missili antimissile di Fort Greely, deputati a fermare gli ordigni provenienti da Russia o Asia.

Non aiutava il “summit delle democrazie” organizzato da Biden il 9-10 dicembre come paravento per riaffermare l’egemonia statunitense sul “mondo libero” emarginando Russia e Cina e cercando di far dimenticare la figuraccia in Afghanistan. A rinfocolare la tensione nel Donbass, frattanto, il 12 dicembre, fonti della repubblica do Donetsk hanno denunciato un attacco ucraino a mezzo di droni, che ha ucciso due miliziani filorussi.

 

Le richieste russe

Il 15 dicembre 2021 il Ministero degli Esteri russo ha consegnato alla vicesegretaria di Stato americana Karen Donfried, in visita a Mosca, le richieste scritte per una duratura stabilizzazione dell’Europa Orientale. Mosca chiedeva, e chiede tuttora, che venga messo nero su bianco il divieto all’Ucraina di entrare nella NATO, mantenendola stato-cuscinetto, oltre al “ritiro delle forze nucleari” sui rispettivi territori nazionali, “perchè le due potenze non usino i territori di paesi terzi per organizzare attacchi contro l’altra parte” e alla proibizione di missili a medio raggio.

Riferimenti, questi, al citato sospetto russo di utilizzo di Deveselu e Redzikowo come basi per Tomahawk o futuri missili a medio raggio più veloci, come il Lockheed PRSM. I russi dicono di puntare a “evitare un confronto militare con l’America, poichè in una guerra nucleare non ci sono né vincitori né vinti”. Fra i dettagli, le richieste comprendono il “mantenere la distanza massima fra le navi e gli aerei delle due parti” e vietare “esercitazioni sopra il livello di brigata vicino ai confini fra Russia e NATO”. Il 18 dicembre il Dipartimento di Stato di Washington cassava le proposte del Cremlino, riassumendo nella formula: “Sì al dialogo con Mosca, ma proposte inaccettabili”.

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Non solo, l’indomani il giornale tedesco Der Spiegel rivelava che il comandante militare della NATO, generale Tod Wolters aveva annunciato in un briefing riservato l’esatto contrario di ciò che chiedeva Mosca, cioè l’aumento delle forze interalleate in Bulgaria e Romania, con la creazione in ognuno dei due paesi di una brigata di 1.500 soldati inquadrata nella Enhanced Forward Presence.

Vedendo che passavano i giorni, ma non giungeva risposta alle proprie richieste, i russi hanno alzato i toni. Il 21 dicembre il viceministro degli Esteri Alexander Grushko ammoniva: “La Russia reagirà in modo proporzionato. Se la NATO installerà sui territori dei suoi membri armi offensive in grado di raggiungere i nostri centri di comando in pochi minuti, noi faremo lo stesso”.

Da Mosca, già in quei giorni si lanciava l’allarme su possibili “provocazioni nel Donbass con mercenari americani”, stimando in “120 i mercenari già presenti in Ucraina per l’addestramento delle forze speciali di Kiev”. Alla fine di dicembre si susseguivano, un primo annuncio russo di “ritiro di 10.000 uomini per la fine delle manovre”, sebbene USA e NATO ribattessero che erano ancora schierati oltre 100.000 uomini, e, fra il 16 e il 31 dicembre 2021, lanci ripetuti di missili ipersonici Zircon da unità navali come dimostrazione di forza russa nel settore degli ipersonici, condita dalla pittoresca decorazione da parte di Putin del capo progettista del missile, Boris Obnosov, col titolo di “Eroe della Russia”, corrispettivo odierno dell’antico “Eroe dell’Unione Sovietica”.

Dopo un’infruttuosa telefonata fra Biden e Putin, il presidente americano ha sentito il 3 gennaio 2022 l’omologo ucraino Zelensky, parlandogli di “reazione risoluta” USA in caso di invasione del suo paese, ma nelle stesse ore il portavoce dei ribelli filorussi del Donbass, Ivan Filiponenko, parlava di concentramenti di truppe ucraine a Valuyskoye, lungo la linea di contatto, “per organizzare un punto di designazione bersagli per l’artiglieria, in previsione di un’offensiva”.

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Lo stesso giorno, a riconferma del clima incerto anche nelle alte sfere, le cinque potenze nucleari del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ossia Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, si premuravano di firmare un memorandum comune che recitava: “Dichiariamo che non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare, che non dovrebbe mai essere scatenata”. Il gennaio del 2022 era anche caratterizzato dalla rivolta in Kazakhstan contro il presidente Qasim Jomart Tokayev, fomentata secondo i russi da “forze esterne infiltrate nel paese”.

Da molti considerata una possibile azione di disturbo per “prendere Putin alle spalle” sottraendo il Kazakhstan alla sfera d’influenza del Cremlino, la rivolta veniva in pochi giorni debellata anche grazie a truppe russe e di altri paesi della CSTO, l’Organizzazione di Sicurezza che comprende, oltre alla Russia, anche Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan.

L’8 gennaio, sulla scia della rivelazione da parte inglese di un incidente segreto avvenuto “nel tardo 2020” a 320 km al largo della Scozia, dove la fregata Northumberland della Royal Navy sarebbe entrata in collisione con “sottomarino d’attacco russo captato dai sonar”, il nuovo capo di stato maggiore delle forze britanniche, ammiraglio Sir Tony Radakin, ha minacciato che “se i russi taglieranno i nostri cavi di comunicazione sottomarina, sarà considerato un atto di guerra”.

