Stati Uniti! Vittorie di Pirro_con Gianfranco Campa

Non sarebbe la prima volta che una vittoria, oscurata per altro da sospetti giustificati, si può trasformare rapidamente in una sconfitta, addirittura in una rotta catastrofica. Ne sta prendendo atto la classe dirigente statunitense. Il gruppo dirigente democratico considera ormai la presidenza Biden-Harris una parentesi da chiudere e da contenere con il minor danno possibile. Confermata la pochezza disarmante di Kamala Harris, ormai il gruppo dirigente democratico sta pensando alle possibili alternative senza provocare ulteriori conflitti distruttivi. Nell’altro versante i neocon sembrano prendere atto della loro sconfitta e del loro drammatico isolamento. Considerano Trump non più un nemico, ma una risposta inadeguata a problemi reali. Stanno quindi pensando ad una tattica di condizionamento ed infiltrazione. Dal loro cappello iniziano a spuntare conigli e personaggi di varia umanità, medici dalla propensione istrionica, personaggi costruiti sulle scene televisive, proprio quando il movimento trumpiano sta superando brillantemente la propria dipendenza dal personaggio pubblico e si sta trasformando in una corrente strutturata, memore delle esperienze e delle debolezze della sua fase originaria legata ai Tea Party. Tattiche e strategie che tengono in poco conto l’accavallarsi di problemi, dalle caratteristiche a volte disgustose, perverse e di crisi che stringe drammaticamente i margini di azione e rivela i limiti di indirizzo politico di una classe dirigente ormai priva di autorevolezza e credibilità ma ancora con un enorme potere. La combinazione perversa di ambizioni smisurate e drammatica inadeguatezza è una miscela esplosiva. La tentazione di colpi di mano dalle conseguenze drammatiche si insinua pericolosamente, sia all’interno che all’esterno del paese. Il focolaio dell’Ucraina potrebbe essere la prima miccia disponibile. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vq8zbl-stati-uniti-vittorie-di-pirro-con-gianfranco-campa.html

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

una polemica giustificata_a cura di Giuseppe Germinario

La stampa italiana, nella quasi totalità è ridotta ad una grancassa di livello miserabile. A maggior ragione serve ascoltare altre campane_Giuseppe Germinario
Maria Zhakarova risponde a Molinari di Repubblica:
“Ho letto con entusiasmo il Suo articolo, dottor Maurizio Molinari, su Repubblica. Era da molto tempo che non vedevo un’assurdità così deliziosa.
Capisco perché nessuno della Sua redazione lo abbia firmato e Lei si sia assunto in prima persona la responsabilità di questa vergognosa missione. Nessun giornalista che si rispetti vorrebbe il suo nome sotto il titolo “Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa”.
Andiamo per ordine.
L’articolo dice: “…abbiamo visto l’arrivo di unità militari russe al confine con l’Ucraina: stiamo parlando di almeno 90.000 uomini con relativi mezzi blindati ed artiglieria… l’esercito ha stabilito una base a Yelnya, 260 km a nord del confine ucraino”.
Probabilmente, dottor Molinari, Lei ha ascoltato le affermazioni statunitensi secondo cui la Russia starebbe concentrando truppe al confine con l’Ucraina, ma non ha letto il comunicato ufficiale del Ministero della difesa ucraino, che smentisce le fobie statunitensi. Lei per definizione chiaramente ignora la posizione di Mosca. E perché dovrebbe, quando può scrivere della “creazione di una base con mezzi blindati ed artiglieria a Yelnya” senza alcun fact-checking. Non c’è nessuna base. Nel nostro Paese non esistono affatto basi militari. Esiste la dislocazione di unità delle forze armate russe sul nostro territorio nazionale. E questo è assolutamente un nostro diritto sovrano, che non viola gli impegni internazionali assunti e appartiene, come, tra gli altri, ama dire la NATO, alle “attività di routine”.
Ma il Suo sproloquio sulla realtà russa non finisce qui. Lei scrive che Yelnya si trova a km. 260 dal confine ucraino. E dunque i nostri carri armati sono sul confine o a km. 260 da esso? Se il direttore di Repubblica ha un’idea confusa di dove sia Yelnya (anche se non lo credo, visto che le ha dedicato un intero articolo) forse sarà più informato sulla collocazione della Svizzera tra Francia e Italia. E la distanza è addirittura inferiore ai 260 km. Ma non è che domani la Repubblica scriverà che Berna è a un passo dall’attaccare Italia e Francia contemporaneamente, visto che tutte le truppe svizzere sono più vicine ai confini di questi Paesi di quanto non sia Yelnya all’Ucraina?
Il difetto di tale logica non sembra ovvio ai lettori del Suo giornale Repubblica? Quello che Lei si permette di fare non è consentito a un giornalista perbene.
“… Nel 2014 la Russia intervenne dopo la sconfitta nelle presidenziali ucraine del candidato da lei sostenuto…. Ora la minaccia di invasione punta a tenere sotto scacco il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky” – prosegue l’articolo.
E chi sarebbe il “candidato della Russia” che avrebbe perso le elezioni nel 2014? Si riferisce a Yanukovych? Candidato non della Russia, ma delle regioni sud-orientali dell’Ucraina. E non ha perso, ha vinto, e non nel 2014, ma nel 2010. Inoltre, aveva vinto le elezioni precedenti, nel 2004. Ma per impedirgli di andare al potere allora, l’opposizione ucraina, sostenuta dai protettori occidentali, ha escogitato una procedura inconcepibile, una parodia della democrazia – un “terzo turno” di elezioni, e ha fomentato una “rivoluzione arancione”, trascinando Victor Yushchenko alla presidenza dell’Ucraina. E nel 2010 Viktor Yanukovych ha vinto di nuovo, con un ampio sostegno dalle regioni del sud-est dell’Ucraina, ma l’Occidente non ha avuto alcuna possibilità di ribaltare di nuovo la scelta del popolo ucraino. Gli USA e l’UE hanno deciso di rimandare il putsch a un momento più favorevole. Momento che si è presentato nel 2013, quando Viktor Yanukovych è diventato improvvisamente immeritevole, rimandando la firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Nel giro di un paio di mesi, in Ucraina si è tenuta un’altra “Maidan” sotto la guida degli Stati Uniti, con la sottosegretaria di Stato americano Nuland che distribuiva soldi, panini e promesse di sostegno incondizionato ai “rivoluzionari”. E nel 2014, caro Direttore, Viktor Yanukovych non si è candidato. Ha lasciato l’Ucraina perché se fosse rimasto lì, sarebbe stato ucciso dai radicali ucraini che hanno sparato, picchiato a morte e bruciato centinaia di loro connazionali
La Sua non conoscenza della sostanza della questione è sorprendente.
Anche se mi è piaciuta molto l’espressione “tenerlo sotto scacco” che Lei usa in riferimento alla politica russa in Ucraina e personalmente a Vladimir Zelensky. Prima di tutto è un’espressione bellissima. In secondo luogo, non mi pare che gli scacchi siano vietati, vero? O solo se i russi non vincono?
L’unico problema è che in Ucraina ora non c’è un re, infatti i pedoni possono trasformarsi solo in regine.
La politica della Russia nei confronti della sovranità dell’Ucraina fin dalla sua indipendenza ha avuto come unico obiettivo la costruzione di relazioni di buon vicinato. Quello che è successo nel 2014 in Crimea è qualcosa che spieghiamo di continuo, ma che in Occidente viene costantemente ignorato. Ogni tentativo di esporre i fatti si scontra con “articoli”, simili al Suo, che distorcono la percezione della realtà.
Ma lo ripeterò ancora una volta. Nel 2014, dopo il colpo di stato incostituzionale in Ucraina, ennesimo risultato dell’ingerenza occidentale negli affari di uno stato sovrano, il popolo che vive in Crimea ha fatto la sua scelta storica, è sfuggito al dilagante estremismo nazionalista e illegale tenendo un referendum che in precedenza aveva molte volte cercato di organizzare, ma che gli era sempre stato vietato.
La prossima volta che sulle pagine del Suo giornale apparirà qualcosa sulla “volontà illegittima del popolo di Crimea”, siate così gentili da ricordare ai lettori che in Kosovo non c’è stato assolutamente alcun referendum, ma i Paesi occidentali, compresa l’Italia, ne hanno riconosciuto la “sovranità”. E questo nonostante la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che indica esplicitamente l’integrità territoriale della Serbia, intendendo il Kosovo come parte di essa.
Veniamo ora ai migranti: “Putin crea parallelamente un’altra situazione di crisi sostenendo il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko nella decisione di far arrivare migliaia di migranti da Asia e Medio Oriente fino alla frontiera polacca per creare un nuovo, esplosivo, fronte di attrito con l’Unione europea”.
Signor Molinari, pare che Lei abbia letto molti “rapporti dal campo” polacchi visto che ripete come un mantra tutte queste infinite accuse contro Alexander Lukashenko e per qualche motivo contro il presidente russo per aver “creato un esplosivo fronte di attrito” e una “situazione di crisi”. Ma dice sul serio?
Viene voglia di rimandarla al sito del Ministero dell’Interno italiano, in particolare alla sezione “Statistiche dell’immigrazione”. Bene, questo meraviglioso sito web italiano è stato recentemente aggiornato e scrive nero su bianco che il numero di migranti che vengono maltrattati attraverso il confine dalle forze dell’ordine polacche non è niente in confronto al numero di clandestini dall’Africa lasciati entrare nell’UE attraverso il suo territorio dalla sola Italia. In soli tre giorni di novembre: più di duemila persone. Dall’inizio dell’anno – quasi 60 mila (e molti di loro attraverso la Libia devastata dall’occidente, di cui parleremo in seguito). Gli attuali eventi sul Bug sono solo una vivida immagine (che però dimostra chiaramente fino a che livello di disumanità possono arrivare le guardie di frontiera di uno stato membro dell’UE).
Ora la domanda è: quando Repubblica scriverà che gli Stati Uniti e i paesi della NATO hanno “creato un esplosivo fronte di attrito e una situazione di crisi in Europa” con le loro azioni folli?
Bruxelles dovrebbe cercare le vere cause della crisi migratoria dell’UE nelle vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-Iraq, anti-Libia, dei capi di stato e di governo di quei paesi che hanno istigato la “primavera araba” e per 20 anni in Afghanistan hanno fatto non si sa cosa.
L’articolo prosegue così: “è interessante come tutto ciò coincida con l’imminente inaugurazione del Nord Stream 2, che aumenterà la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas russo, e con l’ostilità di Mosca a raggiungere accordi sul clima…”
Qualche parola sul gas, sulla “dipendenza dell’Europa” e sull’ecologia, visto che ha deciso di mettere insieme più o meno tutti i temi all’ordine del giorno (in quello che chiama “editoriale”). L’Italia da sola riceve fino a 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia. Mosca non ha mai tradito o ingannato Roma sulle consegne di gas. Come può in coscienza un giornalista italiano parlare con un tono così becero dei fornitori russi di idrocarburi?
Lei personalmente, dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de “La Repubblica”.
Chi Le dà il diritto di insultare il nostro Paese con calunnie nauseanti? È alla ricerca dello scoop? Ho una super esclusiva per Lei. Pubblichi una frase di verità sul Suo giornale: “Non c’è fornitore di gas all’Europa più affidabile della Russia”.
Ora parliamo della “dipendenza”, una parola di cui chiaramente non capisce il significato. La vita di tutti noi dipende da un numero enorme di cose, senza le quali cesseremmo di esistere: acqua, sole, ossigeno, ecc. Questo La fa impazzire? Per quanto riguarda il gas russo, la situazione è molto più certa dei terremoti in Sicilia o dell’acqua alta a Venezia : il gas c’è, c’era e ci sarà. La smetta di confondere i lettori e di farsi prendere dal panico.
Gioisca per ogni nuovo giorno, anche se tutto in questo mondo è interdipendente: le persone dipendono l’una dall’altra, la vita dipende dal sole, le piante dall’acqua.
Fondamentalmente non ha senso commentare i Suoi giudizi sulle politiche ambientali della Russia: le nostre priorità in questo settore (molto avanzate anche per gli standard europei) sono state enunciate dal presidente russo nell’ambito degli eventi multilaterali ad alto livello conclusisi di recente. Per favore, dottor Molinari, quando si occupa dell’agenda russa, segua almeno le dichiarazioni che vengono fatte nel Suo Paese. Nel suo videomessaggio al vertice del G20 (tenutosi a Roma, Maurizio!) il presidente Putin ha detto senza mezzi termini: “La Russia sta sviluppando a ritmo spedito il settore energetico a basso contenuto di carbonio. Oggi, la quota di energia proveniente da fonti praticamente senza carbonio – e questo include, come sappiamo, il nucleare, l’energia idroelettrica, l’eolico e il solare – supera il 40% e, se aggiungiamo il gas naturale – il combustibile a più basso contenuto di carbonio tra gli idrocarburi – la quota raggiunge l’86%. Questo è uno dei migliori indicatori del mondo. Secondo gli esperti internazionali, la Russia è tra i leader nel processo di decarbonizzazione globale”.
E infine la Libia “…nella tela europea del presidente Putin c’è anche la Turchia … soprattutto per la convergenza di interessi in Libia nel riuscire a scongiurare le elezioni in programma il 24 dicembre per eleggere un governo”.
Qui Le voglio ricordare che la firma del rappresentante russo si trova sotto il documento finale della seconda conferenza di Berlino sulla Libia, e la Russia è una di quelle (poche, a dire il vero) parti che, anche nelle attuali difficili circostanze, hanno promosso la normalizzazione e il dialogo politico nel Paese distrutto dall’Occidente. La Russia ha partecipato ad alto livello (ministro degli esteri Lavrov) alla recente conferenza internazionale sulla Libia a Parigi, e ha concordato la dichiarazione finale. Il ministro ha sottolineato più volte, anche durante discorsi pubblici, che la cosa principale ora è rispettare il calendario che i libici stessi hanno concordato un anno fa, soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento delle elezioni generali, sia presidenziali che parlamentari. Lo vede, spero, che questo contraddice completamente quello che Lei scrive?
Se vogliamo parlare della tela in cui l’Europa è caduta, dovrebbe ricordare come l’Occidente abbia alterato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Libia. Le ricordo che nel 2011 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva dichiarato una no-fly zone sulla Libia, che è stata utilizzata da alcuni paesi della NATO, non per proteggere i civili, ma per bombardarli, con la conseguente distruzione dello stato libico, il barbaro assassinio di Gheddafi e la pluriennale crisi migratoria in Europa, di cui l’Italia è prima vittima. Non lo sa? Mi contatti, sono sempre disponibile a raccontarLe molte cose interessanti, compreso a quale link corrisponde il sito dell’ONU.
A parte mi soffermo su qualcosa che non balza agli occhi a prima vista. Lei pone la domanda ” come reagirà l’Ue di Macron, Scholz e Draghi alla sfida ibrida russa in pieno svolgimento”.
La risposta è breve: in nessun modo. Non reagiranno in alcun modo, perché non c’è “nessuna sfida ibrida russa”. È un’invenzione, come tutto il Suo articolo. La smetta di alimentare questo mito per entrare nelle grazie di politici russofobi. Rispetti i Suoi lettori. Gli italiani non meritano bugie così sfacciate.”
(Ambasciata della Federazione Russa in Italia e San Marino)

