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L’Equilibrio Precario del Policentrismo Globale: Il Ruolo dell’Europa_di Alberto Cossu

L’Equilibrio Precario del Policentrismo Globale: Il Ruolo dell’Europa

Autore: Alberto Cossu – 03/12/2025

L’Equilibrio Precario del Policentrismo Globale: Il Ruolo dell’Europa

Le dinamiche geopolitiche del 2025 hanno consolidato una realtà complessa in cui l’ordine internazionale si muove verso un assetto policentrico o multicentrico e dove potenze come l’India giocano un ruolo di bilanciamento fondamentale. Il Partenariato Strategico Privilegiato tra India e Russia, con il 23° Summit Annuale tra Vladimir Putin e Narendra Modi , dimostra di essere un pilastro di questa nuova architettura. Comprendere questa interazione, in particolare nel suo impatto sui rapporti con Washington e Pechino, è essenziale per definire il futuro strategico dell’Europa.

La “Politica dell’Opzionalità” di Nuova Delhi

Il Summit Putin-Modi di dicembre 2025 ha riaffermerà l’impegno reciproco, mettendo in luce l’abilità di Nuova Delhi di esercitare la sua autonomia strategica. L’India, pur essendo un membro chiave del Quad (che include USA, Giappone e Australia) e un partner indispensabile nella strategia di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, non ha permesso che le pressioni occidentali la costringessero ad abbandonare il suo storico alleato russo.

La Russia è rimasta il principale fornitore di armamenti dell’India, un dato che va oltre il mero commercio di armi. Riguarda l’interoperabilità dei sistemi, i contratti di manutenzione a lungo termine e la licenza di produzione in loco che sostiene l’industria della difesa indiana. La discussione sui sistemi S-400 durante il Summit è l’esempio più lampante di come questo legame sfidi la normativa CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act) degli Stati Uniti.

L’acquisto di petrolio russo scontato è stata una mossa economicamente pragmatica per l’India, che ha minimizzato l’impatto dell’inflazione globale sui suoi cittadini. L’accelerazione degli accordi per l’uso di valute locali (come la Rupia e il Rublo) e lo sviluppo di canali di pagamento alternativi al sistema SWIFT, come l’integrazione di RuPay e Mir, sono passi concreti verso la de-dollarizzazione. Queste azioni non solo aggirano le sanzioni occidentali, ma costituiscono anche la base infrastrutturale per il nuovo ordine policentrico.

Questo “Partenariato Strategico Privilegiato Speciale” non è solo bilaterale; esso rappresenta per l’India la leva diplomatica per ottenere migliori condizioni di partnership da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, sfruttando il principio della diversificazione dei rischi.

Il Complesso Triangolo USA-India-Cina

L’asse India-Russia si interseca in modo critico con la principale frizione geopolitica del nostro tempo: la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina.

L’India: Bilanciere Strategico

Per gli Stati Uniti, l’India è il contrappeso essenziale alla crescente egemonia cinese nell’Indo-Pacifico. Washington è disposta a tollerare la relazione indo-russa finché Nuova Delhi mantiene una posizione di non-allineamento favorevole agli interessi occidentali contro Pechino.

Tuttavia, le frizioni economiche non mancano. La decisione della Casa Bianca di imporre dazi o imposte speciali (talvolta soprannominate “tassa-Putin”) sull’importazione di prodotti indiani realizzati con energia o materiali russi, ha messo a dura prova la partnership. Questa mossa è percepita da Nuova Delhi come un tentativo di forzare la sua mano e ridurne l’autonomia, spingendola paradossalmente verso una maggiore cooperazione economica con Russia e Cina attraverso piattaforme come i BRICS e la SCO.

L’altra faccia del policentrismo è il potenziale riavvicinamento pragmatico tra India e Cina. Nonostante le dispute territoriali irrisolte sull’Himalaya, Nuova Delhi e Pechino condividono un interesse convergente nel limitare l’influenza economica e normativa occidentale. La Cina vede nella partnership indiana con la Russia un rafforzamento del blocco non-occidentale, sebbene la sua ambizione egemonica ponga limiti strutturali alla piena fiducia indiana.

L’elemento chiave è la sovranità digitale ed economica. Tutti e tre i Paesi (India, Russia, Cina) lavorano per creare strutture finanziarie e tecnologiche immuni dal controllo giurisdizionale occidentale, accelerando la frammentazione del sistema globale.

L’Europa nel Mondo Policentrico: La Necessità di una “Terza Via”

In questo scacchiere in evoluzione, l’Europa si trova in una posizione strategica fragile. La guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni alla Russia hanno costretto l’Unione Europea a valutare drasticamente la sua dipendenza energetica e autonomia strategica.

L’Europa è ancora largamente dipendente dalla sicurezza fornita dagli USA (tramite la NATO). La sua politica estera, in particolare verso Russia e Cina, è spesso allineata con Washington, riducendo la sua capacità di agire come polo autonomo.

 L’Europa ha un forte interesse a stabilire partnership strategiche con l’India (per la democrazia, la tecnologia e il mercato). Tuttavia, la posizione rigida sull’Ucraina rende difficile per l’UE costruire un vero ponte con Nuova Delhi. Finché l’Europa condanna in modo inequivocabile gli acquisti di petrolio russo o la cooperazione militare indo-russa, non può ambire a sostituire la Russia come fornitore di difesa o come partner energetico di fiducia.

La Visione del “Policentrismo Europeo”

Per avere un ruolo da protagonista, l’Europa non può limitarsi a essere un satellite strategico degli Stati Uniti. Deve sviluppare una sua “terza via”, un policentrismo europeo basato su tre pilastri:

  1. Autonomia Strategica e di Difesa: Investimenti in tecnologia della difesa, cyber-sicurezza e un’industria militare continentale coesa. L’Europa deve essere in grado di difendere i propri confini e interessi senza l’approvazione automatica o il sostegno necessario di Washington.
  2. Diplomazia Attiva: L’Europa deve smettere di porre l’adesione totale alle sue sanzioni come precondizione per la cooperazione con potenze medie come l’India, il Brasile o i Paesi africani. Deve invece offrire partenariati che rispettino l’autonomia strategica di questi Paesi. Ad esempio, nel commercio di chip o di energia pulita, l’Europa può offrire condizioni e catene di fornitura più stabili e meno politicamente vincolanti di quelle cinesi o americane. E’ fondamentale sviluppare soluzioni diplomatiche e non alimentare contrapposizioni.
  3. Potenza Normativa: L’UE è una potenza normativa globale. Deve utilizzare questa forza per plasmare la governance di settori chiave come la tecnologia, l’intelligenza artificiale  offrendo un modello alternativo sia al capitalismo cinese che a quello americano.

Conclusione

Il dibattito tra unipolarismo, multipolarismo e policentrismo non è più meramente teorico; è la realtà operativa del 2025.

L’Unipolarismo (dominato dagli USA dopo il 1991) è in fase di rapido declino.

Il Multipolarismo (spesso inteso come una struttura con pochi, grandi blocchi) non descrive pienamente la fluidità attuale.

Il Policentrismo è il modello più accurato per descrivere l’esistenza di molteplici centri di potere, regionali e tematici, che non sono sempre allineati in blocchi rigidi. L’India è un centro di potere autonomo (sia militare che economico), così come lo sono il Brasile, la Turchia e, potenzialmente, l’Europa.

La persistenza del partenariato India-Russia è la manifestazione più evidente che questi centri di potere apparentemente “minori” eserciteranno la loro sovranità, anche a rischio di tensioni con gli attori maggiori.

Per l’Europa, il futuro non risiede nel tentativo di ripristinare il vecchio ordine mondiale, ma nell’abbracciare il policentrismo e nel ritagliarsi un ruolo di polo di equilibrio e di regolamentazione. L’Europa deve agire come un ponte neutrale, offrendo partnership stabili e basate su regole, diventando l’attore che può dialogare con Nuova Delhi senza imporre ultimatum anti-russi e che può competere con Pechino senza ricorrere al protezionismo estremo di Washington.

La capacità dell’Europa di forgiare una vera autonomia strategica non solo garantirà la sua sicurezza futura, ma determinerà se il policentrismo globale sarà caotico e conflittuale, o se potrà evolvere in un sistema stabile basato su un equilibrio dinamico di interessi e influenze.

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Lo sport come campo di battaglia strategico: geopolitica, innovazione e corsa alla tecnologia – Sport as a Strategic Battleground: Geopolitics, Innovation, and the Race for Technology_di Alberto Cossu

Autore: Alberto Cossu – 17/11/2025

Lo sport come campo di battaglia strategico: geopolitica, innovazione e corsa alla tecnologia

Alberto Cossu – Società Italiana di Geopolitica

Abstract – This paper examines how modern sport has evolved into a strategic arena where nations compete not only for athletic success but for geopolitical influence, technological dominance, and soft power projection. Innovation in materials science, artificial intelligence, and biometric data management now plays a decisive role in shaping performance and national prestige. The analysis highlights how technological competition in sport mirrors broader global rivalries, functioning as a subtle yet potent extension of state power. From mega-events used as geopolitical showcases to the role of sovereign wealth funds in reshaping global football, sport emerges as a complex ecosystem where innovation, security, and national interests converge. Ultimately, athletic supremacy increasingly reflects a nation’s scientific, economic, and political capabilities.

Keywords: geopolitics, sport innovation, soft power

Lo sport moderno non è più unicamente una competizione fisica o un veicolo di fair play olimpico; è diventato un sofisticato strumento di Geopolitica, un palcoscenico globale dove le nazioni non gareggiano solo per la conquista di una medaglia d’oro, ma per l’influenza, il soft power e la supremazia tecnologica.

In questo scenario, l’innovazione, la ricerca scientifica e l’adozione di tecnologie all’avanguardia trascendono il semplice miglioramento delle prestazioni atletiche: esse si affermano come fattori geopolitici determinanti, che plasmano i rapporti di forza globali, definiscono la percezione di un Paese e aprono nuove, complesse sfide etiche e di sicurezza.

Il ruolo dell’innovazione, ricerca e tecnologia come fattore geopolitico

La relazione tra sport e tecnologia è indissolubile: dove un tempo i record erano stabiliti da talenti e regimi di allenamento durissimi, oggi sono sempre più legati alla capacità di una nazione di investire in scienza e ingegneria applicate all’essere umano.

La competizione tecnologica come nuova corsa agli armamenti

Se nel XX secolo la competizione geopolitica si è concentrata sulla corsa agli armamenti nucleari e alla conquista dello Spazio, oggi una battaglia meno visibile ma ugualmente cruciale si svolge nel campo della tecnologia sportiva.

L’introduzione di materiali rivoluzionari, come le piastre in fibra di carbonio nelle scarpe da corsa o i nuovi composti per le attrezzature (nuoto, ciclismo, sci), ha creato un divario netto tra gli atleti sponsorizzati da potenze economiche e tecnologiche e gli altri. La capacità di sviluppare e produrre in massa queste innovazioni non è solo un vantaggio commerciale (dominio di brand specifici), ma riflette l’eccellenza nazionale nell’ingegneria dei materiali e nella ricerca aerospaziale, ambiti con chiare applicazioni anche militari o industriali.

Una nazione che sforna continuamente campioni supportati da tecnologie di allenamento e kit all’avanguardia proietta un’immagine di efficacia, ricchezza e leadership scientifica a livello globale. Questa percezione è cruciale nel gioco del soft power e della reputazione internazionale.

L’Intelligenza Artificiale (AI) e l’analisi predittiva

L’uso di Big Data e Intelligenza Artificiale ha ridefinito il concetto di “allenamento”.

I Paesi o le squadre che hanno accesso ai più sofisticati algoritmi di Machine Learning per analizzare carichi di allenamento, dati biometrici in tempo reale (HRV, sonno) e biomeccanica ottengono un vantaggio strategico immenso. L’AI non solo ottimizza le prestazioni, ma è fondamentale nella prevenzione degli infortuni, garantendo che gli atleti di punta siano pronti per le competizioni chiave. Questo è un fattore di sicurezzanazionale sportiva, assicurando che gli “asset” umani più preziosi siano gestiti al meglio.

