Si specula sulla fonte della malattia del presidente Trump, Di Deborah Franklin

Qui sotto la traduzione di un articolo tratto da https://www.americanthinker.com/blog/2020/10/speculation_mounts_about_the_source_of_president_trumps_illness.html#.X3ugS8yPtqM.facebook . Sono congetture; ma la presidenza di Trump è ormai costellata da troppi episodi inquietanti molti dei quali coperti dal riserbo mediatico, molti dei quali rivelati puntualmente dal nostro sito. Buona lettura, Giuseppe Germinario

5 ottobre 2020

Congetture sulla fonte della malattia del presidente Trump

Di Deborah Franklin

I drammatici eventi dell’ultima settimana saranno studiati per decenni e molte informazioni rimangono ancora sconosciute. Nella prima mattina di venerdì 2 ottobre, il presidente Trump ha twittato che lui e la first lady erano risultati positivi al COVID. Quella sera, dopo aver riferito che il presidente aveva la febbre, si è recato al Walter Reed National Medical Center per le cure. Immediatamente, sono iniziate le speculazioni su come ha preso il virus e la natura della sua gravità.

Tuttavia, poiché anche numerosi repubblicani in posizioni chiave sono risultati positivi, la natura della speculazione ha cominciato a cambiare. La questione si è spostata dal fatto che il presidente indossasse o meno una maschera al motivo per cui così tanti repubblicani importanti  hanno preso contemporaneamente  il virus. Tra i positivi accertati  c’erano il responsabile della campagna di Trump, il presidente del Comitato nazionale repubblicano, il consigliere senior del presidente e due senatori del Comitato giudiziario che voteranno sulla conferma di Amy Coney Barrett.

Lin Wood, un avvocato di alto profilo che rappresenta Nick Sandmann e Kyle Rittenhouse, ha twittato: “Molti leader nell’amministrazione di @realDonaldTrump sono messi in quarantena da quello che sembra quasi essere un attacco mirato del Covid-19“. In seguito ha twittato: “Non esistono coincidenze“. Anche Deanna Lorraine, candidata al Congresso contro Nancy Pelosi, ha ripreso il tema di uno “attacco mirato” nel suo tweet: “Qualcun altro trova strano che nessun democratico di spicco abbia avuto il virus, ma l’elenco dei repubblicani potrebbe continuare all’infinito? ” E Omar Navarro, un politico repubblicano in California, ha sviluppato il tema: “1.RBG (Ruth Bader Ginsburg) muore. 2. Trump annuncia che nominerà un nuovo giudice prima delle elezioni. 3. Pelosi fa il commento” Abbiamo molte  frecce nella nostra faretra ” per fermarlo.  La settimana dopo Trump, il suo miglior aiutante,il suo responsabile della campagna elettorale, due senatori, vengono tutti colpiti dal COVID. Chuck Schumer chiede immediatamente di ritardare la nomina: “ Una volta è un caso. Due volte è una coincidenza. La terza volta è un’azione del nemico.

Dove si è verificata l’infezione? L’attenzione si è rivolta alla Cleveland Clinic, dove il 29 settembre si è tenuto il dibattito presidenziale tra il presidente Trump e Joe Biden. Venerdì, la città di Cleveland ha riferito che 11 casi di COVID sono collegati all’organizzazione del 29 settembre del dibattito presidenziale. Alcuni commentatori sui social media hanno ipotizzato che l’area del dibattito repubblicano fosse stata saturata dal virus in un attacco biologico, coordinato con la Cina.

L’improvvisa malattia di tanti repubblicani di spicco ha ricordato un incidente per lo più dimenticato nel gennaio 2018. Un treno che trasportava i legislatori repubblicani e le loro famiglie in un ritiro si è  scontrato  con un camion della spazzatura che era rimasto inspiegabilmente bloccato sui binari. La carrozza frontale è deragliata, uccidendo una persona. I media non hanno mostrato alcun interesse per la storia e non hanno offerto analisi che spiegassero possibili scenari legati alla dinamca dell’incidente.

Sette mesi prima dell’incidente ferroviario, un uomo armato ha aperto il fuoco sui membri della squadra di baseball del Congresso repubblicano, ferendo gravemente il deputato alla camera Steve Scalise, che allora serviva come menbro di spicco della maggioranza Repubblicana alla Camera. La NBC ha riferito: “Testimoni hanno detto agli investigatori che quando l’uomo armato è arrivato sul campo di baseball, ha chiesto alla gente: ‘Sono repubblicani o democratici?‘”

Nei quasi quattro anni da quando Trump è diventato presidente, i repubblicani hanno subito tre eventi di massa potenzialmente fatali. I prossimi mesi potrebbero finalmente portare alcune risposte su questi incidenti. È tempo che il popolo americano capisca cosa sta succedendo.

Trump-Biden, duello all’ultimo sangue_ con Gianfranco Campa

Con il confronto televisivo a Cleveland è iniziata la fase conclusiva della campagna elettorale per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti e di parte delle camere elettive. La posta in palio è enorme ed influirà pesantemente sulle scelte strategiche in politica estera ed interna. A questo non corrisponde un livello di dibattito appena accettabile. Prevalgono in maniera sfrontata i colpi bassi, il gioco sporco, i calcoli nei posizionamenti istituzionali. E’ il segnale evidente di uno scontro che non prevede prigionieri e che certamente non si esaurirà il 3 novembre prossimo; in qualche maniera prescinderà addirittura da esso. Gianfranco Campa ci offre il suo punto di vista condito di particolari succosi; in particolare la perla offertaci nel finale della conversazione_Buon ascolto con un po’ di pazienza in alcuni punti di ascolto poco nitidi, Giuseppe Germinario

 

Nel Karabakh, Baku disotterra l’ascia di guerra_ John mackenzie Di John Mackenzie 28 settembre 2020

Domenica, 27 settembre, nelle prime ore dell’alba, gli armeni si sono svegliati alla notizia di una vasta offensiva aerea (missili e bombardamenti di droni) guidata dall’Azerbaigian lungo tutta la linea di contatto che lo separa di Artsakh (ex Karabakh), questa repubblica autoproclamata nel 1991 e non riconosciuta dalla comunità internazionale.

Per la prima volta dalla guerra ad alta intensità del 1988-1994, Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, fu bombardata mentre i civili si rifugiarono in rifugi.

Armenia e Karabakh in allerta generale

Nell’arco di dieci ore si sono svolti combattimenti di rara violenza in molti punti del fronte con un focus nelle regioni di Fizouli e Djebraïl che hanno causato perdite significative: 16 soldati e civili uccisi dal lato armeno. e 200 nei ranghi militari azerbaigiani. Da parte sua, la parte armena ha affermato di aver perso alcune posizioni e ha abbattuto 4 elicotteri azeri, 15 droni da combattimento, 10 carri armati e diverse batterie missilistiche. Mentre Baku ha accolto con favore la riconquista di diverse posizioni e villaggi.

Araïk AroutiounianIl presidente dell’autoproclamata piccola repubblica, sostenuta dall’Armenia, ha decretato “la mobilitazione generale degli over 18” in risposta a una grande offensiva da parte dell’Azerbaigian domenica, mentre nella vicina Armenia, volontari accorse, chi arruolare, chi donare il sangue. Dopo l’annuncio dei primi scontri domenica mattina, il premier armeno Nikol Pachinian ha decretato la “mobilitazione generale” e l’istituzione della “legge marziale”, oltre a far eco alla decisione presa dalle autorità del Karabakh . “Vinceremo. Lunga vita al glorioso esercito armeno! Il signor Pachinian ha scritto su Facebook. Il presidente azero Ilham Aliev, da parte sua, ha convocato una riunione del suo Consiglio di sicurezza durante la quale ha denunciato una “aggressione” da parte dell’Armenia.

Leggi anche: Il disastro armeno come precursore dell’esperienza europea

Appena un’ora dopo lo scoppio delle ostilità, i media azeri e turchi hanno pubblicato rapporti online sullo sviluppo delle operazioni lungo la linea di contatto, suggerendo che questa offensiva turco-azera era premeditata e pianificata per anni. settimane se non mesi.

Turchia in azione

Ci stiamo muovendo verso un conflitto regionale ad alta intensità? Ankara avrebbe pianificato questa operazione volta a stravolgere uno status quo ritenuto troppo favorevole alla parte armena e spingere la Russia ai suoi limiti?

Appena 24 ore prima dello scoppio delle ostilità, informazioni particolarmente inquietanti sono state trasmesse dalla stampa dei due paesi di lingua turca. È il caso in particolare del quotidiano Yeni Şafak , quotidiano turco filogovernativo che, il giorno prima del lancio dell’offensiva, ha denunciato in prima pagina la “collaborazione del PKK e dell’Armenia in Nagorno-Karabakh”. Il quotidiano ritiene di sapere che “dozzine di terroristi curdi del PKK addestrati nei campi di addestramento in Iraq e Siria sono stati trasferiti in Nagorno-Karabakh per occuparsi dell’addestramento delle milizie armene”. Sebbene parallelamente a queste informazioni difficili da verificare, abbiamo appreso che le forze turche che occupano la regione di Afrin nel nord-ovest della Siria, hanno aperto la scorsa settimana dueCentri di reclutamento mercenario per l’Azerbaigian .

Un vantaggio per il regime di Aliyev che, nonostante la propaganda anti-armena, lotta per mobilitare i volontari. A questo si aggiunge che la situazione socioeconomica in Azerbaigian è più che preoccupante. Le battute d’arresto militari degli azeri contro l’Armenia lo scorso luglio nella regione di Tavush hanno gonfiato la frustrazione di una popolazione riscaldata al bianco dalle arringhe di una potenza visibilmente all’erta e fortemente scossa dalle disastrose conseguenze della caduta del domanda di idrocarburi in questi tempi di pandemia.

Vedendo la sua capitale di legittimità sciogliersi al sole con il crollo dei prezzi del petrolio greggio, il regime di Aliyev ha messo il timone a drittaverso il fratello maggiore turco, anche se significa sacrificare tutta una parte della sua sovranità alla volontà degli orientamenti strategici del presidente Erdogan. Vista da Mosca, questa escalation è vista come un tentativo della Turchia di interferire in una regione precedentemente considerata come sua riserva. Non avere alcun interesse a vedere il suo cortile caucasico destabilizzato dalla Turchia, alla ricerca di nuovi fronti nel grande gioco che sta emergendo dalla Libia all’Iraq passando per Cipro, il Mar Egeo, la Russia che vende armi ai due belligeranti, vuole fare da fattore di dissuasione e limitarsi a un ruolo di mediatore. Ma questo compito sembra sempre più difficile. Ricordalo dopo la guerra dello scorso luglioche si è concluso con il collasso militare per Baku, il ministro degli Esteri azero Elmar Mamediarov, che era a capo della diplomazia azera dal 2004, reputato vicino a Mosca, era stato sostituito dall’ex ministro dell’Istruzione Jeyhun Bayramov, acquisito all’ideologia ultranazionalista del pan-turkmeno. Pochi giorni dopo, nell’enclave di Nakhitchevan, a meno di quaranta chilometri da Yerevan, capitale dell’Armenia, hanno avuto luogo importanti manovre militari tra l’esercito turco e quello azero.

Da leggere anche: l’ Armenia attraverso i secoli; Storia della resilienza

A livello regionale, Baku gode di una solidarietà sfrenata da parte del fratello maggiore e partner strategico turco in nome del pan-Turkismo. L’Armenia, da parte sua, ha integrato l’organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) senza però godere dell’effettivo appoggio dei suoi membri, divisi sulla questione del Karabakh. Con la presenza di una base e guardie di frontiera russe sul suo suolo. Yerevan lo vede come il pegno dell’assicurazione sulla vita, dell’ultima generazione di armi, in cambio di un rapporto sempre più asimmetrico.

Ma l’apparizione di una Turchia irregolare sulla scacchiera del Caucaso, la comprovata presenza di consiglieri militari, membri dei servizi segreti del MIT o persino droni turchi su un campo di gioco finora considerato sotto l’influenza russa, è nel processo di sconvolgere equilibri molto fragili.

Da leggere anche: Charalambos Petinos: dove sta andando la Turchia?

Addendum

Un dispaccio di Asia News informa che i mercenari che hanno combattuto in Siria sono stati inviati dall’esercito turco attraverso l’Azerbaigian per combattere in Artsakh. Sono pagati $ 1800 al mese e hanno un contratto di tre mesi.

Ciò conferma l’impegno della Turchia nel conflitto e il ruolo svolto dai mercenari jihadisti.

https://www.revueconflits.com/artsakh-karabakh-armenie-attaque/

La Cina può ancora esportare la sua guerra popolare?_Di: Phillip Orchard

Le dinamiche geopolitiche sono sempre più complesse e articolate. Non è più tempo di analisi che partono e tornano su un unico centro focale_Giuseppe Germinario

La Cina può ancora esportare la sua guerra popolare?

Rispolverare il playbook della Guerra Fredda di Mao non aiuterà Pechino.

Di: Phillip Orchard

All’inizio di questa estate, mentre il governo indiano si è affrettato a sostenere il sostegno

sia in patria che all’estero per la sua situazione di stallo a mani nude contro la Cina sull’Himalaya ,

ha iniziato a ravvivare un altro contenzioso di lunga data non correlato con Pechino: il presunto

sostegno segreto della Cina ai ribelli maoisti nelle parti irrequiete India nordorientale. Tra gli altri

incidenti recenti, secondo New Delhi, la Cina meritava la responsabilità per un attacco mortale

alle forze di sicurezza a giugno da parte di gruppi separatisti di estrema sinistra nello stato di

Manipur, al confine con il Myanmar. A luglio, in vista

dell’ultimo tentativo a lungo termine del governo birmano di mediare la pace con la zuppa alfabetica

di gruppi etnici separatisti che circonda il paese, il potente capo dell’esercito birmano ha chiamato la

Cina per aver armato alcuni dei più potenti gruppi ribelli. Due settimane fa, i media indiani, citando

fonti sia del governo indiano che di quello birmano, hanno riferito che la Cina ha contrabbandato armi

a vari gruppi di ribelli nella regione attraverso una rete di militanti lungo il confine tra Myanmar e

Bangladesh. Tra gli altri obiettivi, secondo le fonti, Pechino stava cercando di far deragliare i progetti

infrastrutturali sostenuti dall’India in Myanmar che apparentemente sarebbero in concorrenza con la

Belt and Road Initiative cinese.

Questo tipo di sviluppi – combinati con gli avvertimenti degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi amici

(inclusa l’India) che Pechino sta usando app cinesi come TikTok e gruppi di studenti universitari per

diffondere l’ideologia comunista in Occidente – fa sicuramente sembrare che la Guerra Fredda stia

crescendo. dalla tomba. E la Cina potrebbe davvero avere un motivo crescente per rispolverare i suoi

manuali dell’era Mao per aver intrapreso guerre per procura e alimentato la lotta ideologica all’estero

. Il paese, dopotutto, si trova in una situazione piuttosto strategica poiché le

potenze esterne diventano sempre più diffidenti nei confronti della sua ascesa e delle sue ambizioni .

Avrà bisogno di ogni strumento disponibile per mantenere i suoi avversari divisi, preoccupati e diffidenti

nei confronti del confronto. La geografia frammentata del sud e del sud-est asiatico gli conferisce numerose

spaccature interne in stati strategicamente importanti alla sua periferia da cercare di sfruttare.

In verità, però, al di fuori di un paio di aree della sua periferia dove le sue operazioni di influenza segreta

non si sono mai interrotte, Pechino non è né capace né particolarmente interessata a giocare a un gioco di

destabilizzazione nascosto in stile sovietico e globale. Né realisticamente avrebbe alcuna speranza che

l’ideologia del moderno Partito Comunista possa coltivare una base sostanziale di sostenitori, tanto meno

ispirare le masse di altri paesi a rifare i loro governi a immagine di Pechino. Ma le sue nuove armi di influenza

sono probabilmente molto più potenti e più adatte all’ambiente ostile che sta affrontando oggi di quanto lo sia

mai stato il maoismo.

Piccoli libri rossi per tutti

Sotto Mao, esportare la rivoluzione era una parte fondamentale della strategia cinese. Con il paese dilaniato

dalla guerra, preoccupato di reclamare i suoi stati cuscinetto e di affrontare continuamente

le crisi interne di sua iniziativa , non poteva permettersi di fare molto per fornire un sostanziale sostegno

materiale a gruppi che la pensavano allo stesso modo in lontani conflitti per procura su la scala dei sovietici

e degli americani. Nella misura in cui si sporcava le mani, si trovava tipicamente in luoghi in cui si temeva la

propagazione oltre il confine o l’occupazione da parte di una potenza militare straniera – ad esempio, Indocina

e Corea. Occasionalmente forniva anche quantità limitate di armi, assistenza finanziaria e addestramento a

movimenti militanti simpatizzanti all’estero, ma mai su una scala necessaria per far pendere veramente

l’equilibrio del potere.

Per lo più, però, la Cina si è appoggiata all’ideologia maoista come un modo per coltivare il sostegno straniero.

Ed era davvero uno strumento potente. La bellezza del maoismo è la sua capacità di significare qualunque cosa

qualsiasi movimento politico basato sulla lotta di classe abbia bisogno che significhi. Non è una dottrina o un

progetto particolarmente rigida o coerente per prendere e esercitare il potere, quanto piuttosto una raccolta libera,

a volte contraddittoria di detti, idee e diagnosi di mali sociali. Ma ciò che questo sacrifica nel rigore intellettuale è

più che compensato dalla mutevolezza. Fornisce un quadro preciso per comprendere le strutture di potere e il

malcontento sociale, oltre a organizzare principi che possono essere facilmente incorporati in altre ideologie.

Elementi di maoismo, ad esempio, possono essere visti in una gamma improbabile di movimenti sociali, compresi

quelli nominalmente religiosi come i talebani, lo Stato islamico e le guardie rivoluzionarie iraniane.

Tuttavia, la portata ideologica di Mao raramente ha avuto molto effetto sulla posizione strategica della Cina.

Ad esempio, non si è dimostrato in grado di sradicare tensioni geostrategiche più profonde con Mosca, Hanoi o

persino Pyongyang. Pechino non è mai stata in grado di strappare il controllo del movimento comunista globale

a Mosca durante la scissione sino-sovietica negli anni ’50 e ’60, e di conseguenza la maggior parte dei paesi

comunisti cadde fermamente nella sfera sovietica, compresi quelli nel cortile di casa della Cina. I successi maoisti

in posti come la Cambogia sotto i Khmer rossi e, in misura molto minore, l’Indonesia furono relativamente di breve

durata, inaugurando infine governi ostili e una diffidenza di lunga data nei confronti dell’interferenza cinese.

