UN POPOLO CON UN PASSATO MA SENZA UN FUTURO, VITTIMA DEL DRAGO MALEFICO, di Gianfranco Campa

 

UN POPOLO CON UN PASSATO MA SENZA UN FUTURO, VITTIMA DEL DRAGO MALEFICO.

Xinjiang è considerata, da parte del governo di Beijing, insieme alle regioni del Guangxi, Mongolia Interna, Ningxia e Tibet, una regione “autonoma.” In Occidente Xinjiang è conosciuto come il Turkestan Orientale per distinguerlo dal Turkestan Russo.

La regione di Xinjiang è un’area di maestose montagne e di vasti bacini desertici. La sua popolazione, dedita principalmente all’agricoltura e alla pastorizia è conosciuta con il nome di Uyghurs (Uiguri). Gli Uiguri sono di religione musulmana e, secondo l’ultimo censimento cinese, l’attuale popolazione Uigura supera gli 11 milioni. Invece, secondo fonti occidentali, la reale popolazione Uigura nel Turkestan Orientale supererebbe i 15 milioni. Gli Uiguri parlano un dialetto turco e sono considerati quindi di etnia turca. Lo Xinjiang ha la più alta concentrazione di musulmani nella Repubblica Cinese e per questo motivo i problemi degli Uiguri sono complicati da risolvere. La repressione già attuata sui religiosi Tibetani e Cristiani, con gli Uiguri si amplifica e diventa ancora più spietata.

Un po di storia: Xinjiang fu annessa al territorio cinese sotto la dinastia Qing nel XVIII secolo. Il Regno islamico Uiguro del Turkestan orientale mantenne la sua indipendenza fino alla invasione dell’Impero Qing (Manchu), avvenuta nel 1876. Tornò sotto il controllo locale in una forma semi-indipendente per gran parte del periodo repubblicano (1912-49) e fu incorporato nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) dall’esercito comunista nel 1949. In quel periodo la piu grande maggioranza etnica era quella Uigura. Dopo gli Uiguri c’erano le comunità più piccole originarie dell’ Asia Centrale come ad esempio i Kazaki, i Mongoli e i Tagiki, oltre agli Han e Hui provenienti dalle province cinesi orientali.

Xinjiang occupa l’angolo nord-occidentale del paese. Xinjiang ha una estensione di 1.626.000 chilometri quadrati, piu o meno quattro volte l’Italia. Confina con le province cinesi di Qinghai e Gansu ad est,  il Kirghizistan e il Tagikistan ad ovest, l’Afghanistan e il territorio del Kashmir a sud-ovest, la regione autonoma del Tibet a sud, la Russia e la Mongolia a nord-est. Xinjiang è la regione più grande della Cina ed è anche la più ricca di risorse naturali, soprattutto gas e carbone; inoltre la sua posizione geografica è altamente strategica per la Cina. Una locazione importante per lo scambio commerciale e i rapporti con l’area centro asiatica ed europea.

Negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli sforzi dal governo di Beijing per integrare l’economia locale con quella del resto del paese. Ma come è già capitato con la regione “autonoma” del Tibet-Chengguan, l’integrazione economica-sociale è accompagnata sempre da un consistente aumento della popolazione cinese a scapito della popolazione locale. Sono milioni i coloni Cinesi che si sono trasferiti nello Xinjiang, appropriandosi delle migliori terre, delle proprietà più appetibili e dei lavori più remunerati ed importanti a scapito degli Uiguri.

Nel caso dello Xinjiang, questa politica di “integrazione” ha portato risultati ben più drammatici rispetto “all’integrazione” del distretto di Chengguan. La sopravvivenza e il futuro degli Uiguri è messo in discussione da una repressione del governo cinese senza precedenti, soprattutto perché gli Uiguri non si sentono affatto cinesi e rivendicano totale indipendenza da Beijing. Di conseguenza questo ha portato negli anni a tensioni e violenze tra gli Uiguri e i Cinesi, con attacchi contro bersagli Cinesi da parte di separatisti Uiguri. Per questo motivo la repressione di Beijing è diventata violenta e sistematica. Xinjiang è ora considerata la regione piu militarizzata della Cina. Si calcola che un cittadino cinese su tre, che si è trasferito e vive in Xinjiang, appartenga alle forze di sicurezza governative.

Nel corso degli anni, gli Uiguri hanno subito pesanti discriminazioni e soppressioni culturali da parte dello Stato Centrale. Sono state messe in atto una moltitudine di politiche restrittive e persecutorie contro gli Uiguri. Si va dalla censura letteraria di qualsiasi documento che esprime supporto per il popolo Uiguro e critica per il governo Cinese, punibile con la pena di morte, fino al divieto di partecipare al pellegrinaggio alla Mecca, permesso solo agli ultra sessantenni anch’esso  con fortissime restrizioni.

Le moschee, quelle che non sono state rase al suolo, sono soggette a una sorveglianza dura e capillare.

Ai genitori Uiguri è vietato assegnare ai propri figli nomi musulmani tradizionali e i maschi adulti sono obbligati a radersi la barba.

Gli Uiguri non trovano pace neanche dopo la morte: nel tentativo di sradicare la sepoltura tradizionale Uigura e le sue tradizioni funebre, il governo cinese costringere gli Uiguri a cremare i propri cari.

L’attivista Uigura-Americana Rushan Abbas continua la sua crociata nel sollecitare l’opinione americana agli orrori e alla tragedia del popolo Uiguro: Sono cresciuta nella ricca cultura degli Uiguri, in una regione occupata dalla Cina comunista conosciuta come Xinjiang (noto anche come Turkestan orientale). Ho assistito alla repressione della Rivoluzione culturale in giovane età – mio nonno è stato incarcerato e mio padre è stato portato in un campo di rieducazione. Come studente della Xinjiang University, sono stata una degli organizzatori delle dimostrazioni a favore della democrazia a metà e alla fine degli anni ’80. Quando sono arrivata in America nel 1989, ho portato con me i miei ideali e le mie esperienze. Da allora, ho sempre fatto una campagna per i diritti umani della mia gente dedicando gran parte della mia vita al racconto della loro lotta e sopravvivenza”

Secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sarebbero circa 3 milioni gli Uiguri,  sottoposti a carcerazione in campi di concentramento nello Xinjiang. Dalle accuse per l’impiego di campi di concentramento, lanciate da organizzazioni di diritti civili, da espatriati Uiguri, dal governo Trump, il governo cinese si è difeso sostenendo che queste strutture, più o meno 44 campi, sono centri di formazione professionale che insegnano corsi come sartoria, assemblaggio elettronico e lingua cinese.

Il problema è che questi centri, secondo testimonianze attendibili, non sono altro che moderni campi di concentramento, completi di guardie armate, recinti di filo spinato con le persone che vivono dentro sottoposte a un regime di lavori forzati. All’interno i prigionieri sono indottrinati con la propaganda, costretti a rinunciare all’Islam, a mangiare carne di maiale e a bere alcolici in violazione delle loro convinzioni religiose. Se ciò non bastasse i detenuti sono soggetti a stupri e torture. Inoltre, migliaia di bambini Uiguri vengono separati dalle loro famiglie e spediti in orfanotrofi statali, dove crescono dimenticando l’identità Uigura e diventano fedeli membri del Partito Comunista Cinese.

Come se non bastasse, gli Uiguri sono anche vittime prescelte della cosiddetta tratta di organi. La raccolta di organi in Cina è iniziata negli anni ’60 ed è diventata un affare criminale sponsorizzato dallo stato cinese stesso. Un documentario cinese sull’espianto di organi: “Harvested Alive – 10 Years of Investigations”, sostiene che “Decine di migliaia di persone sono state giustiziate in segreto in Cina e i loro organi raccolti per la chirurgia del trapianto. Chi sono queste vittime? Queste persone sono per lo più Uiguri, tibetani, cristiani non affiliati alla chiesa statale e praticanti del Falun Gong, che sono stati incarcerati per ragioni politiche e religiose dal governo cinese “.

Nel nome della “lotta al terrorismo” la Cina ha trasformato l’intera provincia dello Xinjiang in un gigantesco regime di sorveglianza. Le telecamere si trovano ovunque: all’ingresso di supermercati, strade, scuole, aeroporti, stazioni ferroviarie e via dicendo. La polizia e l’esercito pattugliano l’intero territorio. Posti di blocco e controlli di identità sono sistematici, nessuno è escluso

La repressione degli Uiguri va anche oltre i confini Cinesi. Uiguri espatriati, fuggiti dalla Cina, vengono molestati e minacciati usando i famigliari rimasti nello Xinjiang come strumenti di ricatto. Sono molteplici le testimonianze di Uiguri residenti in Europa e in America, testimoni delle continue intimidazioni da parte del governo Cinese.

Ci sono anche migliaia gli Uiguri scomparsi, svaniti nel nulla. Purtroppo la maggior parte di questi nuovi “desaparecidos” in versione orientale, non hanno né un nome, né un cognome. Quei pochi a cui possiamo attribuire un’identità, sono parenti o amici delle famiglie di Uiguri residenti all’estero, che disperatamente sollecitano e invocano giustizia e aiuto ai governi e ai mass-media occidentali.

Fuggire dallo Xinjiang è diventato virtualmente impossibile. Chi è scappato lo ha fatto negli anni passati, ma ora la sorveglianza dei Cinesi è talmente ferrea, capillare da essere praticamente impossibile lasciare il paese. Lo Xinjiang come un’immensa prigione per milioni di persone di etnia e religione diversa da quella auspicata dal governo Cinese. Quelli che sono scappati lo hanno fatto attraverso il Kazakistan e la Turchia, dove molti Uiguri fuggiti dalla Cina si sono rifugiati.