 La ricerca svolta in centri sportivi d’eccellenza, spesso finanziati dallo Stato, sull’analisi del movimento e sulla fisiologia umana può avere applicazioni dirette in altri settori strategici, come l’ergonomia militare, la medicina riabilitativa e l’ottimizzazione del lavoro in settori ad alta intensità fisica.

La guerra dei dati biometrici e la sicurezza

I dispositivi indossabili (wearable technology) che monitorano metriche fisiologiche in tempo reale producono un flusso continuo di dati estremamente sensibili sulla salute e sulla preparazione fisica degli atleti.

La Geopolitica dell’informazione e della sicurezza dei dati si estende al campo sportivo. Chi controlla i server e le piattaforme dove sono archiviati i dati biometrici degli atleti d’élite di una nazione? Se tali dati finiscono nelle mani di aziende o governi stranieri, si profila un rischio di spionaggio, vulnerabilità e potenziale sabotaggio strategico, dove i punti deboli di un atleta potrebbero essere teoricamente sfruttati (ad esempio, rivelando schemi di recupero o condizioni mediche).

Le decisioni su quali tecnologie sono “legali” (es. altezza della suola delle scarpe) o accettabili (es. sensori integrati) da parte degli organismi di governance sportiva (FIFA, World Athletics) sono, di fatto, strumenti normativi che influenzano i mercati globali e possono favorire i produttori di determinate nazioni a scapito di altri.

Il rapporto circolare tra geopolitica e innovazione

Il legame tra Geopolitica e innovazione nello sport non è unidirezionale; si tratta di un circolo vizioso (o virtuoso) in cui le dinamiche di potere globale stimolano la ricerca, e i risultati di tale ricerca modificano i rapporti di potere.

L’innesco geopolitico della ricerca (geopolitical trigger)

La competizione tra superpotenze, soprattutto in contesti come la Guerra Fredda (e oggi la rivalità USA-Cina), è stata storicamente il motore più potente per l’innovazione sportiva.

L’ex URSS e il Blocco Orientale utilizzavano le medaglie come prova della superiorità del sistema socialista. Questo obiettivo politico ha portato a investimenti statali massicci e senza precedenti in ricerca biomeccanica, farmacologia sportiva (spesso sfociata nel doping) e metodologia di allenamento, ponendo le basi per molte delle attuali scienze dello sport. La vittoria in campo sportivo era considerata una vittoria ideologica e un successo del modello statale sul capitalismo.

Le Olimpiadi e i Mondiali sono il picco di questa dinamica. I Paesi ospitanti (es. Cina 2008, Russia 2014, Qatar 2022, Tokyo 2021, 2025.) non solo costruiscono infrastrutture all’avanguardia (stadio, piste, villaggi) che fungono da simbolo di modernità, ma spesso stimolano un’accelerazione della ricerca nazionale per garantire che i propri atleti dominino in casa, utilizzando i più recenti ritrovati scientifici. L’organizzazione stessa di questi eventi è un atto geopolitico di affermazione.

Il Soft Power tecnologico

L’innovazione nello sport alimenta il soft power di una nazione in due modi principali:

  1. L’Attrazione del Successo: L’ammirazione per le gesta di un atleta o di una squadra di successo si trasferisce al Paese d’origine. Se quel successo è associato a una tecnologia specifica (“la squadra X vince grazie alla sua scienza”), il Paese riceve un’ulteriore spinta in termini di affidabilità e capacità innovativa.
  2. L’Espansione del Modello: Nazioni che sviluppano modelli di allenamento o tecnologie di gestione sportiva di successo spesso esportano questi modelli. L’apertura di accademie, l’invio di allenatori o l’esportazione di piattaforme di analisi dati in Paesi in via di sviluppo (spesso come parte di accordi bilaterali o aiuti allo sviluppo) è una forma sottile ma efficace di penetrazione culturale e geopolitica.

Le nuove frontiere geopolitiche: calcio e investimenti finanziari

Un’area di recente e intensa attività geopolitica legata all’innovazione è l’uso degli investimenti in club e leghe sportive come strumento di influenza statale.

  • I Fondi Sovrani e il Sportswashing: Paesi come Arabia Saudita e Qatar utilizzano i loro enormi fondi sovrani per acquistare e finanziare club di calcio europei e ospitare mega-eventi. Questo non è solo un investimento economico, ma una manovra geopolitica tesa a:
    • Diversificare l’economia (riducendo la dipendenza dal petrolio).
    • Migliorare l’immagine internazionale e la reputazione (Sportswashing), deviando l’attenzione dalle questioni relative ai diritti umani.
    • Acquisire know-how e tecnologia di gestione sportiva, infrastrutturale e di fan engagement da trasferire a casa propria.
  • La Migrazione del Talento e del Know-how: L’innovazione tecnologica che rende i campionati più ricchi e attraenti (es. gli stadi intelligenti e l’esperienza immersiva per i tifosi) supporta questi investimenti. La capacità di attrarre i migliori atleti, allenatori e scienziati dello sport attraverso stipendi colossali (alimentati dai fondi sovrani) rappresenta un trasferimento di capitale umano e tecnologico che modifica gli equilibri di potere nel mondo del calcio, storicamente dominato dall’Europa.

Conclusione

Lo sport è un microcosmo della competizione globale, e la ricerca, l’innovazione e la tecnologia sono il suo nuovo campo di battaglia. Dallo sviluppo di materiali segreti per ottimizzare le prestazioni all’uso di Big Data, il successo sportivo è sempre più una funzione della capacità tecnologica di una nazione.

Il rapporto è circolare: la Geopolitica spinge all’innovazione come strumento di soft power e di affermazione nazionale, e l’innovazione, a sua volta, ridefinisce le regole del gioco, influenzando chi vince e chi perde, e, di conseguenza, chi detiene il primato tecnologico e narrativo sulla scena mondiale. La vera medaglia d’oro, nel XXI secolo, è la supremazia tecnologica applicata all’eccellenza umana.

Riferimenti

Murray, S. and G. Pigman. (2014). Sport, Politics, and the Olympic Games: Critical Essays.

Chappelet, J. M. and B. Kubler. (2008). The Sport and Geopolitics Nexus: The Role of the Mega-Event.

Grix, J. and B. Houlihan. (2014). The Politics of Sports Mega-Events: The Case of Qatar’s 2022 FIFA World Cup.

Nye, J. S., Jr. (2004). Soft Power: The Means to Success in World Politics.

Pfitzinger, A. and T. Pfitzinger. (2017). Road Racing: The Technology of Speed

Bussmann, T. (2020). Data Analytics in Sports: Advanced Techniques for Analyzing Sport Performance.

Collins, A. and C. Vamplew. (2002). Technology and the Sporting Body: The Use of Human Enhancement Technologies in Sport.

Hamil, S. and A. Morrow. (2006). The Politics of Sports: Oligarchy, Ownership, and the Financing of Football Clubs.

Jennings, A. (2011). Omertà: Sepp Blatter’s FIFA Scandal..

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Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche_di Alberto Cossu

Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche – Where Is Geopolitics Going: Fragmentation, Technology, and New Strategic Areas

Autore: Alberto Cossu – 10/11/2025

Dove va la Geopolitica: frammentazione, tecnologia e nuove aree strategiche – Where Is Geopolitics Going: Fragmentation, Technology, and New Strategic Areas

Alberto CossuSocietà Italiana di Geopolitica

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Abstract – Il documento esplora la trasformazione in atto della geopolitica globale nell’era post-globalizzazione. Attingendo alla recente letteratura accademica e politica (2024-2025), identifica tre dinamiche interconnesse che plasmano l’ordine internazionale: la frammentazione economica e finanziaria, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la centralità strategica di regioni come l’Artico e l’Indo-Pacifico. Lo studio sostiene che il mondo non si sta semplicemente spostando verso la multipolarità, ma verso un sistema “fratturato” di blocchi paralleli e spesso in competizione tra loro. La tecnologia – in particolare l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e la governance dei dati – è diventata un campo di battaglia chiave nella competizione per il potere. Allo stesso tempo, le architetture finanziarie e i regimi di sovranità dei dati stanno ridefinendo i concetti di interdipendenza e sicurezza. Il risultato è uno scenario complesso in cui la sovranità, un tempo legata al controllo territoriale, si estende ora alle infrastrutture digitali, tecnologiche e finanziarie. Il documento conclude che la frammentazione non è un’anomalia temporanea, ma la nuova normalità della geopolitica del XXI secolo, che richiede nuovi quadri analitici per comprendere una competizione per il potere sempre più multidimensionale.

Abstract – The paper  explores the ongoing transformation of global geopolitics in the post-globalization era. Drawing on recent academic and policy literature (2024–2025), it identifies three interrelated dynamics shaping the international order: economic and financial fragmentation, the emergence of technology as a geopolitical domain, and the strategic centrality of regions such as the Arctic and the Indo-Pacific. The study argues that the world is shifting not merely toward multipolarity but toward a “fractured” system of parallel and often competing blocs. Technology—particularly artificial intelligence, semiconductors, and data governance—has become a key battlefield of power competition. At the same time, financial architectures and data sovereignty regimes are redefining the concepts of interdependence and security. The result is a complex scenario where sovereignty, once tied to territorial control, now extends to digital, technological, and financial infrastructures. The paper concludes that fragmentation is not a temporary anomaly but the new normal of 21st-century geopolitics, requiring new analytical frameworks to understand an increasingly multidimensional competition for power.

Keywords: geopolitics, fragmentation, technology, artificial intelligence, financial networks, data sovereignty, Indo-Pacific, Arctic, multipolarity, global order.

Introduzione

La geopolitica, intesa come studio delle interazioni tra potere, spazio e risorse, sta vivendo una fase di profonda trasformazione. Se nel decennio successivo alla Guerra Fredda il dibattito si è spesso concentrato sulla globalizzazione e sull’illusione di un ordine liberale universale, gli sviluppi più recenti indicano invece una traiettoria di crescente frammentazione. Gli studi pubblicati tra il 2024 e il 2025, provenienti tanto dal mondo accademico quanto dai think tank e dalle riviste specialistiche, convergono nel delineare un quadro globale segnato da tre dinamiche interconnesse: la rottura delle catene economiche e finanziarie globali, l’emergere della tecnologia come dominio geopolitico e la crescente rilevanza di nuove aree strategiche come l’Artico e l’Indo-Pacifico.

1. Frammentazione e nuovi blocchi globali

Uno dei concetti più ricorrenti negli studi del 2025 è quello di fracturing, sviluppato da Neil Shearing nel volume The Fractured Age¹. L’autore sostiene che l’economia mondiale non stia semplicemente transitando verso un sistema multipolare, bensì verso un assetto “fratturato”, caratterizzato dalla coesistenza di blocchi paralleli e spesso antagonisti.

Questa tendenza è confermata da analisi provenienti dal Geopolitics Centre di JPMorgan², secondo cui le tariffe introdotte dagli Stati Uniti nei settori critici – semiconduttori, difesa, telecomunicazioni – non rappresentano misure temporanee legate a cicli elettorali, ma strumenti strutturali destinati a perdurare. Ciò implica che il protezionismo e la sicurezza economica siano ormai parte integrante della politica estera, con ricadute significative sulla configurazione delle catene del valore globali.

In sintesi, la letteratura recente sottolinea come il concetto di “globalizzazione” si stia rapidamente trasformando: non più un unico mercato integrato, bensì una serie di ecosistemi regionali parzialmente interconnessi e in competizione tra loro.

2. Tecnologia come dominio geopolitico

Un secondo filone centrale degli studi più recenti riguarda il ruolo della tecnologia come nuovo terreno di conflitto geopolitico. Il Time ha definito l’intelligenza artificiale il “nuovo petrolio geopolitico”³, richiamando l’idea che il controllo delle infrastrutture tecnologiche – dai semiconduttori al cloud, fino ai modelli di intelligenza artificiale – determinerà i futuri equilibri di potere.

Tra gli studi accademici, merita particolare attenzione il lavoro di Toushik Wasi e colleghi, Generative AI and Geopolitics in Industry 5.0⁴, che interpreta l’intelligenza artificiale generativa come un asset strategico cruciale. Secondo gli autori, la competizione non si gioca solo sulla capacità di produrre tecnologie avanzate, ma anche sulla governance e sul grado di accesso consentito agli attori statali e privati.