Così, quasi non appena Mao se ne fu andato, Deng Xiaoping iniziò ad attuare un drammatico riorientamento della

Cina attorno a principi che avrebbero risuonato in quasi tutte le capitali: arricchirsi e tenere a bada i nemici attraverso

le tradizionali manovre strategiche realiste. E questo significava facilitare un riavvicinamento con l’Occidente,

in particolare gli Stati Uniti, il che significava che la Cina non poteva essere vista come un aiuto agli obiettivi

sovietici esportando la rivoluzione. Il maoismo era ancora enfatizzato a casa, naturalmente – o almeno i principi

che Deng pensava avrebbero cementato il governo del partito erano stati enfatizzati. Ma Pechino ha in gran parte

interrotto gli sforzi dell’era Mao per fomentare la lotta di classe e sostenere gruppi militanti che la pensano

allo stesso modo all’estero.

Il gioco è lo stesso, solo meno feroce

Da allora la Cina è rimasta fedele a questo approccio, anche se con poche eccezioni degne di nota, nessuna

delle quali guidata da affinità ideologiche. Ha continuato a sostenere i Khmer rossi anche dopo che è stato

cacciato dalla capitale, ad esempio, ma questa è stata una mossa strategica in coordinamento con gli Stati Uniti

mirata principalmente a contrastare il Vietnam sostenuto dai sovietici. Dal momento che la Cina si sentiva ancora

obbligata nel 1979 a invadere il Vietnam, dove le forze cinesi si sono comportate male, e poiché ha cementato

l’influenza vietnamita a Phnom Penh per una generazione, si potrebbe sostenere che ciò sia fallito. Sostenere

un regime spodestato che ha ucciso il 20% della sua popolazione in soli quattro anni non è esattamente

un ottimo modo per generare buona volontà pubblica o posizionarsi come amico a lungo termine dei governi regionali.

Un’altra eccezione è in Myanmar, dove gruppi ribelli ben armati nel nord e nel nord-est del paese hanno a lungo

approfittato dei confini con la Cina (e, in misura minore, la Thailandia) per raccogliere fondi, vendere contrabbando,

procurarsi armi, fuggire dagli attacchi e così via. via. Il più forte di questi gruppi, lo United Wa State Army, è

cresciuto dall’ala armata del Partito Comunista della Birmania, che aveva ricevuto un sostanziale sostegno cinese

negli anni ’50 quando Mao cercava di soffocare una neonata insurrezione organizzata da resti sostenuti dagli Stati Uniti.

del Kuomintang nello stato Shan. Da allora, l’UWSA è diventata una delle organizzazioni di traffico di droga più potenti

al mondo. Mentre si ritiene che abbia iniziato a procurarsi la maggior parte delle sue armi dalla Cina circa due decenni fa,

il rapporto di Pechino con il gruppo è inquieto, nella migliore delle ipotesi. La Cina non è particolarmente entusiasta di

avere un tale gruppo che corrompe funzionari e sposta narcotici attraverso il suo confine, in particolare uno che si è

dimostrato abbastanza forte e di mentalità indipendente da frustrare occasionalmente le mosse di Pechino per usarlo

per ottenere influenza su Naypyitaw. Ed è una questione aperta quanto delle armi e del sostegno finanziario che riceve

dalla Cina sia effettivamente sanzionato da Pechino. Tuttavia, per impedire al Myanmar di avvicinarsi troppo all’India o

all’Occidente, Pechino ha voluto posizionarsi come un intermediario di potere indispensabile nell’interminabile processo

di pace tra Naypyitaw ei gruppi ribelli. Dal momento che quasi tutti i principali eserciti etnici del Myanmar si affidano in

una certa misura al sostegno dell’UWSA (l’UWSA è stato nominato nei suddetti rapporti indiani sulle reti di contrabbando

di armi sostenute dalla Cina), la Cina non può permettersi di evitare il gruppo.

 

Infine, c’è l’India, che accusa credibilmente la Cina di fornire un rifugio sicuro a importanti leader naxaliti e di aver dato

loro libero sfogo per aumentare il sostegno e facilitare i flussi di armi in India attraverso spazi in gran parte non governati

in Myanmar, Bangladesh e nord-est dell’India. I leader cinesi hanno tacitamente ammesso questo affermando che, dal

momento che l’India ospita il Dalai Lama e altri esuli tibetani – anche incorporando i tibetani nelle forze indiane

sull’Himalaya – equo è giusto. Ad ogni modo, i vari gruppi separatisti (alcuni dei quali maoisti) che avrebbero ricevuto

il sostegno cinese sono tutt’al più una perenne irritazione per Nuova Delhi e un modesto drenaggio di risorse militari

che potrebbero apparentemente essere reindirizzate a qualcosa di più importante, come lo sviluppo navale .

Rischiano poco di destabilizzare fondamentalmente il nucleo indiano o di

minare il controllo indiano sul territorio in cui si teme effettivamente l’incursione cinese , come il corridoio Siliguri.

La Cina guadagnerà relativamente poca influenza dal sostenerli, soprattutto rispetto al suo investimento molto più

redditizio nella principale fonte di preoccupazione dell’India: il Pakistan .

Non la guerra fredda di tuo padre

Altrimenti, ci sono poche prove di un grande sostegno cinese ai movimenti politici di opposizione nella regione, in particolare quelli violenti. Non che Pechino sarebbe a corto di opportunità per sostenere tali movimenti, se lo volesse. La geografia frammentata del sud e del sud-est asiatico, insieme ai livelli estremi di sconvolgimento sociale e disuguaglianza che sono venuti con il boom della globalizzazione, rende la regione inondata di linee di frattura etniche e demografiche.

Considera le Filippine. Il paese arcipelagico, che funge da custode di importanti rotte marittime verso il Pacifico occidentale, rappresenta forse il principale problema strategico per la Cina. Naturalmente, la Cina ha un disperato bisogno di trascinare l’alleato del trattato degli Stati Uniti nel suo campo , o almeno impedirle di consentire agli Stati Uniti o ad un’altra potenza ostile di istituire basi navali o missilistiche che potrebbero essere utilizzate per imporre un blocco alla Cina. Le Filippine sono anche la sede di una serie vertiginosa di gruppi ribelli, tra cui il New People’s Army, orgogliosi facilitatori dell’insurrezione comunista più longeva del mondo. Tuttavia, tali gruppi non sembrano aver svolto alcun ruolo negli sforzi in corso della Cina per mettere sotto pressione Manila.

Il suo approccio alle Filippine illustra bene ciò di cui la Cina ha effettivamente bisogno da tali stati e quali strumenti ritiene possano essere effettivamente efficaci. Per prima cosa, ci dice che Pechino non pensa che ci sarebbe molto ritorno sugli investimenti sostenendo tali gruppi. Questo, in parte, perché pochi hanno realisticamente il potenziale per essere molto più che un irritante per i loro governi. In altre parole, la minaccia posta a Naypyitaw dall’esercito dello Stato americano Wa e dagli altri gruppi ribelli in Myanmar è rara. Il New People’s Army, ad esempio, è considerato una forza esaurita, essendosi effettivamente devoluta in una raccolta decentralizzata di sindacati criminali locali piuttosto che in qualcosa in grado di mobilitare le masse filippine contro Manila . Inoltre, i gruppi militanti più forti nelle Filippine , come in gran parte del sud e sud-est asiatico, sono islamisti. Pechino teme qualsiasi cosa che possa rafforzare tali gruppi al punto da poter incanalare il sostegno ai militanti di etnia uigura nello Xinjiang e lungo i confini occidentali della Cina.

Dall’altro, la gestione delle Filippine da parte di Pechino ci dice che la Cina si rende conto che la sua ideologia non ha più un fascino di massa. A dire il vero, con la disuguaglianza e la disgregazione sociale in aumento in tutto il mondo, l’ambiente è più ricettivo che mai a un’ideologia incentrata sulla lotta di classe. Ma il Partito Comunista Cinese non può più approfittarne, perché non può davvero nascondere il fatto che sta trasformando la Cina in un’autocrazia imperialista ossessionata dalla ricchezza, trattando i suoi vicini come poco più che depositi di merci. Anche l’organizzazione politica madre del New People’s Army, il Movimento per la Democrazia Nazionale, è stata duramente critica nei confronti dell’abbraccio dell’amministrazione Duterte al neocolonialismo di Pechino. Nella misura in cui le operazioni di messaggistica e disinformazione cinesi possono avere almeno un modesto successo, osserva un paio di tattiche in particolare: una prende di mira le comunità etniche cinesi d’oltremare con narrative nazionaliste. Un altro sta usando il suo crescente controllo sulle tecnologie dell’informazione per censurare notizie poco lusinghiere sulla Cina, pubblicizzare gli obiettivi cinesi come benevoli e progetti come la Belt and Road Initiative come reciprocamente vantaggiosi e seminare malcontento con gli avversari cinesi. (Si consideri, ad esempio, il modo in cui Pechino ha inondato i canali dei social media all’estero con teorie del complotto sugli Stati Uniti e sul COVID-19.)

Infine, ci dice che la Cina ritiene che i rischi di tentare apertamente di fomentare la ribellione nella sua periferia superino di gran lunga le potenziali ricompense. Economicamente, ciò di cui la Cina ha bisogno sono mercati aperti per i suoi prodotti manifatturieri e le tecnologie emergenti, forniture costanti di materie prime e ricettività agli investimenti cinesi. Militarmente, la Cina ha bisogno di alleati, che attualmente sono pochissimi. Ma come minimo, ha bisogno di mantenere gli stati regionali ai margini delle sue controversie con le principali potenze esterne. Diplomaticamente, ha bisogno di respingere i sospetti regionali radicati che l’ascesa della Cina sarà intrinsecamente incompatibile con la pace e la stabilità e persuadere i suoi vicini che la scommessa migliore per un futuro prospero è un ordine regionale incentrato sulla Cina . Tentare di destabilizzare i suoi vicini, nella maggior parte dei casi, molto probabilmente minerebbe solo questi obiettivi, spingendoli a cercare supporto militare esterno, generando sospetti sulle tecnologie e investimenti cinesi e aumentando i rischi politici per i leader regionali di avvicinarsi a Pechino . I pochi tentativi che ha fatto negli ultimi anni per mettere il pollice sulla scala del panorama politico di un altro paese si sono ritorti contro , sottolineando la realtà che fissare la propria strategia geopolitica su un particolare regime rende una strategia fragile.

Per Pechino, quindi, è probabile che la strada migliore continui a fare affidamento sugli strumenti più tradizionali di governo che ha già esercitato con una certa efficacia. Ciò significa coltivare le dipendenze economiche attraverso gli investimenti e l’accesso al mercato. Significa approfondire i legami finanziari tra le élite per garantire simpatie pro-Cina attraverso gli spettri politici dei paesi – qualcosa che porta frutti abbondanti nelle Filippine e altrove. Significa inclinare sempre più a suo favore l’equilibrio militare con gli stati regionali, dichiarare che potrebbe fare giustizia nelle controversie territoriali ed esporre i limiti dell’interesse americano a venire in loro difesa. Significa fornire ai regimi di mentalità autoritaria nella regione gli strumenti tecnologici e le risorse finanziarie per cementare il loro controllo e proteggersi dal malcontento pubblico. In verità, significa rendersi un partner indispensabile per aiutare i governi a reprimere le ribellioni – come fece in Nepal a metà degli anni 2000, quando aiutò ad armare il governo nella sua lotta contro i ribelli maoisti.

In definitiva, questi sforzi potrebbero non essere sufficienti per conquistare amici a lungo termine nella misura necessaria per stabilire il nuovo ordine regionale che desidera ardentemente. Ma Pechino è già riuscita a rendere gli stati regionali, anche alcuni potenti , estremamente riluttanti al carrozzone contro la Cina in modi significativi. Nessuno nella regione vuole una nuova guerra fredda , ma meno di tutti la Cina. Perché se la Cina si troverà a dover combattere nel modo in cui è stata combattuta l’ultima, molto probabilmente avrà già perso.

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Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Intervista a Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Uno dei pionieri dell’intelligence economica, Christian Harbulot è a capo della School of Economic Warfare di Parigi dal 1997 ed è il direttore di Spin Partners. Ha coordinato la stesura del manuale di Intelligence Economica presso i PUF.

 

Conflitti: perché ti sei interessato alla guerra economica?

Christian Harbulot: Può sembrare paradossale. Da adolescente ero un attivista di estrema sinistra. Eppure sono sempre rimasto un patriota. Nato a Verdun, ho immerso tutta la mia infanzia in un’atmosfera patriottica. Non potevo essere insensibile alla parola “Francia”, alla massa di morti e drammi che mi circondavano. Ho persino sognato di diventare un paracadutista. Ma gli eventi in Algeria mi hanno deluso, non mi vedevo entrare nell’esercito del generale Ailleret. Questo spiega il mio passaggio all’estrema sinistra. Ma non tra i trotskisti, tra i maoisti, insisto, la realtà patriottica non mi ha mai abbandonato. I primi sono internazionalisti, i maoisti insistono sul rapporto tra una popolazione e un territorio. Mao Zedong vince con tutti contro di lui, Washington e Mosca, ma sa come mobilitare la sua gente intorno a lui.

In effetti, ciò che è stato decisivo è stato il mio tempo a Sciences-Po dal 1973 al 1975. Non da quello che ho imparato lì, ma da quello che non ho imparato lì. Nessuno si è dato da pensare al futuro della Francia, al potere della Francia. Non ho trovato nessun mentore che stimolasse la mia mente sul futuro del mio paese, su cosa lo potesse sconvolgere, su come una nazione come la nostra potesse non solo preservare i suoi successi ma svilupparli. Nessuno che mi dia griglie di lettura. E questo in un contesto in cui il gioco dell’opposizione tra i blocchi ha portato a nascondere le divergenze che potevano esistere all’interno di ogni blocco. Sciences-Po aveva scelto il suo campo, combatteva il comunismo, era quasi totalmente sotto l’influenza americana.

Questa legge del silenzio che prevaleva a Sciences-Po non poteva soddisfarmi. Una vera omertà .

 

Conflitti: è così che hai creato la School of Economic Warfare.

Christian Harbulot: Tutto è iniziato con discussioni con i militari. Il generale Pichon-Duclos, soprattutto che ho conosciuto nel 1993 dopo aver letto i suoi articoli. Poi i generali Courmont e Merment, un gruppo che lavorava all’interno di un think tank chiamato Stratos. La nascita è stata lunga, quasi cinque anni. Pensavamo di sviluppare le nostre attività in un’università o in una grande scuola, ma si è rivelato difficile. Affrontare il problema della guerra economica, svelandone la realtà, che rischiava di essere poco apprezzata al di là dell’Atlantico. Tuttavia, i professori della Superiora temevano di dispiacere e di essere banditi dalla pubblicazione sulle riviste americane. Quindi hanno frenato quattro ferri. Un pioniere come Le Bihan, che voleva introdurre questo insegnamento all’HEC, fu costretto ad arrendersi.

Alla fine ho trovato il supporto di ESCA e EGE iniziato nel 1998.

 

Conflitti: è qui che inizia a emergere il tema della guerra economica. Perché in questo momento?

Christian Harbulot: Il fenomeno essenziale è proprio la fine della Guerra Fredda e la fine dei blocchi, e quindi dell’omertà che proibiva la pubblicità delle rivalità tra i paesi occidentali e metteva in discussione la solidarietà atlantica. Ciò che una volta era nascosto lo è sempre di meno. Allo stesso tempo, vengono rilasciate nuove forze e emergono nuovi paesi. Ma la fine della guerra fredda non pone fine alla minaccia nucleare. La bomba atomica rende impossibile pensare a grandi conflitti tra grandi potenze in termini di guerra militare, almeno se restiamo razionali. Ciò spiega in parte la trasformazione della guerra sulla base di scontri economici.

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Un evento significativo mostra quanto è cambiato. Nel 1967, il generale de Gaulle chiese la conversione dei dollari detenuti dalla Banque de France in oro. Questo fatto è spesso trascurato, nella migliore delle ipotesi è considerato molto meno importante della costruzione della forza d’attacco nucleare. Eppure de Gaulle ha osato attaccare le fondamenta del potere americano. È stata una sfida incredibile e questa politica verrà abbandonata dai suoi successori. Oggi i BRICSContestando apertamente la supremazia del biglietto verde, V. Poutine chiede di porre fine al suo ruolo predominante e Pechino, più discretamente, sta mettendo in atto tutta una serie di misure per poterne, domani, farne a meno. Tuttavia, gli Stati Uniti non possono tirarsi indietro su questo argomento, è la chiave del loro potere, ma ancor di più del loro sistema. Quella che una volta era considerata la sfida folle di un uomo sta diventando la sfida di tutte le nazioni emergenti.

Quindi quello che potremmo nascondere o minimizzare in passato non può più essere oggi.

 

Conflitti: come definisci la guerra economica?

Christian Harbulot: È l’espressione estrema delle lotte di potere non militari. Se proviamo a dare la priorità all’equilibrio di potere, i due che mi sembrano i più importanti nella storia dell’umanità riguardano la guerra e l’economia. Questo non significa che non ce ne siano altri – culturali, religiosi, diplomatici… Ma sono questi due che contano di più se guardiamo alla lunga storia, gli altri passano in secondo piano. , le loro conseguenze sono meno gravi.

 

Conflitti: questa guerra è l’azione degli stati?

Christian Harbulot: Sì, certo, sono loro che hanno le risorse materiali e la visione a lungo termine necessaria.

 

Conflitti: che dire delle imprese?

Christian Harbulot: Hanno un ruolo, ma subordinato. Il loro posto è limitato da un fattore essenziale, il fattore tempo. Gli azionisti favoriscono l’utile a breve termine; i manager generalmente rimangono a capo della loro azienda per un breve periodo. Fernand Braudel ha dimostrato che a lungo termine lo Stato vince sul mercato. Perché costruire un territorio richiede investimenti pesanti che richiedono uno sforzo a lungo termine. La sostenibilità del potere non è un business, per quanto potente possa essere, ma una costruzione territoriale la cui durata sarà molto più lunga.

L’azienda può disporre di mezzi finanziari considerevoli, superiori a quelli di alcuni Stati. Ma dipende dal mercato, dai suoi rapidi cambiamenti. Nessuna azienda può dire: “Sono qui, resto lì. La vastità dell’Impero russo è stata inscritta nel tempo per secoli; nessuna impresa privata può pretendere di ottenere questo risultato.

 

Conflitti: la guerra economica sta spingendo le aziende a rivolgersi agli Stati?

Christian Harbulot: Sì, naturalmente. L’abbiamo visto con il subprime crisi . I movimenti di capitali che seguirono hanno dimostrato una cosa, che è stata mappata: il capitale è andato dove si sentiva protetto, spesso il suo paese di origine. Le nazionalità, descritte da alcuni economisti come sciocchezze, riacquistarono importanza.

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Conflitti: visto che stiamo parlando di guerra, ci sono aziende che “tradiscono”?