Pochi giorni dopo, fallivano i colloqui del 10 e 12 gennaio, in bilaterale a Ginevra e in ambito Russia-NATO a Bruxelles, fra i capi delegazione americano e russo, la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman e il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov. Così come il summit Russia-OSCE del 13 gennaio. Intanto la stampa russa dava risalto con foto e video al primissimo volo dalla pista di Kazan, il 12 gennaio, del primo bombardiere strategico Tupolev Tu-160M interamente di nuova costruzione.

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La stampa americana, intanto, ha seguitato a evocare scenari di totale rottura con Mosca, come quando il 17 gennaio il New York Times ha rilanciato sull’ipotesi di armi nucleari russe dispiegate “vicino alle coste americane”, non solo perchè basate in futuro a Cuba o Venezuela, ma anche per l’avvicinamento dei sottomarini SLBM e in particolare dei misteriosi e colossali siluri-droni Status-6 Poseidon, con testata da 100 megatoni accreditata della capacità di creare maremoti sulla costa USA.

E mentre il 21 gennaio Blinken e Lavrov si incontravano inutilmente a Ginevra, dall’America il Bulletin of the Atomic Scientists, rendeva noto che “anche nel 2022 manterremo il simbolico orologio dell’Apocalisse (Doomsday Clock) alle ore 23.58.20, solo 100 secondi prima della mezzanotte”. E’ dal 2020 che l’associazione scientifica mantiene la lancetta così vicina all’ipotetico scoccare della guerra nucleare, il peggior livello di sempre, anche peggio che nei momenti più cupi della Guerra Fredda.

Quasi a corroborare i timori degli scienziati atomici, e sempre come messaggio verso il Cremlino, alla fine di gennaio l’US Strategic Command, che dalla sede nella base aerea Offutt di Omaha, in Nebraska, comanda la “triade” atomica intercontinentale (missili da rampe terrestri, ordigni sganciati da bombardieri e missili lanciati da sottomarini) ha tenuto le esercitazioni Global Lightning per provare la catena di comando e le comunicazioni fra basi e reparti, nonché la prontezza operativa per prepararsi, su ordine tempestivo, a pigiare i bottoni dell’Apocalisse.

Gli statunitensi hanno collaudato i nuovi terminali di comunicazione detti FAB-T, in grado di collegarsi ai satelliti Milstar anche in condizioni di estesa guerra nucleare e di distruzione di ogni altra telecomunicazione.

Ciò garantisce alle forze nucleari il contatto coi generali e col presidente degli Stati Uniti. Secondo Newsweek, a gennaio 2022 i terminali FAB-T installati erano 37 in basi terrestri e 50 su aeroplani d’attacco nucleare o da ricognizione. Altri sistemi testati sono l’MMPU, il sistema di comunicazioni delle basi dei missili Minuteman III, e il Common Very Low Frequency, a bassa frequenza, imbarcato sui bombardieri invisibili B-2 Spirit. E’ stato provato anche il Presidential and National Voice Conferencing System, con cui il presidente USA può parlare in videoconferenza, a viva voce, coi reparti atomici.

 

Manovre pericolose

Verso la fine di gennaio 2022, è emersa la posizione più moderata della Germania in ambito NATO, dato il suo bisogno di gas russo e il suo interscambio con Mosca. Gli USA hanno dovuto spedire a Berlino il capo della CIA Burns per spronare personalmente il cancelliere Olaf Scholz a tenere ancora bloccato il gasdotto North Stream 2, avviando nel contempo trattative con altri paesi produttori di gas, come il Qatar, per trovare metano alternativo a quello russo a beneficio degli alleati europei, ma sperando anche di poter aumentare le loro quote di esportazioni verso l’Unione Europea del gas liquefatto americano trasportato via nave.

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Ma da subito emergeva la sostanziale insufficienza delle alternative, dato che il Qatar e altri estrattori devono servire primariamente nazioni molto “energivore” come il Giappone o la Corea del Sud e che aumentare l’estrazione e il trasporto si può fare in tempi lunghi, non nell’immediato. Biden ha poi annunciato il rafforzamento del dispositivo militare nei paesi NATO dell’Est, dapprima con “un massimo di 8.500 soldati”, fra cui 2.500 uomini in Polonia e 1.000 di un battaglione di veicoli da combattimento ruotati Stryker in Romania.

Il 30 gennaio, a una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dedicata alla crisi, volavano parole grosse fra l’ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield e l’ambasciatore russo Vasily Nebenzya, il quale le ha rinfacciato il precedente del 2003, quando l’allora segretario alla Difesa Colin Powell mentì sulle armi biochimiche di Saddam Hussein per giustificare l’invasione americana dell’Iraq.

Nelle stesse ore passavano dal Canale di Sicilia, dopo essere entrate in Mediterraneo dallo Stretto di Gibilterra 6 navi da sbarco russe, cinque della classe Ropucha e una della nuova classe Ivan Gren. Le unità Ropucha (Olenegorsky Gorniak, Kaliningrad, Minsk, Georgi Pobedonosets e Kondopoga) sono vecchie, ma rimodernate. Lunghe 112 metri, dislocano 4080 tonnellate e possono portare 10 carri armati pesanti e 340 soldati ciascuna, o in alternativa 3 carri pesanti, 8 carri leggeri e 12 autoblindo anfibie BTR.

La nave classe Gren, la Pyotr Morgunov, è invece nuovissima, operativa dal 2018, lunga 135 metri e dislocante 6.600 tonnellate. Può far sbarcare 13 carri pesanti, o 40 blindo BTR, e 300 soldati. In totale, la flottiglia porterebbe forse 1.500 soldati e 60 carri.