In parallelo, William Guey e collaboratori hanno condotto uno studio empirico sul bias geopolitico nei modelli linguistici di ultima generazione⁵. Analizzando undici LLM, gli autori hanno dimostrato che la lingua, la narrativa e il framing delle domande influenzano la “posizione” geopolitica delle risposte, con inclinazioni pro-USA o pro-Cina. Questo dato apre scenari significativi sul piano del soft power tecnologico: gli strumenti digitali non sono neutrali, ma incorporano visioni del mondo che possono influenzare opinioni e decisioni politiche a livello globale.

Gli studi convergono dunque nell’evidenziare come la tecnologia non sia soltanto uno strumento economico, ma un campo di battaglia geopolitico a tutti gli effetti.

3. Geopolitica finanziaria

Un terzo ambito di particolare attenzione è quello della finanza internazionale. Antonis Ballis, nel paper Geopolitical Tensions and Financial Networks (2025), analizza l’evoluzione dei sistemi di pagamento globali in un contesto di crescente polarizzazione⁶. L’uso di SWIFT come strumento di pressione contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina ha accelerato la ricerca di alternative, in primis il sistema cinese CIPS e le valute digitali di banca centrale (CBDC).

Secondo Ballis, la nascita di architetture finanziarie parallele rischia di indebolire la coerenza del sistema globale, aumentando l’incertezza e i rischi sistemici. L’ipotesi di una “guerra fredda finanziaria” non appare dunque lontana: le reti di pagamento e le valute diventano strumenti di potere non meno importanti delle basi militari o dei corridoi marittimi.

Questo filone di studi evidenzia come la geopolitica contemporanea non si giochi più solo nello spazio fisico, ma anche in quello invisibile delle transazioni e degli algoritmi finanziari.

4. Nuove aree strategiche: Artico e Indo-Pacifico

Parallelamente ai domini economici e tecnologici, la letteratura recente segnala la crescente rilevanza di aree geografiche specifiche. L’Artico, in particolare, è descritto dal Times come il nuovo “Grande Gioco”⁷. Lo scioglimento dei ghiacci apre rotte commerciali e nuove possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche, stimolando una competizione che vede protagoniste Russia e Cina.

Un discorso analogo riguarda l’Indo-Pacifico. Il Centre for Strategic and International Studies (CSIS) ha recentemente proposto una ristrutturazione del partenariato AUKUS⁸, in particolare del cosiddetto Pillar II, che riguarda la cooperazione in ambito tecnologico e difensivo. L’accento posto su sistemi autonomi, difesa a lungo raggio e intelligenza artificiale indica una chiara volontà di rafforzare la deterrenza nei confronti della Cina. Ciò conferma che la regione indo-pacifica rimane l’epicentro delle tensioni strategiche del XXI secolo, dove convergono interessi militari, commerciali e tecnologici.

5. Sovranità dei dati e governance digitale

Un ultimo filone emergente è quello relativo alla sovranità digitale. Secondo analisi pubblicate da Techradar (2025), la geopolitica sta imponendo ai governi un ripensamento radicale delle politiche di gestione dei dati⁹. L’idea di data sovereignty implica che i dati prodotti all’interno di un territorio debbano essere soggetti a regole nazionali, anziché a standard globali uniformi.

Questo approccio, già visibile nell’Unione Europea attraverso il cosiddetto “effetto Bruxelles”, si traduce in una crescente frammentazione normativa. Il rischio è quello di una “balcanizzazione del cyberspazio”, in cui Internet non rappresenta più uno spazio universale, ma una costellazione di ecosistemi normativi nazionali e regionali. Ciò solleva questioni cruciali sulla compatibilità tra innovazione tecnologica, libertà individuali e strategie di sicurezza.

6.Trends emergenti

Dall’analisi delle ricerche più recenti emergono quattro pattern principali:

  1. Dal multipolare al frammentato: il sistema internazionale non si limita a moltiplicare i poli di potere, ma si struttura in blocchi paralleli, ciascuno con proprie regole, infrastrutture e reti.
  2. Tecnologia come campo di battaglia: IA, semiconduttori, cloud e sistemi digitali rappresentano oggi armi strategiche tanto quanto gli armamenti convenzionali.
  3. Regionalizzazione della sicurezza: l’Artico e l’Indo-Pacifico assumono un ruolo cruciale, insieme al cyberspazio, come nuove frontiere della competizione geopolitica.
  4. Sicurezza come sovranità: che si tratti di dati, catene di approvvigionamento o architetture finanziarie, gli Stati tendono a riaffermare il controllo nazionale o regionale, riducendo la dipendenza da reti globali.

Conclusione

Gli studi più recenti in geopolitica confermano che il mondo sta vivendo una fase di transizione complessa, caratterizzata da un passaggio dall’interdipendenza alla frammentazione. Lungi dal rappresentare una fase temporanea, tale processo sembra destinato a plasmare l’ordine globale dei prossimi decenni.

Per gli studiosi e i decisori politici, ciò implica la necessità di sviluppare nuovi strumenti analitici capaci di comprendere sistemi paralleli, reti tecnologiche non neutrali e forme inedite di sovranità. La geopolitica del XXI secolo non si limita più alla geografia fisica: essa abbraccia la finanza, la tecnologia e il cyberspazio, configurando un terreno di competizione multiforme e in rapida evoluzione.

In questo scenario, l’elemento comune rimane la centralità del potere: chi controlla le infrastrutture materiali e immateriali, le regole di accesso e i flussi di dati e capitali, determinerà i futuri equilibri globali. La sfida per il pensiero geopolitico è dunque quella di adattarsi a una realtà in cui la frammentazione non è un’anomalia, ma la nuova normalità.

Bibliografia

  1. Neil Shearing, The Fractured Age. London: Times Books, 2025.
  2. Reuters, “Tariffs on Crucial Sectors Could Last Beyond Trump Era, Says JPMorgan’s Geopolitics Centre,” 6 agosto 2025.
  3. Charlotte Alter, “The Politics, and Geopolitics, of Artificial Intelligence,” Time Magazine, luglio 2025.
  4. Toushik Wasi et al., “Generative AI as a Geopolitical Factor in Industry 5.0,” arXiv preprint, agosto 2025.
  5. William Guey et al., “Mapping Geopolitical Bias in 11 Large Language Models,” arXiv preprint, marzo 2025.
  6. Antonis Ballis, “Geopolitical Tensions and Financial Networks,” arXiv preprint, maggio 2025.
  7. Michael Evans, “UK Must Be a Player in the Arctic ‘Great Game’,” The Times, luglio 2025.
  8. Centre for Strategic and International Studies (CSIS), “Overhauling AUKUS: Push to Streamline Pillar II,” The Australian, agosto 2025.
  9. Joel Khalili, “Geopolitics Is Forcing the Data Sovereignty Issue—and It Might Just Be a Good Thing,” Techradar Pro, agosto 2025.

Il confine come strumento geopolitico: L’importanza strategica del confine tra Stati Uniti e Messico_di Alberto Cossu

Il confine come strumento geopolitico: L’importanza strategica del confine tra Stati Uniti e Messico

Dott. Alberto Cossu

Introduzione

Il confine tra Stati Uniti e Messico è più di una semplice demarcazione geografica. È uno spazio dinamico e complesso, un vero e proprio fulcro geopolitico che condensa e riflette le identità nazionali, i rapporti di potere e l’interdipendenza economica di due nazioni. La gestione di questo confine ha profonde implicazioni, influenzando non solo le politiche interne ed estere degli Stati Uniti, ma anche la loro stessa percezione di sé. Questo articolo esamina l’importanza strategica di questo confine e valuta l’efficacia di politiche di controllo aggressive nel frenare l’immigrazione clandestina, inquadrando questo approccio come una risposta pragmatica a una situazione di emergenza.

Contesto storico e costruzione del confine

La creazione formale del confine risale al Trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848 , che sancì la cessione di vasti territori messicani agli Stati Uniti. Inizialmente, questo confine era scarsamente regolamentato. Col tempo, tuttavia, si trasformò in una frontiera militarizzata, un processo accelerato nel XX secolo con la creazione della USBorder Patrol nel 1924 , l’agenzia incaricata della sua sorveglianza. Questo sviluppo segnò la transizione da una semplice linea di separazione a una barriera attiva e sorvegliata, riflettendo le crescenti preoccupazioni degli Stati Uniti in materia di sicurezza e flussi migratori.

Il confine come spazio geopolitico e interdipendenza economica

Il confine è uno “spazio conteso” in cui si manifestano tensioni tra diverse visioni del mondo, un concetto esplorato da Robert D. Kaplan e Samuel Huntington. Da un lato, è un simbolo di sovranità e sicurezza nazionale; dall’altro, è un’area di profonda interconnessione. L’integrazione economica, promossa da accordi come il NAFTA e il successivo USMCA , ha creato una significativa interdipendenza economica tra i due paesi. Tuttavia, questa collaborazione ha anche generato disparità, poiché le politiche commerciali hanno favorito lo sviluppo industriale negli Stati Uniti, spesso a scapito dell’agricoltura messicana, alimentando indirettamente le ragioni che spingono alla migrazione. Geopoliticamente, gli Stati Uniti usano la loro influenza oltre il confine per proiettare il loro potere in America Latina e per affrontare minacce transnazionali come il narcotraffico.

Le politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Trump: principi e obiettivi

L’amministrazione Trump ha adottato una politica sull’immigrazione basata sulla ” tolleranza zero “, con l’obiettivo di ridurre drasticamente l’immigrazione illegale attraverso una deterrenza aggressiva. La retorica del “muro”, sebbene la sua costruzione sia stata solo parzialmente completata, ha avuto un forte impatto simbolico, rappresentando una barriera fisica e psicologica contro i flussi migratori. L’amministrazione ha implementato politiche restrittive, tra cui la separazione delle famiglie e il diniego del diritto d’asilo, con l’intento di scoraggiare gli attraversamenti illegali.

Effetti e critiche delle politiche aggressive

I dati pubblicati dal Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) e dalla Protezione delle Dogane e delle Frontiere (CBP) degli Stati Uniti per il 2025 indicano una significativa diminuzione degli attraversamenti di frontiera. Dopo l’insediamento della nuova amministrazione a fine gennaio, i numeri sono crollati a minimi storici. A maggio 2025, la Border Patrol ha segnalato 8.725 “incontri” al confine sud-occidentale, con un calo del 93% rispetto a maggio 2024. A luglio 2025, il numero di “incontri” a livello nazionale da gennaio 2025 è sceso a 57.303 con un calo evidente rispetto alla precedente amministrazione che si assestava a oltre 2 milioni.

Questi dati dimostrano che, in un contesto di crisi, un approccio assertivo e rigoroso al controllo delle frontiere può produrre risultati immediati. Sebbene una tale politica possa avere un elevato costo umanitario e sociale, suscitando critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani e creando tensioni con i paesi limitrofi, il suo obiettivo principale è ripristinare la sicurezza e il controllo in una situazione di emergenza.

Il ruolo del confine nella politica interna e nell’identità nazionale

Il confine è una questione determinante nella politica interna americana, alimentando un dibattito acceso e spesso polarizzato. Per alcuni, il controllo delle frontiere rappresenta la difesa della sicurezza e della sovranità nazionale; per altri, è un simbolo di xenofobia e un tradimento dei principi di accoglienza e opportunità. Questa dicotomia si riflette nell’identità nazionale degli Stati Uniti, dove il confine è sia un simbolo di separazione che un’area di potenziale integrazione culturale.

Il confine e le minacce transnazionali

Il confine tra Stati Uniti e Messico è un punto di transito per minacce transnazionali come il traffico di droga, in particolare il fentanyl, e la criminalità organizzata. Le politiche di frontiera non mirano solo a fermare l’immigrazione, ma anche a smantellare le attività dei cartelli criminali. La collaborazione con il governo messicano, sebbene complessa, è fondamentale per affrontare queste sfide. Gli Stati Uniti, con le loro politiche di frontiera, cercano di esercitare pressione sul Messico affinché cooperi nel contrasto a queste attività illecite.

Conclusione

Il confine tra Stati Uniti e Messico è uno strumento geopolitico di cruciale importanza strategica, come ha sottolineato Henry Kissinger. Politiche di controllo aggressive, come quelle attuate da alcune amministrazioni, possono avere un impatto tangibile sui flussi migratori, contribuendo alla loro riduzione. In un contesto di emergenza e criminalità, un approccio assertivo può essere considerato il più efficace per ottenere risultati immediati.