Christian Harbulot:È un dibattito completamente oscurato nel nostro Paese. Questo mi ricorda un caso che mi sembra essenziale nella storia del nostro paese, il piano informatico del generale de Gaulle per l’IT. Pensava in termini di sovranità, facendoci sfuggire agli Stati Uniti dalla dipendenza dalla tecnologia informatica, ma ancor più in termini di potere, in termini di conquista dei mercati. Peyrefitte lo mostra chiaramente quando riporta una discussione con lui sulla concorrenza tra i sistemi PAL e SECAM; per de Gaulle si tratta di prendere quote di mercato. Cosa ha fatto fallire questo piano? Molte cose, ovviamente, ma soprattutto l’azione di Ambroise Roux. Pensava solo agli interessi della General Electricity Company che dirigeva. Non parlerò di tradimento,

 

Conflitti: come si può dire che la visione dello Stato sia superiore a quella delle aziende? Affermano anche di servire il bene comune, producendo dove costa meno e fornendo al consumatore prodotti economici e vari? In che modo lo Stato impedirebbe loro di farlo?

Christian Harbulot: Prima di tutto, ricordiamoci che non siamo solo consumatori, ma anche produttori. Quello che ognuno di noi guadagna da una parte, rischiamo di perdere dall’altra.

Ma non è questa la radice del problema, non sto entrando nel dibattito sulle virtù e sui limiti del liberalismo economico. Economia e politica non sono proprio sullo stesso piano. Ciò che conta sono i rapporti di potenza. È un’idea che mi sta a cuore; per avere un divenire, dobbiamo pensare al potere. Questa è la ragion d’essere degli stati, non delle imprese.

Vedere. Negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 le aziende americane investirono massicciamente in Germania; questo non ha impedito agli Stati Uniti di entrare in guerra contro di essa – anche se notiamo che i bombardamenti americani hanno sorprendentemente aggirato le fabbriche di questi gruppi …

Gli interessi economici privati ​​non dettano sistematicamente gli interessi del potere. Un caso attuale è rivelatore: le società energetiche americane hanno davvero interesse a sfruttare il gas di scisto che compete con il “loro” petrolio e contribuisce all’attuale caduta del prezzo del barile? E domani, cosa succederà se inizieranno ad esportare in Europa? Lo venderanno a un prezzo elevato, che è nel loro interesse? O a un prezzo basso per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e più dipendente dagli Stati Uniti? Nel primo caso prevarrebbero gli interessi delle società; nel secondo, la logica del potere dello Stato americano. In ogni caso, sarà un ottimo test, se queste esportazioni avranno luogo, per verificare chi sta imponendo il suo punto di vista (tra interesse privato e interesse di potere).

La questione di chi detiene le chiavi del potere è al centro della trama della famosa serie americana House of Cards. In questa finzione un po ‘simbolica, un uomo d’affari americano è alla disperata ricerca di una raffineria in Cina, senza prestare il minimo interesse alle tensioni geopolitiche sino-americane. Interessi privati ​​a breve termine da un lato, interessi collettivi incarnati dallo Stato dall’altro. Alcuni dicono che lo sviluppo del commercio è il modo migliore per rendere difficile uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma di questo dovrebbe essere convinto anche lo Stato cinese! E che non prenda iniziative che possano minare il potere, ma anche la competitività degli Stati Uniti. Torna al dollaro. Se i paesi emergenti riescono a ridurne l’utilizzo, tutti gli americani ne risentiranno e tutte le imprese di questo paese.

Le aziende che non giocano il gioco collettivo si comportano come clandestini. Approfittano del sistema, beneficiano di tutti i beni che lo Stato americano dà loro, e soprattutto delle facilitazioni che il dollaro porta loro, ma rafforzano i potenziali avversari del loro Paese. Ecco perché un giorno o l’altro sono chiamati all’ordine dal potere statale che fischia la fine del gioco.

 

Conflitti: il problema è che le aziende non sono dalla parte del potere.

Christian Harbulot: Sì, su questi argomenti non hanno alcun controllo. Non sono le aziende che possono mantenere il dollaro come strumento duraturo del potere economico americano. L’equilibrio economico del potere non è il risultato dell’aggiunta dell’avviamento delle aziende.

 

Conflitti: che rapporto instauri tra guerra economica e guerra?

Christian Harbulot: Questo è un argomento molto importante. Alcune guerre sono spiegate da motivazioni economiche, soprattutto quando si tratta di impossessarsi di risorse vitali. Lo vediamo oggi in Africa. Ma questo è il modo più semplicistico per farlo.

L’esperienza insegna che la guerra non è il modo migliore per garantire la sostenibilità del potere e della ricchezza di un paese – sottolineo la parola sostenibilità. L’esempio più convincente è il Regno Unito che esce incruento dalla seconda guerra mondiale.

Lo scopo della guerra economica è aumentare la ricchezza e quindi aumentare il potere. La guerra in sé non è il modo migliore per ottenere questo risultato, è spesso il modo migliore per perderlo.

 

Conflitti: ma ci sono gli Stati Uniti che non hanno chiuso le porte della guerra dal 1941.

Christian Harbulot: Sì, gli Stati Uniti. È vero. Hanno riconciliato la guerra con la ricchezza e il potere. Per il momento. E trovano sempre più difficile mobilitare pesanti risorse per questi conflitti. Stanno entrando in un periodo in cui fare la guerra sarà sempre più difficile per loro.

 

Conflitti: tutti i paesi sono consapevoli della realtà della guerra economica?

Christian Harbulot: distinguo tre tipi di paese. Coloro che hanno una logica per aumentare il loro potere e la loro ricchezza: Stati Uniti, Cina, Germania, la maggior parte dei paesi emergenti. Coloro che sono sulla difensiva come la Francia e molti altri paesi europei. E quelli che sono solo posta in gioco.

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Conflitti: in guerra come in politica, è prima necessario sapere chi è il nemico. Se ti dessi la possibilità di scegliere tra tre paesi, Stati Uniti, Germania, Cina, quale definiresti il ​​nostro principale nemico economico?

Christian Harbulot: Tutti e tre, da diverse angolazioni. Il principale potrebbe essere la Germania che ha una vera strategia di potere che ci manca. Quello che ci impedisce di pensare al potere sono gli Stati Uniti. Quello che mina le basi del nostro potere è la Cina.

 

Conflitti: non è possibile un’alleanza con la Germania?

Christian Harbulot: È desiderabile. L’aggiunta delle due culture strategiche, così diverse, gioverebbe a entrambe. La Germania dovrebbe comunque accettare di vedere in noi qualcosa di diverso dai potenziali collaboratori.

Ricordo che un originale, tedesco, che insegnava in organizzazioni prestigiose come Sciences-Po o INSEAD, venne a trovarmi per offrirmi un testo il cui titolo era: “Il ripristino della nozione di collaborazione”. La sua ingenuità mi ha incantato, ma l’ho rimandato a casa.

Se ci atteniamo all’idea della supremazia di una cultura su un’altra, non accadrà nulla.

 

Conflitti: sembra che tu stia pianificando i tuoi colpi più duri negli Stati Uniti. Di cosa li biasimi? I valori liberali di cui si vantano o i metodi che li rendono i principali protagonisti della guerra economica?

Christian Harbulot: Entrambi, o meglio il divario tra i due. Si basano su un discorso che non è verificato nella pratica, perché scollegato dalla realtà, e improvvisamente agiscono al contrario dei valori che pretendono di incarnare.

Espandiamoci alla geopolitica. Il generale de Gaulle una volta ha definito gli Stati Uniti una “potenza pericolosa”. Penso che si riferisse alla guerra d’Indocina dove inizialmente sostenevano il Vietminh per “scoprire” nel 1950, quando scoppiò la guerra di Corea, che erano comunisti e che lui Bisognava combatterli prima dai francesi interposti, poi direttamente intervenendo in Vietnam. Sono molto bravi a creare mostri che si rivoltano contro di loro, i talebani in Afghanistan, gli islamisti dell’ISIS contro Assad… È una forma di schizofrenia. E all’improvviso non possono rivendicare il ruolo di potere che rassicura e protegge. Le basi della loro legittimità sono scosse.

 

Conflitti: quale sarebbe per te la recente battaglia economica più significativa?

Christian Harbulot: la politica del gas di Putin. Questa lezione è la dimostrazione più illuminante di come possiamo giocare su un equilibrio economico di potere e mettere i paesi europei in uno stato di dipendenza. Nel caso della Russia, il gas è un’arma economica al servizio del potere.

 

Conflitti: questo non ha impedito all’Unione Europea di votare sanzioni contro la Russia durante la crisi ucraina?

Christian Harbulot: Ma possiamo vedere chiaramente l’imbarazzo della Germania su questo argomento. Gli accordi economici bilaterali che ha firmato con Putin, in particolare sull’energia, riflettono una visione etnocentrica sui suoi interessi immediati e non il desiderio di giocare la coesione europea su una questione vitale a lungo termine al fine di limitare la dipendenza nel campo energetico. Anche altri paesi hanno i propri interessi da difendere in questo caso. È il caso della Francia con l’esportazione di due navi della classe Mistral. Queste contraddizioni spiegano perché le sanzioni europee sono rimaste limitate.

 

Conflitti: in conclusione, quale valutazione trae da questi diciassette anni alla guida dell’EGE?

Christian Harbulot: Molte ragioni di orgoglio quando vedo il successo dei miei ex studenti e la qualità della formazione che ho fornito loro. Ma la cosa più importante è che, ora, possiamo parlare di guerra economica in questo paese. Non è solo o anche principalmente grazie a me, ovviamente, ma alla fine ho portato la mia pietra nell’edificio, o se preferite le mie macerie al muro.

https://www.revueconflits.com/entretien-christian-harbulot-guerre-economique-analyse-theorie/

Oceano e spazio, la terza dimensione della geopolitica, di Pierre Royer

Oceano e spazio, la terza dimensione della geopolitica

Per millenni, la geopolitica ha fatto parte delle due dimensioni che determinano la superficie terrestre. Le battaglie navali avvenivano nelle immediate vicinanze delle coste, assimilate così al prolungarsi dei conflitti il ​​cui esito si svolgeva spesso sulla terraferma. A partire dal XVII ° secolo, la navigazione oceano permette un’azione in profondità e rivela una certa sorpresa strategica da iniziative ai teatri lontani, almeno difesi. Ma queste azioni sono raramente provano decisivo e non è stato fino al XX ° secolo per il controllo di 3 edimensione diventa capitale. Gli spazi pionieri per eccellenza, l’oceano e lo spazio sono soprattutto aree di controllo, il che giustifica l’interesse delle grandi potenze.

  1. Limiti tecnici e umani

Il primo limite che gli uomini incontrano nel conquistare questi spazi è ovviamente tecnico, di fronte alla sfida dell’immensità. Ampiezza relativa degli spazi oceanici, con navi la cui velocità e capacità di trasportare cibo è limitata. Nel 1492, Colombo navigò per trentasei giorni senza toccare terra per andare dalle Canarie alle Bahamas, Magellan quasi cento giorni nel 1521 per attraversare il Pacifico. Ancora oggi, ci vuole più di un mese di navigazione (non-stop) per collegare l’Europa e l’Asia orientale o attraversare il Pacifico. Immensità assoluta, e persino infinità dello spazio esterno: anche la Luna, la stella a noi più vicina, si trova a una distanza equivalente a nove o dieci volte la circonferenza della Terra – le missioni Apollo impiegavano settanta ore per raggiungerla e un aereo di linea impiegava dai sedici ai diciotto giorni – e Marte, il nostro “vicino”, il unico pianeta che sembra ragionevolmente alla portata dell’uomo, è circa 200 volte più lontano! Un viaggio con equipaggio su Marte riprodurrebbe le condizioni delle esplorazioni marittime dei tempi moderni, aggravando il vincolo dell’esiguità, e quindi la pressione psicologica, che pone qualsiasi esperienza di questo tipo sul filo del rasoio, come marinai dell’era atomica.

 

Questi limiti spiegano perché la progressiva esplorazione di questi spazi può ancora essere considerata imperfetta: meno di vent’anni fa abbiamo un record del primo calamaro gigante vivente e abbiamo esplorato appena il 5% delle profondità oceaniche, come non sappiamo. 96% dell’universo (se questa stima ha senso per una nozione “infinita”) perché, nell’abisso come nello spazio, l’intervento umano diretto è difficile e molto puntuale, addirittura impossibile, sia per ragioni simili (mancanza di ossigeno) o opposte (assenza di gravità in un caso, pressione estrema nell’altro). Per scoprire questi spazi, senza nemmeno parlare di farli propri, è quindi necessario padroneggiare tecnologie complesse: cantieristica navale, cartografia, navigazione astronomica di ieri, costruzioni aerospaziali, automazione e digitalizzazione, la rete satellitare oggi. Si tratta di tecnologie d’élite, non solo perché richiedono un’incredibile quantità di competenze, intellettuali oltre che manuali, per implementarle, ma perché richiedono anche notevoli mezzi finanziari e molto tempo: l’ANS[1] Suffren , consegnato alla Marina francese nel 2020, è il risultato del programma Barracuda lanciato nel 2006, l’ultima unità del quale (la Duquesne ) dovrebbe entrare in servizio nel 2029 e rimanere nella flotta fino al 2060 circa.

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Queste tecnologie sono tanto meno accessibili a tutti in quanto sono generalmente oggetto di sorveglianza, di una politica di segretezza per mantenere un vantaggio essenziale da una prospettiva di potere o semplicemente commerciale. Carte nautiche, i trattati di navigazione sono stati tenuti segreti e nel XVI ° secolo, che gli algoritmi di oggi. Fu solo con l’esplorazione dell’Atlantico di Halley nel 1698-1699 che la conoscenza divenne un fattore di prestigio e da quel momento in poi fu mostrata (almeno in Europa) piuttosto che nascosta. Le imprese tecnologiche o le esplorazioni avventurose verranno ora pubblicizzate, anche se i dettagli delle tecniche per realizzarle rimangono sotto sorveglianza.

L’inaugurazione della SNA Suffren.

Dal mare allo spazio

La logica ultima di questa copertura mediatica era la conquista dello spazio, oggetto di una rivalità tra le due superpotenze del dopoguerra. Nel mondo bipolarizzato della Guerra Fredda, il progresso tecnologico è stato sia una vetrina del suo know-how, e quindi del suo avanzamento sull’altro modello, sia un sostituto di un conflitto diretto che non poteva aver luogo a causa di deterrenza nucleare. La corsa allo spazio aveva inoltre a che fare con il progresso dell’arma atomica, perché la tecnologia del razzo (motorizzazione, potenza, guida, controllo automatizzato) era la stessa, su scala più ampia, di quella usata per il missili intercontinentali, vettori invulnerabili della bomba.

È quindi comprensibile che gli americani fossero preoccupati per l’avanzata presa dai sovietici nelle prime fasi di questa corsa: primo satellite artificiale (Sputnik, 1957), prima essere vivente poi primo uomo nello spazio ( Gagarin, 1961). Il candidato democratico nel 1960, John F. Kennedy, ha utilizzato il tema del “gap missilistico” durante la sua campagna per screditare il suo avversario Richard Nixon, vicepresidente uscente. Sotto Johnson (1963-1968), la tendenza sarà invertita e Nixon, ora presidente, avrà la soddisfazione di assistere al primo sbarco sulla luna per il suo primo anno in carica (1969). E lo spazio testimonierà anche il cambiamento nelle relazioni tra i due grandi quando la logica del confronto succederà a quella della distensione: nel luglio 1975, nel mezzo della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa a Helsinki (CSCE), il lo stivaggio di una cabina Apollo e di una navicella Soyuz ha dimostrato la capacità dei due grandi di cooperare in uno spazio da cui partono una serie di accordi internazionali, conclusi da un decennio,

  1. Spazi di controllo

Ciò è comunque vero per il dispiegamento permanente di sistemi d’arma o per uso militare (trattato del 1967, trattato ABM [2] del 1972). Eppure le prime mete della ” dimensione 3 E ” erano bene, e rimangono, militari: è l’osservazione e la conoscenza delle forze e dei movimenti del nemico. Aeroplani o dirigibili furono incorporati negli eserciti per questo scopo, prima di sviluppare capacità decisive di attacco al suolo alla fine della prima guerra mondiale; Dal 1916 e dalla battaglia di Verdun, la prima battaglia per la superiorità aerea, la padronanza dello spazio aereo “sovrastante” è una condizione sine qua non vittoria, a terra come in mare, come i satelliti, sono diventati la principale fonte di questo bene essenziale per i leader: l’informazione, nel suo doppio aspetto di raccolta (osservazione) e trasmissione (comunicazioni).

Uno spazio essenziale per la capacità di azione

In modo che il 3 °dimensione è la chiave per la libertà di intraprendere azioni su larga scala in geopolitica: è grazie alla sua maestria che un potere può avere informazioni sufficientemente precise, statiche e dinamiche (satelliti di osservazione e geolocalizzazione) , per decidere e condurre un’azione su qualsiasi scala. Dall’azione furtiva (squadre di commando) o addirittura invisibile, nel cyberspazio, come la contaminazione da parte di Stuxnet che probabilmente ha preso di mira il programma nucleare iraniano, all’azione senza risposta basata su missili tele o homing e / o droni lanciati da aerei o forze navali operanti in aree internazionali, inclusa la semplice esibizione di forza dissuasiva che costituisce il dispiegamento di una significativa forza aerea navale in prossimità di aree critiche.

La libertà di attuare tali mezzi e la loro efficacia sono tanto più sottolineate dalle difficoltà che le truppe di terra incontrano oggi, in particolare nei conflitti asimmetrici: per ottenere risultati, devono dispiegare in massa, che richiede logistiche disabilitanti e aumenta il rischio di tensioni con le popolazioni locali, senza una reale garanzia di efficacia contro un nemico che sfrutta anche le possibilità offerte dalla 3a dimensione in termini di comunicazione criptata, capacità tracciamento, ecc.

 

La questione dell’autonomia, quindi la sovranità è quindi molto direttamente correlata ai mezzi per agire in questa 3 e dimensione strategica, se non altro per avere un’indipendenza nell’informazione – ecco cosa che ha spinto Russia, Cina, ma anche Giappone o Unione Europea, a sviluppare ad esempio un proprio sistema di geolocalizzazione. L’affermazione del potere oggi passa attraverso le tecnologie balistiche – lo vediamo con la Corea del Nord – e attraverso programmi spaziali autonomi o in collaborazione limitata – come l’Agenzia spaziale europea, creata nel 1975, o la cooperazione israeliana. -indiano dagli anni 2000.

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Ma non dobbiamo dimenticare l’aspetto marittimo di questa terza dimensione, vale a dire la profondità. Il 99% delle comunicazioni istantanee di cui godono i nostri computer e telefoni passa attraverso cavi che si trovano sul fondo dell’oceano e la rete in continua espansione ora include più di 300 cavi che si avvicinano a un milione di miglia. E i sottomarini, in particolare a propulsione atomica che beneficiano di una totale autonomia [3], sono anche gli strumenti ideali per la raccolta di informazioni, siano esse tattiche (illuminazione di una forza navale) o strategiche e, naturalmente, per gli attacchi: con missili, sia da crociera che balistici , testata nucleare o meno, il 95% delle aree abitate del globo sono vulnerabili a un attacco innescato dal mare, in particolare le più grandi metropoli, la maggior parte delle quali si trova entro 200 km dalla costa. Viceversa, a causa della loro furtività e della loro mobilità, i sottomarini atomici sono piattaforme quasi impercettibili, e quindi quasi invulnerabili, salvo un incidente o un incredibile colpo di fortuna da parte del “cacciatore”. Questo è ciò che rende gli SSBN (sottomarini missilistici nucleari) i vettori essenziali della deterrenza nucleare,

  1. La tentazione della territorializzazione

Grazie alle profondità, il mare ha mantenuto il ruolo di spazio di sorpresa che ha sempre avuto, dalle incursioni vichinghe agli sbarchi alleati della seconda guerra mondiale e persino in Corea. Oggi, il rilevamento aereo, e ancor di più via satellite, impedisce a una flotta di superficie di nascondersi, ma i sottomarini mantengono questa capacità. Anche se la precisione dei satelliti è raffinata, il che consente loro di contribuire, ad esempio, a comprendere gli effetti del riscaldamento globale sugli oceani (temperatura, livello, correnti, ecc.), Non rilevano ancora i sottomarini oltre poche decine di metri di profondità.