Stati Uniti! Azzardi pericolosi di centri in stato confusionale, con Gianfranco Campa

Due leader in difficoltà ai due lati del Pacifico, ma uno di essi messo decisamente peggio. Un ceto politico che si dimena con sprezzo del ridicolo riuscendo a trasformare le proprie vittime designate in martiri al culmine della popolarità. Un tentativo di recupero dei consensi nella vecchia base elettorale con il rilancio di una politica estera della “working class” che pare una riproposizione in un contesto inidoneo della geopolitica degli anni ’90. Una classe dirigente tentata a contrabbandare qualche concessione nell’immediato con la rinuncia strategica in un contesto multipolare, specie quello indo-pacifico, nel quale sono numerosi e potenti gli attori in grado di condizionare le scelte. Una crisi interna che è prossima a rinunciare anche alle ultime certezze, come nella gestione della pandemia. Nel mezzo alcuni giochi inquietanti e pericolosi, difficilmente controllabili, in corso nei laboratori americani. Rischiamo un’altra Wuhan, questa volta a stelle e strisce? Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vpgzxt-stati-uniti-biden-e-gli-azzardi-pericolosi.html

 

 

Unione Europea tra retorica e realtà_con il professor Augusto Sinagra

La retorica europeista non riesce più a coprire le mancanze e le incongruenze di una organizzazione comunitaria che vorrebbe atteggiarsi ed essere riconosciuta come istituzione statale quando, in realtà, è un apparato amministrativo figlio di trattati che regolano in qualche maniera le dinamiche geopolitiche tra gli stati nazionali europei e soprattutto tra questi e gli Stati Uniti. Quando le questioni regali, proprie delle prerogative sovrane degli stati emergono, immediatamente vengono alla luce le ambiguità e il peccato di origine della Unione Europea. Lo squilibrio tra chi intende mantenere le proprie prerogative e chi, tra questi l’Italia, riesce inopinatamente a rinunciarvi in nome di un lirismo sterile è destinato ad accrescersi ai danni di questi ultimi. La UE è uno strumento di depotenziamento del concerto europeo e a lungo andare una incubatrice di conflitti tanto più perniciosi quanto più rimossi. La rinuncia, anzi la constatazione dell’impossibilità di un qualsiasi ruolo assertivo nelle situazioni di crisi sempre più frequenti ed improvvise trova giustificazioni ormai al limite del patetico. L’imperdonabile ritardo scientifico e tecnologico manifestatosi con la crisi pandemica e la trasformazione digitale in corso viene rimosso con il rifugio consolatorio nella primigenia fasulla della determinazione regolatoria di quei mercati e di quelle emergenze. Al ritardo nelle tecnologie legate alla difesa dell’ambiente e alla diversificazione energetica si reagisce con fughe in avanti foriere di crisi e dissesti esattamente proporzionali alla negazione dei necessari tempi di transizione e di costruzione di una propria capacità industriale. Sarà drammaticamente tardi quando ci si accorgerà di essere vittime del proprio stesso bluff. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vpfp7t-ue-tra-retorica-ed-evidenze-con-augusto-sinagra.html