Tuttavia, è importante notare che una tale strategia non affronta le cause profonde della migrazione, come la povertà e l’instabilità politica, come discusso. In futuro, una volta ripristinata la sicurezza e quando la ripresa dell’economia statunitense richiederà nuove risorse umane, si potrebbe prendere in considerazione una transizione verso un approccio multidimensionale. Questo approccio combinerebbe il controllo delle frontiere con la cooperazione internazionale e gli aiuti allo sviluppo nei paesi di origine, rappresentando una soluzione più completa e sostenibile a lungo termine.

Appendice

Tabella: attraversamenti annuali del confine tra Stati Uniti e Messico

AnnoNumero di “incontri” (dati CBP)
20001.643.629
20051.201.217
2010463.092
2015337.137
2020458.088
20232.475.669
20242.135.000
Gen-Lug 202557.303

Riferimenti

  1. Cossu, A. (2025). Geopolitical implications of the US_ Mexico Boder” in Geopolitics 1/2025, vol. XIV, pp. 387-407.
  2. Friedman, G. (2009). The Next 100 Years. A Forecast for the 21st Century. Allison Busby, London.
  3. Friedman, G. (2020). The Storm Before the Calm. Doubleday, New York.
  4. Graziano, M. (2018). The Island at the Center of the World. Il Mulino, Bologna.
  5. Graziano, M. (2019). Geopolitics. Il Mulino, Bologna.
  6. Huntington, S. (2004). Who Are We? The Challenges to America’s National Identity. Simon & Schuster, New York.
  7. Kaplan, R. D. (2013). The Revenge of Geography. Random House, New York.
  8. Kissinger, H. (2015). World Order. Mondadori, Milan.
  9. U.S. Customs and Border Protection. Official 2025 data.
  10. https://www.welforum.it/trump-inaugura-la-nuova-stagione-della-crudelta-verso-immigrati-e-minoranze/
  11. https://it.wikipedia.org/wiki/Detenzioni_di_migranti_dell%27amministrazione_Trump
  12. https://www.internazionale.it/notizie/alessio-marchionna/2025/01/27/trump-sistema-migratorio-statunitense
  13. https://www.notiziegeopolitiche.net/messico-tutte-le-sfide-del-2025/
  14. https://www.airuniversity.af.edu/JIPA/Display/Article/3768220/protecting-the-hemisphere-safeguarding-us-interests-and-prioritizing-partnershi/

Articolo pubblicato da BWW society: https://bwwsociety.org/journal/archive/the-strategic-importance-of-the us-mexico-border.htm

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Italia e Iran: una relazione speciale_di Alberto Cossu

Italia e Iran: una relazione speciale

Alberto Cossu – Vision & Global Trends. Progetto Società Italiana di Geopolitica

Italia e Iran 1857–2015. Diplomazia, politica ed economia”, a cura di Milano, Imperato, Monzali e Spagnulo, è un volume di oltre 600 pagine che analizza una delle relazioni bilaterali meno studiate, ma fondamentali per capire il rapporto fra Italia e Medio Oriente. Il libro attraversa un secolo e mezzo di storia con uno sguardo multidisciplinare: diplomazia, economia, cultura e i temi più sensibili della geopolitica contemporanea.

Il punto di forza è la ricerca archivistica rigorosa. Gli autori lavorano su fonti storiche nazionali e materiali da archivi diplomatici, integrando corrispondenze, relazioni del Ministero degli Esteri e testimonianze dal mondo iraniano, francofono e anglosassone. Questo permette uno scambio reale tra storiografie diverse e consente di superare la mera cronaca degli eventi, restituendo la pluralità dei fattori che hanno modellato le relazioni tra Italia e Iran.

La periodizzazione abbraccia un lungo arco temporale. Si parte dalle missioni organizzate dal Regno di Sardegna e dal primo trattato con la Persia Qajar nel 1857. Progressivamente si formalizzano i rapporti con il Regno d’Italia. Questi sono parte di una fitta rete di rapporti commerciali e culturali, che si innesta spesso nella strategia iraniana della “Third power policy”: la capacità di muoversi fra le maglie dei grandi imperialismi, russo e britannico, cercando sponde alternative in Europa, con l’Italia come interlocutore privilegiato.

La narrazione mostra che l’Italia non si limita a bilanciare grandi e piccole potenze. Cerca un equilibrio tra pragmatismo economico (dalla seta agli accordi petroliferi di ENI e Mattei) e una tensione “civilizzatrice”, che proietta sull’Iran un immaginario orientalista senza però rinunciare al realismo mediterraneo. Da parte italiana emerge costantemente la volontà di proporsi come interlocutore pragmatico e affidabile, confermato dalle testimonianze iraniane: i governi persiani, dai Qajar alla Repubblica Islamica, valorizzano il ruolo “non minaccioso” dell’Italia come alternativa alle potenze coloniali.

Il volume ripercorre momenti chiave: il “grande gioco” nel Caucaso, la modernizzazione Qajar, la Prima Guerra Mondiale, le opportunità mancate tra le due guerre, la cooperazione petrolifera nel dopoguerra. La continuità dello Stato iraniano, la sua adattabilità e la ricerca di agenzie modernizzatrici extraregionali posizionano l’Italia come “alleato debole” ma rassicurante, capace di inserirsi tra le rivalità anglo-russe, le transizioni di regime e le questioni petrolifere.

Italia-Iran come laboratorio delle medie potenze

La storia italo-iraniana rappresenta un vero laboratorio per capire le opzioni delle medie potenze in un sistema internazionale segnato da rigidità e spazi di autonomia. In questo scenario, la “Third power policy” iraniana è molto più di un tatticismo: è una risposta sofisticata alla necessità di salvaguardare la sovranità nazionale in condizioni di dipendenza.

Le medie potenze sono Stati che non raggiungono il livello di influenza dei grandi, ma giocano ruoli decisivi nell’ordine globale. Non dominano con forza militare o economica, ma costruiscono la propria credibilità tramite la diplomazia, la formazione di coalizioni, la promozione di norme e la gestione multilaterale delle crisi. In questa  lezione, Italia e Iran hanno mostrato elasticità e visione strategica simile a quella di altri “middle powers” come Turchia, Australia o Canada. L’Italia ha agito come ponte e facilitatore, usando il suo status non minaccioso per promuovere dialoghi, accordi e mediazioni.

L’Iran, invece, ha saputo sfruttare la competizione tra le grandi potenze. Nel XIX secolo si trova schiacciato tra pressione russa e britannica. La “Third power policy” consiste nel coinvolgere una terza potenza esterna, preferibilmente distante geograficamente e priva di ambizioni territoriali troppo evidenti. Scelta con prudenza, questa potenza serve per bilanciare la pressione dei due poli principali, garantendo margini di autonomia all’Iran. Anche l’Italia ha ricoperto questo ruolo: mai colonizzatore, sempre presente come consulente o partner, spesso neutrale nei conflitti anglo-russi.

Questa strategia non è priva di rischi. Un errore nel tempismo o nella scelta della “terza potenza” può intensificare la pressione esterna, come accadde ogni volta che la Francia si ritirava o la Germania perdeva influenza nei momenti chiave. Tuttavia, i diplomatici iraniani e italiani hanno costantemente mirato a sfruttare le divisioni tra le potenze dominanti, non solo per sopravvivere, ma per consolidare interessi autonomi.

Nel periodo contemporaneo, questa funzione di laboratorio si rivela negli snodi della guerra fredda, negli equilibri della rivoluzione islamica e nella gestione delle controversie sul nucleare. L’Italia, mentre gestiva le proprie limitate ambizioni di “politica di potenza”, utilizzava il realismo minore come strumento di adattamento intelligente, senza rinunciare all’iniziativa autonoma. Nei negoziati petroliferi Mattei-ENI, Italia e Iran hanno dato prova della capacità delle medie potenze di inserirsi dove i giganteschi interessi degli Stati Uniti o dell’URSS lasciavano varchi.

Anche la dimensione culturale e sociale fa parte di questa sperimentazione geopolitica: scambi accademici, missioni archeologiche, formazione di élite iraniane in Italia e fascinazione reciproca per il patrimonio storico hanno rafforzato un’identità relazionale unica, che resiste alla volatilità delle crisi politiche e negozia generando nuove possibilità di cooperazione.

Medie potenze: tra rigidità e autonomia

Secondo la teoria delle medie potenze, questi Stati svolgono un ruolo di stabilizzatori dell’ordine internazionale. Favoriscono la costruzione di istituzioni, agiscono da broker legittimi, propongono mediazioni e contribuiscono alla costruzione di agende globali su temi che i grandi ignorano: proliferazione nucleare, sicurezza alimentare, bandi delle mine, debito internazionale. L’Italia ha spesso trovato spazio proprio in queste aree, dove il suo coinvolgimento non era percepito come minaccia, ma come contributo tecnico e diplomatico.

Per l’Iran, la “Third power policy” è una risorsa strategica vitale, specie nei momenti di crisi. Attingendo alle rivalità tra le grandi potenze, l’Iran ha imparato a negoziare il proprio spazio di autonomia, ottenendo occasioni di sviluppo, tecnologie e capitale politico. Questo approccio non è stato sempre una scelta, ma spesso una necessità—un “istinto di sopravvivenza” elaborato in secoli di doppia pressione.

Di fatto, il laboratorio italo-iraniano mostra che le opzioni delle medie potenze sono reali solo se sostenute da una solida professionalità diplomatica, da una capacità di adattamento, e dalla disponibilità a cogliere opportunità anche in condizioni di dipendenza strutturale. L’Italia si è spesso posizionata come mediatrice, usando la sua non appartenenza a schieramenti rigidi per costruire ponti anche quando i margini di autonomia sembravano ridotti.

La storia comune è una lezione di sopravvivenza statuale e di costruzione della sovranità: non semplici ricettori delle pressioni internazionali, ma attori capaci di ritagliarsi margini negoziali, innovare la propria diplomazia, sperimentare modelli di sviluppo autonomi.

Critica alle semplificazioni geopolitiche

Il volume evita il determinismo geopolitico e la lettura moralistica della “politica delle debolezze”. Analizzando le strategie italo-iraniane, mostra come sia possibile per le medie potenze agire entro spazi di manovra reali. L’Iran non ha solo subito la pressione degli imperi: ha saputo usare la “Third power policy” come leva per difendere la propria sovranità, alternando momenti di apertura e di chiusura, e scegliendo interlocutori secondo necessità contingenti, talvolta persino sfruttando le contraddizioni degli avversari.

Questa strategia non è priva di costi. Il rischio è che la “terza potenza” scelga di limitare la sua presenza, oppure che i due grandi avversari trovino un accordo e chiudano i varchi negoziali. Per avere successo, occorrono diplomatici competenti e la capacità di ricalibrare continuamente le alleanze.

Nel caso dell’Italia, la tensione tra “politica di potenza” e “realismo minore” è stata vissuta come occasione per ridefinire il proprio ruolo: non semplice spettatore, ma partner attivo capace di adattare le strategie alle mutate condizioni internazionali.

Conclusioni

Nel complesso, “Italia e Iran 1857–2015. Diplomazia, politica ed economia” offre un quadro solido e multidimensionale. La scrittura è chiara anche nei passaggi più densi, e il volume diventa un riferimento essenziale per comprendere i margini di azione delle medie potenze e la complessità geopolitica euro-mediterranea. La relazione speciale tra Italia e Iran mostra che la modernizzazione e la cooperazione sono possibili anche all’interno di sistemi dominati da pressioni esterne, se si sanno sfruttare le opportunità della “Third power policy”.

Oggi, le sfide rimangono: la perdita di profondità strategica italiana, le oscillazioni interne iraniane, la difficoltà di mantenere una “vocazione al dialogo” coerente. Tuttavia, il laboratorio italo-iraniano resta una fonte di insegnamento per chi vuole comprendere come le medie potenze possano evitare la subordinazione e contribuire, da protagoniste, all’ordine internazionale.