I mass media dovrebbero in teoria essere cassa di risonanza, nel denunciare la Cina per la situazione e il trattamento riservato al popolo Uiguro, considerando che proprio i giornalisti occidentali non sono benvenuti nello Xinjiang. Pochi sono quelli che sono riusciti ad infiltrarsi, prendendosi rischi enormi.

Per anni la repressione contro gli Uiguri è rimasta nascosta agli occhi degli occidentali, ignorata dai politici e dai mass media, per ragioni politiche, per non compromettere i sostanziosi affari delle multinazionali Europee e Americane con la Cina. Politici comprati a suon di favori, in cambio di un silenzio lacerante, ai danni di popolazioni, culture e tradizioni perseguitate e sistematicamente soppresse; come gli Uiguri, così i Tibetani e i Cristiani.

Gli Occidentali, quegli stessi che si stracciano le vesti se ti permetti di criticare qualsiasi aspetto del mondo Musulmano, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla tragedia degli Uiguri. Gli Occidentali, quelli che predicano i diritti civili e le violazioni di questi diritti, sono silenziosi o ignoranti sulla tragedia in atto nel Xinjiang. Gli Occidentali, quelli che predicano la pace e l’accoglienza, sono silenziosi o ignoranti di fronte a i campi di concentramento dello Xinjiang. Gli Occidentali, quelli che auspicano stretti accordi commerciali e finanziari con la Cina, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla sistematica scomparsa della cultura Uigura.

Gli Occidentali che hanno sanzionato e criticato la Russia per apparenti violazioni sui diritti delle minoranze caucase, sono silenziosi o ignoranti di fronte alle violazioni dei diritti degli Uiguri. Gli occidentali che hanno sanzionato e criticato le orde Putiniane, colpevoli di aver “profanato” i confini di altri paesi, sono silenziosi o ignoranti di fronte alla violazione del territorio Tibetano e di quello di Xinjiang.

Anche le nazioni dell’Asia centrale non sono esenti da critiche. Dagli anni ’90 la Cina è presente negli ex Stati sovietici dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) perché queste nazioni volevano che la Cina aiutasse le loro economie e scoraggiasse i russi dal cercare di dominare la regione come hanno fatto nel passato. Per decenni questi stati sono rimasti in silenzio di fronte alla tragedia degli Uiguri. Questa mancanza di coraggio da parte delle nazioni musulmane e da attribuire principalmente a i rapporti finanziari ed economici con la Cina. Paesi schiavi del denaro, sotto forma di investimenti cinesi come fonte di schiavitù. Paesi come il Pakistan, che lentamente si sta liberando dal giogo americano solo per aprirsi e incatenarsi a quello Cinese. La paura congela questi paesi al silenzio, per la consapevolezza che la Cina può ritirare, se vuole, gli investimenti promessi a seconda di come i paesi beneficiari si comportano nei confronti della Cina stessa. Però dall’altro lato, dovessero questi paesi asiatici/musulmani rompere con la Cina, per il governo di Beijing questo diventerebbe un problema enorme visto il crescente numero di investimenti economici fatto in questi stessi stati, incluso il mastodontico investimento dell’ OBOR (One Belt, One Road-Nuova Via della Seta).

A complicare le cose per i Cinesi si sono messi gli Stati Uniti del fastidioso, irritante, provocatorio, Donald Trump, che le regole della geopoltica e diplomazia internazionale tradizionale non le vuole proprio seguire. Un cavallo pazzo che corre per sè, senza allinearsi alla logica imposta dallo status-quo.  E cosi si è messo a minacciare la Cina, come aveva già fatto e tuttora fa`con la Corea del Nord e con l’Iran, dicendo di voler imporre sanzioni alla potenza asiatica per i campi di detenzione dove sono racchiusi gli Uiguri e dove vengono lavorati molti dei prodotti tessili destinati ad arricchire le collezioni di Gucci, Prada, Chanel, usando il cotone della regione dello Xinjiang.

Dovesse Trump passare dalle parole ai fatti; I fighetti e le fighette della moda del lusso, dovrebbero cominciare a rassegnarsi a pagare molto di più per i loro acquisti di marca.

Dopo l’aumento delle tariffe imposte a Beijing, ormai i dubbi sulla serietà delle minacce di Trump dovrebbero essere evaporate. Ironia della sorte; l’unico lumicino di speranza, l’ultimo, prima che cali il buio totale sul popolo e la cultura Uigura e offerto dell’ammazza draghi; Donald J. Trump, quello stesso Trump che era visto dal mondo Musulmano come una minaccia alla loro esistenza…

https://www.rfa.org/english/news/uyghur

https://uyghuramerican.org/

https://www.cnn.com/2019/05/12/middleeast/turkey-uyghur-community-intl/index.html

https://www.uyghurcongress.org/en/

https://www.thechinastory.org/keyword/xinjiang/

 

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico_Intervista su “scenari economici”

Gianfranco La Grassa ripropone in questa intervista la sua chiave di lettura delle dinamiche sociopolitiche in corso: la teoria del conflitto tra centri strategici. In Italia uno dei tentativi più riusciti di superamento delle categorie di pensiero politico dominanti nel XX secolo_Giuseppe Germinario

Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici, conflitto strategico

https://scenarieconomici.it/intervista-esclusiva-a-gianfranco-la-grassa-crisi-economica-mutamenti-geopolitici-conflitto-strategico/

Per Scenari Economici, un’intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa, già docente di economia politica nelle Università di Pisa e Venezia, studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica. Autore di decine di saggi pubblicati con le più importanti case editrici italiane (Editori, Feltrinelli, Dedalo, ManifestoLibri, Mimesis) avendo traduzioni in varie lingue. Fra gli ultimi lavori pubblicati: Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli (2015), Tarzan vs Robinson. Il rapporto sociale come conflitto e squilibrio (2016), L’illusione perduta. Dal modello marxiano verso il futuro (2017), In Cammino – Verso una Nuova Epoca (2018). Qui la sua bibiografia completa.

1. Nel nuovo anno uscirà il suo libro su “Crisi economiche e i mutamenti geo(politici)” per l’editrice Mimesis. La sua interpretazione dei fenomeni finanziari e di quelli economici in generale è molto differente da quella delle scuole di pensiero dominanti. Lei propone un diverso livello teorico per interpretare la crisi delle società capitalistiche, parlando di terremoti di superficie che interessano la sfera economico-finanziaria e di scontri in profondità che interessano quella (geo)politica-militare. Quest’ultimi sarebbero più decisivi perché attinenti alla “potenza”. Di cosa si tratta?

R. Di quello di cui si dice appunto nella domanda. Bisognerebbe certo partire da molto lontano. Con la fine dei rapporti di tipo schiavistico o servile (com’erano nel mondo antico e in quello feudale), nella società moderna – detta fin troppo genericamente capitalistica – si afferma sempre più nettamente la libertà ed eguaglianza dei diversi individui, fra i quali si generalizzano progressivamente delle relazioni basate sullo scambio di merci, considerato appunto il fondamento ultimo e decisivo di detta libertà ed uguaglianza. E’ questo processo (storicamente abbastanza lungo) a portare in evidenza la sfera produttiva (le merci si devono produrre), che nelle formazioni sociali precedenti era decisamente subordinata a quelle del potere politico (e militare) e ideologico-culturale. Non viene preso in attenta considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei componenti la società possiede una sola merce da scambiare: la propria capacità lavorativa (di vario genere), la cui “produzione” implica particolari processi d’ordine biologico, socio-culturale, ecc. abbisognanti d’altre merci fornite da chi controlla i mezzi tecnici (e organizzativi) della loro produzione. Ripeto che qui il discorso dovrebbe diventare molto lungo e impossibile in questa sede. Sintetizzando, diciamo che la particolare libertà ed uguaglianza, fondamento del sistema dei rapporti sociali capitalistici, porta nella sfera produttiva quel conflitto (detto, con eccessiva bonarietà, concorrenza) che nelle precedenti società era specifico delle altre sfere sociali già prima nominate. E tale tipo di conflitto – e lo si constata appunto benissimo nelle società in cui esso era concentrato soprattutto nella sfera politica (e bellica) – alterna fasi in cui un dato potere predomina, almeno in una determinata area territoriale e sociale, il complesso dei rapporti tra gruppi sociali, con altre fasi in cui s’indebolisce tale predominio (definiamolo “centrale”) di una parte sulle altre; da qui inizia il periodo di crescente “disordine globale” che esige uno scontro, più o meno lungo e con l’impiego di svariati mezzi, fino ad arrivare a quello decisivo e “d’ultima istanza” (bellico), che potrà condurre ad una nuova fase di preminenza di una parte (in genere diversa dalla precedente). Nella società capitalistica, tenuto conto di quanto detto molto sommariamente in merito al tipo di affermazione (mercantile e “concorrenziale”) della libertà ed eguaglianza degli individui (in genere raggruppati in date associazioni di “unione e alleanza”, ma sempre per libera scelta), la tipologia di conflitto appena considerata – con l’alternanza tra fasi di predominio di una parte e dunque di relativo “ordine” e “pace” e altre di esplosione del conflitto aperto con disordine globale – si estende alla sfera produttiva. Proprio per questo, ho sempre aderito alle tesi secondo cui le crisi economiche dipendono soprattutto dalla cosiddetta “anarchia mercantile”, che si afferma periodicamente con netta evidenza. Di conseguenza, mai mi ha convinto la tesi che le crisi si attenuassero con il formarsi di imprese oligopolistiche; anzi, più sono grandi e potenti i contendenti e più, alla fin fine, si arriverà a scontri di accentuata violenza e portatori di ampio disordine. Inoltre – ma questo l’ho potuto spiegare solo in numerosi libri e non posso sintetizzarlo qui – ritengo che le crisi economiche di notevole portata dipendano alla fine dall’indebolimento di un potere predominante “centrale” (cioè posto all’apice di una piramide che si allarga al controllo di un’ampia sfera territoriale e sociale, al limite il mondo nella sua globalità) con crescita di tanti altri poteri. Ma questo potere “centrale”, o invece l’insorgere di altri con l’acutizzarsi del reciproco conflitto, sono fenomeni che si manifestano, con principale e netta influenza sul resto, nella sfera politica (con le sue “diramazioni” belliche) e semmai, ma in subordine, in quella dell’egemonia ideologico-culturale.