Credere nella scienza, di Andrea Zhok

L’aspetto più significativo della gestione della crisi pandemica in Italia consiste nella rivelazione strisciante, ma sempre meno rimovibile, della sciatteria del nostro ceto politico dirigente. Una superficialità il cui vortice sta risucchiando anche le cosiddette “riserve della Repubblica”, in primo luogo Mario Draghi e lo stesso Presidente della Repubblica. Questa crisi, in quanto situazione di emergenza, avrebbe potuto consentire nel bene e nel male veri e propri atti di rottura, svolte decisive in una qualche direzione, sia essa positiva o negativa, decisionista o inclusiva, autoritaria o partecipativa, elitaria o democratica. Comunque una direzione precisa il cui presupposto avrebbe dovuto poggiare su un ceto politico ed una classe dirigente capace di assumersi la responsabilità politica esplicita delle decisioni, esplicitando apertamente al cospetto della popolazione l’incertezza della situazione, i limiti di adeguatezza delle istituzioni, il rischio delle decisioni, addirittura l’azzardo di alcune scelte rispetto ad una condizione nuova e sconosciuta almeno alle ultime tre generazioni. Hanno invece preferito nascondersi come pecorelle smarrite dietro un presunto verbo scientifico indiscusso e indiscutibile, vero e proprio ossimoro più consono ad un credo religioso e ad una istituzione inquisitoria che ad una attività che si fonda sulla ricerca continua, sulle conferme e sulle falsificazioni (nella sua accezione epistemologica e procedurale). Verbo in realtà talmente volubile, contraddittorio e condizionato da innumerevoli pressioni ed interessi da logorare l’autorevolezza dei detentori del sapere e da trasformare le sedi dedite in baracconi per esibizionisti e giocolieri di parole. Succede quando il decisore cerca di giustificare le proprie scelte politiche, in quanto tali preposte a definire priorità e residualità, vincitori e perdenti, rifugiandosi ed aggrappandosi alla presunta oggettività e indiscutibilità della scienza, in realtà appoggiandosi alle versioni più “opportune” di esperti veri e presunti riconosciuti istituzionalmente al momento. Una prassi che ha trovato un humus sempre più favorevole nella situazione di degrado, soprattutto istituzionale, del nostro paese, ma che si è trovata la via spianata da una critica inizialmente tutta concentrata sulla natura complottistica di queste scelte piuttosto che impegnata nell’esame del merito di queste, in gran parte scellerate, in una condizione comunque di effettiva emergenza. In questa situazione di crisi, i decisori politici avrebbero potuto scegliere due strade dalla chiara direzione: assumersi la responsabilità diretta delle decisioni operative, come hanno fatto ad esempio in Cina, in Corea; delegare ad esperti queste decisioni sulla base però di priorità ben definite e di verifiche periodiche stringenti della loro efficacia, come fatto ad esempio in Svezia, in Nuova Zelanda. I nostri hanno preferito decidere tutto e il suo contrario, ma assumendo le vesti di semplici portavoce. Sono riusciti nel miracolo di provvedimenti allo stesso tempo draconiani, approssimativi ed indiscriminati. Una situazione paradossale ed inquietante che può realmente spingere ad una dinamica autoritaria e totalitaria più simile, nella farsa tragicomica, alla configurazione di una repubblica delle banane in preda a colpi di mano di élites decadenti ed arroccate che all’avvio di un processo di rigenerazione del paese; comunque adatta a prestarsi a banco di prova. Ne sono conferme ultime il gravissimo e meschino provvedimento di ostracismo a Puzzer e le potenzialità di manipolazione e controllo insite nel Green Pass e soprattutto nelle sue modalità di giustificazione. Meccanismo avviato con straordinaria cialtroneria da Giuseppe Conte II e dalla sua coalizione, nella quale il PD ha avuto la principale responsabilità che paradossalmente è riuscito ad eludere grazie alla compiacenza leghista e proseguito con maggior compiutezza e sagacia. A rimettere il treno sui binari, a prescindere dalla direzione, è arrivato Supermario; la parabola però sembra aver già raggiunto l’apice. In via di logoramento la credibilità acquisita nella gestione della pandemia, a Mario Draghi rimane la carta del ruolo da svolgere nel consesso europeo; è però una carta a tempo, legata in gran parte all’esito delle elezioni in Francia e alla formazione del governo tedesco. Su questo il Presidente del Consiglio ha mostrato di subire comunque qualche precoce segno di contagio della sciatteria imperante con qualche concessione di troppo alla demagogia della Gretina e della “casalinga” di turno elevate al ruolo di “influencer”. Più solida rimane, almeno al momento, la carta della gestione del PNRR. Riguardo a questo potrà contare sulle aperture di credito a prescindere della Commissione Europea e sui tempi di esecuzione di circa cinque anni. La condizione è che riesca ad adeguare, almeno in qualche misura, le modalità operative della macchina amministrativa italiana agli stringenti criteri operativi europei e a integrarvisi. Non è detto purtroppo che ci riesca. Per il resto, se gli andrà bene, ci vorranno cinque anni perché le aspettative dichiarate riposte sul PNRR si rivelino infondate ed emergano chiaramente quelle implicite. Di questi tempi, poter procedere per cinque anni, significa disporre di tempi biblici. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Credere nella scienza

Pubblicato il 2 novembre 2021 alle 18:47

Se c’è una cosa che può mettere a repentaglio ogni residua salute mentale è sentire i supporter del Green Pass che rivendicano di parlare a nome della “Scienza”.

Ora, si può comprendere, psicologicamente, che qualcuno abbia l’incontenibile desiderio di credere alle rassicurazioni del governo per immaginare un “ritorno alla normalità” e che perciò sia disposto a credere a qualunque cosa pur di scrollarsi di dosso la vicenda pandemica.

Che questa spinta psicologica conduca a un abbassamento delle difese critiche è umano, dannoso per sé e per gli altri, ma umano.

Ma rivendicare di essere “dalla parte della scienza” contro, si suppone, il “pregiudizio antiscientifico”, questo è semplicemente troppo.

A ben veder chi prende queste posizioni di solito si esprime dicendo di “Credere nella scienza”, e già l’uso delle parole qui è significativo. Ciò che qui viene invocato sotto il nome della “Scienza” ha più l’aspetto di una versione aggiornata del vitello d’oro: un idolo enigmatico cui prosternarsi e tributare onori nella più perfetta passività. La Scienza sembra essere immaginata come dispensatore di verità rivelate, erogate da una sorta di clero remoto, etereo, neutrale e biancovestito. Della natura reale della scienza, della sua tormentata storia, del fatto che essa debba tutte le sue qualità migliori all’adozione di un metodo critico, che include fallibilità, apertura alla libera discussione e consolidamento solo nel lungo periodo, di tutto ciò non sembrano sapere nulla.

Ecco, se già sentire parlare di “fede nella scienza” appare un ossimoro indigeribile, sentirla invocare a sostegno del Green Pass è cosa da uscirne pazzi.

Fede nella scienza 1

Dall’inizio di questa vicenda si sapeva che i percorsi di approvazione dei vaççini erano stati semplificati e accelerati in modo straordinario e che i contratti di fornitura dei medesimi da parte della case farmaceutiche erano stati secretati.

Già questo per chiunque avesse uno straccio di coscienza scientifica avrebbe dovuto far puntare i piedi, visto che i protocolli di approvazione hanno certe caratteristiche per motivi non arbitrari, radicati nella passata esperienza scientifica; e visto che la secretazione dei contratti (come è emerso successivamente) celava la richiesta di uno scudo contro gli indennizzi da parte della case farmaceutiche, che dichiaravano di non poter garantire per eventuali effetti collaterali a lungo termine.

Eravamo dunque di fronte sin dall’inizio ad un’infrazione della metodologia di ricerca consolidata e a un’evidente opacità da parte dei soggetti stessi che avevano svolto la ricerca.

Rispetto a questi dati si è risposto con l’urgenza di provvedere all’emergenza pandemica, urgenza che giustificava queste procedure “eccentriche”. Ora, questo argomento è discutibile, ma può essere comprensibile, tuttavia è troppo capire che si tratta di un argomento squisitamente politico e non scientifico?