Medie potenze come Italia e Iran dimostrano che è possibile agire, mediare, influenzare agende e difendere identità anche in contesti di superpotenze. La storia della loro relazione continuerà ad essere un laboratorio prezioso per interpretare le evoluzioni politiche globali e per riflettere sui limiti e sulle possibilità dell’autonomia strategica nel nuovo mondo multipolare.

Come affermano gli autori nell’introduzione “questo libro indica che è possibile fra Stati con valori e storie differenti coltivare rapporti di dialogo e collaborazione e che la diversità d’interessi non necessariamente deve sfociare in scontro e antagonismo totale e assoluto”.

Italia e Iran: 1857-2025

Diplomazia, politica ed economia

A cura di Luciano Monzali, Rosario Milano, Federico Imperato, Giuseppe Spagnulo

Editoriale Scientifica, 2025, Napoli,

Collana: Memorie e studi diplomatici diretta da Stefano Baldi

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Gli Accordi di Abramo: un modello per un Medio Oriente pacifico e prospero_di Alberto Cossu

Riceviamo e pubblichiamo. L’economia del sito richiede un ulteriore approfondimento nel quale, i temi della pace, nelle sue varie accezioni, compresa quella di condizione di relativo equilibrio tra potenze, si inseriscono e consistono in un intreccio di relazioni di natura gerarchica tra Stati e centri decisori. Gli accordi di Abramo potrebbero rappresentare, in caso di successo, una svolta che rideterminerebbe le posizioni di diversi Stati dell’area e il probabile ribaltamento dei loro centri decisori, a cominciare da Israele e Iran_Giuseppe Germinario

Gli Accordi di Abramo: un modello per un Medio Oriente pacifico e prospero
Autore Alberto Cossu 06/10/2025

Introduzione

Alla vigilia di una probabile accordo tra Israele e Hamas è fondamentale riconoscere i progressi significativi compiuti in Medio Oriente grazie alla firma degli Accordi di Abramo. Questi accordi, negoziati e firmati durante la prima amministrazione Trump, rappresentano uno dei risultati diplomatici più rilevanti di quel periodo. L’amministrazione Biden, consapevole del loro valore strategico, ha continuato a sostenerli e a svilupparli ulteriormente.

Gli Accordi di Abramo costituiscono una svolta storica, poiché hanno normalizzato le relazioni diplomatiche tra Israele e diversi Stati arabi, tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Tale processo di normalizzazione ha aperto nuove prospettive di cooperazione economica, scambio tecnologico e collaborazione in materia di sicurezza, segnando un cambiamento decisivo rispetto a decenni di ostilità e isolamento.

In modo cruciale, gli Accordi delineano una visione di Medio Oriente fondato sulla pace e sulla prosperità condivisa. Essi dimostrano che il dialogo e il pragmatismo possono prevalere anche in una regione storicamente segnata dai conflitti. Tuttavia, è importante sottolineare che gli Accordi non hanno risolto la questione israelo-palestinese, che rimane al centro delle tensioni regionali. Molti osservatori concordano sul fatto che una soluzione complessiva potrà essere raggiunta solo quando tutti i Paesi arabi – e in particolare il Regno dell’Arabia Saudita – avranno stabilito relazioni diplomatiche normali con Israele.

La possibile adesione dell’Arabia Saudita è considerata la chiave di volta per una pace regionale più ampia. La normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita non solo isolerebbe ulteriormente gli attori contrari alla pace, ma creerebbe anche lo slancio diplomatico necessario per affrontare le aspirazioni palestinesi all’autodeterminazione. Fino a quando ciò non avverrà, gli Accordi di Abramo dovranno essere considerati come un punto di partenza: una base sulla quale costruire futuri negoziati e percorsi di riconciliazione, una volta conclusi gli attuali conflitti.

L’origine degli Accordi di Abramo e la visione che essi incarnano – un Medio Oriente pacifico e cooperativo – restano di importanza fondamentale. Solo quando i Paesi ancora contrari alla normalizzazione sceglieranno di avviare negoziati autentici e di perseguire compromessi ragionevoli sarà possibile risolvere la questione palestinese e raggiungere una pace duratura.

È altrettanto importante riconoscere che l’Iran si è costantemente posto come fermo oppositore degli Accordi di Abramo. Teheran considera la normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Stati arabi una minaccia diretta alla propria influenza regionale e ha attivamente cercato di ostacolare il processo, sia attraverso la retorica, sia mediante il sostegno a gruppi armati ostili a Israele e ai suoi nuovi partner. La leadership iraniana interpreta gli Accordi come un tentativo di costruire un’alleanza strategica volta a contenere le sue ambizioni e a isolarla nel contesto mediorientale. Questa opposizione si è concretizzata in un sostegno rafforzato a gruppi come Hamas e Hezbollah, nonché in azioni volte a compromettere l’integrazione regionale in corso.

In sintesi, pur non offrendo una soluzione immediata a tutte le sfide della regione, gli Accordi di Abramo rappresentano un passo decisivo verso un Medio Oriente più pacifico e interconnesso. Il loro pieno potenziale potrà realizzarsi solo quando, al termine delle attuali ostilità, tutti gli attori regionali – inclusi quelli oggi contrari – sceglieranno la via del negoziato e del compromesso anziché quella dello scontro. Solo allora la visione di un Medio Oriente stabile, prospero e pacifico, delineata dagli Accordi di Abramo, potrà diventare realtà.

Contesto storico: dal conflitto alla cooperazione

Gli Accordi di Abramo, promossi e firmati sotto l’amministrazione Trump nel settembre 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e successivamente sottoscritti anche da Marocco e Sudan, rappresentano una tappa storica nel panorama diplomatico e strategico del Medio Oriente e del Mediterraneo. Questi accordi, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e diversi Stati arabi, non solo hanno posto fine a inimicizie radicate da decenni, ma hanno anche aperto nuove prospettive di cooperazione economica, tecnologica e in materia di sicurezza. La loro importanza è divenuta ancora più evidente nel contesto delle attuali tensioni e del conflitto aperto tra Iran e Israele, che minaccia di destabilizzare l’intera regione. In tale scenario, gli Accordi di Abramo possono costituire un modello per un Medio Oriente pacifico e prospero, a condizione che vengano consolidati ed estesi.

Per comprendere appieno il potenziale trasformativo degli Accordi di Abramo, è necessario inquadrarli nel complesso contesto storico del Medio Oriente, una regione a lungo segnata da cicli di guerre, rivolte e rivalità profonde, in particolare dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano e la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. I decenni successivi furono caratterizzati da conflitti ricorrenti, dalla diaspora palestinese e da dispute persistenti su territori e identità nazionali.

Come osservò Henry Kissinger, il conflitto mediorientale è “tanto religioso quanto geopolitico”, con un blocco sunnita – composto da Arabia Saudita, Stati del Golfo, Egitto e Turchia – contrapposto a un blocco sciita guidato dall’Iran, che sostiene la Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. L’ascesa dell’influenza iraniana, soprattutto dopo l’intervento della Russia in Siria e i successi delle forze filoiraniane in Iraq, ha creato un corridoio da Teheran a Beirut, percepito come una minaccia diretta da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita.

In questo clima di tensione, gli Accordi di Abramo sono emersi come un audace tentativo – sostenuto dall’amministrazione Trump – di rompere con le logiche del passato e costruire un futuro di pace e prosperità. Gli accordi sono stati resi possibili da una combinazione di leadership pragmatica da parte di alcuni Stati arabi, da preoccupazioni condivise circa le ambizioni regionali dell’Iran e da un interesse comune per la crescita economica e la stabilità.

L’impatto immediato: sicurezza, dialogo e crescita economica

Dalla loro firma, gli Accordi di Abramo hanno avuto un impatto profondo sul Medio Oriente e sul Mediterraneo. Anzitutto, hanno aperto nuove opportunità di cooperazione e dialogo tra Israele e i suoi nuovi partner arabi. Sul piano della sicurezza, la normalizzazione delle relazioni ha creato un fronte comune contro le minacce regionali, come il terrorismo e la proliferazione nucleare. Lo scambio di informazioni di intelligence e le iniziative congiunte in materia di sicurezza sono diventati una prassi consolidata, rafforzando l’asse anti-iraniano nella regione.

Gli Accordi hanno inoltre favorito il dialogo interculturale e la comprensione reciproca: scambi culturali, progetti educativi e iniziative di diplomazia pubblica hanno contribuito ad abbattere stereotipi e a costruire fiducia tra popoli vicini. Sul piano economico, gli accordi hanno generato un forte incremento degli scambi commerciali, degli investimenti e delle partnership nei settori dell’energia, del turismo e delle infrastrutture. Secondo l’Abraham Accords Peace Institute e la RAND Foundation, gli Accordi potrebbero generare fino a 1.000 miliardi di dollari di nuova attività economiche e creare circa 4 milioni di posti di lavoro nel prossimo decennio, contribuendo in modo significativo alla ripresa regionale dopo la pandemia di Covid-19.

Sfruttando lo slancio degli Accordi di Abramo, gli Stati Uniti hanno promosso la costituzione del gruppo U2+I2 – composto da Stati Uniti, Israele, Emirati Arabi Uniti e India. Questa iniziativa mira ad estendere i benefici della cooperazione dal Medio Oriente all’Indo-Pacifico, creando un arco strategico che colleghi l’Eurasia occidentale a quella orientale. Il Corridoio India–Medio Oriente–Europa (IMEC), lanciato durante il vertice del G20 presieduto dall’India, rappresenta un elemento chiave di tale strategia, con il potenziale di modificare gli equilibri regionali a favore degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Il gruppo U2+I2 valorizza le competenze e le complementarità dei suoi membri per affrontare le sfide globali e promuovere la prosperità regionale attraverso iniziative congiunte nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti, dello spazio, della sanità e della sicurezza alimentare. Questa rete non solo rafforza la sicurezza, ma apre anche nuove vie di sviluppo e prosperità, posizionando il Medio Oriente come ponte strategico tra Europa e Asia.

Gli Accordi di Abramo nel contesto della guerra Iran–Israele

L’attuale conflitto tra Iran e Israele mette in luce sia la fragilità sia la necessità degli Accordi di Abramo. La strategia iraniana di sostegno ad attori non statali e di proiezione d’influenza attraverso proxy come Hezbollah e Hamas ha accresciuto i timori, tra gli Stati arabi, di una destabilizzazione regionale. Gli Accordi di Abramo, pertanto, non rappresentano soltanto un processo di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo, ma anche la formazione di una coalizione più ampia di Stati moderati che aspirano a stabilità e sicurezza di fronte all’espansionismo iraniano.

Il recente attacco di Hamas contro Israele nell’ottobre 2023, ampiamente interpretato come un tentativo di sabotare il processo d’integrazione regionale, evidenzia la posta in gioco. Iran e i suoi alleati hanno cercato di bloccare un allineamento regionale che avrebbe potuto favorire un’integrazione più profonda di Israele nel Medio Oriente. Stati Uniti e Israele, tuttavia, hanno agito sulla base del principio secondo cui l’Iran non può detenere un diritto di veto sul futuro della regione, conducendo ad una situazione di conflitto permanente.

Benefici economici e sociali: una nuova interdipendenza

Oltre alla sicurezza, gli Accordi di Abramo hanno dato impulso a una nuova ondata di attività economiche. Il commercio tra Israele e gli Stati del Golfo è aumentato in modo significativo, con la nascita di nuove partnership nei settori della tecnologia, dell’energia, del turismo e delle infrastrutture. La normalizzazione ha inoltre favorito la crescita degli investimenti diretti esteri (IDE), delle joint venture e dei progetti collaborativi che contribuiscono allo sviluppo e alla resilienza della regione.

Sul piano sociale, gli Accordi hanno incoraggiato gli scambi culturali, le iniziative educative e una maggiore interazione tra i popoli. Questa forma di “diplomazia dolce” è fondamentale per superare i pregiudizi e costruire una comprensione reciproca – le basi indispensabili per una pace duratura.

Le sfide: la questione palestinese e le dinamiche regionali

Nonostante i numerosi successi, gli Accordi di Abramo non hanno risolto il conflitto israelo-palestinese, che resta centrale per la pace nella regione. Molti palestinesi percepiscono la normalizzazione come un tradimento della loro causa, temendo che essa possa relegare in secondo piano le loro aspirazioni statuali. Alcuni analisti ritengono che gli Accordi abbiano marginalizzato la questione palestinese, mentre altri li considerano un’opportunità per rilanciare il processo di pace su basi nuove e più pragmatiche.