2. La sua critica all’economicismo, che si erge a chiave di lettura esclusiva dei fenomeni sociali, è radicale. Lei, infatti, porta in primo piano la conflittualità tra gruppi dominanti in ogni sfera dell’agire umano: economica, politica e ideologica. Lei sostiene che la Politica, intesa come sapere strategico, serie di mosse per primeggiare e conquistare il potere, è prevalente in ogni ambito sociale. L’utilizzo di questo paradigma apre nuovi scenari interpretativi, anche rispetto alla vecchia analisi marxista. Dove conduce il suo pensiero?

R. Dove lo conduca non saprei dirlo, anche perché non sono Marx, in grado di condurre ad una teoria abbastanza conchiusa con una buona coerenza interna nei suoi passaggi tra premesse, argomentazioni intermedie e conclusioni. So che in effetti io – pur avendo letto moltissimo nei più svariati campi: scientifici, storici, filosofici – ho fatto una scelta marxista che quindi condiziona il mio pensiero anche nel momento in cui mi sono allontanato da quel pensiero, che resta il punto d’orientamento generale. Ho discusso il modello marxiano in dieci video-puntate che credo siano ben riuscite, e ho già approntato ben tre ridiscussioni critiche dello stesso. La premessa centrale di Marx credo si possa così sintetizzare. Senza produzione di una varietà di beni, storicamente sempre più ricca e mutevole, la nostra specie umana non potrebbe né saprebbe sopravvivere (cosa fin troppo ovvia). La sfera produttiva è caratterizzata da sistemi di rapporti, anche questi storicamente mutati (a volte lentamente, in dati momento in modo rapido e “rivoluzionario”); si tratta appunto dei rapporti sociali di produzione che costituiscono in un certo senso lo “scheletro” del “corpo” delle diverse società succedutesi nel tempo e che quindi hanno una loro forma “storicamente specifica”. Tale “scheletro” condiziona anche la collocazione (e perfino il funzionamento) dei diversi organi collocati in quel “corpo”. Qui sono cominciati i miei dubbi perché in definitiva è in quello “scheletro” che vengono poste le due grandi “classi” decisive per i mutamenti subiti dalle diverse formazioni sociali (sintetizzando: schiavista, feudale, capitalistica e quella che si sarebbe dovuta formare per gestazione interna a quest’ultima: socialista in quanto fase di transizione al comunismo, che NESSUN marxista ha mai dato per nato in una qualsiasi area del globo). In effetti, per Marx, le due grandi “classi” antagonistiche – con cui infatti egli inizia il “Manifesto” del 1848 scrivendo che tutta la storia è storia di lotte di classi: proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia (capitalisti) e proletariato (gli operai); in sintesi e generalizzando, tra i gruppi sociali dominanti e quelli dominati – si formano nella sfera produttiva (cioè nello “scheletro”) e sono costituite dai proprietari dei mezzi di produzione e dai produttori privi di quella proprietà. E sarebbe appunto la lotta tra queste due classi a marcare la storia umana e il succedersi delle varie forme di società. In effetti, ho pensato invece che il conflitto, causa delle trasformazioni dei rapporti sociali, non avvenga principalmente nella sfera produttiva. Non posso certo sintetizzare tutto l’arco del mio ragionare. Diciamo semplicemente (e con mancanza di molti passaggi intermedi, che si trovano soltanto nei miei libri, soprattutto da metà anni ’90 in poi) che il “conflitto è vita”, non esiste alcun tipo di esistenza vitale senza lo scontro, l’urto di “elementi contrapposti” tra cui scorrono più o meno violente cariche energetiche. D’altra parte, soprattutto nella nostra società umana, il conflitto è guidato dall’obiettivo della conquista della supremazia. E questa non si conquista senza lo studio e poi l’applicazione di una strategia, di una serie di mosse concatenate miranti a quell’obiettivo supremo. Ma le strategie appartengono a più parti in conflitto e dunque ognuna deve tener conto anche delle mosse delle altre. Inoltre, è assai importante l’analisi del “terreno”, del “campo”, in cui si svolge lo scontro. Allora, quello che indico come “conflitto strategico” riguarda ovviamente tutte le sfere sociali, anche quella economica (produttiva e finanziaria) e ideologico-culturale; e i soggetti in queste implicati perseguiranno i loro specifici interessi e stabiliranno alleanze e connubi con soggetti delle altre sfere. Tuttavia, a me sembra evidente che quella politica (con annessi apparati bellici e i vari Servizi, ecc.) sia quella di maggiore impatto per la vittoria nel confronto per la preminenza. E inoltre, mi sembra un po’ forzata l’idea che il conflitto avvenga direttamente tra dominanti e dominati. Credo che la storia veda assai più lotte tra dominanti (e quella moderna proprio tra Stati, tra vari paesi/nazione). Anche quando scoppia il malcontento delle cosiddette masse popolari si va al completo disordine e disgregazione se non vi sono gruppi dirigenti (anche tra i dominati) che guidano “strategicamente” l’urto tra fazioni. Le più grandi rivoluzioni finiscono sempre con l’emergere di nuovi gruppi dirigenti che, in definitiva, promuovono nuove stratificazioni sociali. E si torna ai dominanti e dominati. La stessa cosa avviene nell’arena internazionale, mondiale. Si alternano periodi di relativa calma (e sedicente pace) quando una parte (un paese ad es.) predomina e assicura un certo coordinamento generale, quello che i liberisti cantano come armonica globalizzazione mercantile e fine degli Stati nazionali (altro che il sedicente economicismo dei marxisti). Poi il predominante entra in declino, entriamo progressivamente nel cosiddetto multipolarismo e tutto inizia a scombinarsi investendo infine, nel mondo moderno (“capitalistico”) la sfera economica. Ecco allora le crisi in quest’ultima, che si risolveranno quando avverrà un nuovo decisivo scontro per la predominanza (“coordinatrice”).

3. Lei parla spesso di solidarietà antitetico-polare tra (neo)liberismo e (neo)keynesismo che propongono formule ormai ineffettuali, benché dirimenti, per affrontare le crisi. Mercato e Stato rappresentano i loro totem, anche se con qualche minimo aggiornamento. Considera questi due approcci persino più inadatti del marxismo (il cui totem fu invece la classe operaia) per rispondere ai problemi odierni. Ci può spiegare perché?

R. Anche questa risposta è un po’ complicata. Comunque, non ho mai creduto ad una vera teoria marxista delle crisi. I seguaci di Marx, quelli a mio avviso che più hanno impoverito la sua teoria di ben altra apertura, hanno inseguito visioni economicistiche particolarmente rozze e povere di contenuto, anche quando ben rivestite di formule matematiche (troppo spesso usate nelle scienze sociali per nascondere la propria pochezza d’intelletto). Mi sono dovuto sorbire i dibattiti sul “sottoconsumo” (alla Luxemburg) conditi con le tesi dell’“impoverimento assoluto” della classe operaia; anche questa ridotta dalla definizione marxiana del III libro de “Il Capitale” (cap. XXVII: “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”) alle semplici “tute blu”. Altri si sono dilettati con la “caduta tendenziale del saggio di profitto” dovuta ad un progresso tecnologico con capitale “fisso” in crescita e aumento quindi della “composizione organica del capitale” (C/V): capitale impiegato nei mezzi di produzione diviso per quello impiegato in salari, cioè per pagare i produttori di “valore” e “plusvalore” (dovuto al pluslavoro), che è il profitto capitalistico (e proprio per questo il capitale con cui si pagano i lavoratori è detto variabile, mentre l’altro è detto costante perché può solo riprodurre il suo valore). Chi sa qualcosa di marxismo ha capito ciò che sto dicendo, ma si tratta di cose noiose che è meglio dimenticare. Per me sta bene che si dibatta sulle crisi economiche tra liberisti e keynesiani; entrambi partono dalla teoria del valore come utilità e non come lavoro, che era la tesi dei “classici”, seguiti da Marx ma con un intento preciso che ho chiarito in mille altre occasioni (e certo non mi ripeto qui). Resto allibito dalle discussioni che sento in TV e nella stampa, dove è totalmente ignorato quanto mi avevano insegnato fin dal primo anno di Università sessant’anni fa. Tutti addosso a chi è contro l’“austerità” (necessaria per liberisti di scarsa levatura a salvarci dal debito pubblico, a ridurre il rapporto deficit/Pil), causa non ultima della caduta della domanda (globale: consumi più investimenti) con effetti di crisi. Ma su questo mi sembra si basi quanto mi viene chiesto nella domanda successiva.

4. Nei suoi interventi dice che la crisi del ‘29 non fu definitivamente superata grazie alle politiche espansive del New Deal ma solo in seguito alla guerra,  dalla quale il mondo uscì diviso in due campi contrapposti, ciascuno con un paese egemone a capo. In questa fase, Lei vede principiare lo stesso tipo di scollamento con il declino relativo degli Usa e l’emergere sulla scena mondiale di alcune potenze concorrenti ad est. Quali saranno i risvolti di questa nascente disputa?