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Sono state sorvegliate da aerei americani, come i pattugliatori P-8 Poseidon di base a Sigonella o i caccia F-18 Hornet imbarcati sulla portaerei Harry Truman, affiancata dal sottomarino nucleare Georgia, dalla portaerei italiana Cavour e dalla fregata tedesca Schleswig-Holstein. La squadra russa si è poi congiunta con altre navi russe provenienti dal Mar Rosso, via canale di Suez.

Sono l’incrociatore Varyag, il cacciatorpediniere Admiral Tributs e il rifornitore Boris Butoma, reduci da un’esercitazione nell’Oceano Indiano insieme a navi di Cina e Iran. Insieme ad altre unità, per un totale di 15 navi e 40 aerei, i russi hanno poi condotto dal 16 febbraio un’ampia esercitazione, a cui ha presenziato perfino il ministro della Difesa Sergei Shoigu, durante la quale alcuni caccia russi Su-35 hanno intercettato e sfiorato con passaggi ravvicinati un ricognitore statunitense P-8 Poseidon, che evidentemente spiava i movimenti delle navi russe.

Fra gennaio e febbraio, del resto, la flotta russa ha mobilitato 140 navi e sottomarini di tutte le sue flotte, per manovre in alto mare. E mentre unità russe s’allenavano al largo dell’Irlanda, il 1° febbraio ben 4 bombardieri strategici nucleari russi Tupolev Tu-95 hanno volato vicino alla Scozia e sono stati intercettati e allontanati da caccia britannici Eurofighter Typhoon decollati dalla base della RAF di Lossiemouth. Anche sul fronte del Pacifico fervono le manovre russe. Nelle acque delle isole Curili la flotta di Mosca ha scoperto il 12 febbraio “un sottomarino americano”, si dice classe Virginia, che forse spiava le manovre.

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Stando al Ministero della Difesa russo, l’unità subacquea USA avrebbe ignorato gli appelli radio che le intimavano di “emergere immediatamente”. E’ intervenuto il cacciatorpediniere Marshal Shaposhnikov, unità classe Udaloy da 7.000 tonnellate e lunga 163 metri. Per Mosca, la nave “ha usato i relativi mezzi e il sottomarino ha lasciato le acque russe alla massima velocità”. Forse, per “relativi mezzi” i russi intendevano una bomba di profondità intimidatoria?

A Kiev, intanto, sono giunte forniture di armi anglo-americane, specie i missili anticarro Javelin, dotati di doppia carica cava in tandem per poter perforare, in due rapidissime fasi, sia le piastrelle di corazza reattiva aggiuntiva applicate sui carri armati russi, sia la vera e propria corazza dello scafo. Ma non mancano droni turchi Bayraktar TB-2, in parte già acquisiti dall’esercito ucraino, in parte promessi il 3 febbraio dal premier turco Recep Erdogan e dal suo ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu nel corso di una visita a Kiev.

Erdogan in questa crisi sta tentando di condurre un gioco tutto suo, avendo buoni rapporti sia con i russi, da cui compra i missili antiaerei S-400 in barba agli strali della NATO, sia con gli ucraini, e ancora il 16 febbraio ha reso noto di aspirare a fare da mediatore tra le due nazioni slave. Il 4 febbraio Putin, volato a Pechino ospite del presidente cinese Xi Jinping per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi Invernali, firmava con lui nuovi contratti strategico-economici, rinsaldando l’asse Russia-Cina che, a detta di molti commentatori è stato, nell’arco dell’ultimo ventennio, il risultato finale della politica di emarginazione del colosso russo dall’Europa, voluta primariamente da Stati Uniti e Gran Bretagna.

La tensione era così alta che il 5 febbraio l’agenzia Bloomberg lanciava su internet per errore il flash “la Russia invade l’Ucraina”, ritirandolo poco dopo imbarazzata. Proprio l’inizio delle Olimpiadi Invernali ha contribuito a diffondere l’opinione che la Russia non avrebbe mai attaccato l’Ucraina prima della fine dei giochi, il 20 febbraio, per non violare la consuetudine della “tregua olimpica” auspicabile per tutti i conflitti, e soprattutto per non fare uno sgarro all’amico Xi.

Mentre si aprivano i Giochi di Pechino, atterravano a Jasionka, in Polonia, i primi dei 1.700 soldati americani dell’82a Divisione “Airborne” inviati da Washington di rinforzo a Est, unitamente a 1.000 d’un battaglione di Stryker attesi in Romania e 300 destinati alla Germania.

I militari ucraini, intanto, attuavano esercitazioni perfino nella “zona morta” dell’area radioattiva attorno a Chernobyl, per la precisione presso la città fantasma di Pripjat. L’esercito ucraino ha potuto così compiere esercitazioni in zona urbana con munizioni vere. E il ministro della Difesa Oleksiy Reznikov sosteneva che “la zona radioattiva dovrebbe fare da scudo” a una vasta parte del confine con la Bielorussia: “E’ una zona difficile da attraversare, con foreste, paludi e fiumi ed è ancora radioattiva”.

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I russi stavano in quel momento rafforzando il loro schieramento in Bielorussia per ulteriori manovre previste dal 10 al 20 febbraio, il che portava ormai la NATO a valutare, su tutta la fascia di confine russo e bielorusso con l’Ucraina, almeno 130.000 uomini.

Dal canto loro, i russi hanno risposto che, su 250.000 componenti totali dell’esercito ucraino, almeno metà sarebbero schierati sulla sola linea di contatto col Donbass “con appostamento offensivo. Il 10 febbraio sono iniziate le manovre russe in Bielorussia, che dovevano terminare il 20 febbraio, ma sono poi proseguite per vari giorni, con dispiegamento di 30.000 soldati, aerei da caccia Sukhoi e missili antiaerei S-400.