Logicamente, la capacità di osservazione ha portato a un maggiore desiderio di controllo e regolazione. Questo è il XVII ° secolo, che l’idea di proprietà, o per lo meno il controllo legale delle aree marittime prendendo forma, con la prima estensione della sovranità di uno Stato per le acque costiere (1604) e con il dibattito avviato dal gli olandesi sulla libertà dei mari, difesi dal giurista Grotius (1583-1645) nel suo Mare liberum (1609). Questo lavoro, bandito in Inghilterra, ha suscitato una risposta da John Selden (1584-1654) attraverso il suo Mare clausum, completato già nel 1618, ma pubblicato una ventina di anni dopo. I principi ei metodi poi conservati per definire e tracciare le Camere del Re, la prima forma di acque territoriali, sono abbastanza vicini a quelli approvati quasi quattro secoli dopo a Montego Bay per la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in particolare nozioni di linee di base o passaggi innocui.

 

Questo perché il diritto marittimo è soprattutto consuetudinario. La progressiva estensione delle acque sotto la giurisdizione nazionale avviene casualmente da casi pratici, ma accompagna anche le capacità di sorveglianza degli Stati: il limite di 3 miglia nautiche (circa 5 km) delle acque territoriali è stato per lungo tempo la norma perché corrispondeva al capacità pratiche di azione di uno Stato, e sono gli Stati Uniti che la estenderanno fino a 12 miglia nautiche per combattere contro le “barche del peccato”, queste navi casinò ancorate al limite di 3 miglia nautiche, quindi in vista della costa, al tempo del divieto di alcol (1917-1933) – questo diventerà il nuovo standard del mare territoriale alla conferenza di Ginevra nel 1958. La creazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) da parte di la convenzione del 1982, portando fino a 200 miglia (370 km) i diritti e le responsabilità dei residenti nella regolazione di determinate attività, corrispondeva a un compromesso tra gli Stati “poveri”, desiderosi di un’estensione del loro mare territoriale fino a questo limite, e le competenze navi marittime che desiderano mantenere la massima libertà di navigazione e di azione possibile. Si noti che lo spazio aereo riproduce fedelmente lo stato delle terre o dei mari sottostanti: lo spazio aereo nazionale si estende quindi anche al di sopra del mare territoriale.

ZEE e piattaforma continentale

La ZEE può anche essere estesa dalla piattaforma continentale fino a un massimo di 350 miglia (650 km) se questa estensione è giustificata da argomenti geologici e convalidata da una commissione specializzata delle Nazioni Unite. Questo è ciò che consente alla Francia, che ha la seconda ZEE più grande al mondo dietro gli Stati Uniti, di avere il primo dominio sub-marittimo dalla convalida delle estensioni nel 2015, con 11,6 milioni di km², in in attesa di ulteriori decisioni. Le aree che non rientrano nella ZEE o nelle piattaforme continentali (circa il 60% degli oceani) costituiscono l’alto mare, dove prevale il principio di libertà. Tuttavia, ciò non significa che sia una zona illegale, perché sono state concluse convenzioni specifiche per la regolamentazione della pesca, regionale (tonno, merluzzo) o globale (caccia alle balene,

Fino ad oggi, oltre alle risorse ittiche, sono principalmente le riserve di idrocarburi ad essere sfruttate, a profondità sempre maggiori – dell’ordine di 3.000 m di colonna d’acqua, a cui si aggiunge la profondità di foratura. La maggior parte delle nuove riserve scoperte, a parte il gas di scisto e il petrolio, sono ora in mare e lo sfruttamento offshore fornisce circa un terzo della produzione mondiale, grazie a giacimenti che si trovano in ZEE generalmente riconosciute, anche se la scoperta di tali ricchezze a volte riattiva controversie dormienti finché non c’erano quasi poste in gioco, ad esempio i giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale.

Sfruttare le risorse del mare

Lo sfruttamento delle risorse minerarie in mare, solitamente situate a profondità molto elevate, è solo all’inizio: la società australiana Nautilus Minerals ha lanciato nel 2019 il progetto Solwara 1 al largo della Nuova Guinea per la produzione di rame e oro – ma l’enorme dimensione dei depositi suggerisce che la corsa arriverà presto. Un rapporto congiunto CNRS e Ifremer pubblicato nel 2014 ha stimato che la zona di Clarion-Clipperton (15% dell’Oceano Pacifico), grazie al suo “campo” di noduli polimetallici, conteneva 6.000 volte più tallio, 3 volte più cobalto e più manganese e nichel di tutte le risorse individuate al di fuori degli oceani. Anche le risorse genetiche marine (codici del DNA degli organismi marini) sono oggetto di molte fantasie – e semplificazioni,

Piattaforma di perforazione petrolifera offshore.

Il problema però non è cambiato: si tratta ancora di garantire la più ampia libertà di accesso possibile a queste risorse, ma bisogna scegliere tra una libertà incantatoria, l’apertura all’accesso al saccheggio, secondo una concezione simile a quella di pirati di tutti i tempi, e non solo in mare, e libertà reale, che presuppone regole eque e autorità per farle rispettare. L’ONU ha anche avviato nel 2018 negoziati per completare la Convenzione sull’alto mare del 1982. Il senso della storia cresce in effetti con l’aumento della presenza dell’uomo nel 3 ° dimensione, che sia una presenza legale o una presenza fisica, con il proliferare di installazioni sostenibili in alto mare: piattaforme petrolifere, parchi eolici … Il problema sorgerà senza dubbio presto nello spazio esterno, che è indistinguibile non per il momento di un’estensione infinita dello spazio aereo.

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Realisticamente, con un interesse strategico ed economico del 3 e rafforzato per dimensioni e capacità di intervento umano aumentato, il gioco del potere è sicuro di dispiegarlo, a volte a discapito della legge. L’appropriazione da parte della Cina di isolotti o scogliere nel Mar Cinese Meridionale per aumentare il suo mare territoriale e la sua ZEE, a dispetto delle rivendicazioni concorrenti e di un parere della Corte internazionale di giustizia dell’agosto 2016, annuncia conflitti a venire. E la possibilità di attraccare satelliti già in orbita apre anche la strada a una “guerra spaziale” che non ucciderà le persone, ma giocherà comunque un ruolo decisivo nella difesa della sua sovranità.

Cronologia: padronanza del mare e dello spazio in 21 date

  • 1405-1433: le 7 spedizioni di Zheng He
  • 1519-1522: prima circumnavigazione (Magellano – Elcano)
  • 1604: istituzione delle Camere dal re Giacomo I ° d’Inghilterra
  • 1843: prima nave in acciaio azionata da un’elica ( Gran Bretagna )
  • 1851: primo cavo sottomarino (Calais-Douvres)
  • 1869: apertura del Canale di Suez
  • 1905: primi voli controllati dei fratelli Wright
  • 1911: primo esempio di bombardamento aereo (Tripolitania)
  • 1914: siluramento di 3 incrociatori britannici da parte del sottomarino U9
  • 1929: definizione universale di miglio nautico
  • 1939: primo volo di un aereo a turbogetto autonomo
  • 1954: lancio del Nautilus , il primo sottomarino atomico della storia
  • 1957: lancio del primo satellite artificiale, Sputnik I.
  • 1960: il Bathyscaphe Trieste raggiunge il fondo della Fossa delle Marianne (- 11.000 m)
  • 1967: trattato sull’uso pacifico dello spazio cosmico
  • 1969: sbarco sulla luna della missione Apollo XI (21 luglio)
  • 1970: risoluzione 2749 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
  • 1975: Apollo – Missione Soyuz
  • 1982: Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay)
  • 2010: rilevamento del worm Stuxnet, il primo caso identificato di attacco informatico
  • 2020: primo ormeggio dei satelliti in orbita geostazionaria

[1] SNA: sottomarino da attacco nucleare. Sottomarino a propulsione atomica dedicato ad attaccare forze navali o obiettivi terrestri con armi non nucleari (missili, siluri).

[2] Missili antibalistici: armi destinate all’intercettazione di missili intercontinentali.

[3] Non hanno infatti bisogno di fare rifornimento e riciclano l’aria e l’acqua, potendo rimanere in immersione totale finché dura la loro scorta di cibo e l’equipaggio resiste al confinamento.

https://www.revueconflits.com/ocean-espace-geopolitique-pierre-royer/

Lavrov: “Siamo pronti a dialogare con tutti”_ intervista al Ministro degli Esteri Russo, Lavrov

L’informazione in Italia sta assumendo toni sempre più propagandistici e scioccamente unilaterali, specie sui temi di politica estera. Proprio quando con l’affermazione del multipolarismo i punti di vista e le campane tendono a diversificarsi e a divergere. Qui sotto una intervista al Ministro Lavrov pubblicata da https://it.sputniknews.com/intervista/202009189544338-esclusiva-lavrov-siamo-pronti-a-dialogare-con-tutti/

Essendo un alto dirigente politico e un fine diplomatico, il suo pensiero va letto soprattutto tra le righe.

Giuseppe Germinario

Per fare il punto della situazione attuale nelle relazioni internazionali, nelle prospettive nella risoluzione delle crisi in corso nel mondo e nelle relazioni bilaterali, Sputnik ha intervistato in esclusiva il ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov.

— È con noi in collegamento il ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov. Buongiorno, signor ministro!

— Buongiorno! Vi ringrazio per l’invito.

— Vorrei cominciare il nostro incontro parlando dei rapporti bilaterali russo-americani e, se non ha nulla in contrario, avrei una domanda in merito alle elezioni che attendono gli USA tra meno di 2 mesi. L’élite statunitense, indipendentemente dal suo colore politico, parla spesso del ruolo esclusivo del proprio Paese in qualità di leader assoluto a livello mondiale. Qual è la portata dell’impatto che questa agenda di politica interna ha sulla politica estera degli USA e sui rapporti con alleati e partner, nonché sui rapporti bilaterali con la Russia? In che modo, a Suo avviso, il principio statunitense di esclusività influisce sui processi a livello internazionale?

— Probabilmente tutti hanno già tratto le proprie conclusioni e con tutti intendo chi segue in maniera attenta e professionale il corso degli scontri politici interni al Paese. Tali scontri, infatti, sono sempre stati il pretesto delle posizioni assunte sia da democratici sia da repubblicani. Quello che succede oggi non fa eccezione. La cosa più importante è raccogliere il maggior numero possibile di argomentazioni per battere l’avversario sul piano retorico, informativo e polemico. Presto si terranno i dibattiti tra i principali candidati democratici e repubblicani alle presidenziali e già ora una posizione di rilievo la ricoprono temi come la questione russa, ossia la questione dell’ingerenza della Russia (ormai questa teoria si è imposta come cliché) negli affari interni degli Stati Uniti.

In verità, nelle ultime settimane o comunque negli ultimi 2 mesi si è aggiunta a noi la Cina che ora occupa una posizione d’onore di spicco tra i nemici dell’America che starebbero tentando in tutti in modo di far accadere eventi catastrofici in America. A questo in fin dei conti noi siamo già abituati da anni. È un processo cominciato non con la presente amministrazione, ma già con Obama. Proprio quest’ultimo dichiarava, tra l’altro anche pubblicamente, che i dirigenti russi stessero consciamente operando per rovinare le relazioni tra Mosca e Washington.

Inoltre, dichiarava che la Russia si sarebbe intromessa nelle elezioni del 2016 e con questo pretesto ha introdotto sanzioni senza precedenti, inclusa la confisca di proprietà russe sul suolo statunitense, l’espulsione di decine di nostri diplomatici e delle loro famiglie e molto altro. Poi, quanto alla teoria dell’esclusività statunitense, si tratta di una tesi condivisa sia da democratici sia da repubblicani, ma anche da tutte le altre correnti politiche degli USA. Abbiamo commentato più volte che già in passato nella storia vi sono stati tentativi di chi ha voluto presentarsi come infallibile e onnisciente fautore del destino dell’intera umanità. Questi tentativi, però, non hanno portato a nulla di buono. Pertanto, noi confermiamo il nostro approccio: qualsivoglia evento di politica interna a un Paese è un affare di quel Paese.

È un peccato che facciano un uso spregiudicato di retorica nei propri affari interni e, tra l’altro, di una retorica che non riflette la reale situazione a livello internazionale. È altresì un peccato che, per conquistare il maggior numero di preferenze in questa campagna elettorale, senza alcun dubbio o vergogna, introducano con o senza pretesto ingiuste sanzioni contro chi sullo scacchiere internazionale dica anche solo qualcosa non perfettamente in linea con gli Stati Uniti.

Questo istinto sanzionatorio che è stato implementato anzitutto durante la presente amministrazione (ma, lo ribadisco, anche Obama ne ha fatto ampia prova) sta contagiando purtroppo anche il continente europeo: anche l’Unione europea, infatti, ricorre sempre più spesso all’applicazione delle sanzioni. Pertanto, la conclusione che traggo è assai semplice. Lavoreremo naturalmente con qualsivoglia governo che il dato Paese sceglierà e questo vale anche per gli Stati Uniti. Ma dialogheremo con gli Stati Uniti su qualunque questione di interesse solamente sulla base di principi quali la parità, il reciproco vantaggio e la ricerca di un equilibrio di interessi. Dialogare con noi proclamando ultimatum è inutile e insensato. Chi non lo capisce, non è un buon politico.

— Lei ha menzionato la pressione sanzionatoria che in molti casi non nasce direttamente nei circoli politici, ma viene prefigurata dai media. Negli USA, in Gran Bretagna e in Europa questo succede assai spesso. La stampa statunitense ha accusato la Russia di aver cospirato con i tabloid contro i militari statunitensi in Afghanistan, il Ministero britannico degli Esteri ha confermato che la Russia si sarebbe quasi certamente intromessa nelle elezioni parlamentari del 2019, questa settimana gli Stati membri dell’UE stanno discutendo l’ennesimo pacchetto di sanzioni da comminare alla Russia in relazione a presunte violazioni dei diritti umani. Lei crede che questo approccio, ossia la politica di demonizzazione di Mosca, possa in qualche modo cambiare in futuro oppure non farà che crescere?

— Al momento non vediamo segnali di futuri cambiamenti a livello politico. Purtroppo questa inclinazione all’applicazione di sanzioni non farà che aumentare. Stando a ciò che abbiamo visto ultimamente vogliono punirci anche per ciò che sta accadendo in Bielorussia e anche per l’incidente di Navalny, sebbene si rifiutino categoricamente di mantenere gli impegni presi nell’ambito della Convenzione europea di assistenza giudiziaria e di rispondere alle istanze ufficiali della Procura generale. Sono state accampate scuse del tutto fittizie. La Germania sostiene: “non vi possiamo dire niente, rivolgetevi alla Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche”. Noi ci siamo andati più volte e ci hanno detto di rivolgerci a Berlino.

Spesso si sente dire “fare a scaricabarile”: ecco più o meno è il modo in cui i nostri partner occidentali, mi si conceda l’espressione, stanno reagendo alla nostra linea e stanno dichiarando a gran voce che “l’avvelenamento è ormai conclamato, nessuno se non la Russia avrebbe potuto farlo, ammettetelo”. È successo lo stesso con Skripal e, tra l’altro, sono convinto che, se non ci fosse stato questo caso Navalny, se ne sarebbero inventati un altro. Tutto ha finalizzato a minare il più possibile le relazioni tra Russia e UE. Nell’Unione europea vi sono Paesi che capiscono questa logica, ma da loro continua a prevalere il principio del consenso, la cosiddetta solidarietà. Questo principio è largamente sfruttato da quei Paesi che rappresentano una minoranza russofobica e aggressiva.

Oggi l’Unione europea sta valutando la possibilità, da quello che ho capito sulla base della presentazione del rapporto del presidente della Commissione europea, di assumere decisioni relative a determinati temi non in base al consenso, ma al voto. Questo cambiamento sarà interessante perché potremo vedere chi desidera sfruttare a proprio favore il diritto internazionale e chi invece predilige una politica ragionata e bilanciata, basata sul pragmatismo. Ricordo, però, che quando ci accusavano di aver stretto relazioni con i talebani per indurli previa ricompensa in denaro a condurre operazioni speciali contro i soldati americani, i talebani combattevano però per i propri interessi e le proprie convinzioni. Pensare che noi potremmo essere in grado di fare cose del genere, cose da fuorilegge, è una caduta di stile persino per gli alti funzionari statunitensi. Tra l’altro, il Pentagono è stato costretto a smentire riflessioni di questo tipo poiché non ne ha trovato alcuna riprova.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

Gli stessi talebani hanno dichiarato che si tratta di una menzogna bella e buona. Ma nell’epoca delle reti sociali, della disinformazione e dei comunicati fake, tanto vale dare in pasto ai media qualsiasi trovata perché poi nessuno si preoccupa di leggere le smentite. Il primo clamore che si viene a creare con questa sorta di sensazionalismi è ciò su cui fanno affidamento i loro autori. Pertanto, noi abbiamo detto più volte sia agli americani sia ai britannici: “se avete richieste nei nostri confronti, siete pregati di attivare le procedure diplomatiche ufficiali di dialogo che si devono basare su fatti reali”. Poiché la maggior parte delle richieste in merito all’ingerenza riguarda lo spazio cibernetico (ci accusano, infatti, di hackeraggio di enti pubblici e di intrusione in qualsivoglia sistema strategico dei nostri colleghi occidentali), abbiamo proposto di rinnovare il dialogo in materia di sicurezza informatica anche internazionale in tutti i suoi aspetti e hanno risposto di essere pronti a valutare le preoccupazioni in capo ad ambo le parti.

Anche noi, infatti, abbiamo registrato diversi casi che ci inducono a sospettare di avvenute ingerenze da parte di hacker occidentali all’interno di nostre risorse strategiche. In merito abbiamo ricevuto un secco no. E sa qual è stata la risposta? “Ci esortate a instaurare un dialogo sulla sicurezza informatica, ossia sullo stesso settore che voi sfruttate per intromettervi nei nostri affari interni”. Questo è quanto. Ed è di fatto quello che è emerso con Navalny, le stesse argomentazioni: “perché non ci credete, forse?”. Quando Rex Tillerson era segretario di Stato, dichiarò ufficialmente in un’occasione di essere in possesso di prove inconfutabili dell’ingerenza russa nelle elezioni americane. Non mi diedi pena di interessarmi in merito: “se vi fossero simili prove inconfutabili, le condivideresti, no? Saremmo noi poi i primi a fare in modo di capire di cosa si tratta perché non sarebbe nei nostri interessi inventare falsità”. Sa cosa mi disse? Mi rispose: “Sergey, non ti darò niente. I vostri servizi segreti hanno organizzato tutto questo e conoscono perfettamente la situazione. Rivolgiti a loro, te lo devono dire loro”.