R. Qui il discorso dovrebbe essere veramente lungo. Partiamo dal fatto che il New Deal del 1933 attenuò la crisi iniziata con crollo di Borsa nell’ottobre del ’29 e che raggiunse il suo acume (produttivo e non più semplicemente finanziario) nel ’32 con forte calo del Pil e con disoccupazione indicata a più del 30% della forza lavoro. Di fronte ai “superficiali” (diciamo così), che ancor oggi parlano di austerità e di necessità di contenere il debito e che trattano un paese (e lo Stato che lo rappresenta) come fosse un singolo soggetto, un “buon padre” che deve risparmiare per il bene della “famiglia”, si prese atto che le crisi capitalistiche non sono certo le carestie del Medioevo, ma sono invece caratterizzate da sovrapproduzione, in definitiva da carenza di domanda dei cittadini (dei “privati”, diciamo) non in grado di assorbire tutto quanto può essere prodotto in una situazione di piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro in primo piano). Si ovvia a tale carenza con la spesa (domanda) statale e in deficit di bilancio; altrimenti, se si cerca il pareggio, si dà con una mano e si toglie con l’altra. Comunque, sarebbe certo interessante seguire la polemica tra il liberista Pigou (che attribuiva la crisi alle eccessive richieste sindacali comportanti un salario superiore alla produttività marginale del lavoro, tesi tipica della teoria neoclassica tradizionale) e Keynes, che insisteva appunto sulla carenza di domanda complessiva (consumi più investimenti) in un sistema capitalisticamente avanzato dove si manifesta un relativo eccesso di risparmio, non richiesto dai privati investitori anche a bassissimi tassi di interesse; per cui cade uno dei “pilastri” del neoclassicismo, cioè la “legge di Say”, secondo cui, in ogni caso, l’offerta (cioè la produzione) crea sempre la sua domanda, il che impedisce di afferrare i motivi della sovrapproduzione, caratteristica fondamentale della crisi economica dei sistemi di tipo capitalistico. Comunque dobbiamo sorvolare su tutto ciò e sulla fondamentale opera di Keynes del 1936 “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”). Diciamo solo che il New Deal (fortemente negletto da coloro che dibattono sulla crisi iniziata nel 2008 e non affatto superata come pensano tanti sciocchi odierni) ebbe effetti benefici e ridusse l’impatto della crisi per alcuni anni successivi al 1933. Indubbiamente però, direi già con il ’37, si manifestarono sintomi di “appesantimento” e ristagno con nuova preoccupante crescita della disoccupazione del lavoro. La situazione rimase, diciamo così, incerta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che risolse completamente quella crisi. Autori keynesiani (alcuni divenuti poi anche marxisti: penso a Baran e Sweezy e anche a Magdoff) ne diedero una interpretazione conseguente: eccezionale spesa per armamenti, prodotti che non vanno a “ingombrare” il mercato, dando però vita a profitti e salari con accrescimento della domanda complessiva, che imprime il rilancio della produzione non bellica, quella propriamente mercantile. Dopo la guerra e per un lungo periodo di tempo, nel campo detto capitalistico sembrò superata la crisi “classica” e si parlò al massimo di “recessioni”. La tesi, che mi sono permesso di pensare (e anche qualche altro, di cui non ricordo il nome, ne ha formulato una simile), è che ancora una volta si è data eccessiva rilevanza alla sfera economica, tralasciando quella a mio avviso più decisiva. Nel polo capitalistico del sistema detto bipolare, vi è stato il predominio netto degli Usa, di cui quel polo era la specifica sfera d’influenza. Non posso adesso diffondermi sull’argomento, ma quel predominio ha creato un intero sistema di paesi relativamente coordinato tramite generali influssi (anche economici quindi) promananti dal centro. Questo mi ha portato a ripensare il relativo monocentrismo inglese tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la seconda metà di quel secolo, quando avanzano come nuove forti potenze gli Stati Uniti (dopo la decisiva guerra civile con schiacciamento dei cotonieri e forte sviluppo industriale) e la Germania (dopo lo scontro fondamentale con la Francia nel 1870-71). Inizia il periodo del crescente multipolarismo (nell’età detta dell’imperialismo, cioè dello scontro tra potenze per la supremazia). Si verifica un lungo periodo di stagnazione (non generale e non priva di modesti aumenti del Pil; 1873-95 all’incirca), nel mentre si è in piena seconda rivoluzione industriale. Ho assimilato a quel periodo quello iniziato nel 2008; ci si accorgerà prossimamente che la relativa stagnazione odierna (malgrado ci si bei dei tassi di crescita degli Usa e di quelli cinesi; in rallentamento come quelli giapponesi e, mi sembra, indiani) non è ancora superata. Il multipolarismo andrà avanti, crescerà la disarticolazione del sistema a causa di spinte ora centrifughe. A questo punto mi arresto e rinvio a miei testi teorici, che si susseguono già da tempo e che cercherò ancora di approfondire.

5. Lei critica aspramente l’ideologia statalista, al pari di quella del libero mercato. Spesso ha sostenuto che tra pubblico e privato non vi è molta differenza e che molto dipende, non dalla forma giuridica della proprietà, ma dalla visione dei gruppi strategici che guidano gli apparati di vertice istituzionali o imprenditoriali, di una determinata area o Paese. Quelli italiani ed europei, in particolare, come sono messi?

R. Diciamo, più specificamente, che non vi è sostanziale differenza tra impresa pubblica e privata. Nel senso che la prima non è certo dedita a interessi di carattere generale, riguardanti una intera collettività nazionale. Ogni gruppo dirigente di una qualsiasi iniziativa, avente il carattere dell’impresa di tipo capitalistico, deve utilizzare i metodi e perseguire le finalità proprie di tale iniziativa. Certamente, appare assai limitativo rifarsi al semplice scopo del “massimo profitto” (come sostenuto anche da parte di certo marxismo, a mio avviso abbastanza lontano dal pensiero di Marx). Tuttavia, è ovvio che una simile impresa deve puntare al suo rafforzamento; anche se può a volte accettare – per limitati periodi di tempo – di soffrire di perdite, questo deve avvenire in funzione di un indebolimento dei suoi competitori per riprendere poi in mano la situazione da posizioni di preminenza. L’impresa pubblica è importante in Italia perché si diffonde in settori strategici per motivi storici particolari. Nel 1933, proprio a causa della violenta crisi iniziata quattro anni prima, fu necessario il salvataggio di grandi banche come il Credito Italiano, la Commerciale, ecc.; nasce così l’IRI, che poi diventa controllore pure di industrie come AnsaldoTerniIlvaSIPSMEAlfa RomeoNavigazione Generale ItalianaLloyd Triestino di NavigazioneCantieri Riuniti dell’Adriatico e molte altre. IRI significa infatti “Istituto per la ricostruzione industriale”. Esso doveva essere transitorio, ma poi invece divenne definitivo; nel dopoguerra al settore imprenditoriale pubblico si aggiunsero Finmeccanica (1948), Eni (1953) ed Enel (1962). E nel 1962 quel settore giunse a controllare una buona metà dell’industria italiana. Proprio in quell’anno, con l’incidente/assassinio di Mattei, si può dire che parte l’attacco all’imprenditoria pubblica, che si accelera in particolare dopo la “distruzione” (via giudiziaria) della prima Repubblica. Una parte resiste ancora, ma l’indebolimento è stato forte. E quando si sente anche il nuovo governo parlare dell’importanza delle PMI (piccolo-medie imprese), del “made in Italy” (soprattutto moda e prodotti culinari), del turismo, ecc. si capisce che non ci rimetteremo in sesto tanto presto. E allora, ancora una volta, ci si rende conto come il problema centrale per il rafforzamento di un paese – anche della sua sfera economica – è essenzialmente politico; cioè riguarda quella strategia fatta di mosse mediante le quali si tenta di assumere la preminenza in una data area territoriale, diciamo geografico-sociale, più o meno estesa a seconda dei mezzi a disposizione dei diversi paesi. La politica, intesa in questo senso di “conflitto strategico”, riguarda tutte le sfere della società, anche quella economica (caratterizzata dall’impresa e mercato). Tuttavia, la potenza massima della politica (come strategia) si esprime negli apparati ad essa specificamente “dedicati”, al cui vertice c’è lo Stato. Ed è qui che si apre un discorso d’impossibile esaurimento in una intervista. Vi è la questione della politica (cioè del conflitto strategico) in campo internazionale e in quello interno; i collegamenti tra i due e la loro articolazione in termini di principale e secondario in differenti fasi storiche, tra cui molto importante è quella del crescente multipolarismo, com’è quella attuale. Concludo semplicemente manifestando il massimo disappunto (termine molto “morbido”) per come si sta sviluppando il dibattito in questo paese in merito al contrasto con la UE (parte di un confronto/scontro ben più vasto e di grande rilevanza). Tutto un arzigogolare intorno alle misure economiche governative (il tutto condito con menzogne spudorate dalla parte ancora prevalente in Europa e negli Usa, che sente il suo potere in forte crisi) senza alcun coraggio di dire: il problema è POLITICO, e se deve permanere un assetto internazionale ancora predominato da un paese (con i suoi servi privilegiati in Europa; Germania e Francia) o se bisogna “rovesciare il tavolo” con violenza e spostare gli assi delle varie alleanze. E qui mi fermo.