Al loro avvio presenziava il capo di stato maggiore delle forze armate russe, quel generale Valery Gerasimov, a cui la NATO ha attribuito la presunta (ma non confermata) “dottrina Gerasimov” sulla guerra asimmetrica e l’infiltrazione, secondo una tendenza propagandistica occidentale a presentare come tipiche solo degli avversari delle democrazie, “malvagi” per definizione, tattiche d’inganno e mascheramento in verità comuni in ogni guerra e in ogni paese.

Una telefonata fra Biden e Putin il 12 febbraio si è arenata sulle rispettive posizioni, mentre atterravano alla base britannica di Fairford 4 bombardieri pesanti americani Boeing B-52, provenienti dalla base di Minot, in North Dakota, come parte della deterrenza verso il Cremlino.

La rete statunitense NBC diffondeva presunte rivelazioni della CIA sui piani russi: “Sono 9 le direttrici che l’esercito russo imboccherebbe in Ucraina. E’ la stima di US Army e CIA secondo cui carri armati di Mosca potrebbero raggiungere Kiev in 48 ore.

La Russia ha schierato ai confini quasi 100 su 168 gruppi tattici a livello battaglione, composti da 800 a 900 soldati ciascuno, mentre altri reparti affluiscono ogni giorno. Sarebbero dispiegate anche 6 unità speciali Spetsnaz: ogni unità è composta da 250 a 300 combattenti d’élite”. Una tale precisione potrebbe non essere dovuta alle sole foto satellitari, pur prodotte e diffuse in gran copia nelle ultime settimane, ma farebbe ipotizzare spie della CIA fra i russi perfino a livelli di comandi o di stati maggiori! A meno che non sia parte della guerra di propaganda.

 

Stretta finale?

Alcuni membri della NATO, come Ungheria e Croazia, si sono sfilati dalle parole d’ordine antirusse, criticando l’alleanza, e la stessa Turchia, che pure è il pilastro del settore Sud Est, di fatto si mantiene in posizione intermedia. All’inizio di febbraio, la CIA stimava che l’offensiva russa potesse scattare già il 16 febbraio, ma prima di tale scadenza, Shoigu ha preannunciato la “fine di alcune manovre” e l’inizio di un parziale ritiro. Il 14 febbraio il Center for Defense Strategies stimava le forze russe schierate su posizioni avanzate in “147.000 soldati su 87 gruppi tattici”.

Il 16 febbraio Biden, dopo aver inviato in Polonia caccia F-15 dell’USAF, ha messo in dubbio il ritiro russo parlando di “assenza di verifiche” e mostrando foto satellitari di “nuovi elicotteri e aerei in arrivo vicino al confine con l’Ucraina”, segnatamente elicotteri da trasporto truppe Mil Mi-8 e da combattimento Mil Mi-24, Mi-35 e Kamov Ka-52 presso il lago Donuzlav, in Crimea, e aerei da caccia Sukhoi Su-34 sulla pista di Primorsko-Akhtarsk, sulla sponda russa del Mar d’Azov.

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Mentre l’intelligence americana rilanciava una nuova data ipotetica d’attacco per il 21 febbraio, dopo la fine delle Olimpiadi Invernali di Pechino, Putin ha ribadito più volte negli ultimi giorni che “se le richieste russe non verranno accettate, prenderemo misure tecnico-militari”. Il 16 febbraio i russi reiteravano comunicati sul ritiro di vari loro reparti: “Le unità carriste del Distretto Militare Occidentale sono state riportate alle loro basi permanenti dopo essere state trasportate per mille chilometri su ferrovia”. Il tutto accompagnato da immagini e video postati su internet.

Poi, il 17 febbraio, il New York Times sembrava per la prima volta ammettere i timori russi relativi alle basi americane di Redzikowo e Deveselu, e il 18 febbraio da Mosca si davano altri esempi del ritiro come “il ridislocamento in altri aeroporti della Russia di 10 bombardieri Sukhoi Su-24 spostati dalla Crimea” e la notifica che “un altro treno militare con personale e attrezzature delle unità di carri armati del Distretto Militare Occidentale è tornato alla sua base permanente di Nizhny Novgorod”. In Occidente, invece, si continuato a pensare a un bluff russo.

Il 18 febbraio l’ambasciatore americano presso l’OSCE, Michael Carpenter, ha azzardato che la Russia avrebbe schierati in posizione minacciosa contro l’Ucraina, “fra 169.000 e 190.000 soldati”, desunti da rapporti CIA su cui non si può dire dove finisca la realtà e inizi la stima a scopo intimidatorio. Già il giorno prima, il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin sosteneva che “la Russia si prepara a combattere perchè stanno facendo scorte di sangue”, per trasfusioni ai feriti.

Spiega: “Ero un soldato. So in prima persona che non fai ciò senza motivo”. Vero è che prepararsi per ogni evenienza non è un delitto, specialmente se si teme che incidenti possano essere fabbricati dall’altra parte. Austin s’è recato poi il 18 febbraio in visita in Polonia e, proprio approfittando della tensione, ha propiziato per l’America un affare da 6 miliardi di dollari concordando la vendita all’esercito polacco di ben 250 carri armati pesanti M1 Abrams.

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Frattanto, dal 17 febbraio si è ricominciato anche a sparare nel Donbass. La milizia di Donetsk per prima ha denunciato quel giorno che “gli ucraini hanno sparato sul villaggio di Mandrykino cinque granate da 82 mm”. I filorussi hanno reagito colpendo un asilo nido a Stanytsia Luhanska, col ferimento di due insegnanti.