Fede nella scienza 2

Pochi mesi dopo le prime somministrazioni sono cominciati a emergere dati scientifici su svariati effetti collaterali, effetti che non erano presi in considerazione nei dati forniti dalla case farmaceutiche: trombosi atipiche,[1]sindrome di Guillain-Barré,[2] miocarditi (specialmente nei giovani) e pericarditi,[3] ADE (antibody-dependent enhancement),[4] attivazioni o riattivazioni di sindromi autoimmuni.[5]

Qui, il minimo sindacale di buonafede e coscienza avrebbe richiesto di ammettere che eravamo di fronte ad un prodotto farmaceutico di cui effettivamente ignoravamo almeno in parte il livello di possibile nocività.[6]

Rispetto a tutto ciò si è proceduto senza un tentennamento né un dubbio, limitandosi a riversare sull’opinione pubblica tonnellate di rassicurazioni televisive a costo zero. In sostanza le rassicurazioni governative si erano dimostrate malriposte, visto che la sperimentazione pregressa non aveva portato alla luce problemi che successivamente erano stati riconosciuti. Ma tutto ciò non ha smosso foglia né sollevato dubbio.

La più ferrea inamovibilità, sempre nel nome del primato della scienza, ça va sans dire.

 

Fede nella scienza 3

L’introduzione del Green Pass è stata motivata con la clausola che lo si faceva per evitare la diffusione del virus: la motivazione fondamentale dei divieti della certificazione verde stava nell’impedire la trasmissione del contagio. Peccato che già quando il Green Pass era in fase di discussione era perfettamente noto che i soggetti vaççinati potevano trasmettere il virus in maniera o uguale, o almeno comparabile, con i soggetti non vaççinati.[7] Ciononostante si è continuato a propagandare senza pudore un immaginario da untore manzoniano in cui il non vaççinato sarebbe una minaccia per il vaççinato, laddove in effetti il vaççinato è parimenti una possibile minaccia sia per altri vaççinati che, a maggior ragione, per i non vaççinati.

Ma tranquilli, una volta di più era la Scienza a parlare per bocca del governo.

Fede nella scienza 4

Sempre all’insegna della massima trasparenza scientifica si è continuato a negare (e in parte si continua a negare) l’esistenza di cure per il Sars-Cov-2, nonostante l’accumularsi di studi scientifici che dicono il contrario[8] e nonostante molte cure siano entrate nei protocolli sanitari di altre nazioni.

È importante capire qui che c’è un abisso tra l’affermazione che “esistono terapie efficaci” e l’affermazione che “esiste una pillola magica” che fa scomparire il virus. Le cure efficaci esistono, la pillola antivirale magica che fa sparire il virus no (e per i virus in generale è raramente trovata). La trasparenza scientifica avrebbe allora ammesso argomentazioni del tipo: il vaççino è una forma di intervento “cost-effective”, che coinvolge di meno le strutture ospedaliere, e che perciò è preferibile per certi gruppi di persone (ad esempio i soggetti più fragili).

Ma anche qui di trasparenza scientifica non ne abbiamo avuta nemmeno l’ombra: si è fatta una campagna all’insegna del vaççino come sola ed unica salvezza e chi dice altrimenti è un traditore.

Sempre nel sacro nome della Scienza.

Fede nella scienza 5

Successivamente, visto che non volevamo farci mancare nulla, abbiamo cominciato non solo a raccomandare, ma di fatto ad obbligare (con il ricatto del Green Pass) donne incinte a inocularsi dei vaççini che riportavano esplicitamente nelle indicazioni delle case farmaceutiche di non essere stati testati su donne in stato di gravidanza. Anche questo all’insegna del principio di precauzione e delle migliori pratiche scientifiche, senza dubbio. E a coronamento di questa oscenità alcuni hanno avuto il coraggio di replicare ex post che oramai le inoculazioni erano avvenute in gran numero, e che non era successo nessuna apocalisse, dunque avevano ragione.

Chissà quale manuale di deontologia medica raccomanda di testare dei vaççini sulla popolazione generale, senza screening, senza seguire i pazienti testati, e con semplice farmacovigilanza passiva per valutarne gli effetti collaterali.

Ma state sereni, è sempre la Scienza che parla per bocca del governo, e voi dovete tacere e fare penitenza.

Fede nella scienza 6

E infine abbiamo avuto un infinito balletto in cui:

a) ci si è inventati di sana pianta con il GP che la durata dell’immunità da superamento della malattia era inferiore a quella fornita dalla vaççinazione, laddove è dimostrato essere esattamente il contrario;

b) ci si è rifiutati di prendere in considerazione esami del sangue che mostrassero l’ampia presenza di anticorpi anti-covid come ragione per posporre l’inoculazione;

c) si è cambiato in corso d’opera ripetutamente l’obiettivo della cosiddetta immunità di gregge, aumentando costantemente il target (65%, 75%, 80% della popolazione), salvo poi concludere ciò che in ambito scientifico era già stato spiegato da tempo, ovvero che con questi vaçccini un’immunità capace di eradicare un virus con queste caratteristiche semplicemente non era ottenibile;

d) si è estesa d’ufficio di tre mesi la data di scadenza dei vaççini (perché le indicazioni delle case farmaceutiche si venerano quando serve, si interpretano liberamente altrimenti);

e) si sono cambiate le condizioni di refrigerazione dei medesimi vaççini;

f) si è estesa ad hoc la presunta durata ufficiale dell’immunità da 9 a 12 mesi, proprio mentre si aggiornava continuamente la durata effettiva della copertura conferita dai vari vaççini in un caleidoscopio di numeri (9 mesi? 6 mesi? 4? 2? Con rabbocchino o senza?)

g) si prospetta serenamente la somministrazione di una terza dose di vaççino (e poi basta?), senza che vi siano stati studi sistematici su efficacia e sicurezza della somministrazione;

h) si è chiusa la porta al riconoscimento di altri vaççini usati nel mondo, alcuni con funzionamento tradizionale a virus inattivato, senza fornire spiegazioni di sorta.

E si potrebbe continuare in un perdurante sterminio di ogni buona pratica scientifica, di ogni criterio di trasparenza, di ogni precauzione, di ogni dubbio, di ogni libertà di dibattito.

In tutta questa vicenda la “Scienza” ha fatto capolino soltanto nella veste di un cappello retorico per conferire autorità a decisioni politiche arbitrarie.

Ecco, se traete diletto dal ricattare il prossimo con una certificazione per vivere, se godete nel bullizzare ragazzini e adolescenti, nel negare la libertà fondamentale di autodeterminazione sul proprio corpo, benissimo, avete dietro tutta la forza dello stato, dunque potete farlo. La storia vi giudicherà.

Ma la scienza, la scienza per piacere lasciatela stare, perché la confondete continuamente col principio d’autorità, e niente vi è di più estraneo allo spirito scientifico.

 

[1] • Pomara C., et al. Post-mortem findings in vaççine-induced thrombotic thombocytopenia https://haematologica.org/article/view/haematol.2021.279075

• Perry et al., “Cerebral venous thrombosis after vaççination against COVID-19 in the UK: a multicentre cohort study”, in The Lancet

https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(21)01608-1/fulltext

[2] • Jane Woo, et al., “Association of Receipt of the Ad26.COV2.S COVID-19 Vaççine With Presumptive Guillain-Barré Syndrome – February-July 2021”,  JAMA,October 7, 2021, doi:10.1001/jama.2021.16496

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2785009

• Per un sunto giornalistico: https://quifinanza.it/info-utili/video/vaççino-covid-effetti-collaterali-johnson-astrazeneca/516937/?fbclid=IwAR3FwN0wn0hKUWDGpSw-fZXjCgD7mIdNj-0XTB6-Mr8GnvXkumfl-sfJ-mA

[3]             • Saif Abu Mouch, et al., Myocarditis following COVID-19 mRNA vaççination, in Vaççine  (https://doi.org/10.1016/j.vaççine.2021.05.087);

• Supriya S. Jain et al., COVID-19 Vaççination-Associated Myocarditis in Adolescents, in Pediatrics, 2021 – doi: 10.1542/peds.2021-053427 https://pediatrics.aappublications.org/content/early/2021/08/12/peds.2021-053427

• George A. Diaz et al., Myocarditis and Pericarditis After Vaççination for COVID-19

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2782900

• Montgomery et al., Myocarditis Following Immunization With mRNA COVID-19 Vaççines in Members of the US Militaryhttps://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/fullarticle/2781601

• Rose et al., A Report on Myocarditis Adverse Events in the U.S. Vaççine Adverse Events Reporting System (VAERS) in Association with COVID-19 Injectable Biological Products, in Current Problems in Cardiologyhttps://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0146280621002267?via%3Dihub

• Aye et al., Acute myocardial infarction and myocarditis following COVID-19 vaççination, in International Journal of Medicine, 29 September 2021

https://academic.oup.com/qjmed/advance-article/doi/10.1093/qjmed/hcab252/6377795

[4]             • Darrell, O. Ricke, Two Different Antibody-Dependent Enhancement (ADE) Risks for SARS-CoV-2 Antibodies, in Front. Immunol. 12:640093. doi: 10.3389/fimmu.2021.640093

• Nouara Yahi et al., Infection-enhancing anti-SARS-CoV-2 antibodies recognize both the original Wuhan/D614G strain and Delta variants. A potential risk for mass vaççination?, in Journal of Infection

https://www.journalofinfection.com/article/S0163-4453(21)00392-3/fulltext?fbclid=IwAR2At6Gy3AnLPHY4pWtKpJb3SmeQ1RljYplRz_oVopGew_YepQQLecA9X0Q

• Cheng et al., Factors Affecting the Antibody Immunogenicity of Vaççines against SARS-CoV-2: A Focused Review

https://www.mdpi.com/2076-393X/9/8/869

[5] • Watad et al, Immune-Mediated Disease Flares or New-Onset Disease in 27 Subjects Following mRNA/DNA SARS-CoV-2 Vaççination

https://www.mdpi.com/2076-393X/9/5/435

• Talotta, R., Do COVID-19 RNA-based vaççines put at risk of immune-mediated diseases? In reply to “potential antigenic cross-reactivity between SARS-CoV-2 and human tissue with a possible link to an increase in autoimmune diseases

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1521661621000024?via%3Dihub

[6] • Hernandez et al., “Safety of COVID-19 vaççines administered in the EU: Should we be concerned?”, in Toxicology Reports, 8 (2021) 871–879.