 


Il prossimo libro di Gianfranco La Grassa:

CRISI ECONOMICHE E MUTAMENTI (GEO)POLITICI

  • Editore: Mimesis
  • Collana: Eterotopie
  • Data di Pubblicazione: febbraio 2019

Descrizione

Questo libro nasce dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti fondamentali delle crisi economiche mondiali, troppo spesso trascurati dai sedicenti esperti. Già il titolo contiene un intendimento ben preciso, che punta a tenere insieme due piani, quello economico e quello (geo)politico, da non separarsi perché, in verità, essi sono connessi quasi da un rapporto di causa ed effetto. Tuttavia, questa relazione appare rovesciata, in quanto non si utilizzano lenti teoriche ben calibrate per interpretarla, con l’economia che prende impropriamente il davanti della scena, nelle narrazioni ufficiali, rispetto alla politica. Si tratta di un errore, come quello commesso da chi guardando ad occhio nudo il sole crede che esso giri intorno alla terra. Ci vogliono strumenti analitici più raffinati per scoprire che è l’esatto contrario. I fenomeni finanziari vanno trattati come meri elementi segnalatori di sconquassi ben più sostanziali e profondi che avvengono a livello delle strutture sociali internazionali e nell’articolazione dei rapporti di forza tra aree di paesi, egemonizzate da poli di potenza in crescente attrito. La crisi sistemica si manifesta, epidermicamente, con le cadute in borsa, la volatilità dei titoli azionari, lo scoppio delle bolle speculative per poi riversarsi sui fattori reali quali l’arretramento della produzione, la crescita della disoccupazione, il fallimento degli operatori industriali. Ma questo è solo l’inizio di trasformazioni più vaste che toccano inevitabilmente l’architettura geopolitica del mondo. Il libero mercato, a maggior ragione in fasi di trapasso epocale come quella presente, è una esiziale ideologia di distorsione della realtà; ma lo è anche quella mistificazione dei fondamentalisti keynesiani che ritengono di poter superare la débâcle con un altro New Deal. Non fu quest’ultimo a risolvere il ’29, fu la II Guerra Mondiale dalla quale gli Usa emersero quale paese predominate dell’Occidente e l’Urss come il loro contraltare ad Est. La crisi non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (in Keynes almeno si tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva). La crisi, quando non è mera recessione, si sviluppa per processi storici inevitabili che riguardano la lotta per la supremazia tra agenti strategici in campo (geo)politico. Allorché questo conflitto si fa più acuto saltano le regole del gioco in ogni sfera sociale, a cominciare proprio da quella economico-finanziaria che rappresenta l’esteriorità del capitalismo. Ma chi si ferma a questa apparenza non coglie ciò che ci aspetta e non troverà soluzioni alle attuali difficoltà.

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! , di Gianfranco la Grassa

RIANDIAMO UN PO’ ALLA STORIA! UN DIBATTITO NON INUTILE

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/riandiamo-un-po-alla-storia-un-dibattito-non-inutile

  1. Nel 1972, su Critica marxista, uscì un articolo di Emilio Sereni, improntato allo “storicismo” tipico del marxismo italiano, che di fatto lanciò un dibattito sulla centralità o meno, nel marxismo, dello sviluppo delle forze produttive o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai fini del passaggio da una formazione sociale all’altra, cioè da un modo di produzione, considerato il nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da lì iniziò appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anch’io, da poco tornato dal soggiorno a Parigi (all’EPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim, passato all’impostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di transizione al socialismo. In definitiva, l’unico gruppo che funzionò fu quello sul modo di produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblicò anche un volume con gli Editori Riuniti.

Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire quasi “teologico”. In ogni caso, non credo che la maggior parte dei “militanti di base” del Pci fosse in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla perché il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto più che la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata al “trasferimento” verso il capitalismo occidentale (io avrei dovuto capirlo fin dall’autunno del ’71 in seguito ad un importante incontro alle Botteghe Oscure; rimasi invece perplesso e afferrai il problema un po’ più tardi, comunque ben prima di altri e del famoso viaggio di un “plenipotenziario” piciista nel 1978, in costanza di rapimento Moro). In ogni caso, la nuova direzione del Pci non era per nulla intenzionata a disquisire su problemi come quelli dibattuti a “Critica marxista” nel ’72, riguardanti di fatto la lotta al capitalismo e la possibilità di transizione al socialismo. Tuttavia, è interessante comprendere il senso ultimo di quella discussione poiché si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la storia del comunismo e del suo pensiero; e poi perché serve a rendersi conto come, dietro a questioni apparentemente teoriche, considerate dai più astruse, si celino precise scelte di linea politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo.

Affinché si renda più comprensibile quanto si discusse allora ricordo brevemente, e non con intenti professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime riguardano la capacità lavorativa umana, con le sue prerogative e abilità specifiche (se ci sono); le seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacità lavorativa, quelle su cui quest’ultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che l’assistono nella lavorazione come la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne è pur sempre alla base), ecc. Tale distinzione va ricordata perché la polemica contro la tesi del primato delle forze produttive si è spesso esercitata con riferimento a quelle oggettive – tutte le ciance sulla necessità di rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute più blande e meno dannose per la natura – mentre esalta, in realtà relegandola al compimento di maggiori sforzi e fatica, la capacità di lavoro del “soggetto umano” (o dell’Uomo).

E’ bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o almeno più che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo l’infausto ’68 (scusate se ormai lo valuto abbastanza negativamente), una vera débacle per il Marx scienziato delle diverse formazioni sociali succedutesi nella storia della società umana; e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie interne ad un’unica religione; la discussione, cioè, avveniva in base ad una terminologia teorica in larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nell’interpretazione e nelle conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci s’intendeva, si sapeva bene dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non riguardante esclusivamente i “massimi sistemi”, le “alte concezioni” dell’Umanità e dei suoi “destini ultimi”.

Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle sue finalità in tema di lotta per il comunismo, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste più. Ci sono filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere le dinamiche dell’attuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx è stato triturato e ricondotto al minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dell’ultimo mezzo secolo. Ogni discussione con simili personaggi appare ormai sterile; allora no, il contrasto tra marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.

 

  1. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i “tesori” di dottrina che comunque venivano esibiti, si può, credo, sintetizzare come farò qui di seguito. I teorici delle forze produttive – cioè del loro sviluppo in quanto molla decisiva (pur con la possibilità di qualche “azione di ritorno”: dai rapporti alle forze) della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dell’intera società – sostenevano tale tesi per giustificare l’attendismo, l’accoccolarsi entro i meccanismi di riproduzione dei rapporti nelle società del campo capitalistico (“occidentale”), coadiuvando di fatto i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per l’immaturità dello sviluppo delle forze in oggetto.

Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che fungevano da sua “cintura protettiva”, soprattutto tesa però a creare una fitta nebbia in cui non si intravedesse il nocciolo centrale: l’attendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto (subordinato) allo sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sull’utilizzo della “democrazia” parlamentare (cioè elettoralistica, dunque nulla a che vedere con il preteso “governo del popolo”) per accrescere l’influenza delle “masse lavoratrici” sulle classi dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali monetari). Si trattava in realtà di captare i voti di queste masse per essere accettati all’interno dei gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla proprietà capitalistica stessa, mentre l’apparato di partito sarebbe divenuto l’organo privilegiato di rappresentanza nella sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante. Non avvertite un che di odierno?

Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le “riforme di struttura” (cardine dell’altrettanto nebbiosa “via italiana al socialismo”), di cui mai si precisò con nettezza il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate per fare scena, e nascondere alla “base” il proprio progressivo cambio di casacca (scrissi sull’argomento un preciso articolo nei primi anni ’70, che è stato pubblicato qualche anno fa nel sito Conflitti e strategie). Infine vi fu il blaterare sull’appoggio all’industria “pubblica”, che doveva servire a contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realtà, era più facile contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti – chiedendo fra l’altro di essere accettati quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica – attraverso contatti con le frazioni dei partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano l’influenza dei) gruppi manageriali delle grandi imprese “pubbliche”. Ve l’immaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito, che facesse in quegli anni carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private? Fiat, Pirelli, Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano “bella mostra” di sé intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo “ultrarivoluzionario” che serviva a far meglio risaltare il “buon senso” del riformismo (su cui poi del resto è ripiegata la stragrande maggioranza degli “ultrarivoluzionari”). Invece, nelle imprese “pubbliche” si trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati nell’imprenditoria “rossa” (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti.

Questa era comunque la “cintura protettiva” – per subornare le “masse” – della più dotta tesi circa la centralità dello sviluppo delle forze produttive: tesi, però, nella versione in uso nei partiti comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI. Nel campo socialista – che tale non era mai stato, ma lo si è capito un po’ tardi; e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta – la tesi in oggetto era presentata in forma diversa. In tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano già per l’essenziale stati trasformati; non però in rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali e politicanti odierni, bensì più semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo. Il problema fondamentale sarebbe stato allora rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare quest’ultimo ai rapporti.

In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (che ci pensavamo autentici marxisti-leninisti) accusato di “revisionismo”, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle forze produttive. Così agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente (campo capitalistico). A est (nel cosiddetto “socialismo reale”), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica ad essi, che avrebbe soltanto provocato l’indebolimento della trasformazione dei rapporti, appunto pensati come già socialisti, da irrobustire invece tramite l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.

Negli anni ’60, in particolare nella loro seconda metà, pur essendomi allontanato dal Pci nel ’63, ero discretamente edotto delle pratiche del partito, “molto produttive” in fatto di poteri acquisiti nell’ambito dell’organizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a Parigi – e non a Cambridge od Oxford o all’MIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica in un paese ormai succube degli Stati Uniti e del campo “atlantico” – perché interessato alla critica, non soltanto politicistica ma pure teorico-dottrinale, delle tesi “revisioniste”, gradual-riformistiche, del presunto comunismo italiano. Quindi, all’epoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata d’esso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si giocò per il veloce tralignare del piciismo in senso filo-“occidentale” (pur in modo mascherato fino allo sfacelo del “blocco sovietico”). Purtroppo ci fu chi nemmeno intuì, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise di fatto nelle mani di certe “trame”, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi già più volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali, appoggiati da buona parte dei “poliziotti” piciisti, con la creazione di un caos in cui chi non si era tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti “di piombo”. Anni in cui il tanto declamato (per incutere timore e violento anticomunismo) “terrorismo rosso” non fu tanto rosso, bensì frutto di trame e lotte segrete tra vari Servizi e forze politiche “occidentali” per arrivare infine, una volta crollato il sedicente “socialismo”, alla svolta in Italia con la distruzione della prima Repubblica e il tentativo di creare un nuovo regime fondato appunto sui postpiciisti (del “tradimento”); tentativo di fatto fallito per l’insipienza e rara inettitudine dei dirigenti di quel partito che mutò nome e colori più di un camaleonte.