Si sono susseguiti scambi di granate su molte località anche nei giorni seguenti e, in particolare, il 18 febbraio a Donetsk sono risuonate le sirene d’allarme, mentre presso il palazzo del governo locale un attentato ha fatto deflagrare l’automobile, una jeep UAZ verde oliva del comandante della Milizia Popolare di Donetsk, Denis Sinenkov, che però si è salvato. La milizia dichiarava inoltre di “aver sventato una infiltrazione di sabotatori ucraini”.

Nelle ore seguenti, i presidenti di Donetsk e Lugansk, Denis Pushilin e Leonid Pasechnik, ordinavano l’evacuazione di donne, vecchi e bambini in Russia, nella zona di Rostov, mobilitando invece tutti gli uomini validi dai 18 ai 55 anni a difesa del territorio. Alla mattina del 21 febbraio, risultavano già 61.000 i civili russofoni che avevano passato il confine, e le autorità del Donbass stimavano che l’obbiettivo era porne in salvo fino a 500.000.

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Sarebbe in atto un gioco di provocazioni reciproche per far precipitare la situazione. Si sa che gli ucraini denunciano la presenza in Donbass di mercenari/contractors russi della compagnia Wagner, ma secondo Mosca e i secessionisti le stesse forze di Kiev si avvarrebbero di mercenari/contractors occidentali delle compagnie Lancaster-6 e Academy (ex Blackwater). Inoltre, il 18 febbraio Lavrov ha detto: “Abbiamo informazioni secondo cui mercenari da Kosovo, Albania e Bosnia-Erzogovina (filoamericani in contrasto con la vicina Serbia filorussa) stanno per essere inviati nel Donbass”.

I miliziani di Donetsk, che conterebbero su una loro rete di spie abbastanza ramificata in tutta l’Ucraina Orientale, ritengono che “l’esercito di Kiev prepara uno sbarco sulla costa del Mar D’Azov, fra i villaggi di Sartana e Kominternovo, a Est di Mariupol” e che “gli ucraini sono già pronti a trasferire presidenza e parlamento da Kiev a Lvov all’inizio delle ostilità”. D’altro canto, il segretario di Stato americano Anthony Blinken ha elencato possibili incidenti orchestrabili dai russi per accusare gli ucraini: “Un attacco terroristico inventato dentro la Russia, la scoperta di una fossa comune, un finto attacco con droni contro civili o un attacco finto o addirittura uno reale usando armi chimiche”.

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Il 19 febbraio le autorità di Donetsk hanno accusato l’agente segreto ucraino Anton Matsanyuk, tuttora detenuto, per l’attentato con autobomba del giorno prima al capomilizia Sinenkov. Inoltre, i militi di Lugansk hanno disinnescato un ordigno esplosivo nascosto da sabotatori sotto il ponte stradale fra Malogvardeysk e il valico di frontiera di Izvarino, su cui transitano gli autobus dei profughi.

La sventata strage avrebbe creato una provocazione anche più grave delle attuali. Le milizie di Lugansk hanno anche dichiarato, il 20 febbraio, d’aver respinto un tentativo di sfondamento del fronte attuato dalla 79° Brigata di paracadutisti di Kiev, che “avrebbe cercato di passare il fiume Seversky Donets ritirandosi con gravi perdite”.

Basta insomma una scintilla per dar fuoco alla prateria, e lo stesso Putin è parso alquanto scettico sulla volontà avversaria di un’intesa: “L’Occidente troverebbe comunque il pretesto per appiopparci nuove sanzioni”.

Il 19 febbraio 2022, insieme all’alleato bielorusso Alksandr Lukashenko, ha assistito di persona, dalla sala comando del Cremlino, a esercitazioni delle forze missilistiche strategiche russe, le RVSN, o Raketnye Vojska Strategičeskogo Naznačenija, ossia “Truppe dei Razzi Strategici da Guerra”, nonché delle forze nucleari dell’Aeronautica e della Marina, che hanno eseguito lanci di missili balistici e da crociera per dimostrare all’Occidente la prontezza operativa del deterrente nucleare russo.

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Le RVSN, guidate dal generale Sergei Karakayev, schierano 320 missili intercontinentali lanciabili da silos sotterranei o da rampe mobili autocarrate. Molti di essi hanno testate multiple MIRV, perciò la RVSN è forte di 1200 testate nucleari.

Nel corso delle manovre, un missile Yars, che porta 4 testate, dal poligono di Plesetsk ha centrato un bersaglio in Kamchatka, distante 5800 km. Nei cieli artici della Novaja Zemlja, caccia Mig-31 hanno sparato gli ordigni ipersonici Khinzal (“pugnale”), mentre navi e sottomarini hanno testato missili da crociera Zircon e Kalibr.

Peraltro, nella continua gara mediatica volta a diffondere inquietudini, la stampa britannica, e soprattutto il Mirror, ha diffuso il 20 febbraio la voce secondo cui i russi penserebbero di impiegare, contro le forze corazzate ucraine, e anche come mezzo per abbattere il morale del nemico, un’arma convenzionale dagli effetti simili a quelli di una bomba atomica miniaturizzata.

Sarebbe la nota bomba termobarica FOAB, dall’inglese per Father of All Bombs, “Padre di tutte le bombe”, che in russo si dice PVB, Pàpa Vseh Bomb, ma il cui acronimo ufficiale è AVBLM, cioè Aviazionnaja Vakuumnaja Bomba Povishennoi Moshnosti, che tradotto letteralmente suonerebbe “bomba a vuoto (“vacuum”) ad alta potenza per aerei”.