Questo fu il nostro dibattito sul tema che è diventato probabilmente il principale elemento di discussione nelle nostre relazioni bilaterali. Pertanto siamo convinti che un giorno si dovrà comunque rispondere a domande concrete e presentare i fatti reali non solo in questo caso, ma anche con Navalny o ancora con l’avvelenamento di Salisbury. A tal proposito, in merito a Salisbury, due anni fa quando è accaduto il fatto e quando ci hanno additato come unico produttore di novichok, abbiamo risposto argomentando la nostra posizione. Tutti possono prendere conoscenza dei fatti: alcuni Paesi occidentali hanno messo a punto sostanze simili al novichok che tra l’altro negli USA sono state brevettate anche per uso bellico.

E tra quei Paesi in cui sono state condotte operazioni di questo tipo possiamo menzionare ad esempio la Svezia. Due anni fa ci hanno detto: “non osate annoverarci fra questi Paesi, non ci siamo mai occupati di novichok”. Ma adesso, come ben sapete, uno dei Paesi a cui si sono rivolti i tedeschi per riconfermare le loro conclusioni oltre alla prima conferma francese è stata proprio la Svezia. E gli svedesi hanno dichiarato che effettivamente confermavano l’esattezza dei risultati delle indagini condotte presso il laboratorio dell’esercito tedesco e che si trattava proprio di novichok. Ma se 2 anni fa la Svezia non disponeva delle competenze per capire se fosse novichok o meno e dopo 2 anni ne è capace, significa che qualcosa dev’essere accaduto. E se è accaduto ciò che ha permesso alla Svezia di capirne di novichok, probabilmente andrebbe considerato una violazione della Convenzione sulle armi chimiche. Concludo la mia risposta alla Sua domanda dicendo che siamo pronti a dialogare con tutti. Basta che non ci obblighino a giustificarci senza nemmeno presentare dei fatti reali. Saremo sempre pronti al dialogo professionale sulla base di questioni concrete e chiaramente formulate.

— Oltre alle controversie che stanno sorgendo tra di noi e i nostri partner occidentali in merito agli ultimi eventi all’ordine del giorno, si registra la presenza di dissensi in merito a visioni diverse della storia. Al momento le grandi manifestazioni che hanno avuto luogo negli USA hanno innescato cambiamenti radicali. In sostanza, ha preso avvio un processo di riesame di buona parte della storia e della cultura internazionale di stampo americano: si profanano i monumenti e si cerca di cambiare l’assetto degli eventi. In tal senso, ci sono stati e continuano ad esserci tentativi finalizzati a rivedere la Seconda guerra mondiale e il ruolo in essa rivestito dall’Unione Sovietica. A Suo avviso, a quali conseguenze per gli USA possono portare questi tentativi di revisionismo storico e quali invece saranno le conseguenze a livello globale?

— Lei ha assolutamente ragione. Siamo molto preoccupati per le sorti della storia europea e mondiale. Stiamo vivendo, per essere franchi, una aggressione storica finalizzata a riscrivere le fondamenta contemporanee del diritto internazionale posate dopo la Seconda guerra mondiale mediante l’operato dell’ONU e i principi del suo statuto. Oggi sono proprio queste fondamenta che si cercano di minare. Si ricorre anzitutto a un’argomentazione che non è altro se non un tentativo di porre sullo stesso piano l’Unione Sovietica e la Germania nazista, ossia gli aggressori e i vincitori degli aggressori, i vincitori di coloro che hanno tentato di asservire l’Europa e rendere schiava la maggior parte dei popoli del nostro continente.

Ci offendono dichiarando senza mezzi termini che l’Unione Sovietica ha persino più colpe della Germania di Hitler per aver provocato la Seconda guerra mondiale. Tuttavia, nascondono accuratamente sotto al tappeto i fatti: ossia, che tutto era cominciato già nel ’38, che prima di quel momento erano le nazioni occidentali a condurre una politica di appeasement nei confronti di Hitler (in particolare, Francia e Gran Bretagna). Non mi dilungherò troppo su questo tema, perché molto è già stato detto. In merito rimando al noto articolo del presidente Vladimir Putin che tratta tutti gli elementi salienti della vicenda e, sulla base di diverse fonti, dimostra in maniera convincente quanto siano insensati, controproducenti e distruttivi i tentativi di minare i risultati conseguiti in esito alla Seconda guerra mondiale. Ricordo comunque che noi siamo supportati dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale in questo senso.

Ogni anno in occasione delle sedute dell’Assemblea generale dell’ONU proponiamo ai voti la risoluzione sull’inammissibilità della glorificazione del nazismo. Solo 2 Paesi votano contro (USA e Ucraina) e l’intera Unione europea si astiene, con mio profondo rammarico. Si astiene perché, come ci spiegano loro stessi, a chiedere di non supportare questa risoluzione sono anzitutto i Paesi baltici. Ma, come si suol dire, hanno la coda di paglia: in questa risoluzione non vi è alcuna menzione specifica ad alcun Paese o governo. Semplicemente si invita l’intera comunità mondiale a non consentire che vi siano tentativi di glorificazione del nazismo. Ma, dunque, i Paesi che chiedono all’UE di non supportare questa chiara risoluzione, la quale non ha alcun doppio fine, sentono di non poter accettare questi principi. E alla fine è proprio quello che succede: assistiamo alle marce di nuove SS e alla distruzione dei monumenti. I nostri vicini polacchi sono molto attivi su questo fronte e anche in Repubblica Ceca si sono verificati casi simili. È inaccettabile.

Tra l’altro, oltre al fatto che così si minano i risultati della Seconda guerra mondiale sanciti nello statuto dell’ONU, si tratta anche di gravi violazioni dei trattati bilaterali stretti tra questi Paesi e altri Paesi che invece si preoccupano di tutelare le sepolture dei soldati e i monumenti eretti in Europa in memoria delle vittime della Seconda guerra mondiale e degli eroi che hanno liberato i loro rispettivi Paesi. Pertanto, continueremo a lavorare in questo senso e, a mio avviso, è importante assicurarsi che chi è contro l’abolizione della glorificazione del nazismo si muova effettivamente in linea con i diritti umani.

Dopotutto, la libertà di pensiero e di espressione che esistono negli USA e in altri Paesi occidentali non sono sottoposte ad alcun tipo di censura. Se questa libertà viene limitata dall’inammissibilità della glorificazione del nazismo, si andrebbe contro la data legge. Ma voglio dirlo chiaramente: ciò che sta accadendo oggi negli USA è probabilmente legato in qualche modo a ciò di cui stiamo parlando in merito all’inammissibilità di rivedere i traguardi raggiunti dopo la Seconda guerra mondiale. Una rabbia generalizzata a sfondo razzista è ovviamente presente negli USA e vi sono forze politiche che stanno tentando di fomentare questi sentimenti razzisti a proprio vantaggio. Di fatto è ciò che accade ogni giorno. Poc’anzi lei ha citato altri fatti o monumenti storici che sono oggetto di politiche effimere.

Tra le grinfie di chi negli USA intende distruggere la sua stessa storia perché in passato erano schiavisti è finito il monumento al primo governatore dell’Alaska Baranov che si trovava nella città di Sitka e ha sempre suscitato profondo rispetto sia negli abitanti del luogo sia nei turisti. Ci è giunta notizia che il governatore dell’Alaska e le autorità di Sitka non intendono distruggere il monumento ma riposizionarlo in un museo di storia, come ci hanno assicurato. E qualora questo dovesse realmente accadere, come ci hanno promesso, penso che dovremmo apprezzare questo gesto delle autorità di Sitka nei confronti della nostra storia comune e spero che il riposizionamento del monumento a Baranov in un museo di storia stimoli anche all’organizzazione di una mostra dedicata alla storia dell’America russa.

— Avrei alcune domande in merito all’ordine del giorno su Francia e Africa. Iniziamo dalla Francia. Emmanuel Macron è al potere da 3 anni e il suo primo invito ufficiale al capo di un altro Stato è stato rivolto a Vladimir Putin con il fine di migliorare le relazioni russo-francesi. Ci sa dire quali sono stati i veri cambiamenti avvenuti da allora a livello diplomatico nella collaborazione con la Francia e potrebbe confermare o smentire se la riunione del 16 settembre a Parigi è stata rinviata per via del caso Navalny? Per quanto ne so, ieri a Parigi doveva esserci un incontro che non ha però avuto luogo…

— Non ieri. Avrebbe dovuto avvenire qualche giorno prima, ma questo non cambia le cose. In primo luogo, la Francia è uno dei nostri principali partner internazionali. Da tempo abbiamo identificato la nostra cooperazione bilaterale alla stregua di partenariato strategico. E subito dopo la sua elezione, il presidente Macron ha invitato il presidente russo come una delle sue prime mosse di politica estera. E come risultato di questa visita, che ebbe luogo nel maggio 2017 a Versailles, furono confermate le intenzioni e la disponibilità di entrambi i Paesi e dei loro leader a coltivare il partenariato nell’ambito della cooperazione bilaterale delle relazioni internazionali, nonché a livello regionale e globale.

Sulla base del vertice di Versailles fu istituito il Forum di dialogo della società civile, il Dialogo di Trianon, che ad oggi funziona piuttosto bene, anche se per via delle restrizioni legate al coronavirus non è ancora possibile organizzare eventi in presenza. Da allora vi sono state più visite del presidente Macron in Russia e visite del presidente Putin in Francia. L’ultima visita tenutasi nell’agosto dello scorso anno è stata la visita del presidente Putin e le relative trattative con il presidente Macron presso la residenza Fort de Brégançon. Era agosto dello scorso anno, come ho detto. Si è tenuta una discussione molto produttiva e profonda in merito alla necessità di instaurare relazioni strategiche finalizzate ad affrontare i temi chiave del mondo moderno, anzitutto, naturalmente, in Europa, nell’Euro-Atlantico.

L’obiettivo è rafforzare la sicurezza in queste aree. All’epoca i due presidenti si sono accordati per creare meccanismi di interazione ramificati sia attraverso i Ministeri degli Esteri che quelli della Difesa. Si osservi anche la ripresa del formato 2+2 che, sebbene di lunga data, aveva registrato una pausa nel suo utilizzo. Lo scorso settembre si è tenuta a Mosca una seduta in formato 2+2. Oltre a questi due Ministeri, le questioni strategiche di stabilità vengono discusse anche dai consulenti di politica estera dei due presidenti. Con il loro benestare, con il benestare del presidente Putin e del presidente Macron, sono stati istituiti più di 10 gruppi di lavoro su temi diversi legati alla cooperazione in questo ambito: controllo sugli armamenti, non proliferazione delle armi di distruzione di massa, ecc.

E nel complesso la maggior parte di questi meccanismi funziona bene ed è finalizzata a far sì che noi possiamo congiuntamente ai colleghi francesi creare iniziative volte a stabilizzare le relazioni in Europa e a normalizzare l’attuale situazione. In particolare, quando si acuiscono le divisioni, quando la NATO incrementa le proprie infrastrutture militari sul territorio dei nuovi membri violando il patto Russia-NATO firmato già negli anni ’90 e considerato alla base della nostra collaborazione. Al momento sono diverse le tendenze che preoccupano: uno di questi fattori destabilizzanti è il ritiro degli USA dal Trattato INF e l’intenzione ufficialmente dichiarata di dispiegare tali missili non solo in Asia, ma apparentemente anche in Europa.

I lanciatori antimissilistici attualmente dispiegati in Romania e in fase di dispiegamento in Polonia possono essere utilizzati non solo per il lancio contro i missili, non solo dunque a scopo difensivo, ma anche offensivo, perché dagli stessi lanciatori possono partire missili da crociera d’assalto. L’uso di questi ultimi era vietato dal Trattato INF, ma ora il trattato non c’è più e gli americani non hanno più vincoli. Circa un anno fa (fra poco ricorrerà un anno da quell’occasione) il presidente Putin si è rivolto a tutte le autorità dei Paesi europei, di USA, Canada e di altre nazioni in merito al ritiro degli USA dal Trattato INF.

Il presidente ha esortato a non scatenare una corsa agli armamenti, ma a dichiarare una moratoria reciproca e volontaria su quegli stessi mezzi d’assalto vietati dal Trattato. Nessuno dei leader ha di fatto dato seguito a questa proposta, tranne il presidente Macron. E questo l’abbiamo apprezzato. Questo è sintomo del fatto che il leader francese è sinceramente interessato a sfruttare qualsivoglia spazio di dialogo con la Federazione Russa. E senza questo dialogo è impossibile garantire la sicurezza in Europa. Pertanto, abbiamo previsto degli incontri 2+2, ma in forza di ragioni che sono avvolte dal mistero, i colleghi francesi hanno chiesto di posticipare i nostri incontri. Dunque, il nostro prossimo incontro ministeriale 2+2 con i ministri di Difesa ed Esteri è stato rimandato a data da destinarsi. Non mi esprimerò in merito alle ragioni addotte, ma evidentemente il clima generale dell’UE nei confronti della Russia sta influenzando anche la cadenza degli incontri. Tuttavia, si sono da pochissimo tenute le consultazioni su tutta una serie di questioni importanti: lotta al terrorismo, problemi di sicurezza informatica. Sono tutti questi progetti che erano stati previsti e approvati dai presidenti Putin e Macron.

— Come ha di recente osservato Aleksandr Lukashevic, rappresentante permanente della Russia all’OSCE, la situazione dell’agenzia Sputnik in Francia non è affatto migliorata. I nostri giornalisti continuano a non essere ammessi alle conferenze stampa e a qualsivoglia evento dell’Eliseo. Vorrei sapere in che modo questa situazione può essere risolta e se il problema è stato affrontato con la parte francese.

— Ovviamente questo problema è stato affrontato. Riteniamo inaccettabile che i corrispondenti di Sputnik e di Russia Today (RT) vengano apertamente discriminati in Francia e nei Paesi baltici, com’è noto. Il fatto che negli ultimi anni (dal 2017) né RT né Sputnik vengano accreditati nell’Eliseo è ovviamente vergognoso. Ma a sorprendere ancor di più è il fatto che i nostri colleghi francesi confermino che non concederanno l’accreditamento in futuro perché RT e Sputnik “non sono media, ma strumenti di propaganda”.

A mio avviso, non vale la pena di commentare l’assurdità di tali dichiarazioni dato che RT e Sputnik godono di ampio successo. In tutti i Paesi aumenta il pubblico target, ho consultato io stesso le statistiche. Questo potrebbe semplicemente essere l’ennesima manifestazione di timori nei confronti della concorrenza di coloro che fino a poco tempo fa ricoprivano una posizione di spicco nel mercato globale dell’informazione. Vogliamo che la questione venga affrontata dai francesi e chiediamo loro di far cessare le discriminazioni nei confronti di media registrati in Russia. Se ci rispondono con la storia dei finanziamenti pubblici, allora ricordiamo loro che a godere di finanziamenti pubblici sono anche molte agenzie di stampa considerate fari della democrazia.

Sia Radio Free Europe sia la BBC godono di questi fondi ma per qualche motivo nei loro confronti non vengono adottate misure restrittive, nemmeno lato Internet dove al momento si opera un certo grado di censura. Google, YouTube e Facebook stanno prendendo decisioni, evidentemente su pressione delle autorità statunitensi che discriminano i media russi, in merito alla pubblicazione di materiali sulle loro piattaforme. La questione dev’essere affrontata non solo a livello bilaterale, ma a livello dell’OSCE dove è presente un rappresentante speciale per la libertà di stampa, nonché a livello dell’UNESCO che è chiamata a supportare il giornalismo libero e la libertà di espressione.

Infine esortiamo anche il Consiglio d’Europa a occuparsene. Interessante è che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, durante la fase della ricostruzione che permise alla Russia di aprirsi al mondo come si è soliti dire, nell’ambito dell’OSCE i nostri partner occidentali stavano avanzando proposte per garantire accesso libero a qualsivoglia informazione sia basata su fonti interne sia proveniente dall’estero. Questo fu evidentemente pensato per rafforzare la spinta all’apertura della società sovietica al mondo esterno. Dunque, oggi, quando ricordiamo loro queste proposte e richiediamo che l’accesso alle informazioni venga garantito a Sputnik e RT in Francia, i nostri partner occidentali sono poco inclini a confermare quelle stesse decisioni assunte su loro iniziativa 30 anni fa. Il doppio standard è un comportamento ipocrita. Ad ogni modo a dicembre si terrà l’ennesimo vertice ministeriale dell’OSCE. La questione non verrà cancellata per nessun motivo dall’ordine del giorno e i nostri colleghi occidentali avranno molte domande a cui rispondere.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

— Passiamo ora all’agenda sull’Africa. Al vertice di Sochi sono stati siglati più di 90 accordi di collaborazione con i Paesi africani. Vorrei sapere con quali ritmi la Russia sta tornando dopo la pandemia all’esecuzione degli accordi siglati e quali di questi sono prioritari e in quali Paesi africani.

— Dopo il vertice tenutosi lo scorso ottobre a Sochi abbiamo conseguito l’ennesimo successo della nostra politica estera, come testimoniano tutti i nostri ospiti africani. Non abbiamo fatto nessuna pausa. La pandemia ha imposto di prevedere alcuni correttivi nelle modalità di comunicazione, ma continuiamo a lavorare da remoto, come si dice. Anche in politica estera e in diplomazia è possibile. Il presidente Putin si è più volte messo in contatto per telefono con i leader africani, con i presidenti di Sudafrica, Congo, Etiopia. Ci sono state videoconferenze tra i ministri degli Esteri di Russia e della Triade africana (ossia, i presidenti precedente, in carica e futuro dell’Unione africana), ovverosia Sudafrica, Egitto e Repubblica Democratica del Congo.

All’interno del nostro Ministero è stato istituito un segretariato speciale denominato Forum Russia-Africa. La decisione di istituire questo ente è stata assunta a Sochi. Il segretariato è già operativo, proprio l’altro giorno ci siamo incontrati con il direttore di una delle commissioni regionali sul continente africano, la IGAD. L’ex ministro degli Esteri etiope ne è il segretario generale. Nello specifico, abbiamo discusso dei piani concreti di cooperazione nell’ambito del progetto Russia-IGAD. Abbiamo piani simili sia con l’Africa meridionale sia occidentale, nonché con tutte le organizzazioni a livello regionale e con l’Unione africana che è la struttura panafricana per eccellenza. La nostra operatività consiste in consultazioni su questioni di importanza per il continente africano, quali la normalizzazione di conflitti, lo svolgimento di eventi congiunti in ambito culturale e didattico, lo sviluppo della cooperazione economica, il supporto alla collaborazione in materia di politica estera, il sostegno all’attività delle imprese russe in Africa e dei loro partner.