Ricordo, en passant, che molti – anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non farò il nome – mi criticarono a quel tempo come “criptorevisionista” per aver compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda – condotta senza alcuna protezione, allo sbaraglio – contro il “revisionismo”, lotta che non poteva che condurre dove ha condotto certi “compagni”: galera o tradimento o tutti e due! Il fatto è che io non sono un vero intellettuale. Sono un prodotto della medio-alta “classe” imprenditoriale e ho sufficiente concretezza per capire che le “idee” non orientano il mondo. Purtroppo sono un prodotto mal riuscito che non voleva essere “padrone”, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi tutti); e purtroppo chi non sta da una precisa parte subisce le più malefiche conseguenze. Così non sono un miliardario (padrone) e nemmeno un “maître à penser” (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno un “esperto”, portaborse di qualche “Maestro” e andato ad “allenarsi” nel mondo accademico anglo-americano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine chiamato a cianciare nei media o infilato in qualche Ministero o simile (sono decine e decine i “chiamati in causa”, perché di questi bassi opportunisti, che hanno impestato tutti i gruppetti “antirevisionisti” e “rivoluzionari” dell’epoca per procurarsi titoli di merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantità superiore ad ogni più sfrenata immaginazione).

 

  1. La critica sostenuta dalla corrente, che poneva i rapporti di produzione in posizione decisiva nella transizione da una formazione sociale all’altra, intendeva riprendere l’orientamento rivoluzionario contro l’ormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (eurocomunismo) – ma anche di molti altri paesi, perfino del “terzo mondo” – e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dell’area a più alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudo-ortodossia leninista o di un più generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o neocoloniale.

Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verità) Prefazione del ’59 di Marx, trattata a volte addirittura da testo non marxista. In un mio libro di alcuni anni fa, “Due passi in Marx”, ho cercato di compiere una più ponderata valutazione di quel testo, considerato la base dell’economicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralità delle forze produttive. In realtà, molti dei critici di questa tesi non erano veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttività come sempre in grado di riprodurre i rapporti (capitalistici) in esse “incorporati”, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per qualche tempo). Si arrivava così, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poiché per distruggere i rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessità di non importare – nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo – le tecnologie dei paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai “bisogni” (del tutto imprecisati e non conosciuti) di quei paesi.

La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto trasformati in catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perciò state necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi rapporti. Nella critica a tale tesi si prendeva atto della capacità di sviluppo del capitalismo, che non ha alcun limite prefissato da nessuna “legge storica” (di tipo economico). Tuttavia, si accreditava di fatto l’idea che tale formazione sociale è la più adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi sempre dall’innovazione tecnico-organizzativa; giacché sviluppo e crescita (che non richiede, di per sé, l’innovazione) non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati. Nel contempo, una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che quest’ultimo riproducesse sempre i rapporti della società “da rivoluzionare”, per cui bisognava essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva così per nulla dalla tesi della centralità delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque l’innovazione tecnica; da cui consegue in genere l’impossibilità di aumentare la produttività del lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e l’introduzione di nuove tecnologie che spesso alleviano la fatica dei lavoratori.

Peggiore ancora è stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli “umanisti”, da coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, sacrificate sull’altare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei “parassiti” dei finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse, capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo così com’esso è!) d’inventività e innovazione sociale; soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a sé tutto l’insieme dell’Essere Umano, dell’intero suo corpo e delle sue capacità cognitive). La Fiera delle imbecillità sessantottarde (e seguenti) è stata ricchissima di prodotti di scarto di “avanguardie” pseudo-culturali di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della società umana. In ogni caso, in simili tesi – e in quelle del “comando” del Capitale, della “sfida operaia” con “risposta” del suddetto Capitale, e via vaneggiando – non c’è alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si esalta la forza produttiva dell’Uomo, o in generale o con specifico riferimento all’Uomo Lavoratore nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del capitalismo.

 

  1. Del resto, anche lo spostamento verso la centralità dei rapporti sociali (da trasformare) non è stato scevro di limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialità ci si è attenuti fondamentalmente ai rapporti mercantili, ai rapporti tra uomini “cosificati” nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica dei rapporti sociali è qui molto evidente; soprattutto però si fa dell’ambito di “superficie” della formazione sociale capitalistica – dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore libertà nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che non ci interessa) – il fulcro della società. Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore “equità” nello “sfruttamento” (creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che è la vera acquisizione di Marx come scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte dell’Uomo, alienato nel mercato. A che cosa si poteva giungere allora? A proporre quell’aberrazione teorica e politica del “socialismo di mercato”, ultimo rifugio (ormai diroccato) di meri “sopravvissuti”, che cercano di difendere il loro passato di fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.

C’è stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro “ultrarivoluzionarismo” parolaio in favore dell’Uomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle “Masse popolari”, ecc.). Si è trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con sostanziale inconsapevolezza della teoria del valore marxiana, che è teoria dello sfruttamento (estrazione di plusvalore, forma di valore del pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parità di forze e quindi di eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualità di merce. Tutto sembrava invece rinviare ad un rapporto di forza nella “lotta di classe” che, ad un certo punto, si trasformava così in entità piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosità.

Si è dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si è anche distinto tra la determinazione d’ultima istanza (dell’economico: ulteriore omaggio all’ortodossia) e la dominanza. Si è allora sostenuto che nella prima epoca del capitalismo (concorrenziale) sia la determinazione d’ultima istanza che la dominanza appartenevano all’economico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda epoca (monopolistica) quest’ultimo restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera della politica e dell’ideologia, condensata nell’indicazione della presenza decisiva degli “apparati ideologici di Stato”. Difficile pensare ai caratteri della determinazione d’ultima istanza, dato che non si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare semplice riferimento alla tecnologia e all’organizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla dominanza nell’epoca del monopolismo, è ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza pensati quali meri rapporti di potere.

Interessante la distinzione tra proprietà (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma giuridica (ma né Marx né alcun marxista pensante l’hanno ridotta a questo), e potere di disposizione o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava però appunto, in definitiva, a quello detenuto negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una più netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti l’egemonia attraverso l’ideologia; e anche nell’ambito di questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga durata (con le loro tradizioni, ecc.) e l’approntamento di ideologie più spicciole, spesso “di moda” per brevi periodi, che hanno solitamente una ben più scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa le intenzioni dei gruppi dominanti (per cui sono spesso fonte di incultura o di “semicultura” come quella tipica di certo ceto medio “sinistrorso” odierno).

Di fatto, lo Stato è divenuto nell’althusserismo un coacervo di apparati dei più svariati tipi, tutti però raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo), dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto “in verticale” tra dominanti e dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo Stato è, sì, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso intreccio di conflitti tra più gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di uno o di alcuni d’essi o il loro accordo compromissorio, ecc. L’insieme di apparati mantiene, anche a lungo, uno “statuto legale” unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e del potere vero e proprio; un potere, inoltre, sempre “corazzato di coercizione”, altrimenti non consente alcun predominio sicuro e prolungato di un dato gruppo sociale. Chi crede in quello decisivo della cultura (della sua egemonia non “corazzata di coercizione”) è il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti, sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali oppositori.

Inoltre, nella storia, i più lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di alto e medio-alto livello; a volte ciò si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui gruppi a più basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per questo, in tali periodi storici, all’interno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quand’anche si situino in posizione d’urto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (“élites”) che vengono infine cooptati verso l’alto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto e violento tra i dominanti, con disgregazione del collante (egemonico) sociale, paralisi del potere coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano l’un l’altro e alla fine si sgretolano), con conseguente crisi aperta del suddetto “statuto legale” unitario che tiene legati i vari apparati, le élites dei raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare altri (e diversi) gruppi dotati di egemonia (culturale) e di potere (politico) in una società nuovamente “normalizzata”, in genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora di una nuova formazione sociale).

 

  1. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha coinvolto principi fondamentali di una teoria – poi trasformata in dottrina – all’origine di complesse pratiche di quello che è stato denominato movimento operaio, in specie di quello di orientamento comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia si è allontanata del tutto dal marxismo. Ci si ricordi in particolare il Congresso del SPD tedesco a Bad Godesberg nel 1959, quando viene ufficialmente dichiarato l’abbandono di tale impostazione teorica e dottrinale. A qualcuno sembrerà forse che quel dibattito, lanciato dal Pci nel 1972-73, non abbia più molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto, pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste (e ambientaliste, ecc.) sono di fatto dentro l’orizzonte della tesi relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non cambia in nulla l’impostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente, il problema della trasformazione dei rapporti sociali – per la qual trasformazione occorre rifarsi alla politica del conflitto; magari non più “di classe”, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi sociali differenti – mettendo così in bella evidenza la vera natura di simili tesi.