Le Forze aerospaziali di Mosca l’hanno sviluppata fin dal 2007 e, dato l’ingombro, può essere portata da un bombardiere Tupolev Tu-160. E’ lunga 7 metri e pesa 7 tonnellate, ma la sua forza equivale a quella di 44 tonnellate di tritolo, grazie a esplosivi segreti in grado di sviluppare altissime pressioni e temperature. Sembra che l’ordigno sia stato impiegato nel 2017 in Siria durante incursioni russe contro l’ISIS e distruggerebbe tutto nel raggio di 300 metri. Sarebbe dunque più potente della bomba termobarica americana MOAB (Madre di tutte le bombe), alias GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast, lunga 9 metri per 9800 kg di peso, che gli USA hanno in servizio dal 2003 e hanno usato in Afghanistan. L’ordigno statunitense avrebbe una forza pari a “sole” 11 tonnellate di tritolo per un raggio letale di 150 metri.

 

Terra e mare

Il braccio di ferro, dunque continua ed è difficile vedere per ora la luce in fondo al tunnel. Quando il 15 febbraio 2022 Putin aveva ricevuto al Cremlino il cancelliere tedesco Scholz per uno dei tanti tentativi di trattativa delle ultime settimane, all’ipotesi di una moratoria limitata, per esempio a 10 anni, sull’entrata dell’Ucraina nella NATO, lo “zar” aveva risposto deciso che “la questione va risolta adesso una volta per tutte”.

Si ha l’impressione che la Russia sia pronta a giocare il tutto per tutto, “ora o mai più”, per porre degli stabili paletti al fronte NATO, magari sperando in cuor suo che lo sbattere contro un muro possa rappresentare il prodromo di una sorta di ricaduta all’indietro dell’intero schieramento occidentale. La partita potrebbe quindi essere epocale, anche perchè ha radici molto antiche.

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L’asse delle potenze marittime anglosassoni, non tollera, storicamente, una potenza terrestre egemone nel Vecchio Continente. Non è un caso che nell’attuale crisi siano stati americani e britannici, anche più degli ucraini, a soffiare sul fuoco paventando l’imminenza di una invasione russa e mostrando inflessibilità sul presunto destino occidentale di Kiev.

E’ la più recente espressione di un timore atavico del mondo inglese, proiettato sugli oceani e le colonie esterne, verso un continente europeo unificato che poteva invaderlo o affamarlo. Già nel XVI secolo era guerra aperta fra l’Inghilterra della regina Elisabetta e la Spagna degli Asburgo, che sotto Carlo V, e ancor più sotto Filippo II la minacciava, anche per motivi religiosi data la recente spaccatura fra cattolici e protestanti. Come sappiamo agli spagnoli andò male il tentativo di sconfiggere gli inglesi con l’Invincibile Armada, la grande flotta cattolica che nel 1588 fu logorata e battuta dai galeoni capitanati da abili corsari ed esploratori del calibro di Sir Francis Drake.

A quel tempo la Russia dello zar Ivan il Terribile era lontana e remota, al di là dei mari ghiacciati boreali, e solo un piccolo nucleo di “merchants adventurers” britannici faceva la spola fra Londra e il porto di Arcangelo, nel Mar Bianco, facendo perfino balenare a Ivan il sogno di proporsi come sposo di Elisabetta e realizzare una “unione personale” (a quell’epoca abbastanza in voga fra le monarchie europee) fra Russia e Inghilterra che avrebbe letteralmente ribaltato il corso successivo della storia.

Così non fu, ma la Russia risultò due secoli dopo un utile alleato dell’Inghilterra contro la Francia di Napoleone Bonaparte, il nuovo nemico che cercava all’inizio del XIX secolo d’unificare l’Europa. Per punire gli inglesi, che col loro denaro finanziavano regolarmente tutte le coalizioni antifrancesi, Napoleone decretò il 21 novembre 1806 il “blocco continentale”, vietando in pratica a tutti gli stati europei di commerciare con l’Inghilterra o di comprare merci britanniche. Alcuni mesi dopo, il 25 giugno 1807, egli saldò all’Impero francese quello russo, stipulando un patto con lo zar Alessandro I incontrandolo su una sontuosa zattera a Tilsit sul fiume Niemen.

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L’incubo di un blocco eurasiatico si era materializzato per gli inglesi, ma fu relativamente breve. L’alleanza franco-russa cominciò a vacillare già nel 1810, poiché i russi cominciarono a violare il blocco continentale e a riavvicinarsi agli inglesi, temendo che Napoleone si stesse accordando con gli Asburgo d’Austria a loro detrimento. Ne scaturì la guerra del 1812, seguita dalla nota invasione della Russia che fu la tomba della Grande Armeè e prologo della definitiva sconfitta del Còrso.

Nonostante i russi le fossero stati utili per abbattere Napoleone, gli inglesi presero durante tutto l’Ottocento a reputarli dei nemici sempre più insidiosi, soprattutto per la loro spinta geopolitica verso i mari caldi.

Così, la Gran Bretagna, con gli alleati Francia e Piemonte, intervenne a fianco della Turchia nella guerra di Crimea del 1853-1856, proprio per impedire che la pressione russa sull’Impero Ottomano li portasse oltre i Dardanelli e giù fino al Mediterraneo, a insidiare la via delle Indie.

Più tardi fu la volta del “Grande Gioco” in Asia Centrale, che ebbe uno dei suoi punti culminanti nell’annessione della regione turkmena di Merv da parte dell’Impero Russo nel 1884, che associata a un collegamento ferroviario la regione del Caspio avrebbe consentito ai russi, secondo il rapporto d’intelligence “The Defence of India”, di spostare almeno 95.000 soldati e calare sull’Afghanistan e poi sull’India.