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2214750021000792

• Jiping Liu et al., Comprehensive investigations revealed consistent pathophysiological alterations after vaççination with COVID-19 vaççines, in Cell Discovery (2021) 7:99.

https://www.nature.com/articles/s41421-021-00329-3.pdf

[7] • Griffin, Sh., Covid-19: Fully vaççinated people can carry as much delta virus as unvaççinated people, data indicate, in BMJ 2021; 374:n2074  https://www.bmj.com/content/374/bmj.n2074?fbclid=IwAR1RfrBGtGkQlf_gxHLUzjCkVBlQNPrHiVsPoDcqXeQ49A9nggHyEBv07as

• Nidhi Subbaraman, How do vaççinated people spread Delta? What the science says

https://www.nature.com/articles/d41586-021-02187-1

• Singanayagam et al., “Community transmission and viral load kinetics of the SARS-CoV-2 delta (B.1.617.2) variant in vaççinated and unvaççinated individuals in the UK: a prospective, longitudinal, cohort study”, in The Lancet, 29 Ottobre 2021

https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00648-4/fulltext

• Kasen K. Riemersma et al., Shedding of Infectious SARS-CoV-2 Despite Vaççination,

https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.07.31.21261387v5

• Nguyen Van Vinh Chau et al., Transmission of SARS-CoV-2 Delta Variant Among Vaççinated Healthcare Workers, Vietnam

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3897733

[8] • Paul E. Alexander, et al. Early multidrug treatment of SARS-CoV-2 infection (COVID-19) and reduced mortality among nursing home (or outpatient/ ambulatory) residents, in Medical Hypotheses 153 (2021)

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34130113/

• Brian Procter, et al. Clinical outcomes after early ambulatory multidrug therapy for high-risk SARS-CoV-2 (COVID-19) infection

• https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33388006/

Kory, P., et al., “Review of the Emerging Evidence Demonstrating the Efficacy of Ivermectin in the Prophylaxis and Treatment of COVID-19”, in American Journal of Therapeutics, 2021 May-Jun; 28(3)

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8088823/?fbclid=IwAR3m5ePPYN1q6xUaHpIlOe0jHJufOZY98TS1bE4J5IZLdb6S08zrDpRppLo

• Santin et al., “Ivermectin: a multifaceted drug of Nobel prize-honoured distinction with indicated efficacy against a new global scourge, COVID-19”, in New Microbes and New Infections, Volume 43, September 2021

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2052297521000883?via%3Dihub

• Biancatelli et al., “Quercetin and Vitamin C: An Experimental, Synergistic Therapy for the Prevention and Treatment of SARS-CoV-2 Related Disease (COVID-19)” https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fimmu.2020.01451/full

• Huet et al., Anakinra for severe forms of COVID-19: a cohort study, The Lancet, July 2020

https://www.thelancet.com/journals/lanrhe/article/PIIS2665-9913(20)30164-8/fulltext

• Gautret et al. “Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID-19: results of an open-label non-randomized clinical trial”, in International Journal of Antimicrobial Agents

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0924857920300996?via%3Dihub

PS_

In tutta questa vicenda la “Scienza” ha fatto capolino soltanto nella veste di un cappello retorico per conferire autorità a decisioni politiche arbitrarie.
Ecco, se traete diletto dal ricattare il prossimo con una certificazione per vivere, se godete nel bullizzare ragazzini e adolescenti, nel negare la libertà fondamentale di autodeterminazione sul proprio corpo, benissimo, avete dietro tutta la forza dello stato, dunque potete farlo. La storia vi giudicherà.
Ma la scienza, la scienza per piacere lasciatela stare, perché la confondete continuamente col principio d’autorità, e non vi è niente di più estraneo allo spirito scientifico.

https://sfero.me/article/credere-scienza?fbclid=IwAR2SqyBfSW6UGSHPUfXaPxhEQSoj-2ecvuRyyWsWn_M42KcaaVG34B8eoek

Mafia, società e uomini dello Stato. Spunti dalle “considerazioni del Generale dei Carabinieri Mario Mori”

Dal 26 al 29 ottobre il quotidiano “Il Riformista” ha pubblicato un memoriale del Generale dei Carabinieri, ex-comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), Mario Mori a seguito della sua assoluzione definitiva dalle gravissime accuse di “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Una macchia indelebile, una nemesi crudele che avrebbe potuto colpire il generale e tutta la squadra che, sotto la guida dei giudici Falcone e Borsellino, era riuscita ad arrestare il capo di “Cosa Nostra” Totò Riina; quell’arresto avrebbe dovuto essere solo una tappa di un filone di indagine che mirava a scoprire e colpire la fitta trama di legami costruite dalle associazioni mafiose con gli ambienti imprenditoriali e delle pubbliche amministrazioni. Con l’assassinio di Falcone e Borsellino, la repentina chiusura delle inchieste nelle principali procure siciliane e i processi a carico dei singoli componenti dell’intera squadra, nel frattempo disciolta, impegnata in indagini così delicate, quell’arresto così clamoroso e promettente si rivelò in realtà l’annuncio dell’epilogo di una vicenda appena agli albori e conclusasi con la beffa, da vedere quanto determinata da coincidenze o da calcolo politico, di una possibile fine ignominiosa dei protagonisti sopravvissuti di quell’azione di indagine giudiziaria. L’assoluzione clamorosa del generale Mori, sia pure ormai attesa, ha goduto dei riflettori del sistema mediatico per non più di un paio di giorni. Meriterebbe ben altra attenzione. Il memoriale sembra cadere nell’ombra del dimenticatoio nel momento stesso della sua uscita. Si fa fatica addirittura a reperire copia fisica del quotidiano che ha ospitato il documento. Una volta terminata la pubblicazione e attesi e rispettati i diritti di esclusiva detenuti dal quotidiano, i blog di “Italia e il mondo” e del “corriere della collera” di Antonio de Martini hanno deciso di pubblicare a loro volta il testo con l’auspicio che siano numerosi i siti editoriali disposti a diffondere il memoriale. Nella loro linearità le considerazioni del generale Mori offrono numerosi spunti di riflessione, di azione politica ed anche di politica giudiziaria riguardo alla natura delle organizzazioni mafiose, alla rappresentazione agiografica del potere mafioso come minaccia ed antitesi al potere dello Stato, alla natura stessa del, per meglio dire dei poteri giudiziari i quali più che indipendenti, si rivelano essere autonomi e partecipi a pieno titolo delle dinamiche politiche e di potere, anche le più profonde ed oscure. Rappresentazione appunto agiografica che nella loro immagine più lineare sono offerti come corpi estranei, in quella più sottile sono evidenziati solo nel loro aspetto di poteri autonomi con la funzione militare ad oscurare il resto. E’ il terreno di pascolo sul quale per decenni si sono nutriti i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”, così bene inquadrati da Leonardo Sciascia. Se i classici ambiti di azione legati alla droga e ai traffici illeciti, pur clamorosi nelle loro dimensioni, contribuiscono a rafforzare questa rappresentazione limitativa del potere mafioso, la sua implicazione diretta e fondamentale negli appalti e nelle attività imprenditoriali lascia intuire e intravedere una ben altra natura riguardo ai suoi legami con i centri di potere e alle dinamiche di conflitto, collusione e compenetrazione nella società e negli apparati statali. Prospettive “inedite” che dovrebbero vellicare la curiosità dell’opinione pubblica e di chi ha il potere di intervenire. Sarebbe il modo migliore di cercare di uscire dalla commedia degli inganni e di rendere onore e giustizia a quei funzionari che si sono esposti a mille pericoli e che hanno rischiato invece di finire nell’onta, non solo nell’oblìo. Con i nostri mezzi alquanto irrisori cercheremo di offrire il contributo possibile alla chiarezza. Una chiarezza che dovrebbe ormai essere cristallizzata anche in qualche nome e cognome, per quanto di persone ormai attempate_Giuseppe Germinario