Criticare la tesi della centralità delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione della società significa quindi prendere netta posizione contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei capitalisti, una parte dei quali ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di questa società; per cui si dedica a imbrogliare le carte – servendosi anche di “ultrarivoluzionari” pronti ad ogni lucroso servigio (non soltanto in termini di denaro) – pur di distrarre l’attenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nell’attribuire l’attuale crisi ai “cattivi” finanzieri o anche alla “finanza tout court” e ai banchieri o alle manovre monetarie, ecc.

Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della “difesa della Natura”) dipende dalla perdita di fiducia nelle “sorti progressive” del capitalismo; la parte maggioritaria è rappresentata da consapevoli imbonitori, pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le “mode” attuali: le energie alternative (che sono un modo accessorio di guadagnare lauti profitti), i commerci equosolidali, le coltivazioni “biologiche” e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di (inizialmente) semidiseredati, alcuni dei quali diventano agenti discretamente ben pagati dai dominanti. Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovrà attraversare una lunga crisi quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine ‘800.

In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema odierno: l’attuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in posizione preminente gli Stati Uniti, anche se cresce l’attuale multipolarismo, provocando quella frattura interna ai vertici politici di tale paese tutto sommato positiva per i futuri sviluppi della nuova fase in cui stiamo entrando. E’ senz’altro indispensabile coltivare la massima attenzione per la differente politica (in quanto complesso di mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve però indirizzarsi all’analisi e valutazione delle possibilità di un’opposizione alle loro mosse (appunto differenti), senza mai dimenticare che certe critiche alla società attuale, sommariamente indicata come capitalistica, servono in realtà gli interessi di specifici gruppi dominanti o di altri, dimenticando il fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i vaneggiamenti sulla difesa dell’“ordine naturale”  e dell’ambiente o della Umanità in generale.

La conoscenza del dibattito, di cui si sta discutendo, ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono alcuni vecchi arnesi del “rivoluzionarismo” sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che, tanto per andare al pratico, vede la società italiana in mano ai “cotonieri” (spero ci si ricorderà da dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e torbidi pseudo-pensatori del “fu” sessantottismo sviluppavano fino a non molto tempo fa il seguente argomento: se si è contro la decrescita, essi affermavano, allora si è favorevoli alla centralità delle forze produttive in sviluppo. Che si sia per lo sviluppo o per il sostanziale blocco di tali forze, non è affatto il problema centrale e non muta l’orientamento di fondo.

Mettere il segno meno invece che più alle forze produttive serve, in ogni caso, ad allontanare l’attenzione del critico dall’analisi dei rapporti sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi e nuovi arnesi di una rivoluzione soltanto declamata, anzi urlata, è proprio quello di impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un Male per l’Uomo; questo sostengono al massimo i finti rivoluzionari. Nel migliore dei casi, se sono in buona fede, manifestano soltanto insoddisfazione e angoscia. Si arrangino come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro fianco l’orizzonte della morte. Il capitale non c’entra nulla con questo problema, non lo può risolvere, ma nemmeno lo aggrava più che tanto.

I teorici della centralità dei rapporti sociali (di produzione o considerati in senso sociale complessivo) tentavano invece di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati “i revisionisti”, gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano, chi più e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si è mai scagliato contro la crescita della produzione, contro l’innovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto catene che impediscono la loro realizzazione. I “revisionisti”, per giustificare il loro cedimento opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perciò utile non creare disordini, non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di più, cosicché si sarebbe infine (campa cavallo….) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti allo sviluppo.

Oggi, quel dibattito è stato superato – ma non è caduta in disuso la sua utilità, ove attentamente valutata – perché è crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo che, per alcuni sopravvissuti, è ormai una semplice aspirazione sentimentale. Non vi è dubbio che il capitalismo – e fra l’altro la nostra ignoranza è tale che chiamiamo tutto capitalismo, senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali quali il “capitalismo borghese” di matrice inglese e la società dominata dai funzionari del capitale, sviluppatasi negli Usa e ormai diffusa in tutto l’“occidente” – si sta dimostrando una società con molte mostruosità, soprattutto però culturali. Adesso stiamo vivendo una crisi che rimette in discussione molte “conquiste” – di quelle che però i pensatori del disagio trattano da solo “materiali”, quindi quasi da disprezzare – ma non si tratta della fine di una società “cattiva”, da cui poi sorgerà quella “migliore”. E’ una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni sociali, alcune nuove in sul farsi “a est” e tutto sommato tuttora poco conosciute.

Sarebbe indispensabile mettere all’ordine del giorno l’analisi di questi differenti rapporti sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si abbandona ai lamenti sull’Uomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti – e soprattutto i subdominanti, i “cotonieri” reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti – li pagano bene, li ospitano nelle Università (ormai luoghi di abiezione), li fanno scrivere sui giornali, li ammettono in TV, pubblicano tutte le più futili e ignobili aberrazioni del loro pensare con case editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire viepiù il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.

 

  1. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico; fallimento solo se considerato in relazione all’obiettivo di trasformazione sociale che è stato l’intendimento dei comunisti per ben oltre un secolo. Ho già detto in altra occasione che la Rivoluzione d’ottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non è fallita per nulla; ma non era questo l’obiettivo perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo dobbiamo ragionare e trarre le opportune conclusioni. Tenuto conto dei vari “ismi” ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al liberismo è a mio avviso assai più avanti. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato con i suoi “automatismi”, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero all’abbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre più rapaci).

Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi (che non s’inventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarant’anni viviamo in un mondo di perfetti deficienti), dobbiamo sfruttare l’insegnamento del marxismo e del suo indubbio invecchiamento e logoramento – nel promuovere una pratica politica in base a determinate previsioni, rivelatesi assai imperfette, circa la dinamica della società capitalistica – che ci segnala errori di valutazione o comunque l’impossibilità dell’effettuazione di quella pratica con quei dati obiettivi. Secondo me, occorre giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto, è indispensabile smetterla con l’idea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una cosiddetta dinamica che è in effetti una cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e costruite via ipotesi) della struttura (inesistente come tale nel reale).

Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo l’immagine di un movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra “rappresentazione” del reale dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o probabilistiche. Sempre, all’improvviso, appare una discontinuità che ci lascia “sorpresi”; non è, però, in senso proprio una discontinuità; più semplicemente, la continuità costruita, ravvicinando quanto più possibile i momenti successivi, dipende pur sempre dalla struttura posta all’inizio appunto come mera rappresentazione del reale. Poiché quest’ultimo è continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo punto nella necessità di pensare una nuova struttura, che è una differente singolarità da cui riprende avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La “discontinuità” dipende dalla nostra impossibilità di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante. Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere un’attività capace di produrre effetti; così comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui essi non orientano più azioni dotate di senso e di incisività.

Salvo i soliti discorsi “orientaleggianti” – che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finché troveranno di contro a loro questi “santoni” imbelli – il nostro modo di agire nella moderna società non è in grado di discostarsi dal procedimento appena indicato. Essenziale diventa allora prendere atto del problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare decine e centinaia di milioni di anni, non ci interessa “qui ed ora”. E per favore lasciamo stare il fascino della microfisica perché non siamo microbi pensanti. Atteniamoci al nostro mondo – macrofisico, da una parte, e sociale dall’altra – e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica della società.

Se vogliamo elucubrare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della morte con tutto ciò che “ci va dietro”, nessuna obiezione; è atteggiamento assai più che comprensibile, direi doveroso. Quando però riflettiamo sul nostro vivere nel cosiddetto “divenire storico-sociale”, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che pretenderebbero di trascendere l’orizzonte spazio-temporale in cui siamo situati. Sia nel fare storia (pensare il passato) sia nella previsione del futuro, è meglio utilizzare categorie teoriche (più o meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; più elastici saremo, prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva riduzione di presa sulla “realtà”. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato e poi indirizzato come piacerebbe a noi; se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo “imbracato” definitivamente.

Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo. Quest’ultimo è in definitiva incertezza, indecisione, quasi sempre incapacità di scendere in campo prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacità (molto limitata invero) di valutare vari corni del dilemma con moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa quant’altre mai, frase di Voltaire, una frase “buonista”, di piatto conformismo, perfettamente adatta al “ceto medio semicolto” odierno!). Quando si agisce veramente – dove l’azione contempla pure l’apparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti velocisti) – e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere “partito” nel conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i diversi “partiti” e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare all’eventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano alla lunga i vincitori non meno dei perdenti ed esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarità sopravvenienti (che sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrerà ricercare le categorie interpretative, ecc. ecc.

 

  1. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria e nella pratica) del “modello” marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale del capitale, l’evoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione rimasta pressoché immutata da almeno un secolo e mezzo a questa parte. Un conto è impiegare genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione – in strumentazioni produttive ed in moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci – in possesso di particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della società); un altro è indicare un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perché questo è il capitale nella sua precisa accezione marxiana.

Marx studiò il “modello” di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di definitiva affermazione, l’Inghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso si sarebbe esteso a tutto il mondo. In effetti, tale “modello” fu surrettiziamente mutato in corso d’opera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse però troppi problemi al proposito. Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio usò indifferentemente classe operaia e proletariato, e la classe in questione (quella che avrebbe dovuto emancipare tutta l’umanità emancipando se stessa dallo sfruttamento) fu da lui a volte considerata – e i marxisti successivi sempre così la considerarono – l’insieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni fondamentalmente esecutive (e di più basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece riferimento al lavoratore complessivo (“ingegnere e manovale”).

Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza, nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi nell’unità produttiva in senso stretto, nella “fabbrica”, risultato di una storica trasformazione della bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non semplicemente crescita di “forze produttive oggettive”. La fabbrica è il luogo della trasformazione di materie prime in prodotti finiti; si può considerare più genericamente la trasformazione di input in output, in ogni caso è sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma cooperativa, la figura dirigenziale (“l’ingegnere”) e quella esecutiva (“il manovale”).