Abbiamo molti progetti e il nostro operato è molto apprezzato dai colleghi africani. Per quanto riguarda la pandemia, decine di Paesi africani hanno ricevuto aiuti da noi per risolvere la questione dell’approvvigionamento di tamponi, dispositivi di protezione individuale, farmaci. La collaborazione su questo fronte continua ancora oggi. I Paesi africani come anche quelli asiatici e latinoamericani stanno manifestando il loro interesse per avviare sul proprio territorio la produzione del nostro vaccino Sputnik V e al momento i nostri organi competenti preposti alla risoluzione di tali questioni stanno valutando i potenziali candidati per avviare nuove linee di produzione. Infatti, servono grandi quantità di dosi. Abbiamo ottime esperienze in Guinea e Sierra Leone: quando vi fu l’Ebola, i nostri medici installarono un ospedale da campo e avviarono in Guinea la produzione del vaccino specifico.

L’esperienza dell’Ebola ha aiutato molto i nostri esperti a elaborare il vaccino contro l’infezione da coronavirus impiegando una piattaforma creata già per contrastare l’Ebola. Pertanto, a mio avviso, abbiamo all’attivo molti progetti interessanti. Ci siamo, tra l’altro, accordati per incrementare il numero di borse di studio che renderemo disponibili ai Paesi africani. Quanto al tema della cooperazione economica, poche settimane fa abbiamo creato l’Associazione per la cooperazione economica della Federazione Russa con i Paesi africani. Dunque, non appena saranno rimosse le restrizioni legate al coronavirus, sono sicuro che tutti questi progetti saranno realizzati con più entusiasmo che mai. Per adesso continuiamo a lavorare da remoto.

— Abbiamo parlato di USA e di Europa. Veniamo ora al mondo arabo. Non posso non partire dalla questione siriana. Che voto darebbe al Ceasar Act statunitense che ha interessato non solo la Siria ma anche i più prossimi partner di Damasco? Quali nuove soluzioni possono essere implementate per migliorare la situazione umanitaria del Paese in relazione anche alle difficili condizioni economiche?

— Il piano Ceasar Act prevede in sostanza l’introduzione di sanzioni considerate uno strumento per inibire la leadership della Repubblica araba siriana. In realtà queste sanzioni, così come i precedenti pacchetti di sanzioni, partono da USA, UE e diversi altri alleati statunitensi e colpiscono chiaramente i comuni cittadini siriani. Proprio ieri a New York il Consiglio di sicurezza ha discusso di come migliorare la situazione umanitaria in Siria e i nostri colleghi occidentali hanno insistito in maniera estremamente compiaciuta di essere nel giusto dichiarando che le sanzioni servono esclusivamente a limitare l’operato di funzionari e rappresentanti di quello che loro definiscono “regime” e che i comuni cittadini non ne soffrono perché le sanzioni non sono comminate su materiale umanitario quale i farmaci, il cibo e altri generi di prima necessità.

Attacco aereo della coalizione in Siria (foto d'archivio)
© AFP 2020 / ARIS MESSINIS

Tuttavia, sono menzogne perché nessuna spedizione di questi prodotti viene inviata in Siria da questi Paesi, ad eccezione di piccoli lotti. La Siria tratta principalmente con Russia, Iran, Cina, alcuni Paesi arabi e altri Paesi che comprendono quanto sia fondamentale superare la presente situazione di difficoltà e ripristinare le relazioni con la Repubblica araba siriana. Sempre più Paesi, anche del Golfo Persico, stanno decidendo di riavviare l’attività diplomatica in Siria e sempre più Paesi comprendono che è inaccettabile in ottica di diritti umani continuare con queste sanzioni.

Le sanzioni sono state annunciate in via unilaterale e sono illegittime. Proprio ieri o l’altroieri il segretario generale dell’ONU António Guterres ha rinnovato a questi Paesi che hanno annunciato sanzioni in via unilaterale contro uno determinato Paese in via di sviluppo il proprio invito (che già aveva espresso 6 mesi fa) a interrompere le sanzioni almeno durante l’emergenza sanitaria. L’Occidente rimane cieco di fronte a queste esortazioni sebbene la stragrande maggioranza dei Paesi membri dell’ONU abbia supportato questi inviti. Cercheremo di trattare ulteriormente questo tema. All’ONU si approvano speciali risoluzioni che dichiarano le sanzioni unilaterali illegittime e si conferma che solo le sanzioni in linea con il Consiglio di sicurezza debbono essere seguite poiché costituiscono l’unico strumento legale fondato sul diritto internazionale. Nel complesso sulla regolamentazione della questione siriana stiamo lavorando attivamente nell’ambito del “formato di Astana” con i partner turchi e iraniani. Di recente con il primo ministro russo Yury Borisov ci siamo recati in visita a Damasco. Il presidente Assad e i suoi ministri ci hanno confermato il loro impegno a mantenere quegli impegni che sono stati raggiunti tra governo e opposizione ad Astana.

A Ginevra è ripreso il lavoro del comitato costituzionale, si è tenuta la seduta della commissione redazionale. Le parti stanno giungendo a un accordo di intenti sul futuro della Siria: questo garantirà di avviare il lavoro per la riforma della Costituzione. Si restringe gradualmente lo spazio controllato dai terroristi: oramai è limitato alla zona di de-escalation di Idlib. In fase di graduale implementazione, anche se non tanto rapidamente quanto previsto, sono gli accordi russo-turchi in merito alla necessità di distinguere i comuni oppositori aperti al dialogo con il governo dai terroristi ritenuti tali dal Consiglio di sicurezza. Ma i nostri colleghi turchi si sono impegnati e noi collaboriamo con loro.

Preoccupa la situazione sulla sponda orientale dell’Eufrate dove sono dislocati in maniera illecita dei soldati americani i quali fomentano le tendenze separatiste dei turchi contenendo invece la naturale predisposizione dei curdi di dialogare con il governo. E chiaramente questo preoccupa sia in ottica di integrità territoriale della Repubblica araba siriana sia per la rischiosità che le azioni degli USA rappresentano in relazione alla questione curda. Come sapete, la questione è all’ordine del giorno non solo per la Siria, ma anche per Iran, Iraq, Turchia. Dunque, è un tema delicato per l’intera regione.

Gli americani sono abituati a ricorrere a questi espedienti per creare il caos che, sperano, si riuscirà a gestire. Loro non se ne interessano, ma le conseguenze per la regione possono essere catastrofiche se continuano a promuovere queste idee separatiste. Nell’ultimo periodo hanno annunciato alcune decisioni prese da questo gruppo illegittimo americano dislocato nella Siria orientale: il gruppo avrebbe siglato con i dirigenti curdi un accordo che consente a una società petrolifera americana di estrarre idrocarburi dal territorio della sovrana nazione siriana. Si tratta di una gravissima violazione di tutti i principi di diritto internazionale. Pertanto, i problemi nella Repubblica araba siriana sono davvero tanti.

Tuttavia, la situazione è stata significativamente normalizzata rispetto a qualche anno fa e l’operato del formato di Astana e le nostre iniziative hanno ovviamente svolto un ruolo decisivo. All’ordine del giorno ora vi sono la risoluzione dei cogenti problemi umanitari e la ripresa delle attività economiche interrotte per via della guerra. In queste direzioni ci impegneremo per mantenere il dialogo con gli altri Paesi, fra cui Cina, Iran e India. Crediamo sia importante coinvolgere organizzazioni ed enti dell’ONU agli eventi finalizzati a smobilitare in un primo luogo gli aiuti umanitari per la Siria e in seconda battuta aiuti internazionali per il risanamento di economia e infrastrutture. Il lavoro da fare non è poco, ma almeno ora sappiamo in che direzione muoverci.

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik
© SPUTNIK . ALEKSEY KUDENKO
Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ai corrispondenti di Sputnik

— L’ambasciata russa in Libia ha ripreso a operare poche settimane fa. Questa rappresentanza potrebbe diventare in qualche modo una piattaforma di dialogo tra l’Esercito nazionale libico e il governo di accordo nazionale?

— La nostra ambasciata continua come prima a lavorare dalla Tunisia. A Tripoli la nostra ambasciata tornerà, spero, presto, non appena ci garantiranno un grado basilare di sicurezza. Nella città vi è una serie di ambasciate che continua a operare come prima, ma la sicurezza lì è molto instabile, pertanto è stato deciso che i nostri diplomatici per ora lavoreranno dalla Tunisia. In merito alla intermediazione tra l’Esercito nazionale libico e il governo di accordo nazionale come primo avamposto in Libia l’ambasciata intrattiene chiaramente contatti con tutte le parti libiche.

La questione qui è però ben più ampia e di gettare ponti tra parti in conflitto se ne occupa attivamente Mosca. I Ministeri di Esteri e Difesa stanno tentando di far convergere gli sforzi per trovare soluzioni di compromesso che consentano di risolvere la crisi libica. Non è un lavoro facile. Ricordo che tutti i problemi della Libia di oggi cominciarono nel 2011 quando la NATO, nonostante quanto disposto dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, commise una gravissima violazione della risoluzione ONU e attaccò militarmente la Libia per deporre il regime di Gheddafi. Quest’ultimo fu macabramente ucciso sotto gli applausi di approvazione dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, scena che fu trasmessa in diretta. Fu terribile.

Da allora noi, ossia chiunque voglia ripristinare ciò che è stato distrutto dalla NATO, stiamo tentando di rendere possibile l’attuazione di un qualche processo internazionale. I tentativi sono già stati diversi: si sono tenute conferenze a Parigi, Palermo e Abu Dhabi; è stato siglato l’accordo di Skhirat nel 2015, ecc. nel corso di un lungo periodo la maggior parte dei player esterni hanno puntato a collaborare con una delle forze politiche su cui avevano puntato. Noi sin dall’inizio abbiamo rifiutato questo approccio e, considerati i nostri contatti preesistenti e le relazioni di lunga data, abbiamo iniziato a collaborare con tutti senza distinzione di colore politico sia a Tripoli (dove si trova il Consiglio presidenziale e il Governo di accordo nazionale) sia a Tobruk (dove sono siti il parlamento e il Palazzo dei rappresentanti).

Più volte tutti i leader dei vari gruppi si sono recati in visita in Russia. Abbiamo tentato anche di organizzare incontri privati tra il comandante dell’Esercito nazionale libico Haftar e il capo del governo di accordo nazionale Sarraj. Sono stati a Mosca a inizio di quest’anno prima della Conferenza di Berlino. In gran parte grazie a questi sforzi che abbiamo profuso insieme ai colleghi turchi, egiziani ed emiratini siamo riusciti ad avanzare proposte che hanno determinato il successo della Conferenza di Berlino. Il cui esito è stata l’adozione di un’importante dichiarazione in seguito approvata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Purtroppo, in questa fase è stata prestata poca attenzione al fatto che le idee proposte dalla comunità internazionale venissero approvate dalle parti libiche.

La crisi in Libia
© SPUTNIK . ANDREY STENIN

Alcuni nostri partner sono partiti dal presupposto che, non appena la comunità internazionale avesse preso una qualche decisione, sarebbe poi rimasto solo da convincere i player interni alla Libia per trovare un accordo. Oggi capiamo che avevamo ragione quando rifiutavamo questo approccio perché è risultato che questi accordi adottati a Berlino non sono stati pienamente elaborati dalle parti libiche. In sostanza, Berlino ha creato una buona base, ma ora bisogna rifinire i dettagli. E in tal senso vi sono diverse opportunità positive: il capo del parlamento di Tobruk, il signore Saleh, e il presidente del governo di accordo nazionale Saraj sono a favore del cessate il fuoco, della pace duratura e della ripresa dei lavori nel formato 5+5 che consente la risoluzione delle questioni di carattere militare e la ripresa dei negoziati sugli affari economici, anzitutto in merito alla risoluzione equa dello sfruttamento delle risorse naturali libiche. Una importante iniziativa è stata proposta da Saleh: il suo intento è far sì che vengano considerati gli interessi non solo di Tripolitania e Cirenaica, ma anche del Fezzan, l’area meridionale della Libia che non è stata spesso menzionata nelle precedenti discussioni.

Pertanto, ci sono già idee sul tavolo che devono essere validate mediante il confronto tra le parti. Una certa importanza l’ha rivestita l’incontro convocato in Marocco tra le parti libiche coinvolte. Adesso con i nostri colleghi siamo continuando a contribuire a questi sforzi congiunti. Pochi giorni fa ad Anakra si sono tenute le consultazioni con i nostri colleghi turchi. Continuiamo a sforzarci in questo senso, parliamo con Egitto e Marocco. Contatto per telefono i miei colleghi marocchino ed egiziano. Di recente ho parlato anche con il ministro italiano degli Esteri il quale per evidenti ragioni è altamente interessato a contribuire alla risoluzione della questione libica. A mio avviso, al momento si sono venute a creare condizioni favorevoli, cercheremo di sostenere questo processo virtuoso e di dare il nostro contributo.

Riteniamo di fondamentale importanza porre fine il prima possibile alla pausa che dura da più di 6 mesi con la nomina di un rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per la questione libica. Il rappresentante precedente a febbraio è andato in pensione e da allora António Guterres non è riuscito per qualche motivo a risolvere la questione della nomina del successore. Vi è motivo di credere che alcuni Paesi occidentali stiano tentando di favorire i propri candidati, ma la nostra posizione è molto semplice: è necessario che il rappresentante venga concordato in linea con l’Unione africana. È una cosa evidente: la Libia è un membro attivo dell’Unione africana e quest’ultima vuole contribuire alla risoluzione del problema. Ho descritto in maniera diffusa la situazione. Vi è comunque modo di essere cautamente ottimisti.

Ecologisti ridicoli, di Valerie Toranian

È come la sottomissione di Michel Houellebecq . In nome della sua “interpretazione delle regole della laicità”, il nuovo sindaco di Lione ha rifiutato di partecipare alla cerimonia cattolica del voto degli assessori , l’8 settembre, per assistere il giorno successivo, alla posa della prima pietra della moschea di Gerland. Armato di cazzuola, Grégory Doucet si è applicato alla stesura del cemento, fiero di questo simbolo della nuova alleanza tra il campo progressista e la religione musulmana perché “l’autorità pubblica ha il dovere di proteggere i fedeli che vogliono praticare la loro religione ”. Questo è ciò che è grande con il campo del Bene postmoderno: pratica un secolarismo a geometria variabile come altre verità alternative. Che il sindaco di Lione, in nome dei suoi valori, si rifiuti di partecipare a una tradizione che gli rizza i capelli, lo si capisce: regalare uno scudo d’oro all’arcivescovo per ringraziare la Vergine di aver salvato la città dalla peste del 1643 non era l’espressione primaria dei valori della Repubblica. Anche se, per molto tempo, la tradizione è più folkloristica che espressione di fedeltà alla tonaca.

Solo Édouard Herriot, membro del Partito Radicale e sindaco della città dopo la Liberazione, si è rifiutato di farlo; preferirà inviare un assistente. Riferimento che piace ricordare alla sinistra radicale del Rodano. È. Ma senza parlare al posto dei morti, è difficile immaginare Édouard Herriot che posa la prima pietra di una moschea. Quello che ha fatto Grégory Doucet congratulandosi con se stesso sui social network. Il sindaco di Lione ritiene che sia necessario “adattarsi” alla realtà di un Paese dove l’islam politico occupa un posto sempre più importante? Grégory Doucet è uno dei tanti Verdi o di sinistra eletti che intendono denunciare “l’islamofobia” perché la religione non dovrebbe più essere criticata in Francia? Crede che dovremmo mostrarci con i religiosi musulmani come una forma di solidarietà? La confusione regna. E anche la febbre.

“Nel progetto radicale verde, il nemico è la tradizione, il giudice della pace l’impronta di carbonio, la scrittura elitaria inclusiva standard. Si tratta di fondare una nuova era. La grande notte (senza illuminazione) è finalmente arrivata. Nessuna pietà per il vecchio regime e i suoi odiosi simboli. “

I Verdi hanno sicuramente ottenuto vittorie storiche alle elezioni comunali, ma con un tasso di astensione altissimo. Ciò dovrebbe incoraggiarli a consultarsi e dialogare. Il loro programma, soprattutto nella sua espressione più radicale, non riflette accuratamente il colore politico della loro città . Ma è proprio il contrario.

Sfidiamo l’opinione pubblica con decisioni controverse e assurde. Non ci sarà albero a Natale, scusate, a fine anno festeggiamenti, ha deciso il sindaco di Bordeaux, Pierre Hurmic (EELV): “Non metteremo alberi morti nelle piazze cittadine. Questa non è affatto la nostra concezione della rivegetazione. Alla fine del 2020 adotteremo la carta dei diritti degli alberi. » Dettaglio buffo , il sindaco di Bordeaux fa la sua dichiarazione circondato da due grandi vasi di cultivar di spathiphyllum , originarie dell’Amazzonia, prodotte in serra con la forza dell’irrigazione e di prodotti sanitari non ecologici. Post informativo sulla Francia su Twitter: “Il sindaco verde di Bordeaux rifiuta di installare un albero di Natale e attira l’ira della destra. Ah! Bene ? I ragazzi hanno ragione? Il servizio pubblico è così lontano da perdere il buon senso?

Nel progetto radicale verde, il nemico è la tradizione, il giudice della pace l’impronta di carbonio, la scrittura elitaria inclusiva standard. Si tratta di fondare una nuova era. La grande notte (senza illuminazione) è finalmente arrivata. Nessuna pietà per il vecchio regime e i suoi odiosi simboli. Il tour della Francia? È come l’abete. Quando le persone capiranno fino a che punto è una tradizione obsoleta, “sciovinista e inquinante”, si congratuleranno con noi per averla soppressa, pensano gli ecologisti radicali, convinti ad agire per il Bene e per le generazioni future. Come molte competizioni sportive internazionali, il big loop ha effettivamente una scarsa impronta di carbonio. E la distribuzione di gadget di plastica prodotti in Cina per oltre 3.470 chilometri non è l’aspetto più rispettabile dell’evento. Ovviamente è una pratica evolversi. Ma è stupido riassumere il Tour de France, evento popolare per eccellenza, nella sua impronta di carbonio. O il suo machismo.

“Ciò che infastidisce e scoraggia è che l’ecologia è un argomento importante e serio […] Ma quanto è difficile per una causa così buona essere rappresentata e tradita da ideologi assurdi. “

E se la questione delle donne e del loro status riguarda a questo punto gli ambientalisti, dovrebbero spiegare perché le hostess del Tour de France sono indegne mentre le donne velate, che con orgoglio indossano il simbolo della loro inferiorità rispetto al gli uomini, sarebbero vittime da proteggere, anche “femministe” da valorizzare. Laicità alternativa, libertà alternativa, femminismo alternativo.