All’inizio del XX secolo, con l’alba della geopolitica come dottrina, il geografo scozzese Sir John Halford Mackinder formulò per la prima volta nel 1904 una dottrina coerente che, nelle sue linee essenziali, è ancora seguita dall’asse Londra-Washington.

Egli notò che l’immensa area centrale dell’Eurasia, soprattutto fra la regione della Moscovia, degli Urali e della Siberia, che chiamò Heartland (Terra Cuore) era praticamente invulnerabile all’azione delle potenze navali perchè lontana dalle coste e protetta dalle vastissime estensioni delle steppe, dei deserti e della taiga, mentre perfino sul versante

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Nord le difficili acque dell’Oceano Glaciale Artico e le desolate coste della tundra non offrivano comunque appoggi sufficienti per grandi sbarchi. L’Heartland coincideva per la maggior parte col territorio occupato dalla Russia. E con la modernizzazione di quell’impero, favorita dalla costruzione di ferrovie strategiche come la Transiberiana e dall’industrializzazione, l’Heartland poteva mobilitare le sue enormi risorse, spostandole a Est o a Ovest per linee interne, senza che l’Impero Britannico potesse attaccarlo in patria.

Nella Prima Guerra Mondiale, Gran Bretagna e Russia furono alleate grazie alla mediazione della Francia e al fatto che avevano come nemico comune la Germania, ma dopo la rivoluzione bolscevica si temette sempre più che la Russia potesse in qualche modo coalizzarsi con la Germania e le sue capacità tecnologiche, arrivando a egemonizzare insieme a essa l’Europa e a guadagnare mari caldi da cui minacciare Londra.

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Alla conferenza di Versailles del 1919 Mackinder fu tra i sostenitori della politica atta a dividere la Russia dalla Germania frapponendo fra di esse una barriera di nuovi stati originati dal crollo dell’Impero Zarista e di quello Austroungarico, come la Polonia, la Cecoslovacchia o l’Ungheria.

Tenendo conto del sorgere degli Stati Uniti d’America come nuova potenza mondiale, erede dell’Impero Britannico anche in fatto di potenza marittima, e più tardi aeronautica, lo studioso scozzese perfezionò la sua teoria sostenendo che l’Heartland avrebbe teso a controllare la cosiddetta Inner Crescent, o Mezzaluna interna, cioè le regioni peninsulari e insulari dell’Eurasia come l’Europa Occidentale, il Vicino Oriente, l’India, la Cina, la Corea e il Giappone, emarginando la Outer Crescent, la Mezzaluna Esterna da lui identificata con l’arco che dalle Americhe piegava verso Africa e Australia.

Gli Stati Uniti sarebbero stati espulsi dal sistema di potere mondiale se confinati nel loro emisfero da un Heartland che avesse progressivamente preso il controllo, come impero o più plausibilmente come blocco di alleanze, di ciò che Mackinder chiamò Isola Mondo, o World Island, cioè i tre continenti classici del mondo antico: Europa, Asia, Africa.

 

Sfida secolare

Fu nel 1919 che Mackinder coniò il suo celebre sillogismo: “Chi controlla l’Europa dell’Est controlla (o comanda, nell’originale inglese, egli scrive “commands”) l’Heartland, chi controlla l’Heartland controlla l’Isola Mondo, chi controlla l’Isola Mondo controlla il Mondo”. Già nel 1922 il trattato di Rapallo fra Germania e Russia fece temere un sodalizio del genere, mentre Gran Bretagna e Stati Uniti, nonostante l’isolazionismo di questi ultimi, si considerarono già alleati di lungo periodo, come testimonia la conferenza navale di Washington che riservò solo al condominio anglosassone la parità delle flotte al vertice della classifica, tenendo il Giappone, e ancor più Francia e Italia, assai distanziati.

Il patto russo-tedesco di Rapallo fu utile per scambi tecnologici e anche per consentire ai militari tedeschi di addestrarsi in segreto nelle steppe russe coi mezzi proibiti dal trattato di Versailles, cioè gli aeroplani, a Lipetzk, i carri armati, a Kazan, e le armi chimiche, a Samara. Ma ancor più esplicito fu il patto Ribbentrop-Molotov (dai rispettivi ministri degli Esteri) del 23 agosto 1939, con cui in pratica Adolf Hitler e Josif Stalin si spartirono la Polonia.

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Se il patto Berlino-Mosca non fu duraturo, fu a causa delle differenze ideologiche, ma non è azzardato dire che la Seconda Guerra Mondiale avrebbe avuto tutt’altro esito se Hitler, durante la visita del ministro degli Esteri sovietico Molotov a Berlino, nel novembre 1940, fosse riuscito a convincerlo a far aderire l’URSS al Patto Tripartito che la Germania aveva appena stipulato con Italia e Germania. Il rifiuto sovietico di un blocco continentale a quattro potenze portò infine il Fuhrer alla disastrosa decisione di invadere la Russia il 22 giugno 1941 con l’Operazione Barbarossa.

Come fra Napoleone e Alessandro, anche fra Hitler e Stalin, la “luna di miele” durò poco e prevalsero i sospetti reciproci. E come la Grande Armeè, anche la Wehrmacht fu inghiottita da pianure gigantesche che annunciavano già il margine occidentale di un Heartland dalle cui profondità scaturivano legioni di carri armati T-34 che non finivano mai.

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Mackinder nel 1943 aggiornò la sua teoria sostenendo che anche lo sviluppo dell’aviazione contribuiva alla superiorità dell’Heartland come fortezza naturale inespugnabile, consentendo di bombardare da basi nell’entroterra le teste di ponte anfibie sulle coste dell’Inner Crescent. Nel dopoguerra la teoria di Mackinder, che intanto era morto nel 1947, fu alla base della dottrina del contenimento dell’Unione Sovietica, quando gli Stati Uniti, con la presidenza di Harry Truman, decisero di rimanere in forze in Europa, a differenza di quando nel 1918 se ne erano tornati in patria appena battuta la Germania del Kaiser.