Considerazioni

Nelle interminabili discussioni con critiche, originate dall’attività operativa del ROS dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in quella via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: “ … Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni 2 espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella ( moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito.” Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: “ … La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio”. A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boos e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva 3 constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questa sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Molti, però, mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai 4 ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singole aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, ad un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perchè sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. 5 Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: “ … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …”; e proseguendo: “Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica … ” Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e sopratutto dove questa poteva portare, perchè alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il ROS. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater),attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “ quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati ed investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. 6 Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Nel periodo compreso tra le due stragi si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente: . 19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza; . 25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal ROS il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta; . 12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale; . 13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti; . 14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti); . 16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo; . 19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta; . 22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti; 7 . 14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano. Sulla base di questa sequenza di fatti ed alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di: .. spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (Giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani; .. commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”; .. chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti; .. smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco. Infine mi piacerebbe conoscere perchè le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della DDA di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento. Si tenga poi conto che queste dichiarazioni, si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi dalla Procura di Palermo, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso ad un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo. Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere 8 ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest‘ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti: . a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei così detti ” quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale; . a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse del Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato; . a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica. In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: . “ … Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione”. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (TAV). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della TAV, con la funzione di 9 eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (ATI) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il t. col. Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre percento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geom. Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del ROS. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi , imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi ed imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine. ***** Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati ad una serie di conclusioni: . il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti; . il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale; . stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura; . l’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la 10 stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici; . le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese; . alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni; . io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente. ***** A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che, per attività così delicate, si possano verificare singoli episodi di contrasto, frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria. I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di ” bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state 11 condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo. Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta.

https://corrieredellacollera.com/2021/10/29/concluso-il-caso-mori-si-riapre-il-caso-mori/#comments

https://leorugens.wordpress.com/2021/10/30/de-martini-non-dice-mai-fesserie-in-politica-estera-vediamo-dove-va-a-parare-con-la-vicenda-di-mori/

Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti, di Paolo Bellavite

Si sa che personalmente non sono contrario ai vaccini per partito preso, tanto che ho iniziato la “carriera” di vaccinologo nel 2017 con un libro intitolato “Vaccini sì, obblighi no”. Se dovessi riscriverlo, sceglierei il titolo “Vaccini se, obblighi no”, dove il “se” indica la valutazione accurata dei rischi e dei benefici. Comunque non sono un “novax”, sono solo contrario agli obblighi vaccinali, tomba della scienza e dell’etica medica, e sono contrario alla disinformazione. Non può esservi libertà di scelta se non c’è corretta informazione.

Uno degli argomenti di maggiore interesse per l’opinione pubblica riguarda gli effetti avversi dei vaccini e in particolare la mortalità. Per questo vale la pena commentare  un articolo di Antonio Socci, comparso su Libero del 13 Ottobre, intitolato “Ma perché qualcuno ha più paura del vaccino che del COVID? Una riflessione statistica”. Tale articolo è emblematico di quale confusione si possa generare su un argomento così delicato e per questo prendendo spunto da questo ritengo utile trattare in modo tecnico alcuni aspetti della questione. Per brevità, pubblico il testo nel mio fascicolo in “Sfero” in attesa di altre eventuali possibilità di pubblicazione.

Socci analizza il tema delle morti improvvise, che definisce “uno dei temi più diffusi, fra i Novax, forse quello che più alimenta la paura e il rifiuto della vaccinazione”. I cosiddetti “Novax” sono accusati di rilanciare sui socials le notizie di cronaca relative a morti di persone che da pochi giorni hanno fatto il vaccino, come se ciò fosse espressione di ignoranza di statistica. Successivamente, l’autore si lancia in considerazioni tecniche in difesa delle vaccinazioni che lasciano stupiti per la loro scarsa consistenza scientifica.

Già il fatto di chiamare “Novax” chi rifiuta questi  cosiddetti vaccini – in realtà sono sostanze biotecnologiche capaci di manipolazioni dell’espressione genica –  lascia perplessi, ma altrettanto criticabile è attribuire tale qualifica in senso dispregiativo a chiunque abbia dei motivi per esitare. Secondo Socci, la convinzione che il vaccino sia pericoloso sarebbe “un’idea vaga e del tutto indimostrata” e per supportare la sua difesa del vaccino ricorre ad un certo Omar Ottonelli, un economista, che si lancia in calcoli statistici dei morti post-vaccino per concludere che sarebbero morti lo stesso. Partendo dalle 176 mila persone che nel 2014 sono morte in Italia per malattie cardiache o cardiovascolari calcola che ogni giorno è statisticamente attesa la morte per le citate malattie di 8 persone per milione di abitante. Considerando che ci sono circa 6 milioni di persone che hanno assunto una dose di vaccino negli ultimi 20 giorni, ne deriva, secondo Ottonelli come riferito da Socci, che “si prevede la morte – per cause indipendenti dal vaccino – di circa 48 persone (appunto: 8 per milione) che hanno assunto un vaccino negli ultimi 20 giorni. Quindi ci si deve attendere addirittura che 2 o 3 sfortunati, ogni giorno, muoiano di infarto, trombosi, embolia o simili entro le 24 ore dal vaccino: tutto a prescindere dal vaccino stesso”. In breve, si lascia intendere che tutto l’allarme dei “novax” sui morti sarebbe un abbaglio.

L’argomento delle morti comunque attese è serio, viene ripetuto più volte ed è stato estratto dal cappello anche dal viceministro Sileri in un recente dibattito televisivo su “La7”.  Questo approccio denota scarsa conoscenza di problemi reali che interessano la vaccinologia e nella fattispecie la questione degli anti-COVID-19. Segnalo per punti gli errori e omissioni più gravi.

Il numero di decessi nei 20 giorni successivi al vaccino è probabilmente molto superiore al valore di 2-3 al giorno fatto credere da Socci/Ottonelli. Questo numero sarebbe corrispondente alla media dei morti dopo il vaccino se i sistemi di rilevazione fossero corretti. Purtroppo non è affatto così. I morti dopo il vaccino finora segnalati in Italia sono circa 600, quindi 10 per milione di abitanti, circa 2-3 al giorno, ma si tratta di farmacovigilanza “spontanea”, vale a dire che si segnalano solo i decessi che si ha tempo e voglia di segnalare. La farmacovigilanza si basa sulle segnalazioni “spontanee” e non su studi rigorosi basati sul follow-up dei vaccinati. Io e altri abbiamo stimato che di tutti gli eventi gravi che si verificano nei giorni e settimane seguenti l’inoculo, meno di uno su 100 viene effettivamente segnalato (1). Questo problema si verifica anche ai vaccini anti-COVID19 se si pensa solo al fatto che AIFA riferisce di circa 16 eventi avversi gravi ogni 100.000 dosi, mentre gli studi sperimentali per la registrazione, quelli pubblicati, hanno riportato un’incidenza di circa 4000 reazioni avverse gravi ogni 100.000 dosi (2).

Perché tali discrepanze? Le ragioni sono molteplici a partire dallo scarso interesse ad approfondire l’argomento da cui potrebbero derivare messaggi di allarme per la popolazione (su quanto questo atteggiamento negazionista sia etico si potrebbe discutere). In Europa, dove i sistemi di segnalazione funzionano un po’ meglio (anche se prevalentemente basati sempre sulla spontaneità) si tratta di 25.000 morti finora registrati, quindi 50 decessi per milione di abitanti. Prendendo per buona questa cifra (comunque sottostimata) si avrebbero in Italia 300 decessi ogni 6 milioni di abitanti, non i 48 di Ottonelli che sarebbero la mortalità attesa.

Ma la cosa più grave è che si segnalano solo i decessi che il volontario segnalatore ritiene che sia dovuto al vaccino, non tutti i decessi, come si dovrebbe fare in una farmacovigilanza corretta. Comunemente si crede che le segnalazioni debbano essere fatte solo se c’è il sospetto che la causa sia stata il vaccino, mentre invece le segnalazioni si dovrebbero fare in ogni caso e spetterebbe poi ad una commissione di esperti multidisciplinare stabilire se esiste un nesso causale. Che questo sia un vero problema che interessa anche le autorità sanitarie si dimostra leggendo quanto ha dichiarato il sottosegretario di Stato alla Salute Andrea Costa (10 settembre 2021) in risposta a una interpellanza parlamentare del deputato Maria Teresa Bellucci: “La sospetta reazione avversa alla vaccinazione viene segnalata quando sussiste un ragionevole sospetto che gli eventi siano correlati e si necessario effettuare approfondimenti”. Questo concetto è sbagliato e fuorviante, porta inevitabilmente ad una preventiva censura del fenomeno, che certo non fa comodo considerare a chi parte dall’idea che un vaccino sia un bene sempre e comunque. È ovvio che se si procede come dichiara il sottosegretario Costa, molte reazioni avverse non vengono segnalate perché chi le osserva non “sospetta” che siano correlate. È noto che all’inizio della campagna vaccinale molte segnalazioni di fenomeni trombotici erano considerate come casuali o non correlate perché sembrava impossibile che i vaccini potessero causare trombosi. Eppure vari autori tra cui il sottoscritto già spiegarono il meccanismo con cui questi vaccini provocano la trombosi (3-5) e ne informai AIFA ed EMA già in febbraio 2021.