La lingua, che è fascista perché si impone a tutti secondo Roland Barthes, deve chiaramente diventare lo strumento ideologico al servizio del mondo verde secondo: la scrittura inclusiva è adottata con dichiarazione lirica a sostegno di molti municipi verdi. Non importa se la legge dice al contrario che non è riconosciuto nei documenti amministrativi. Non importa che gli insegnanti indichino un nuovo vincolo che favorirà ancora una volta le classi agiate e non le classi lavoratrici. Le classi lavoratrici? Quante divisioni? Non hanno votato alle elezioni municipali. Non capiscono la posta in gioco rivoluzionaria dell’albero morto e del Tour de France. Sono populisti. Amano il Natale e non hanno nemmeno le bici elettriche!

Ciò che infastidisce e scoraggia è che l’ecologia è un argomento importante e serio. Che voler migliorare il nostro ambiente di vita, combattere l’inquinamento, promuovere l’agricoltura locale e biologica, porre la questione della sofferenza degli animali, sono tutte domande che ci riguardano e giustamente ci affascinano. Ma quanto è difficile per una causa così buona essere rappresentata e tradita da ideologi assurdi.

https://www.revuedesdeuxmondes.fr/auteur/valerie-toranian/

Il mistico Steve Bannon, di Rod Dreher

Qui sotto un interessante articolo che offre una prima analisi dei fondamenti culturali ed ideologici che guidano l’azione di Steve Bannon. Da circa tre anni la figura di Bannon ha suscitato una crescente curiosità in Italia; a questo non ha corrisposto nessun tentativo serio di analizzare il filo conduttore che ha guidato i suoi atti; ci si è affrettati piuttosto ad etichettarlo frettolosamente di volta in volta come ideologo della destra più retriva e razzista, come alter ego di Trump, come suo consigliere ed ideologo, come suo uomo ombra. La tentazione di affibbiare le etichette più estreme, come quelle di “suprematista” rappresenta un comodo rifugio per sopravvalutare movimenti al momento del tutto minoritari ed esorcizzare e demonizzare l’avversario. Etichette che rivelano in realtà la scarsa conoscenza delle dinamiche politiche statunitensi, il provincialismo nostrano e soprattutto la scarsa propensione ad individuare le dinamiche che consentirebbero alla nostra classe dirigente una maggiore autonomia di azione. L’avvento ed il successo di Trump ha risvegliato negli Stati Uniti gli ambienti più diversi ed eterogenei da anni annichiliti dal predominio neocon e democratico globalista; come solitamente accade, alcuni di questi lo hanno sostenuto convintamente, altri ne hanno preso atto, altri ancora ci si sono infilati con obbiettivi opposti e contrari ai propositi presidenziali. In una situazione così confusa e caotica, comune ai due schieramenti politici, Trump ha rivelato una certa sagacia tattica ed una notevole capacità di resistenza; non è stato in grado per evidenti suoi limiti di amalgamare queste realtà ed offrire loro una prospettiva politica sufficientemente coerente. Trump è certamente un leader politico, ma è anche una immagine utilizzata ad uso e consumo di amici e nemici. In questo contesto va inserita la figura ed il ruolo di Bannon. In Italia e in Europa l’abbiamo conosciuto meglio dopo la sua emarginazione dallo staff presidenziale. Prima di rientrare negli Stati Uniti per un paio di anni ha avviato una vera e propria campagna di fondazione politico-culturale in Europa, partendo da Svizzera, Italia e Germania con propaggini in Francia che però, a differenza dei primi, non hanno ricevuto buona accoglienza dalla leader del Front National, attualmente RN. La sua finalità dichiarata è quella di facilitare lo sviluppo e il consolidamento del cosiddetto “sovranismo” nei vari paesi; il suo retroterra culturale  pare più compatibile con una rifondazione di quell’occidentalismo che ha costituito l’amalgama necessario al mantenimento del sistema di alleanze e di dominio del secondo dopoguerra. L’accostamento a Dugin posto dall’intervistato può sembrare avventato; non bisogna però dimenticare che lo stesso Dugin ha trovato ospitalità, accoglienza e terreno fertile negli ambienti dei tea-party in anni non lontani. Ad una contrapposizione geopolitica tra Occidente ed Eurasia, ancora da definire esattamente proprio per il ruolo controverso della Russia nel contesto della contrapposizione Sino-Statunitense, non corrisponde necessariamente una incompatibilità culturale_Giuseppe Germinario

Il mistico Steve Bannon

Foto di JOEL SAGET / AFP tramite Getty Images)

Per la maggior parte delle persone, Steve Bannon è uno stratega politico rauco che (se ti piace) ha aiutato a eleggere Donald Trump e sta lavorando per catalizzare i movimenti nazionalisti, o se non lo fai, è un Svengali di alt-right che apre la strada all’autoritarismo. Ciò che la maggior parte delle persone perde è il profondo interesse di Bannon per il tradizionalismo, chiamato anche perennialismo , una scuola filosofica che insegna che tutte le religioni del mondo insegnano una versione delle stesse verità universali. Per un po ‘di tempo, Benjamin R. Teitelbaum ha studiato il tradizionalismo e le connessioni di Bannon con addetti ai lavori politici tradizionalisti politicamente potenti. Nel suo nuovo libro War For Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers, Teitelbaum, professore presso l’Università del Colorado – Boulder, si basa su interviste con Bannon e altre figure chiave per illuminare le idee detenute da una sorprendente rete di pensatori e strateghi. Recentemente ho intervistato Teitelbaum sul libro via e-mail.

RD: Prima di iniziare, definiamo i termini. Cos’è il tradizionalismo, con la T maiuscola? Come dovrebbero distinguerlo i laici dal tradizionalismo minuscolo?

BT: Sì, vorrei che le idee insolite di cui ho scritto avessero un nome altrettanto insolito, piuttosto che apparentemente familiare. Ahimè … il Tradizionalismo con la T maiuscola è una scuola filosofica e spirituale eccezionalmente arcana, appena conosciuta, una delle tante varianti di spiritualità alternativa che potresti (potresti!) Trovare sugli scaffali di una libreria New Age. Cerca di scoprire verità sull’universo attraverso lo studio e occasionalmente la conversione alle ali esoteriche di varie religioni, il più delle volte l’Islam sufi e l’induismo. Solo secondariamente, e solo per alcuni dei suoi seguaci, il tradizionalismo è anche un’ideologia politica. E come ideologia politica, la sua agenda è sia vaga che grandiosa: opporsi alla modernità e al modernismo.

Evidenzierò tre caratteristiche del tradizionalismo che modellano il suo rapporto con la politica. Il primo è che i tradizionalisti credono nel tempo ciclico piuttosto che lineare; che invece di progredire da una storia di depravazione verso un futuro di gloria, le società si allontanano costantemente e poi ritornano alla loro gloria eterna.

Il secondo è la convinzione che le società virtuose si formino attorno a una gerarchia di caste indoeuropee con una piccola élite di Sacerdoti in cima a una piramide che discende ai Guerrieri, ai Mercanti e infine a una massa di Schiavi. Quando i tempi sono buoni, la gerarchia è intatta e la spiritualità dei Sacerdoti regna, ma quando i tempi sono cattivi, il materialismo di Schiavi e Mercanti regna e la gerarchia stessa si dissolve quando l’umanità viene livellata in una singola massa.

Il terzo principio che menzionerò è quello chiamato “inversione”, attraverso il quale i tradizionalisti credono che, quando i tempi sono cattivi e l’umanità è ridotta a una massa umile, inizieremo anche a scambiare le cose per il loro opposto: ciò che pensiamo sia buono è in realtà cattivo, qualcuno ufficialmente devoto alle questioni spirituali è schiavo del materialismo, i professori diffondono l’ignoranza piuttosto che la conoscenza, i giornalisti disinformano, gli artisti creano bruttezza, ecc. È una società di false simulazioni. I tradizionalisti affermano che in questo momento stiamo vivendo nella fase avanzata del ciclo temporale, verso la fine di un’età oscura definita dall’omogeneizzazione del materialismo e solo simulazioni di virtù, e che solo più oscurità ci farà avanzare oltre il punto zero del ciclo alla rinascita di un’età dell’oro.

Quindi, se si considera ciò che tutto ciò ha a che fare con il tradizionalismo a T minuscola nel modo in cui usiamo casualmente il termine – con qualcuno a cui piacciono le cose nel modo in cui erano in una determinata ricerca o preoccupazione – potrebbe esserci qualche sovrapposizione accidentale, come un scetticismo generale verso il cambiamento o celebrazione del passato per il suo apparente ordine. Ma le differenze tra questo e il tradizionalismo con la T maiuscola vanno oltre il fatto che quest’ultimo offre una spiegazione elaborata per le sue opinioni: la dottrina del tempo ciclico rende il pessimismo dei tradizionalisti di un tipo completamente diverso da “Back-in-my-day” di Dana Carvey personaggio di Saturday Night Live. Per quanto distruttivo sia il cambiamento agli occhi dei tradizionalisti, potrebbero benissimo accogliere la distruzione in uno spirito di malinconia e masochismo, come segno che il collasso e la rinascita ringiovanente sono vicini. In altre parole, quello che hanno i tradizionalisti, e manca un nonno scontroso, è un’apocalittica latente.

RD: Chi sono le figure storiche più importanti del tradizionalismo? 

BT: Per capire cosa sta succedendo oggi, devi davvero conoscere tre figure: il patriarca del tradizionalismo era un francese di nome René Guénon (1886-1951) che morì musulmano sufi rispondendo al nome di Abd al-Wāḥid Yaḥyá. Quelli di Guénon erano densi trattati filosofici e religiosi, che condannavano l’individualismo e l’omogeneizzazione della società, ma per il resto evitavano la politica.

Sarebbe un suo seguace, Julius Evola (1898-1974), tentato di forgiare la politica dal tradizionalismo. Evola era uno scrittore e teorico che ha infuso nella scuola razzismo, antisemitismo e sessismo espliciti (il processo di declino sociale, nella sua mente, ha comportato la scomparsa degli ariani puri e la perdita dei valori mascolinisti). Ma pensava anche che il declino non fosse il destino, che l’umanità potesse essere in grado di spingersi indietro nel corso del tempo, e questo ha motivato i suoi tentativi di collaborare con Mussolini e Hitler: entrambi sembravano incarnare una modalità militarista più antica, pensò, e se solo potessero essere impregnati di più vitalità spirituale, potrebbero forgiare autentiche teocrazie ariane e viaggiare a ritroso in un’età dell’oro.

Una terza figura le cui visioni siamo meno palesemente sinistre, ma che nondimeno ha creato un culto avvolto nel sospetto e nello scandalo, è stato un pensatore tedesco / svizzero di nome Frithjof Schuon (1907-1998), che ha seguito il suo mentore Guénon nella conversione al sufismo. La sua pratica e scrittura arrivarono a sostenere più sincretismo rispetto ad altri tradizionalisti, tuttavia, fondendo Islam, Induismo, Cristianesimo e persino spiritualità dei nativi americani, così come credenze più idiosincratiche come la nudità sacra e la propiziazione pseudo-erotica delle figure materne in varie tradizioni religiose. Ma Schuon è noto per l’istituzione che ha fondato, una rete di scuole sufi – o tariqas – che durante gli anni ’70 e ’80 erano geograficamente relativamente diffuse, con il centro che era un complesso nella sua casa adottiva fuori Bloomington, nell’Indiana.

RD: Cosa ha a che fare il cristianesimo con il tradizionalismo? Voglio dire, ci sono “cattolici tradizionalisti”, vale a dire, cattolici che favoriscono la messa in latino e che hanno una visione debole del Concilio Vaticano II, ma non è il genere di cose di cui parliamo con il tradizionalismo, giusto?

BT: No, è generalmente sicuro dire che i due non sono molto più vicini del tradizionalismo e del tradizionalismo small-t, tranne per un avvertimento importante. Tra i tradizionalisti che sono cristiani, praticamente tutti sono ortodossi orientali o cattolici. Parte della giustificazione per trattare il cattolicesimo come legittimo sono i suoi elementi che potrebbero essere visti come precedenti e trascendenti Cristo. Il suo paganesimo, la sua gerarchia, il suo investimento sociale e teologico in precedenza e continuità, ecc.

Un argomento simile è fatto a favore del sufismo, che sebbene il sufismo sia islamico, serviva come veicolo per preservare le virtù arcaiche e pre-islamiche nella società islamizzata e quindi poteva essere usato per intravedere ciò che era una volta.

I problemi con il cristianesimo per alcuni tradizionalisti, così come gli ideologi adiacenti nella nuova destra francese, sono caratteristiche che ritengono costituiscano un’antitesi dei valori che difendono: non la gerarchia ma un universalismo livellante e omogeneizzante comunicato nel dogma che il messaggio di Cristo è il verità ultima e ultima per tutte le persone, la sua teleologia e la visione implicita del progresso incline a trascendere un passato di peccato in un futuro di salvezza, e la sua embrionale riluttanza verso la teocrazia e l’approvazione di uno stato secolare contenuto negli editti di “rendere a Cesare”.

Non sono rimasto sorpreso quando Steve Bannon una volta mi ha detto che, sebbene sia cristiano, non gli piace l’evangelizzazione.

RD: Due figure chiave contemporanee nella tua storia sono Aleksandr Dugin e Olavo de Carvalho. La maggior parte degli americani non ne ha mai sentito parlare. Chi sono e perché sono importanti?

BT: Entrambi sono agenti politici che hanno tentato di plasmare leader politici anti-liberali nei rispettivi paesi, ed entrambi hanno legami con il tradizionalismo.

Aleksandr Dugin è un filosofo / giornalista / diplomatico e un agitatore politico in Russia. Uno dei primi a tradurre Evola in russo e autoproclamato devoto di Guénon, vede l’opposizione del Tradizionalismo tra modernità e Tradizione in termini geopolitici, con l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare che rappresentano la modernità e l’Eurasia che preserva la Tradizione. Nonostante non abbia mai ricoperto una posizione formale al Cremlino, ha tentato – in modi a volte pateticamente inefficaci, altre volte di impatto – di portare avanti la sua visione per il contenimento del potere occidentale e la riaffermazione dell’influenza russa, cinese e iraniana nella politica globale. Secondo l’intelligence statunitense, ha contribuito a facilitare i colloqui tra Russia e Turchia dopo che i due sono entrati in conflitto in Siria.

Olavo de Carvalho ha guadagnato influenza in politica solo di recente. Nato a San Paolo, era un eccentrico astrologo / filosofo che insegnava corsi universitari ed è stato iniziato nientemeno che nella tariqa Sufi Islam di Frithjof Schuon a Bloomington e gestiva un satellite a San Paolo negli anni ’80. In seguito è emigrato per diventare un cattolico dalla linea dura e ha rinunciato all’organizzazione di Schuon, anche se ha continuato a scrivere e insegnare su Guénon.

Dopo una carriera come giornalista, un curioso trasferimento negli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000 e una fiorente esposizione sui social media grazie alle sue offese piene di volgarità contro politici, personaggi dei media e accademici brasiliani, alla fine ha stretto un legame con Rio il populista Jair Bolsonaro. Quando nel 2018 Bolsonaro ha vinto la presidenza brasiliana, Olavo e il suo seguito enorme sui social media sono stati accreditati come un fattore importante. Bolsonaro gli ha offerto e ha rifiutato l’incarico di Ministro della Pubblica Istruzione, sebbene abbia suggerito chi potrebbe ricoprire alcune posizioni di governo (incluso il ministro degli Esteri Ernesto Araujo che considero un apparentemente tradizionalista, e che Olavo considera un “più tradizionalista di se stesso ”). Oggi mantiene un’influenza intangibile ma potente sul presidente brasiliano come consigliere non ufficiale,e insieme a quei ministri da lui promossi, costituisce oggi una fazione del governo assediato di Bolsonaro.

RD: Come entra in scena Steve Bannon? 

BT: Per quanto ne so, Steve Bannon ha incontrato per la prima volta Aleksandr Dugin nel novembre 2018 e Olavo de Carvalho nel gennaio 2019. Come loro ha avuto un’influenza a volte formale, a volte informale sul suo leader anti-liberale locale, e come loro lui affiliato al tradizionalismo. Non ho mai capito esattamente come Bannon abbia scoperto il tradizionalismo (curiosamente, come Dugin e Olavo, il suo percorso verso la scuola è passato attraverso o vicino a persone legate al mistico armeno George Gurdjieff).

È cresciuto e continua a identificarsi come cattolico, ovviamente, ma sembra che abbia avuto il bisogno di guardare oltre il cattolicesimo standard e in spiritualità alternative sin dalla giovane età: quando aveva vent’anni in Marina, conosceva la strada per la maggior parte delle librerie metafisiche nelle città portuali dove attraccava il suo cacciatorpediniere. Il pensiero religioso che mi ha presentato nelle nostre interviste mi ha colpito come molto più sconcertante ed eccentrico di quello della maggior parte dei cristiani, e così è stato il profilo politico che avrebbe sviluppato in seguito sulla base della sua lettura di Evola e Guénon.

Nel mio libro ripercorro la sua versione del Tradizionalismo, una in cui afferma di aver abbandonato l’investimento di Evola nella razza e nel mascolinismo, mantiene l’ostilità al materialismo e alla modernità e afferma che l’obiettivo finale della sua politica è consentire agli altri di completare un processo di progresso spirituale – come individui e come nazione. Segue ancora la dottrina del ciclo temporale e mi ha persino fatto notare come questa credenza divergesse dal cristianesimo per come la intendeva. Ha tentato di allineare il tradizionalismo con le narrazioni americane dell’auto-fatto-uomo e della mobilità sociale, ma il prodotto e le sue fonti provengono ancora da un mondo che probabilmente sconcerterebbe, forse respingerà o spaventerebbe il tuo repubblicano americano medio.

RD: Una cosa che spicca davvero nel tuo libro è come Bannon abbia davvero tentato di far funzionare un’Internazionale tradizionalista, ma ha fallito. È uscito dalla Casa Bianca e da allora non ha più trovato la sua posizione. Che cosa è andato storto?

BT: Il tradizionalismo in realtà non è una dottrina politica – non delinea un’agenda politica con molta specificità, e una delle conseguenze di ciò è che gli attori politici che affermano di essere affiliati alla scuola divergeranno nella loro comprensione di ciò che dovrebbero difendere . In effetti, le figure più importanti oggi hanno concezioni abbastanza diverse di cosa significhi lottare per la Tradizione e contro la modernità liberale, come ciò dovrebbe manifestarsi nella politica e nella geopolitica, e in particolare come dovrebbero essere intese Cina, Russia e Stati Uniti.

Rivelo nel libro come Bannon incontrò segretamente Dugin sperando di persuaderlo – su basi tradizionaliste – a iniziare ad agitarsi in Russia per una nuova politica estera filo-occidentale e anti-cinese. Dugin era e rimane resistente all’idea. E niente di tutto questo arriva alla questione più profonda, che il tradizionalismo non crede davvero nell’attivismo, nella popolarità e nella vittoria di una competizione politica moderna. Nella misura in cui uno come Bannon cerca di costruire una simpatia di massa per un programma politico sufficiente a conquistare il potere in una democrazia, sta rompendo la dottrina che lo legherebbe a qualcuno come Dugin. Quindi le prospettive sembrano negative all’inizio, anche se si potrebbe dire che questo rende il tentativo ancora più audace e volatile.