Gli Accordi di Abramo hanno contribuito a intensificare la rivalità con l’Iran, che percepisce la crescente alleanza tra Israele e gli Stati arabi sunniti come una minaccia diretta. L’attuale conflitto tra Iran e Israele mette in evidenza la fragilità dell’architettura di sicurezza regionale e la necessità urgente di soluzioni diplomatiche inclusive.

Il ruolo degli altri attori globali e regionali

Gli Accordi di Abramo hanno anche rimodellato le strategie delle principali potenze mondiali. La situazione politica della Siria, la mediazione della Cina tra Arabia Saudita e Iran e la posizione autonoma della Turchia riflettono le dinamiche in evoluzione della regione. Gli Accordi hanno dato impulso a nuovi allineamenti e a una competizione rinnovata, ma anche a possibilità di cooperazione multilaterale.

L’Europa e l’Italia, in particolare, possono svolgere un ruolo significativo come partner economici e facilitatori diplomatici, valorizzando i propri legami storici e la vicinanza geografica al Medio Oriente.

La promessa di un futuro di pace

Nonostante i conflitti in corso e le questioni ancora irrisolte, gli Accordi di Abramo rappresentano un faro di speranza. Essi dimostrano che il dialogo e la cooperazione sono possibili anche in una regione a lungo segnata da sfiducia e conflitti. Gli Accordi hanno già modificato l’equilibrio di potere, unendo Israele e gli Stati arabi moderati contro le minacce estremiste e creando un contrappeso all’influenza iraniana.

In modo cruciale, gli Accordi offrono un modello per l’integrazione regionale futura. Il coinvolgimento degli Stati Uniti e la formazione del gruppo U2+I2 estendono ulteriormente questa rete, collegando il Medio Oriente all’Indo-Pacifico e all’Europa. Questo allineamento strategico non solo rafforza la sicurezza, ma apre anche nuove prospettive di sviluppo e prosperità condivisa.

Conclusione

Se consolidati ed estesi, gli Accordi di Abramo potrebbero davvero costituire il modello per un Medio Oriente pacifico e prospero. Il loro successo dipenderà dalla volontà degli attori regionali di affrontare le questioni ancora aperte, integrare le nuove alleanze e promuovere uno sviluppo inclusivo. Il cammino verso la pace è irto di sfide, ma gli Accordi offrono un’alternativa pragmatica e ricca di speranza – un modello di integrazione regionale capace di trasformare il Medio Oriente per le generazioni future.

Gli Accordi di Abramo hanno inaugurato una nuova fase nelle relazioni mediorientali, con effetti positivi sull’economia, sulla sicurezza e sulla cooperazione regionale. La loro sostenibilità, tuttavia, dipenderà dalla capacità di affrontare le sfide ancora irrisolte – in particolare la questione palestinese e le tensioni con l’Iran e altri attori regionali. Se coltivati e ampliati, gli Accordi potranno davvero diventare il modello di riferimento per un Medio Oriente pacifico e prospero.

Mussolini e l’Oriente_di Alberto Cossu

Mussolini e l’Oriente

di Alberto Cossu – Vision & Global Trends. Progetto Società Italiana di Geopolitica

Enrica Garzilli è una rinomata studiosa e ricercatrice con una profonda conoscenza delle lingue e delle culture orientali. Ha insegnato in importanti università americane, tra cui Harvard, dove si è specializzata in storia, filologia e studi religiosi, concentrandosi in particolare sull’Asia meridionale. Il suo lavoro si distingue per l’approccio multidisciplinare e per la meticolosa ricerca d’archivio, che le permette di svelare aspetti inediti degli eventi e personaggi storici che studia.

ll saggio “Mussolini e l’Oriente” (UTET, 2023), che ha dimensioni ponderose di oltre 1000 pagine, non è semplicemente un’ulteriore biografia del Duce o un’analisi convenzionale della politica estera fascista. È un’opera che scava in profondità, svelando un aspetto quasi completamente trascurato dalla storiografia: l’ambizione di Benito Mussolini di estendere l’influenza italiana non solo nel Mediterraneo e in Africa, ma anche, in modo sistematico e strategico, nel vasto e complesso mondo asiatico.

Con una ricerca meticolosa e basata su documenti inediti, l’autrice dipinge un quadro in cui l’Oriente non è un semplice orizzonte esotico, ma una tessera fondamentale del mosaico geopolitico fascista. La tesi centrale, sostenuta con un’impressionante mole di documenti, è che l’interesse di Mussolini per l’Asia non fu un’improvvisazione dettata dall’alleanza con il Giappone negli anni ’30, ma un elemento strutturale della sua visione fin dagli albori del regime. Garzilli ci costringe a considerare la prospettiva strategica globale che ispirava il fascismo.

Mussolini, come Garzilli dimostra in modo convincente, vide nell’Asia una straordinaria opportunità per infrangere l’egemonia delle potenze occidentali, in primis quella britannica. L’Impero Britannico, con la sua “collana di perle” che andava da Suez all’India, rappresentava il principale ostacolo all’espansione italiana. Mussolini capì che indebolire la Gran Bretagna in Asia significava minarne le fondamenta del potere globale.

La sua strategia era dunque duplice: da un lato, avvicinare le nazioni asiatiche in cerca di indipendenza, presentandosi come un’alternativa alle potenze coloniali; dall’altro, costruire alleanze con regimi militaristi e autoritari che condividevano un’ideologia antiliberale e antidemocratica.

Il fascismo si propose come una “terza via” tra il capitalismo liberale e il comunismo sovietico, una formula che, almeno a livello di propaganda, trovava un’eco in alcuni contesti asiatici. La Garzilli mette in luce come questa “terza via” fosse supportata da una sofisticata propaganda culturale e da una diplomazia segreta che utilizzava figure chiave come orientalisti, esploratori e diplomatici.

Questi personaggi, agendo come “ambasciatori” del regime, non solo diffondevano l’immagine di un’Italia forte e moderna, ma raccoglievano anche informazioni preziose e tessevano una rete di contatti che sarebbe stata fondamentale per le ambizioni future di Mussolini. L’autrice ci svela un aspetto poco conosciuto: il ruolo dell’Italia come “pioniere” nelle relazioni con l’Afghanistan, che riconobbe per prima nel 1921, aprendo la strada a una serie di accordi che la inserirono nel “Grande Gioco” tra le potenze per il controllo dell’Asia centrale.

Il libro si articola in una serie di capitoli che esplorano le diverse direttrici della politica orientale di Mussolini, ciascuno dedicato a un paese o a una regione specifica. Il Giappone emerge come l’alleato “ideale”, non solo per ragioni politiche, ma anche ideologiche.

Mussolini ammirava nel militarismo e nell’etica marziale giapponese un’eco dei valori che il fascismo voleva imporre in Italia. La Garzilli documenta come già negli anni ’20 il Duce guardasse al Giappone come a un potenziale partner strategico nella lotta contro le potenze occidentali, un’idea che culminò poi nel Patto Tripartito.

L’India, che Mussolini definiva con ammirazione “il forziere del mondo”, rappresenta un altro capitolo affascinante. L’autrice non solo conferma le ambizioni di conquista del Duce, ma svela anche la complessità del suo rapporto con il subcontinente. Mentre cercava di minacciare il dominio britannico, il Duce teneva contatti con i leader nazionalisti indiani, che a loro volta, come dimostrano alcuni documenti, non erano immuni a una certa fascinazione per la figura dell’uomo forte.

La relazione tra Mussolini e personalità come Gandhi e Subhas Chandra Bose è uno dei passaggi più illuminanti del libro. La Garzilli mostra come Gandhi, pur non condividendo l’ideologia fascista, ha attenzione e attrazione verso il personaggio politico come dimostra la lettera a Romain Rolland:” Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attraggono. Sembra aver fatto molto per la classe rurale. Ovviamente il pugno di ferro è lì. Quello che mi colpisce è che dietro la sua spietatezza c’è il motivo di servire il popolo. Anche dietro i suoi discorsi roboanti c’è un nucleo di sincerità e amore per la sua gente. In generale non sembra un uomo di umanità. Ma devo dire che con me è stato affascinante.”

Il capitolo sull’Afghanistan rivela l’intelligenza strategica di Mussolini. Riconoscendo per primo la sua indipendenza, l’Italia si assicurò una posizione di privilegio in una regione vitale per il controllo delle vie commerciali e per l’equilibrio di potere in Asia. Questo passo diplomatico permise a Mussolini di insinuarsi in un’area tradizionalmente dominata da russi e britannici, dimostrando una visione di lungo periodo che andava ben oltre l’improvvisazione. Infine, l’autrice esamina il ruolo di Gian Galeazzo Ciano in Cina, dove il Duce tentò di inserirsi nella complessa rete di relazioni con le potenze coloniali e il nascente nazionalismo cinese. L’Italia fascista si propose come un “terzo incomodo” nella speranza di trarne vantaggi economici e politici.

Uno dei punti di forza del libro è la sua rigorosa metodologia di ricerca. Garzilli ha setacciato archivi in Italia, nel Regno Unito, in India e altrove, portando alla luce documenti che ridisegnano la mappa delle relazioni internazionali del ventennio. L’autrice attinge a lettere private, dispacci diplomatici, appunti di viaggio e verbali di incontri, costruendo un racconto che è allo stesso tempo storicamente fondato e avvincente. L’approccio interdisciplinare del saggio, che fonde storia politica, storia delle relazioni internazionali e storia culturale, è un altro merito. Garzilli non si limita a raccontare i fatti, ma li contestualizza, analizzando le idee e le correnti di pensiero che animavano il fascismo in relazione all’Oriente.

In questo contesto, la figura di Giuseppe Tucci, orientalista di fama mondiale, assume un ruolo di primo piano. Non un semplice studioso, ma un vero e proprio emissario culturale e politico del fascismo. Le sue missioni in India e Nepal, abilmente dirette dalla diplomazia fascista, non erano solo esplorazioni scientifiche, ma occasioni per stabilire contatti, raccogliere informazioni e promuovere l’immagine di un’Italia “amica” delle culture orientali, in contrapposizione all’arroganza coloniale delle altre potenze. La sua figura è l’esempio perfetto di come il fascismo sapesse utilizzare la cultura e l’erudizione come strumenti di potere.

“Mussolini e l’Oriente” di Enrica Garzilli è un’opera di straordinaria importanza storiografica. Il suo merito principale è quello di aver svelato un capitolo poco conosciuto della storia del fascismo, dimostrando che la politica estera di Mussolini non era confinata al “mare nostrum”, ma aveva un respiro globale. Il libro è scritto con grande chiarezza, nonostante la complessità degli argomenti trattati, e la tesi è sostenuta da una solida documentazione che non lascia spazio a dubbi. L’autrice riesce a intrecciare narrazioni micro-storiche, come le vicende di diplomatici e orientalisti, con un’analisi macro-storica delle dinamiche geopolitiche, rendendo il testo avvincente e al tempo stesso estremamente istruttivo.

Il libro è un monito a non semplificare la storia e a non dare per scontate le narrazioni consolidate. La figura di Mussolini emerge come quella di un politico non solo ambizioso, ma anche pragmatico e dotato di una visione strategica che andava ben oltre la retorica del Ventennio.

L’opera è fondamentale per chiunque voglia comprendere a fondo la natura del fascismo italiano e le sue ramificazioni internazionali. Offre spunti di riflessione non solo per gli storici, ma anche per i lettori interessati alle dinamiche delle relazioni internazionali e alla complessa interazione tra ideologie, cultura e potere. Si tratta di un testo imprescindibile che merita un posto di rilievo nella biblioteca di chiunque voglia superare le narrazioni convenzionali e scoprire un lato nascosto, ma cruciale, della storia contemporanea.

Enrica Garzilli

Mussolini e l’Oriente , UTET 2023

Un’India proattiva nell’era della transizione globale, di Alberto Cossu

Un’India proattiva nell’era della transizione globale

di Alberto Cossu – Vision & Global Trends. Progetto Società Italiana di Geopolitica

Ram Madhav, figura di spicco nel panorama politico e intellettuale indiano, presenta in “The New World: 21st-Century Global Order and India” una disamina penetrante delle dinamiche geopolitiche del XXI secolo, offrendo al contempo una visione ambiziosa per l’India. Il testo si colloca in un momento cruciale, quello di una transizione profonda nell’ordine globale, un periodo che Madhav interpreta non solo come una sfida ma come un’opportunità senza precedenti per la nazione indiana di affermare il proprio ruolo di attore di primo piano.