Un altro clamoroso errore del calcolo dei 2-3 morti al giorno attesi sta nel fatto che questo numero risulta da una stima della mortalità immaginata come distribuita uniformemente nel corso dei 20 giorni dopo il vaccino (48 morti distribuiti in 20 giorni). Essendo un economista, Ottonelli probabilmente non sa che le morti  dopo il vaccino (non quelle per altre malattie di più lunga durata la cui entità non si conosce ancora) non si distribuiscono in modo uniforme ma hanno un picco nei primi due giorni (vedi figura gentilmente concessa dal dr. P.A. McCoullough, Chief Medical Advisor, Truth for Health Foundation, ottenuta sulla base dei dati del sistema di segnalazione VAERS americano).

Andamento temporale dei decessi
Andamento nel tempo delle morti dopo vaccini anti-COVID-19 negli USA

Questo dimostra che non è corretto paragonare un andamento stabile nel tempo come quello delle malattie cardiovascolari (48 morti attesi in 20 giorni) con quello della mortalità da vaccino (concentrata in 2 o tre giorni). Stupisce che uno statistico, per quanto economista, faccia un errore del genere. Inoltre, dal grafico si vede chiaramente che l’alta mortalità che segue alla vaccinazione va decrescendo nei giorni successivi fino a raggiungere la normalità dopo circa un mese. Se il fenomeno fosse dovuto al “rumore di fondo” per la normale mortalità da malattie cardiovascolari, si dovrebbe osservare un andamento più o meno stabile nel periodo considerato. Invece il fatto che il rischio di morte decresca man mano che passa il tempo dopo il vaccino, fino ad approssimare il tasso di morte normale è proprio indicativo del fatto che sia stato proprio quell’intervento ad innescare la variazione statistica.

Se poi Socci volesse informarsi meglio di cosa dicono veramente i dati della vaccinovigilanza, scoprirebbe la differenza drammatica di segnalazioni tra i vaccini comuni (tipo gli antiinfluenzali) e questi di ultima fattura. Si veda ad esempio quanto emerge dagli USA: le morti dopo i vaccini erano meno di 200 all’anno, mentre solo nel 2021 hanno superato i 25000  (figura gentilmente concessa dal dr. P.A. McCoullough, con dati indicativi, di qualche mese fa).

Dati VAERS
Reports di vaccinovigilanza di eventi avversi (sinistra) e dei decessi (a destra) in diversi anni negli USA. I dati del 2021 sono indicativi e parziali, ai primi di ottobre i decessi erano già oltre 20.000

Un simile rapporto tra segnalazioni di morti dopo i vaccini c’è anche in Italia, laddove i morti segnalati  solitamente erano meno di una ventina mentre ora siamo già a oltre 600.  Come si spiega la differenza di segnalazioni di 30 volte, nello stesso sistema di rilevazione e nello stesso database, visto che la mortalità “attesa” per malattie cardiovascolari è rimasta invariata? Socci non lo dice, non lo sa, o non lo vuol dire.

L’articolo di “Libero” poi si lancia in banali considerazioni sulla “correlazione”, sostenendo che “è comprensibile che l’impatto emotivo di questi tragici eventi possa indurre familiari e amici della persona morta a immaginare una correlazione con il vaccino e tutto questo solitamente finisce sulle cronache dei giornali che parleranno della morte improvvisa di una persona appena vaccinata. Ma non ha senso stabilire una correlazione automatica, l’eventuale correlazione deve essere stabilita caso per caso dai medici. Non sorprende dunque se molte analisi mediche tendono sinora ad escludere, con discreta regolarità, l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto con il vaccino.” Si legge anche che “Riflettere con serena razionalità su questi dati dovrebbe indurre a non stabilire più correlazioni automatiche e dovrebbe far capire che è obiettivamente sbagliata la paura del vaccino.”  La difesa del vaccino diventa poi pura propaganda quando Socci rilancia l’opinione di Burioni: “Non dovete avere paura di un vaccino che è tra i farmaci più sicuri della Terra e vi protegge da un virus che è tra i più pericolosi della Terra. Vaccinatevi. Con la salute non si scherza”. Francamente, sono proprio affermazioni superficiali come queste che paiono degli “scherzi”, e di cattivo gusto.

Tralascio di commentare altre idee del tipo che il vaccino “è più sicuro di quanto lo sia il viaggio in auto che ogni giorno facciamo per andare a lavoro” o  che “possono esserci effetti collaterali, come per tutti i farmaci, ma non in proporzioni che possano destare allarme collettivo” o “del resto può essere pericolosa qualsiasi medicina ma non risulta che i Novax rifiutino farmaci e cure ospedaliere.”

Quando tratta della causalità Socci dovrebbe astenersi di entrare in campi che non conosce. È vero che spesso la gente ragiona “post hoc, propter hoc”, cioè stabilisce una causalità sulla base di una semplice correlazione temporale.  D’altra parte, si usa spesso questo stesso “ragionamento” quando si sostiene che dopo l’introduzione dei vaccini le malattie sono diminuite. Oltretutto non risulta.

All’opposto di quanto corre sui tanto disprezzati “socials”, sulle cronache del mainstream nella maggior parte dei casi di morti dopo il vaccino si legge subito che non vi sarebbe correlazione. Quanto questa conclusione sia di solito affrettata si può facilmente capire dal fatto che la correlazione causale (oltre che temporale) tra una certa malattia e la vaccinazione si può stabilire statisticamente solo dopo una lunga serie di studi di confronto tra gruppi di soggetti comparabili (fase 2-3) , che invece sono ancora in corso. Ora tali studi erano previsti di durata di almeno 24 mesi, al termine dei quali si sarebbe dovuto fare un bilancio e dare finalmente la autorizzazione definitiva alla vendita. Tuttavia ben presto si è cominciato a vaccinare anche i volontari del gruppo di controllo (6). Ma così facendo si è vanificato lo studio di lungo corso e non si potrà avere la prova rigorosa di quanto dura la protezione e neppure delle conseguenze dei vaccini a medio-lungo termine. Una cosa è certa, in assenza degli studi controllati, non si può escludere la correlazione causale per alcune malattie e prima che si abbiano valutazioni statistiche serie sull’incidenza dei vari eventi che si registrano, con metodi adeguati di farmacovigilanza e di stima. Certe evidenze statistiche stanno emergendo proprio, ad esempio per l’amento di casi di sindrome di Guillain-Barré, di miocarditi, di herpes zoster, trombosi di vario tipo, autoimmunità, problemi mestruali e via dicendo.

Un aspetto della questione che sfugge totalmente a Socci riguarda il metodo per valutare “nesso di causalità”. Bisogna sapere che l’analisi della correlazione è fatta, come scrive la stessa AIFA, col metodo indicato dall’OMS, il quale però è difettoso e si presta facilmente a errori, come io e altri abbiamo dimostrato in vari lavori (1, 7, 8). I difetti sono molti ma il più clamoroso sta nel fatto che la correlazione è esclusa se esistono “altre cause” che potrebbero aver determinato l’evento. Ad esempio, se si verifica la morte di un vaccinato che aveva anche malattie di cuore, o tumori, o malattie di fegato, o disturbi della coagulazione, la causa è attribuita a queste malattie preesistenti e non al vaccino. Questa procedura è seguita negli stessi rapporti dell’AIFA e spiegato in dettaglio nel rapporto n. 3. Purtroppo, il metodo di esclusione delle concause è viziato da un grave difetto tecnico, che sfugge a chi non conosce la patologia generale: le reazioni avverse più gravi di solito sono dovute proprio alla interazione tra il prodotto iniettato e una predisposizione o suscettibilità del soggetto. Si tratta, in altre parole, di due o più CON-CAUSE che interagendo determinano l’evento avverso. Questo equivoco sulle correlazioni, oltre alla scarsa efficacia della farmacovigilanza, sta sbilanciando la valutazione dei rischi e benefici dei vaccini rispetto alla malattia. Infatti, nel caso della morte in soggetti positivi, la causa di morte viene attribuita al virus anche se ci sono altre cause come quelle che abbiamo menzionato. Alcuni autori hanno cercato di valutare il nesso di causalità in una serie di decessi dopo i vaccini anti-covid-19 negli USA e hanno riscontrato che solo nel 14 % dei casi si poteva escludere la responsabilità del vaccino stesso.(9)

Esistono vari altri indicatori dell’aumento di mortalità dopo l’introduzione delle vaccinazioni anti-COVID-19 ma non è questa la sede per trattarli, essendoci limitati a trattare solo alcuni aspetti della questione. In conclusione, spero che questo scritto serva a confutare le facilonerie statistiche che generano errori gravi nella interpretazione dei dati su un tema serio come quello dei danni gravi da vaccino.