RD: Nel quadro tradizionalista, almeno come interpretato da Bannon e Olavo, la virtù risiede nella gente comune, quella esclusa dai circoli e dalle istituzioni d’élite. Dovrebbero essere i depositari dei veri valori spirituali. Quanto è realistico questo, però, anche in termini tradizionalisti? Negli Stati Uniti, la classe operaia è meno religiosamente rispettosa della classe media. Comprendo le critiche trad-populiste alla corruzione spirituale delle élite e ne condivido molte, ma non vedo un terreno solido per questa valorizzazione del Popolo. Mi sembra più un’astrazione ideologica, il modo in cui i bolscevichi strumentalizzarono le “masse” e i nazisti usarono “das Volk”.

BT: Sì, in questi ultimi casi si vede una visione descrittiva o prescrittiva per trattare una parte di una popolazione come definitiva del tutto. Queste popolazioni sono state tipicamente astrazioni e immaginazioni: l’accusa contro i nazionalisti romantici, per non parlare dei nazisti, era che avevano inventato il “popolo” integrale della campagna che popolava le loro storie, i dipinti e le canzoni, proprio come i marxisti si erano allontanati. trovare un proletariato quando una popolazione così ben definita raramente esisteva. La maggior parte dei tradizionalisti originali vedeva invece nell’élite sacerdotale i “creatori di cultura” della società, quelli che dovrebbero plasmare le masse secondo i propri ideali.

Nella versione capovolta di Bannon e Olavo vediamo qualcosa che assomiglia più al nazionalismo romantico standard à la Herder, dove un settore della società ritenuto più isolato dalla corruzione della modernità (spesso rurale, istruzione meno formale, stazionario) era visto come una nave per il senza tempo valori e identità. E la domanda per quei romantici sarebbe la stessa per Bannon, ed è la domanda che poni: su quali basi parli di quelle persone nel loro insieme, e come sei sicuro che possiedono le qualità che pensi che abbiano?

Non cercherò di rispondere a questa domanda per loro, ma dirò che Bannon in particolare probabilmente rifiuterebbe i metodi che usiamo per valutare chi è e chi non è “osservante religioso”. Sostenuto in parte dalle sue letture del Tradizionalismo (il concetto di inversione che ho citato prima), ed esposto nei suoi confronti con la Chiesa cattolica, è pronto a considerare le istituzioni religiose come invalide in questi giorni, come simulazioni di ciò che dovrebbero essere. Non credo che sarebbe molto difficile anticiparlo pensando che i veri “preti” sono nascosti alla religione istituzionalizzata e ai sondaggisti.

RD: Che ruolo giocano i confini nella metafisica tradizionalista di Bannon?

BT: Bannon, come Dugin, pensa ai confini in modo più espansivo della maggior parte delle persone. Sostiene il rafforzamento dei confini nazionali, sì, ma nella sua mente sono assediati confini di ogni genere: confini tra civiltà e identità, nonché confini all’interno delle società che governano il modo in cui le persone si comportano l’una verso l’altra e organizzano le loro vite.

L’assenza di confini è un segno distintivo della modernità, che si riflette, secondo i primi tradizionalisti, nella disintegrazione della gerarchia e nella sua sostituzione con una società di massa e senza confini priva di qualsiasi collettività tra l’individuo e la totalità. Far rivivere i confini di tutti i tipi è un comportamento antimoderno. Significa introdurre l’ordine laddove esisteva in precedenza il caos e segmentare e stabilizzare il mondo. Questo è il filo conduttore che motiva il conservatorismo sociale di Bannon, il suo nazionalismo culturale (alcuni direbbero etno-), il suo non-interventismo, il protezionismo economico e l’opposizione all’immigrazione.

RD: Mi è capitato di leggere il tuo libro contemporaneamente alla storia del modernismo di Modris Eksteins del 1986, Rites of Spring .Eksteins dice che appena prima della prima guerra mondiale, la Germania si considerava la paladina dei veri valori spirituali e la Gran Bretagna (così come la Francia) come esponenti di una civiltà che poneva il primato sul fare soldi e sul materialismo. Sappiamo anche cosa fecero i nazisti con lo stesso concetto generale. Ci sono davvero solidi motivi storici per preoccuparsi di una recrudescenza. Detto questo, la critica che il Team Bannon fa del vuoto della società commerciale e della capacità della modernità di dissolvere le particolarità nazionali e culturali è solida e accattivante. Riuscite a immaginare un modo in cui gli attori politici potrebbero promuovere la parte migliore del tradizionalismo – difendendo le culture locali e nazionali dall’assorbimento nella massa globalista – senza soccombere alle parti malvagie?

BT: Qui mi chiedi di parlare per me stesso piuttosto che per le persone che ho studiato, ma cercherò di lavorare con la domanda: penso che le persone abbiano le migliori possibilità di derivare qualcosa di buono dal tradizionalismo quando lo trattano, non come una guida per l’azione, ma invece come una narrazione per ispirare nuove analisi della società, che in seguito potrebbero funzionare come base per l’azione.

In particolare, mi chiedo se non ci sia posto per riflettere su una catena di corrispondenze che la scuola propone, vale a dire che la comunanza più significativa detenuta dalla sinistra e dalla destra politiche moderne è la loro particolare attenzione all’economia; che il relativo disinteresse per gli aspetti immateriali della vita sociale potrebbe essere alla radice della nostra tacita avversione a consentire alle persone e alle comunità di essere significativamente diverse l’una dall’altra; che l’insistenza nel costruire una comunità basata su visioni di un futuro condiviso piuttosto che su un passato condiviso – che ha così tante virtù ovvie e che è quasi una necessità in paesi come gli Stati Uniti – sottovaluta l’importanza che le narrazioni di una storia comune giocano nel forgiare solidarietà sociale.

Penso che la “malvagità” del tradizionalismo derivi non solo dal contenuto delle gerarchie che a volte propone (razza, genere, ecc.), E non solo dal modo in cui potrebbe incoraggiarci a ignorare o assaporare le difficoltà contemporanee, ma anche perché di ciò che non dice – il fatto che la sua grande narrazione della storia umana e la battaglia del bene e del male lascia così tanto non specificato. Quegli spazi vuoti possono e sono stati riempiti di demagogia. Un modo per evitarlo è non aderire al tradizionalismo come religione, ovviamente, ma consentire alle sue intuizioni occasionali e qualificate di vivere in un più ampio complesso di valori e programmi, compresi quelli che diffama.

RD: Sono stato in corrispondenza con un giornalista nazionale che sta cercando di capire perché alcuni conservatori americani (come me) sono attratti dall’ungherese Viktor Orban. Questo giornalista è un liberale e può vedere Orban solo come un cattivo. Ho cercato di spiegare che le persone come me di certo non approvano tutto ciò che fa Orban, ma vediamo in lui una figura di resistenza a George Soros e ciò che Soros rappresenta. Cioè, Soros è l’epitome di un ricco e influente globalista che crede che le istituzioni e le narrazioni localiste e nazionaliste siano problemi da risolvere. Non mi aspetterei che un liberale occidentale appoggi un politico come Orban, ma dimmi, perché è così difficile per i liberali occidentali capire che politici come Orban fanno appello a profondi desideri nelle persone – perché, come dici tu, “comunità, diversità, [e] sovranità,”Che non può essere ridotto a” razzismo “?

BT: Penso che sia comune temere rappresentazioni complesse di persone che ti minacciano, e la sinistra liberale ha certamente paura di Orban (come lo sono in una certa misura, devo ammettere): la sua trasformazione dei processi elettorali, il suo trattamento dei media , e la sua autoproclamata opposizione alla democrazia liberale, ecc. Non sto dicendo niente di nuovo a te o ai tuoi lettori nel notare come quell’ultimo pezzo in particolare – l’opposizione di Orban alla democrazia liberale – stia squalificando molti commentatori occidentali.

Ma la caratteristica aggiunta qui è che personifica una causa che può apparire in ascesa nella politica globale. Ciò spinge alcuni commentatori a passare dalla semplice critica alla guerra, e quindi al regno del pensiero noi-contro-loro, del bianco e nero, del dire alla gente che sono parte della soluzione o parte del problema. Infangate quelle acque con discorsi di qualifiche, imprevisti e interpretazioni parallele, e – il ragionamento sembra andare – potete anche essere un apologeta del nemico. E quando ti trovi di fronte a un racconto inaspettato o strano di qualcuno come Orban – uno, diciamo, che lo inquadra come una forza di destra per il localismo e la comunità piuttosto che per l’individualismo libertario – e saresti fortunato a essere definito “politicamente incoerente” come Thomas Lo ha detto recentemente Chatterton Williams.Più probabilmente l’istinto sarà quello di accusarti di aver modellato una facciata per oscurare ciò che, presumibilmente, conta di più.

Una parte di me lo considera una strategia politica. In teoria capisco perché qualcuno direbbe che la posta in gioco politica è così alta in questi giorni che potrebbe essere necessaria una tattica di linea per mobilitarsi. Quello che voglio come minimo, tuttavia, è che le persone siano oneste con se stesse se scelgono questa strada. Voglio che riconoscano che dividere il mondo in termini di tutto o niente, adottando e mantenendo strenuamente definizioni uniformi l’una dell’altra e coltivando paura e disprezzo per l’inconsistenza e il non ortodosso costituisce ignoranza autoimposta; una subordinazione dell’indagine e della conoscenza nell’interesse dell’opportunità politica.

RD: Il tradizionalismo ha un futuro politico? Trump è stato inutile nel portare avanti i suoi obiettivi. A mio avviso, per lui non è stato altro che un kitsch performativo. Cosa succederà ai Trad se Trump vincerà un secondo mandato? Se perde?

BT: Penso che le narrazioni tradizionaliste di Trump potrebbero assumere una serie di forme a seconda di ciò che accade. Il valore potenziale di Trump per questi attori risiede nella sua capacità di ribaltare lo status quo; se vince e arriva a rappresentare un nuovo status quo, allora potrebbe presto apparire come un avatar della decadenza modernista che detestano. L’enigma dei tradizionalisti assomiglia a quello del populista anti-establishment standard in questo senso. Ma se perde a novembre, i tradizionalisti potrebbero vedere retrospettivamente la sua ascesa come nient’altro che una pausa momentanea (e profetizzata) nel ciclo del declino, proprio come Mussolini apparve a Julius Evola dopo la seconda guerra mondiale.

Ma come puoi vedere, si tratta principalmente di narrazioni piuttosto che di politiche. Una delle sfide che ho dovuto affrontare nello scrivere il libro è distinguere quando il tradizionalismo funziona come un programma d’azione e quando funziona come una lente per l’interpretazione.

Il suo fatalismo – la sua convinzione che la storia stia seguendo un programma e che ci troviamo a vivere verso la fine di un’età oscura e vicino all’alba di un collasso e di una rinascita – non ha bisogno di stimolare molta azione oltre ad adottare un atteggiamento celebrativo o indifferente di fronte a distruzione e apparente caos. Questo non vuol dire che questi pensatori non possano identificare politiche particolari che incarnano i loro valori più di altri: il rafforzamento dei confini e il restringimento delle sfere politiche è un esempio di tale causa, e le sue prospettive in una battaglia contro tutte le forze di la globalizzazione sembra povera.

Ma i tradizionalisti trovano incoraggiamento anche in posti che non ci aspetteremmo. Bannon era piuttosto eccitato dalla breve candidatura di Marianne Williamson, una candidata alla presidenza democratica spiritualista che ha parlato della necessità di affrontare “forze psichiche oscure”. Sembrava rappresentare una politica dell’immateriale, e se avesse affrontato Trump, non sono sicuro che Bannon si sarebbe preoccupato del risultato, perché avrebbe potuto vedere una vittoria più ampia nell’intero spettro politico essendosi allontanato dal materialismo. .

Ma la tua domanda non riguardava solo i tradizionalisti, ma anche il tradizionalismo. E mi chiedo ancora cosa dica sul nostro presente e futuro. Non sto intrattenendo l’idea che i cicli temporali cosmici e cose simili siano effettivamente in gioco, ma piuttosto che l’ascesa di Bannon, Dugin e Olavo testimonia una più ampia spinta sociale ad allontanarsi dallo status quo sociopolitico. Per ragioni del tutto mondane, le comunità sembrano cercare un cambiamento radicale e questo può mantenere vivo il tradizionalismo come una delle molteplici alternative.

[Il libro di Benjamin Teitelbaum è War For Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers (Dey Street Books)]

https://www.theamericanconservative.com/dreher/traditionalism-steve-bannon-benjamin-teitelbaum/?fbclid=IwAR2RND-hMgGq4_MeNxM-V0aUzr7U1b3DmzfZ6jhcXTKmewvXfTJlQ7CLESw

Dalla guerra economica all’intelligence economica, di Alain Jullet

Dalla guerra economica all’intelligence economica

Che la guerra sia convenzionale o non convenzionale, sappiamo dai tempi di Sun Tzu che l’attacco o la difesa più efficace dipende direttamente dalla qualità dell’intelligence. Nella guerra delle corse i corsari più famosi non attaccarono una nave qualsiasi. Di recente e in modo simile, i pirati somali erano ben consapevoli dei loro obiettivi. In entrambi i casi ciò presupponeva l’esistenza di informatori nel cuore del nemico con i mezzi necessari per comunicare sul reale interesse delle barche in partenza. I sottomarini tedeschi dell’ammiraglio Dönitz che siluravano i mercantili nei convogli di rifornimenti alleati conoscevano le rotte che seguivano.

Utilità a colpo d’occhio

Ma sia nel contesto della guerra che per realizzare le sue conquiste, tutte queste azioni erano estremamente costose in termini di uomini e materiale. Questo spiega perché stiamo assistendo a un’evoluzione molto chiara delle concezioni strategiche. L’esercito diventa il complemento mirato di un’azione economica su vasta scala in cui la conoscenza dell’avversario mediante le tecniche dell’intelligence economica diventa la chiave del successo.

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Gli Stati Uniti, che non hanno più i mezzi per imporre le proprie visioni egemoniche al mondo attraverso il rapporto di potere, lo hanno capito prima di molti altri. L’affare BNP può essere compreso solo integrando il desiderio americano di assicurarsi la supremazia nei negoziati commerciali con l’Iran. Impone regole esclusive attraverso il dollaro per garantire le proprie transazioni. Allo stesso modo, tutti sanno che l’acquisizione americana di una partecipazione in Peugeot ha costretto il marchio del leone a lasciare immediatamente l’Iran … il che ha permesso agli americani di sostituirlo con un mercato di ricambi di successo.

La procedura Discovery consente a un giudice statunitense di rivendicare tutti i documenti di una transazione eseguita altrove da uno straniero, se l’ha fatta in dollari o se utilizza la Borsa di New York. Il rifiuto di ottemperare comporta il divieto di attività sul territorio americano. Più che discutibile dal punto di vista del diritto internazionale, fornisce informazioni utili per lo Stato e le imprese. In questo ambito, l’affare Snowden ha mostrato a chi dubitava di quanto la raccolta di informazioni di ogni tipo consentisse di costruire strategie vincenti sia a livello politico che economico. Smettiamola di essere ingenui: nella competizione mondiale come nel bridge, una buona occhiata è meglio di un brutto vicolo cieco.

 

L’intelligenza economica attraverso la sua pratica di monitoraggio e analisi consente a qualsiasi azienda e qualsiasi Stato di ottenere dati utili sull’avversario o sul concorrente. Nel nostro mondo ipermediale, attraverso i social network e con l’ausilio dei motori di ricerca, la maggior parte delle informazioni su un argomento è legalmente a disposizione di chiunque sappia ricercarlo. La tecnica di benchmarking , che prevede di ottenere preventivamente i rapporti della controparte, permette di confrontarsi, di individuarne i punti deboli e di forza e quindi di fissare gli obiettivi di miglioramento richiesti. Lo sviluppo di un’efficienza mirata creerà un divario invalicabile per il concorrente che consentirà, anticipando o negoziando, di evitare una costosa guerra economica frontale.

Conosci l’avversario e il campo

Il miglior posizionamento prezzo-qualità, la migliore innovazione in relazione alle aspettative del mercato prevarrà senza che l’azienda debba davvero lottare. Se il concorrente è più efficiente e non è sospettoso, una campagna di influenza ben mirata sui suoi difetti ne limiterà l’impatto o, meglio, lo destabilizzerà agli occhi del suo mercato e dei consumatori abituali o potenziali. Così, paradossalmente, possiamo allontanarci dalla guerra economica attraverso la pratica congiunta del monitoraggio alla ricerca di informazioni, sicurezza per proteggere la propria e influenza per trasformare il consumatore o l’utente in un promotore convinto di il marchio o il prodotto.

I moderni strumenti di ricerca, selezione ed elaborazione dati devono essere aggiornati ogni giorno con la crescita esponenziale delle capacità delle tecnologie digitali e del cyberspazio. Siamo solo all’inizio di una rivoluzione dei processi che si svilupperà nei prossimi anni. In questo sconvolgimento permanente, chi trae vantaggio dalle migliori armi del momento ha un vero vantaggio competitivo. La crescente disponibilità di dati nei big data , il tracciamento degli oggetti da parte dei chip rfyd, l’uso di apparecchiature collegate ovunque ci si trovi cambia il trattamento dei conflitti competitivi. Se la strategia globale rimane essenziale perché dà l’asse dello sforzo, l’arte operativa cara al maresciallo Ogarkov e la tattica diventano inutili poiché sappiamo molto precisamente dove stiamo andando e come. È il più efficiente, il più veloce, il meglio posizionato che vince; può diventarlo solo attraverso la pratica permanente dell’intelligenza economica con strumenti costantemente aggiornati. Evitiamo la guerra ma questo ha un costo perché, in questo tipo di competizione, non si vince con uno sconto.

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La vittoria è pensabile solo avendo, durante tutto il corso del metodo, la volontà di avere permanentemente una perfetta conoscenza dell’avversario e del suo comportamento. Lungi dall’accontentarci di restare sulla difensiva, dobbiamo tornare all’adagio che la miglior difesa è l’attacco. Nella guerra in movimento l’importante è fissare l’avversario, se possibile in una posizione sfavorevole, che presuppone una perfetta conoscenza del nemico e del terreno. Lo stesso vale nel mondo economico.

 

La pratica dell’intelligence economica, pur permettendo che venga svolta nelle migliori condizioni, riduce la guerra alla sua forma più semplice. Ma ciò implica prima una perfetta conoscenza di se stessi, poi acquisire quella dei suoi concorrenti e partner, amici o nemici. È il confronto delle catene del valore specifiche di ogni persona che ci permetterà di creare la differenza costruendo un vantaggio competitivo nel tempo abbastanza forte da portare l’altro a rinunciare alla guerra perché sa che è persa in anticipo.

Come in una corsa campestre, chi corre in testa non può essere preso, se non in caso di incidente, negli ultimi chilometri.

https://www.revueconflits.com/guerre-economique-intelligence-renseignement-entreprises-alain-juillet/

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