Fondata la NATO nel 1949, per opporre un antemurale all’espansione del comunismo, gli americani allargarono poi la loro influenza a varie nazioni della “mezzaluna”, dal Pakistan al Giappone, per tentare di imprigionare l’URSS fra i suoi ghiacci. Grazie all’intuito di Henry Kissinger, nel 1972 gli USA riuscirono di fatto perfino ad allearsi con la Cina dell’anziano Mao Zedong, che pur comunista era in rotta con Mosca da anni, ponendo le basi per la successiva apertura agli investimenti occidentali che a partire dalle riforme di Deng Xiao Ping del 1979 avrebbero col tempo portato al boom produttivo cinese che ancora oggi spaventa il mondo.

Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’URSS nel dicembre 1991, sembrava a prima vista tramontata la minaccia, ma la NATO rimase, principalmente per assicurare agli Stati Uniti il controllo dell’Europa Occidentale. La Russia sembrava allora, con la presidenza di Boris Eltsin, condannata alla decadenza e Zbigniew Brezinski ne caldeggiava presso Bill Clinton il depauperamento delle risorse, ma l’attacco della NATO alla Serbia nel 1999 e l’inizio dell’allargamento a Est fecero capire a Mosca che era ora di ricostruire, pian piano, la potenza perduta.

Dal 2000 la leadership di Vladimir Putin e del suo entourage ha così lavorato per contendere agli Stati Uniti lo spazio europeo, peraltro iniziando già nel 2001 a riavvicinarsi alla Cina allora guidata da Jiang Zemin con la firma del trattato SCO, l’Organizzazione di Shanghai.

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Gli anni successivi sono stati caratterizzati dal continuo rafforzamento della NATO, in sostanza, per mantenere i destini strategici della Russia e dell’Europa divisi, sebbene in alcuni casi già Putin avesse mandato segnali forti, come con la guerra in Georgia del 2008, che infatti impedì alla fine l’adesione del paese caucasico all’alleanza. Poi, nel 2014, la rivolta di piazza Maidan a Kiev, appoggiata verosimilmente dalla CIA, e il rovesciamento del presidente filorusso Viktor Yanukovich aprirono la crisi del Donbass e portarono al primo grande scontro, sfociato con l’annessione della Crimea alla Russia e con sanzioni tuttora perduranti. E ora siamo arrivati alla fase successiva, forse decisiva.

Nelle intenzioni di Washington e Londra, qualsiasi rischio vale il tenere in piedi la compattezza della NATO e l’impedire che l’Europa si inserisca in un sistema continentale con Russia e Cina, forse prefigurabile, in parte, nei piani della Nuova Via della Seta, tale da rendere l’Eurasia nel suo complesso autosufficiente rispetto al mondo anglosassone. Sarebbe il compimento dell’Isola Mondo prefigurata da Mackinder.

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La potenza americana non potrebbe verosimilmente sopravvivere, ai livelli attuali, emarginata nel suo emisfero, coi soli mercati e risorse residui, tenuto conto anche del fatto che da ormai 50 anni il dollaro non è più convertibile in oro e se non è carta straccia è ancora per la reputazione da superpotenza degli USA e per lo status di unità di riferimento nel mercato petrolifero. Putin e il suo staff sanno bene tutto ciò e anche da parte loro c’è una propensione al rischio nella crisi attuale, allo scopo perlomeno di arrivare a patti che limitino l’alleanza e, forse, ne costituiscano una prima crepa che possa allargarsi col tempo.

Il Donbass, certo, è un obiettivo da difendere, ma è solo una piccola parte del dramma. Un effetto deleterio lo giocherà senz’altro la brutta abitudine delle democrazie moderne di demonizzare l’avversario ritenendolo “inferiore” e non degno di riconoscimento paritario diplomatico. Il che può solo essere foriero di sventure perchè un Occidente avvitato su sé stesso e vittima del proprio sciovinismo ideologico nei confronti del resto del mondo rischia di giudicare e muoversi in una realtà fittizia, “drogata” dall’ideologia.

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E di ideologia sono morte le dittature del passato compresa l’Unione Sovietica, anche in questo la storia dovrebbe rendere più cauti e flessibili i governi dei paesi NATO. Se, come sembra probabile, da ambo le parti non ci saranno cedimenti, resterà solo il dilemma fra una guerra “calda”, ancorchè regionalizzata, tipo “guerra di Spagna del 1936” per evitare disastri nucleari, con tutto ciò che ne consegue, e una più probabile Seconda Guerra Fredda che significherà anni e anni di nuovi stati d’assedio su scala planetaria.

Se il gioco delle sanzioni e contro-sanzioni si facesse troppo duro e si delineassero blocchi continentali contrapposti, ciò significherebbe l’affossamento, forse definitivo, della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, peraltro in un clima economico mondiale sorpreso dai venti di guerra a metà del guado, proprio mentre si stava riprendendo a fatica dalle perturbazioni della pandemia Covid-19.

Foto: Ministero Difesa Russo, Ministero Difesa Ucraino, Sukhoi, Russian Helicopters, NATO, TASS e Twitter

Mappe: Alamy, Stratfor e BBC

Vignetta: Alberto Scafella

https://www.analisidifesa.it/2022/02/escalation-tra-russia-e-ucraina-putin-riconosce-i-secessionisti-di-donetsk-e-lugansk/