Riferimenti bibliografici

1. Bellavite P, Donzelli A. Adverse events following measles-mumps-rubella-varicella vaccine: an independent perspective on Italian pharmacovigilance data. F1000Res. 2020 2020;9:1176. doi:10.12688/f1000research.26523.2 [doi].

2. Polack FP, et al. Safety and Efficacy of the BNT162b2 mRNA Covid-19 Vaccine. N Engl J Med. 2020 12/31/2020;383(27):2603-2615. doi:NJ202012103832702 [pii];10.1056/NEJMoa2034577 [doi].

3. Zhang S, et al. SARS-CoV-2 binds platelet ACE2 to enhance thrombosis in COVID-19. J Hematol Oncol. 2020 9/4/2020;13(1):120. doi:10.1186/s13045-020-00954-7 [pii];954 [pii];10.1186/s13045-020-00954-7 [doi].

4. Suzuki YJ, Gychka SG. SARS-CoV-2 Spike Protein Elicits Cell Signaling in Human Host Cells: Implications for Possible Consequences of COVID-19 Vaccines. Vaccines (Basel). 2021 1/11/2021;9(1). doi:vaccines9010036 [pii];vaccines-09-00036 [pii];10.3390/vaccines9010036 [doi].

5. Bellavite P. Renin-Angiotensin System, SARS-CoV-2 and Hypotheses about Adverse Effects Following Vaccination. EC Pharmacology and Toxicology. 2021 2021;9(4):1-10. doi:10.31080/ecpt.2021.09.00592.

6. Doshi P. Covid-19 vaccines: In the rush for regulatory approval, do we need more data? BMJ. 2021 May 18;373:n1244. Epub 2021/05/20. doi:10.1136/bmj.n1244. Cited in: Pubmed; PMID 34006591.

7. Bellavite P. Causality assessment of adverse events following immunization: the problem of multifactorial pathology. F1000Res. 2020 2020;9:170. doi:10.12688/f1000research.22600.1 [doi].

8. Puliyel J, Naik P. Revised World Health Organization (WHO)’s causality assessment of adverse events following immunization-a critique. F1000Res. 2018 2018;7:243. doi:10.12688/f1000research.13694.2 [doi].

9. McLachlan S. et al, Analysis of COVID-19 vaccine death reports from the Vaccine Adverse Events Reporting System (VAERS) Database Interim Results and Analysis. Research Gate. 2021;Doi:10.13140/RG.2.2.26987.26402.

Tre paradossi di un assalto_di Giuseppe Germinario

Un mondo a rovescio! Almeno per chi ha vissuto e conosciuto il mondo di quaranta anni fa e più.

  • La sorpresa sardonica è tutta per Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, nelle vesti di apostolo e paladino delle libertà dal Green Pass e dalla “dittatura sanitaria”.

  • L’inquietudine serpeggia nelle parole di Giorgia Meloni che adombra il lezzo sulfureo della provocazione organizzata che sia quella autonoma di un gruppo di facinorosi o quella perpetrata e programmata, come più probabile, grazie a probabili complicità e direttive.

  • Il sarcasmo aleggia quando la quasi totalità dei gruppi dirigenti, specie quelli progressisti, ostentano la loro indignazione su un atto così proditorio e “tempestivo”, ma dimentichi dell’essenziale del loro passato.

LA SORPRESA SARDONICA

Tutti i movimenti a carattere rivoluzionario ed eversivo giustificano i propri atti, anche i più brutali, sotto il vessillo della libertà. In suo nome si compiono le azioni più coraggiose, gli atti più efferati, le conquiste più ambiziose e le nuove e peggiori forme di sopraffazione. L’enfasi dell’azione diretta individuale, il carattere di per sé purificatore ed emancipatore di essa, lo spiritualismo orientato al richiamo alla tradizione e a valori immobili come programma politico sono gli ingredienti necessari a tarare un movimento e a segnare la sua deriva progressiva verso un anarchismo individualistico reso politicamente praticabile paradossalmente attraverso una visione rigidamente gerarchica e militare del proprio impegno sino ad assumere un carattere terroristico. Un vicolo cieco che prima o poi, per sopravvivere e non soccombere, porta ad essere strumento e complice, volente e nolente, delle trame di potere più oscure dei centri decisionali. È quanto è successo a Roberto Fiore, a Terza Posizione e ai NAR negli anni ‘70 e ‘80. Uscito indenne con un salvacondotto che gli ha permesso di fuggire ed arricchirsi in Gran Bretagna. Difficile che la sua salvezza non abbia richiesto il pagamento di un qualche pegno pesante qui in Italia e nel luogo di esilio. Ritorna ormai attempato in Italia, ma assieme ad altri commilitoni pronto ad innescare pesanti provocazioni come l’assalto recente alla CGIL. La contingenza suggerisce la volontà di influire sul ballottaggio elettorale; uno sguardo più lontano suggerisce qualcosa di molto più profondo legato alla gestione della pandemia e della profonda ristrutturazione degli assetti sociali e politici.

L’INQUIETUDINE CHE SERPEGGIA

Ha ragione quindi Giorgia Meloni ad alludere sia pure timidamente alla “eccessiva” facilità di movimento di personaggi ormai attempati e conosciuti per il loro particolare impegno politico e a ricondurre la responsabilità di quanto accaduto per lo meno al Ministro dell’Interno. Dovrebbe essere molto più chiara ed esplicita visto che la sua formazione politica, FdI, è la lontana erede del partito che spesso e volentieri ha offerto qualche copertura alle formazioni stragiste di quegli anni. In mancanza, un ulteriore pesante tassello sarà posto al disegno di isolamento e ghettizzazione del suo partito, funzionale alla creazione di una opposizione di comodo. Una morsa che sembra ormai accompagnarla, con tempi e modalità diverse, alla parabola discendente intrapresa da Salvini.

IL SARCASMO CHE ALEGGIA

La prontezza e la decisione con la quale tutto il campo progressista ha reagito alla pesante provocazione nasconde un lato oscuro. La generazione detentrice delle principali redini del potere politico di matrice progressista ha vissuto in prima persona o si è formata nella fase immediatamente successiva agli attentati terroristici e stragisti condannando quegli atti e denunciando le connivenze, le infiltrazioni e le strategie di centri e settori istituzionali nazionali ed esteri. “La strage di Stato” era all’incirca il motivo conduttore di quegli anni. Sarebbe stato quasi scontato almeno ipotizzare qualcosa di analogo senza nemmeno lo sforzo di dover individuare nuovi protagonisti, visto l’evidente problema di ricambio generazionale. Non lo fanno e il motivo è facilmente intuibile.

CONCLUSIONI

I pretesti, le provocazioni, le trappole sono parti integranti dell’armamentario della lotta politica, a maggior ragione nelle fasi più concitate di scontro e nei momenti di scarsa credibilità di un ceto politico. Solitamente favoriscono maggiormente le forze che più controllano le leve e i centri di potere e di influenza.

Trovano condizioni più favorevoli di esercizio quando le questioni sono mal poste e gli obbiettivi individuati dai movimenti di opposizione scarsamente definiti se non fuorvianti.

Nella fattispecie con l’introduzione delle mascherine, il green pass, le chiusure il problema posto dalla contestazione è quello della limitazione delle libertà e dell’incostituzionalità dei provvedimenti, quando il tema reale ed imposto è quello della necessità dello stato di emergenza, delle modalità di applicazione e delle dinamiche di accentramento e di efficacia dell’esercizio del potere con tutte le manipolazioni connaturate o che fungono da corollario.

Può apparire una sottigliezza insignificante; in realtà è dirimente in quanto riconosce la possibilità teorica dell’introduzione di uno stato d’emergenza e costringe ad entrare nel merito della gravità dell’epidemia, del disordine istituzionale, delle misure necessarie in funzione degli obbiettivi da raggiungere e delle manipolazioni politiche ormai sempre più evidenti di questa condizione. Dal punto di vista delle dinamiche politiche può contribuire a superare la fossilizzazione del confronto antitetico-polare tra la visione complottista del grande disegno totalitario perpetrato da una cupola onnipotente e onniveggente e quella tecnocratica-positivista fondata sul verbo a prescindere degli esperti riconosciuti istituzionalmente; una fossilizzazione del dibattito su binari inesorabilmente tracciati di fatto dai secondi.

A corollario induce a porre realisticamente un altro aspetto dalle implicazioni analoghe: quello dell’esorcizzazione e demonizzazione del problema dell’acquisizione dei dati e del controllo di questi e dei comportamenti. Nella realtà qualsiasi progresso scientifico e tecnologico mira a, parte da una crescente capacità di controllo di dati e procedure. Il problema da affrontare è quello dell’utilizzo possibile e del riconoscimento istituzionale di questi da parte dei detentori piuttosto che la limitazione dei flussi.

Sembrano questioni avulse; sono invece dirimenti per liberare la dinamica politica e soprattutto i movimenti contestatori dalla gabbia inesorabile che hanno costruito i centri decisori dominanti, più fragili nella realtà rispetto alle apparenze, ma resi forti anche grazie alla complicità delle stesse vittime.

Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

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