La sua tesi centrale ruota attorno alla convinzione che l’ordine liberale post-bellico, dominato dall’Occidente, sia in fase di esaurimento, lasciando il posto a un mondo multipolare in cui potenze emergenti, guidate da una visione pragmatica e auto-interessata, giocheranno un ruolo sempre più determinante.

Madhav non si limita a descrivere la fine di un’era; egli ne analizza le cause e le manifestazioni. La crescente inefficacia delle istituzioni multilaterali tradizionali, come le Nazioni Unite, e il declino percepito dell’egemonia occidentale sono presentati come sintomi di un sistema che non riesce più a contenere le nuove forze in gioco.

In questo contesto, l’ascesa della Cina è ovviamente un tema centrale, riconosciuta come una potenza revisionista che sfida lo status quo, ma Madhav estende la sua analisi anche all’emergere di altre “potenze medie” che, collettivamente, stanno ridisegnando la mappa del potere mondiale. L’autore invita l’India a superare quella che definisce una “ingenuità romantica” del passato nella sua politica estera, suggerendo che un approccio più radicato nel realismo e nella massimizzazione degli interessi nazionali sia imperativo.

Civiltà e “smart power” indiani

Una delle colonne portanti del pensiero di Madhav è il richiamo costante alle radici della civiltà dell’India. Non si tratta di una mera nostalgia storica, ma di un tentativo di ancorare la futura politica estera indiana a un’identità distintiva e millenaria. Madhav attinge a concetti della filosofia politica indiana classica, come la “Rajdharma” (la condotta etica del sovrano) e la “Mandala Theory” di Kautilya (un modello strategico di cerchi concentrici di alleati e avversari), per proporre un quadro di riferimento autenticamente indiano per la sua azione globale. Ram Madhav scrive che lo spirito dell’India vive più nella religione che nella scienza.

Questo non è un invito a rifiutare la modernità, ma a garantire che l’etica e i valori non siano mai separati dall’innovazione e dalla governance. Madhav trae ispirazione anche dalla saggezza del Mahatma Gandhi, che una volta dichiarò: “Preferirei vivere con la religione, perché è parte integrante del mio essere”. In un mondo che va verso l’ipermodernità, questi appelli al cuore etico dell’India sono più urgenti che mai.

Questo approccio suggerisce che l’India non dovrebbe semplicemente emulare i modelli occidentali, ma piuttosto attingere alla propria saggezza storica per forgiare una via unica. L’idea è quella di un’India che, pur impegnandosi con il mondo moderno, rimanga saldamente radicata nei suoi valori, offrendo un modello di governance alternativo che egli chiama “Dharmacrazia”. Questa non è mera democrazia in senso procedurale, ma una forma superiore di governo radicata nel dharma, la retta via.

L’autore osserva: “Segui il dharma e, anche se ti ritiri per un po’, alla fine vincerai”. Questa convinzione, radicata nella filosofia della cultura indiana, è ciò che distingue il libro dalla letteratura strategica contemporanea. In conclusione, per Ram Madhav, il futuro ordine mondiale deve essere basato sui valori. Questa, egli afferma, è l’essenza del Vasudhaiva Kutumbakam, l’eterna convinzione indiana che il mondo sia un’unica famiglia. Questa stessa idea è stata il tema ispiratore del G20 del 2023 guidato dall’India.

Questo radicamento nella civiltà indiana si sposa con la necessità, secondo Madhav, di passare da una dipendenza dal soft power a un’adozione più robusta del “smart power”. L’India ha tradizionalmente fatto leva sulla sua cultura, la sua spiritualità e la sua diaspora per esercitare influenza. Madhav riconosce il valore di questi elementi, ma argomenta che, nel nuovo ordine mondiale, essi devono essere accompagnati da una sostanziale forza economica, militare e tecnologica.

Il libro sottolinea l’urgenza di una crescita economica accelerata, di investimenti massicci in ricerca e sviluppo, e di un salto di qualità nelle tecnologie emergenti – intelligenza artificiale, robotica, computing quantistico – come pilastri fondamentali per elevare lo status dell’India a potenza globale. L’idea è quella di costruire un “Brand Bharat” forte e riconoscibile, che proietti non solo un’immagine di cultura, ma anche di capacità e innovazione.

Sfide e criticità di una visione ambiziosa

Mentre la visione di Madhav è senza dubbio ambiziosa e stimolante, essa non è esente da criticità e potenziali punti di frizione. Una delle principali osservazioni riguarda il divario tra l’aspirazione e l’azione concreta. Il libro, pur delineando una direzione chiara per l’India, talvolta sembra privilegiare una retorica di grande visione a scapito di schemi politici dettagliati o piani di implementazione specifici. La transizione da “aspirazione” a “azione” richiede una roadmap complessa che il libro non esplora in profondità.

Ad esempio, sebbene si parli della necessità di migliorare le relazioni di vicinato basate sulla “fratellanza civilizzatrice”, la realtà geopolitica del subcontinente indiano è intrisa di sfide concrete – dispute territoriali, differenze politiche e interferenze esterne – che spesso superano i legami culturali. Un’analisi più approfondita di come superare queste frizioni, al di là di un appello all’unità culturale, sarebbe stata preziosa. E’ possibile che Madhav abbia voluto riservare ad un altro momento una riflessione capace di generare contrasti.

Inoltre, la lettura della storia indiana proposta da Madhav, in particolare per quanto riguarda il declino durante l’era Moghul, è vicina con le interpretazioni nazionaliste indù. Sebbene questa prospettiva sia fondamentale per comprendere la sua visione di un’India forte e risorgente, potrebbe non essere universalmente accettata ed essere percepita come una riscrittura selettiva della storia da parte di alcuni studiosi o commentatori. Questa interpretazione storica informa l’enfasi sulla riaffermazione di un’identità indiana “autentica” che, per alcuni critici, rischia di marginalizzare le complessità e le diverse narrazioni all’interno della società indiana.

Un’altra considerazione riguarda la sfida pratica di tradurre il concetto di “Dharmacrazia” in un modello di governance applicabile in un mondo globalizzato e interconnesso. Sebbene l’idea di una governance etica sia lodevole, la sua implementazione in un sistema statale moderno, con le sue complessità burocratiche e le sue pressioni geopolitiche, solleva interrogativi. Il libro, pur fornendo una robusta argomentazione del perché l’India dovrebbe essere una grande potenza, lascia in parte al lettore il compito di immaginare il “come” essa possa superare ostacoli interni ed esterni, come le disuguaglianze socio-economiche, le tensioni interne e le sfide di governance, che potrebbero ostacolare la sua ascesa.

Conclusioni

“The New World: 21st-Century Global Order and India” rimane un contributo importante nel dibattito strategico contemporaneo. Il suo valore risiede nella capacità di Madhav di articolare una visione corragiosa e coerente per l’India in un’epoca di incertezza globale. Il libro funge da catalizzatore per la riflessione, spingendo i lettori a considerare non solo la posizione attuale dell’India, ma anche il suo potenziale non sfruttato.

La prospettiva di Madhav è particolarmente significativa perché riflette il pensiero di una parte influente dell’establishment politico indiano, offrendo spunti preziosi su come una delle nazioni più popolose e in rapida crescita del mondo intende posizionarsi in un futuro multipolare.

In definitiva, Madhav invita l’India a superare un approccio reattivo alla politica estera e ad abbracciare un ruolo proattivo, plasmando attivamente l’ordine emergente piuttosto che semplicemente adattandosi ad esso. “The New World” è una lettura obbligata per accademici, responsabili politici e chiunque sia interessato alle dinamiche del potere globale e, in particolare, al crescente peso dell’India sulla scena internazionale. Il suo messaggio è chiaro: l’India è pronta e deve essere preparata a reclamare il suo posto legittimo in un mondo in continua riconfigurazione.

The New World: 21st-Century Global Order and India

Ram Madhav

Editore: Rupa Publications India, 2025

Lingua: inglese – 408 pagine – ISBN-10 ‏ : ‎ 9370038264 – ISBN-13 ‏ : ‎ 978-9370038264

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I dazi di Trump sull’India: implicazioni strategiche e conseguenze globali, di Alberto Cossu

I dazi di Trump sull’India: implicazioni strategiche e conseguenze globali

Alberto Cossu

Il presidente Donald Trump ha annunciato (31/07/2025) l’imposizione di una tariffa del 25% su tutte le importazioni provenienti dall’India, accompagnata da una “multa” aggiuntiva specifica legata ai massicci acquisti indiani di petrolio e armi dalla Russia. Se da tempo si attendevano misure protezionistiche nell’ambito delle negoziazioni commerciali in corso, il collegamento esplicito fra questioni energetiche e sanzioni è stato percepito come un cambiamento drastico nella politica commerciale statunitense, con profonde ripercussioni per Nuova Delhi e per l’ordine mondiale.

Nel decennio precedente al 2025, le relazioni tra Stati Uniti e India avevano mostrato alti e bassi, oscillando tra retorica di partnership ambiziosa, dispute commerciali e interessi comuni in crescita. La decisione di Trump di imporre un dazio del 25%, valido dal 1° agosto 2025, arriva dopo anni di negoziati bloccati su un accordo bilaterale di libero scambio.

Gli USA avevano spesso criticato l’India per dazi elevati e barriere non tariffarie restrittive, mentre l’India sollecitava maggiore accesso per alcuni settori come il lavoro qualificato e richiedeva protezioni per l’agricoltura, settore cruciale. Ciò che ha sorpreso più di tutto è stato però il “penalty” aggiuntivo legato alle importazioni di energia e armi russe, a loro volta fondamentali per l’espansione economica indiana.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, la quota di petrolio russo nelle importazioni indiane è passata dallo 0,2% a oltre il 35% nell’estate 2025, facendo della Russia il principale fornitore di greggio per l’India.

La logica strategica di Trump: oltre il commercio

La posizione del presidente Trump segna una netta svolta rispetto alle amministrazioni precedenti, in quanto lega apertamente questioni commerciali a scelte di politica estera e sicurezza energetica. Le motivazioni ufficiali sono doppie: punire i “dazi eccessivamente alti” imposti dall’India e, soprattutto, ridurre le entrate russe per soffocare le risorse economiche destinate alla guerra in Ucraina.

Sebbene Trump abbia definito l’India un paese “amico”, ha più volte criticato la sua riluttanza a schierarsi in modo più netto con gli USA contro la Russia. La decisione di imporre penalità rappresenta quindi un meccanismo chiaramente penalizzante per New Dehli, considerato il peso del mercato americano per gli esportatori indiani, che vale circa 190 miliardi di dollari all’anno.Con questa mossa, Washington mira a influenzare la politica estera di New Delhi e a costringerla a una scelta: mantenere la propria autonomia strategica o allinearsi più strettamente con l’Occidente.

La minaccia di tariffe colpisce non solo India e Russia ma viene anche interpretata come un monito verso tutti quei Paesi che continuano a intrattenere rapporti economici profondi con Mosca, aggirando le sanzioni occidentali. L’obiettivo di Washington è frenare ogni tentativo di spostamento verso un nuovo asse eurasiatico che sfidi l’ordine commerciale e geopolitico dominato dall’Occidente.

Le conseguenze per l’India

L’annuncio della tariffa ha subito provocato forti turbolenze nei mercati indiani: la rupia ha perso valore e i principali indici azionari hanno registrato cali significativi. Previsioni di analisti indicano un possibile rallentamento del PIL indiano tra lo 0,2% e lo 0,4% nel prossimo anno fiscale, con una crescita prevista che potrebbe scendere sotto il 6%, contro stime iniziali più ottimistiche.

Settori chiave per le esportazioni indiane, come tessile, farmaceutico ed elettronica, sono tra i più vulnerabili, mettendo a rischio posti di lavoro e sfidando gli sforzi per ridurre il surplus commerciale con gli USA, stimato intorno ai 44 miliardi di dollari.

L’agricoltura, che impiega oltre il 40% della forza lavoro indiana, è particolarmente esposta. Tentativi precedenti di liberalizzare questo settore nei colloqui con Washington avevano incontrato opposizioni decise. Ora, con le tariffe USA a far crescere la pressione, il primo ministro Narendra Modi deve affrontare critiche interne e la possibilità di forti tensioni sociali in vista delle elezioni.

Storicamente, l’India ha coltivato una politica estera di non allineamento e autonomia strategica, mantenendo buoni rapporti sia con Washington sia con Mosca. La replica di New Delhi alla minaccia di Trump è difensiva: l’imposizione dei dazi sono vista come un sfida diretta alla capacità indiana di mantenere una politica non allineata.

Esperti e diplomatici avvertono che il rischio è quello di un deterioramento dei rapporti bilaterali, specialmente mentre gli USA ottengono progressi più rapidi con altri partner asiatici. Per l’India, cedere alle pressioni significherebbe ridurre il margine di manovra nei confronti di Russia e Cina, mentre la resistenza potrebbe generare ulteriori sanzioni. Infine questa strategia potrebbe danneggiare le relazioni all’interno dei maggiori partner BRICS+.

Il rafforzamento dell’integrazione indiana nel sistema occidentale rappresenta da anni un obiettivo chiave nella strategia USA per contenere la crescente influenza cinese in Asia. La posizione dura di Trump rischia però di compromettere questo obiettivo e indebolire l’Indo-Pacific Economic Framework.

Un’India esasperata potrebbe intensificare il suo avvicinamento alla Cina e alla Russia, rallentando così la formazione di un fronte unito occidentale in Asia.

La risposta indiana: tra diplomazia e fermezza

Il governo indiano, attraverso il ministro del commercio Piyush Goyal, ha promesso di tutelare i settori sensibili e di cercare una soluzione negoziata “equa e vantaggiosa per entrambi”. Tuttavia, dietro le quinte, l’ammissione è che la pressione è alta, con l’opposizione politica pronta a capitalizzare la crisi. Inoltre crescono le perplessità per la decisione degli USA di appoggiare il finanziamento dell’estrazione di enormi giacimenti energetici in Pakistan che suona quasi come una provocazione essendo Islamabad un pessimisti rapporti con New Delhi.

Alcuni ambienti ritengono che la situazione potrebbe accelerare riforme interne e favorire la diversificazione dei mercati d’esportazione, soprattutto verso i Paesi BRICS; altri ritengono però inevitabili concessioni agli Stati Uniti per non compromettere le prospettive di crescita.

Da un lato si sottolinea come la pragmaticità economica possa spingere entrambi i Paesi a un riavvicinamento. Gli USA non vogliono spingere l’India troppo verso il campo russo e condividono con New Delhi interessi strategici comuni in Asia.

I negoziati proseguiranno quindi, con ipotesi di accordi intermedi che possano limitare l’intensità o la durata delle tariffe, legandole a progressi su riduzione di barriere non tariffarie o a incrementi nelle importazioni USA di energia.

Se Trump dovesse mantenere una linea intransigente, ne deriverebbero conseguenze negative sulla stabilità diplomatica: l’India potrebbe irrigidire le proprie posizioni nazionaliste, rafforzando la retorica cinese sulla inaffidabilità occidentale e indebolendo coalizioni e accordi multilaterali in fase di costruzione.

Più in generale, la strumentalizzazione dei dazi a fini geopolitici potrebbe compromettere la fiducia nel sistema commerciale globale e accelerare tendenze verso la regionalizzazione e disgregazione.

Conclusioni

La scelta di Trump di imporre tariffe sull’India, intrecciandola al dossier russo, segna un momento cruciale in cui politica economica e strategia geopolitica si fondono con effetti duraturi e significativi. Le ricadute per l’economia indiana, la sua politica estera e l’assetto globale possono di vasta portata. Ma come abbiamo detto è probabile che il bersaglio siano il gruppo BRICS+ verso il quale Trump ha sempre manifestato una non celata avversità. Nonostante la volontà di entrambi di trovare un’intesa, la vicenda dimostra la fragilità dell’ordine commerciale post-pandemico e la forza persistente della competizione fra grandi potenze nel condizionare le traiettorie degli Stati emergenti.

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Le sfere di influenza nel nuovo ordine mondiale: dinamiche, rischi e prospettive per l’Europa_di Alberto Cossu

Le sfere di influenza nel nuovo ordine mondiale: dinamiche, rischi e prospettive per l’Europa

Autore: Alberto Cossu 31/07/2025

Il concetto di sfera di influenza è tornato prepotentemente al centro del dibattito geopolitico internazionale, segnando un ritorno a dinamiche di potere che sembravano superate dopo la fine della Guerra Fredda. La competizione tra grandi potenze — Stati Uniti, Russia e Cina — si manifesta oggi attraverso la definizione e il controllo di aree geografiche e settori strategici in cui esercitare un predominio politico, economico e militare. Questo fenomeno, antico ma rinnovato, influenza profondamente la sicurezza globale, le alleanze internazionali e la stabilità economica, con effetti particolarmente rilevanti per l’Europa, che si trova al crocevia di queste tensioni.

1. Definizione e caratteristiche delle sfere di influenza

Una sfera di influenza è un’area geografica o un insieme di paesi in cui una potenza dominante esercita un controllo diretto o indiretto sulle decisioni politiche, militari ed economiche degli Stati coinvolti. A differenza di un impero, il controllo non si traduce necessariamente in annessione o governo diretto, ma in un diritto di veto sulle alleanze e sulle scelte strategiche, limitando la sovranità effettiva degli stati più piccoli.

Questa logica si è storicamente affermata come strumento per mantenere un equilibrio di potere e prevenire conflitti diretti tra grandi potenze, ma ha anche rappresentato una fonte di instabilità e di oppressione per i Paesi soggetti a tali influenze.

2. Il ritorno delle sfere di influenza nel contesto attuale

Dopo decenni in cui l’ordine internazionale sembrava orientato verso un sistema multilaterale basato su norme e principi di sovranità nazionale, la realtà geopolitica degli ultimi anni ha mostrato un’inversione di tendenza.

La guerra in Ucraina, l’espansione economica e politica della Cina, e la rinnovata assertività della Russia hanno riportato in auge la competizione per il controllo di aree strategiche. A queste bisogna aggiungere le numerose violazioni del diritto internazionale degli USA (Iraq, Balcani, Libia, Afghanistan) compiute in nome di una pretesa di intervento fondata sul principio del mantenimento dell’ordine mondiale e quindi di preservare una area di influenza su cui gli Usa avanzavano una priorità.

Secondo Sven Biscop, direttore del programma Europe in the World dell’Istituto Egmont, Russia, Cina e Stati Uniti stanno cercando di guadagnare terreno in aree di loro interesse, con modalità differenti: la Russia utilizza mezzi militari per stabilire una sfera di influenza esclusiva in Europa orientale, mentre la Cina punta su una strategia economica e politica per estendere la propria influenza in Asia e oltre. Gli Stati Uniti, dal canto loro, tentano di mantenere il proprio predominio nelle Americhe e di contenere l’espansione cinese nel Pacifico.

Tuttavia, la ricomparsa delle sfere di influenza non è globale in senso stretto, ma piuttosto concentrata in aree strategiche di competizione, con implicazioni che si estendono a livello globale per via delle interconnessioni economiche e tecnologiche.

3. Impatti economici e commerciali: la competizione tra blocchi

La competizione per le sfere di influenza si traduce anche in una crescente rivalità economica e commerciale, con barriere, dazi e restrizioni tecnologiche che influenzano i flussi globali di merci e investimenti. Cina, Stati Uniti ed Europa sono impegnati in una competizione geostrategica che utilizza la politica commerciale come strumento fondamentale per affermare la propria leadership.

Questa dinamica porta a una riorganizzazione delle catene di approvvigionamento globali, con paesi “connettori” come Messico, Vietnam e Brasile che assumono ruoli strategici nel mediare tra le diverse sfere di influenza. Tuttavia, questa posizione è precaria e potrebbe indebolirsi in caso di escalation delle tensioni o di conflitti commerciali più ampi.

4. Le sfide per l’Europa: sicurezza, autonomia e divisioni interne

L’Europa si trova in una posizione particolarmente delicata nel nuovo contesto geopolitico. Da un lato, deve fronteggiare la pressione russa che rivendica una sfera di influenza nell’Europa orientale, cercando di impedire l’allargamento della NATO e di mantenere un controllo politico su Paesi come Ucraina, Bielorussia e nei paesi del Caucaso.

Dall’altro lato, l’Europa deve gestire la propria dipendenza economica e tecnologica da potenze esterne, in particolare dalla Cina e Stati Uniti, senza compromettere la propria autonomia strategica. La crisi ucraina ha accelerato il dibattito interno sull’esigenza di una difesa comune europea e di una politica estera più coerente e autonoma, ma le divisioni tra Stati membri — tra chi privilegia il legame transatlantico e chi spinge per una maggiore indipendenza — complicano la costruzione di un fronte unitario.

Queste tensioni interne rischiano di indebolire la capacità dell’Europa di agire come attore globale e di difendere i propri interessi in un mondo sempre più diviso in blocchi contrapposti.

5. Valutazioni critiche: rischi e opportunità del ritorno delle sfere di influenza

Il ritorno delle sfere di influenza comporta rischi significativi. Innanzitutto, la creazione di blocchi esclusivi limita l’accesso a risorse, mercati e opportunità di cooperazione, aumentando le tensioni e il rischio di conflitti. Per l’Europa, economia fortemente aperta e dipendente dalle importazioni, questo rappresenta un problema strategico rilevante.

Inoltre, la logica delle sfere di influenza tende a ridurre la sovranità degli Stati più piccoli, esponendoli a pressioni e ricatti da parte delle grandi potenze. Questo può alimentare instabilità politica e sociale, oltre a minare i principi di autodeterminazione e diritto internazionale.

Tuttavia, riconoscere la realtà delle sfere di influenza può anche avere un effetto stabilizzante se accompagnato da accordi chiari e da un rispetto reciproco delle zone di influenza, come accadde in passato durante la crisi dei missili di Cuba. La sfida è trovare un equilibrio che eviti la guerra aperta ma non legittimi aggressioni o annessioni illegali5. Il caso dell’Ucraina dimostra come sottovalutare il problema delle aree di influenza può condurre a conflitti non solo diplomatici ma militari.

6. Prospettive future e scenari possibili

Per i prossimi anni si possono prospettare questi ipotetici scenari

  • Guerra commerciale prolungata: con tariffe e restrizioni che frenano la crescita globale, ma senza conflitti militari diretti tra grandi potenze.
  • Nuova era di nazionalismo: caratterizzata da un aumento delle tensioni economiche e militari, con il rischio concreto di scontri armati.
  • Ritorno alle sfere di influenza: con grandi potenze che dominano blocchi regionali, in un sistema simile alla Guerra Fredda.
  • Grandi accordi commerciali e diplomatici: scenario ottimista in cui la diplomazia prevale e si ristabiliscono alleanze ampie.

L’esito dipenderà dalla capacità delle potenze di negoziare e di accettare compromessi, oltre che dalla volontà degli attori regionali di mantenere la stabilità e rispettare i principi internazionali.

Conclusioni

Il ritorno delle sfere di influenza rappresenta uno dei punti su cui ragionamento geopolitico contemporaneo deve sviluppare ulteriori approffondimenti. Questo fenomeno riflette la realtà di un mondo multipolare in cui le grandi potenze cercano di assicurarsi zone di predominio strategico attraverso il controllo politico, economico e militare di aree geografiche e settori critici. Per l’Europa, questa dinamica pone sfide complesse: da una parte la necessità di difendere la propria sovranità e autonomia strategica, dall’altra il rischio di essere marginalizzata o divisa tra blocchi contrapposti.

La capacità dell’Europa di navigare questa complessità, rafforzando la coesione interna e sviluppando una politica estera e di sicurezza comune, sarà determinante per la stabilità del continente e per il futuro ordine mondiale. Solo attraverso un equilibrio tra realismo geopolitico e rispetto dei principi internazionali sarà possibile evitare che il ritorno delle sfere di influenza si traduca in un’epoca di conflitti prolungati e instabilità globale.

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