Il testo più significativo per le indicazioni, comunque sommarie, relative alla formazione dell’operaio combinato, in quanto complessivo insieme di lavoratori direttivi ed esecutivi in cooperazione, è il cosiddetto Capitolo VI inedito (edito molto dopo la morte di Marx), in cui vi sono pure le splendide pagine sulla sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (con passaggio da una determinata forma, transitoria, dei rapporti sociali capitalistici ad un’altra, quella considerata definitiva). Capitolo comunque tolto dall’autore stesso nella pubblicazione del primo libro de Il Capitale, l’unico testo di quest’opera effettivamente e integralmente di Marx. Non mi lancio in illazioni sui motivi del toglimento, non sono “addottorato” in sedute spiritiche; noto solo che non è stato pubblicato, rendendo più difficile quella coerentizzazione cui ho sopra accennato.

Il sottoscritto ha preteso di compierla con un lavoro durato molti anni e che è stato consegnato in centinaia, e più ancora, di pagine, tutte pubblicate negli ultimi 15-20 anni. Le do quindi per conosciute, altrimenti chi vuole si documenti. Ricordo solo che tale dinamica, fondata sulla “spietata” concorrenza intercapitalistica, mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva non tanto il passaggio al capitalismo monopolistico (e poi ancora a quello di Stato, tutto sommato una contraddizione in termini), quanto invece la trasformazione di quel rapporto che è il capitale. Le “potenze mentali della produzione” – in definitiva la capacità di dirigere e innovare nei processi produttivi di fabbrica, di trasformazione di input in output – spettavano nel più antico capitalismo concorrenziale al capitalista, considerato il proprietario privato dei mezzi di produzione.

Con la centralizzazione, tale capacità (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe trasferita, per il Nostro, nell’“ingegnere” divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte dell’operaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto solo proprietario; una proprietà trasformata con l’affermarsi della società per azioni. Detto in termini molto più moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di “rivoluzione dei tecnici” (in realtà un loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella “manageriale” teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ciò discendono le conclusioni di Marx in merito alla trasmutazione della società capitalistica in socialistica – un cambiamento da lui già creduto in atto ai suoi tempi (si legga anche soltanto l’ultimo paragrafo del capitolo sull’accumulazione originaria) – che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei scritti.

Una volta coerentizzato il “modello” marxiano di avvento del capitalismo, di suo sviluppo e di transizione ad altra società – sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per quanto concerne l’aspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici modificazioni delle “forme di mercato” – si comprende più facilmente l’impasse della lotta comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Può restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, sentimenti umanissimi; anche perché i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come sostengono gli incalliti delinquenti che si sentono appagati in questa società! Se però da questi sentimenti si insiste a volere trarre l’indicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il comunismo, dobbiamo allontanarci con molta decisione e chiarezza critica dagli “zombi” incapaci di afferrare la realtà del loro essere morti.

 

  1. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del “modello” marxiano – consegnata per il momento ai dieci video dedicati alla discussione su Marx – al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessità di superarlo, senza semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito scientifico e l’intento critico-problematico in merito alla doppia faccia della formazione capitalistica, con la sua “superficie” (soprattutto mercantile) e le sue “viscere profonde”, dove si agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta formazione sociale sia l’obsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata, oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica.

Mi è sembrato non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo d’uccello. Tuttavia, m’interessava soprattutto metterne in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto le modalità secondo cui avvenivano allora le discussioni in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa serietà e lo stesso rigore nei dibattiti (rari) che ancora ci sono. Bisogna inoltre ben dire che non vi è più, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna società, alcuna teoria comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di “revisionismo” o di “estremismo infantile”, secondo l’abitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere pur nelle più aspre diatribe. Era inoltre chiara a chi partecipava al dibattito – a parte la solita “base militante”, soprattutto interessata a quello che dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi soprattutto dopo il ’68 – la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento operaio e all’evoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.

Infine, non si creda che alcune delle misere tesi venute a quel tempo alla moda e ancora in piena vita – tipo la decrescita o l’eco-sostenibilità e altre piacevolezze di questi tempi di degrado intellettuale e culturale – non abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento dell’intelligenza teorica dei problemi. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo più o meno aperto, alla totale dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra interessi, sempre avvolti da specifiche ideologie, di dati gruppi sociali, in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono al 100% le danze in questa fase storica. I “deboli” critici del capitalismo diventano semplici detrattori di ogni modernità e progresso (considerato un termine osceno anche soltanto in termini del tutto “materiali”) perché non comprendono più nulla della necessità di andare ai rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una conoscenza via ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessità di revisioni o di drastici cambiamenti di indirizzo. Si preferisce oggi soddisfare l’orrendo ceto medio semicolto, il quale magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le più stupide insulsaggini che da quelle “scatolette” sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali che hanno ormai l’intelletto in completa défaillance.

Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendete questo mia memorizzazione come una vacanza, ma non credo sia priva di interesse per chi capisce come la teoria non sia una fisima da intellettuali. Anzi, oggi sono proprio quelli che passano per intellettuali presso l’incolto “volgo” i più carenti in fatto di teoria. Non pensano, sputano quello che ritengono più facile far passare per scienza, riducendo quest’ultima (basata su ipotesi sempre rivedibili) a certezza assoluta e indiscutibile, cui il “popolo” deve sempre adeguarsi. Poi ci sono i “tecnici”, anche peggiori nella loro limitatezza di visione e nell’arroganza e presunzione con cui “sparano” i loro verdetti e le loro ricette quasi che la lotta politica, oggi sempre più acuta e spesso sconclusionata per mancanza di ampie visioni e di solidi appoggi sociali, sia riducibile alle formulette imparate in Università che sarebbero ormai da chiudere, a partire da quelle “ricche e famose” anglo-americane. Viviamo un’epoca di transizione, ma particolarmente povera di intelligenza. Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva intellettualmente in un ben diverso ambito, assai meno deteriorato. Non parliamo della prima metà del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma ricordando; e facendo tesoro dei ricordi!

 

 

CONTRO L’ECONOMICISMO, PER UNA ANALISI STRUTTURALE, di Gianfranco La Grassa

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/contro-leconomicismo-per-una-analisi-strutturale

Ho la sensazione che spesso si confonda la polemica (giusta) contro l’economicismo con la critica, a mio avviso ingiustificata, di ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è invece la forza di teorie del tipo di quella di Marx (ma non solo di questa).
L’economicismo prende spesso la forma che Marx definì feticismo delle merci, con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo le merci, appunto) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare di economicismo quando questi ultimi vengono nascosti, in generale, da quantità definite economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie, saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento che mi sembra francamente uno dei più banali in tal senso è, ad esempio, il seguente (assai usato dal vecchio marxismo): “Nell’anno 0 l’x % della popolazione possedeva l’y % del reddito nazionale (o invece del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno 0+t lo stesso x % ne possiede l’y+z %”. Se ne trae allora la conclusione di una evidente iniquità del tipo di società che permette tale crescente maldistribuzione della ricchezza, quindi un evidente sfruttamento dei miseri da parte dei più ricchi, con il corollario che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi. E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi spaventosa con sofferenze inenarrabili per le più grandi masse). Credo francamente che Marx sia ben poco responsabile di simili rozzezze e grossolanità. Considerazioni del genere hanno la stessa valenza e profondità delle considerazioni di un individuo, che viva sempre chiuso in una stanza e pensi che l’intero mondo sia piatto come il pavimento della stessa (è quanto è accaduto all’umanità per migliaia e migliaia d’anni, ma ce ne siamo affrancati salvo che nelle analisi degli economisti degli ultimi decenni).
Ben diverso è il caso quando lo studioso dei rapporti tra uomini non si limita a trattarli alla stregua di una cena tra amici, di una riunione di condominio, di un raduno di alpini, di un incontro d’amore, di un incidente d’auto (con testimoni annessi), del ripararsi nel medesimo androne durante un nubifragio; o anche di una conferenza, di un seminario, di una serata di discussione nella sede del partito, dell’organizzazione di una manifestazione o di un attentato, ecc. Ad esempio, il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa, di rapporti sociali a grana grossa che tende a mettere in luce alcune determinazioni decisive di date società (o, in linguaggio marxista, formazioni sociali o forme di società). Va innanzitutto ricordato che, almeno per quanto riguarda la mia interpretazione, detta intelaiatura non è la riproduzione (una sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura reale in dati periodi storici (in realtà, a rigor di logica, tutto dovrebbe modificarsi in continuazione), bensì una costruzione teorica che tende a mettere ordine nel “caos” degli innumerevoli rapporti che gli individui intrattengono tra loro, cercando in definitiva di decifrare quali sembrano essere più decisivi, più influenti ai fini delle dinamiche di quella data società; si formulano così delle ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione di quest’ultima. Si tenga sempre ben presente che si tratta solo di ipotesi, la scienza non può dare certezze; se lo fa con presunzione e arroganza, non è scienza, solo imbroglio e desiderio di dominare altri uomini ignoranti con un finto sapere (questo è oggi l’atteggiamento riprovevole, oltre che ridicolo, di troppi presunti studiosi, soprattutto in campo economico e medico).
Nessuna ipotesi che metta “ordine” può tuttavia essere indicata se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti individui componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono definiti ruoli (le “caselline” della struttura ipotizzata come la più idonea al “mettere ordine” in questione), e se non si trascelgono le funzioni ritenute principali che tali ruoli sono in grado di svolgere. Da questo punto di vista, il concetto (costrutto) di “modo di produzione” intendeva trasmettere le seguenti informazioni: a) l’esistenza, appunto, di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando i quali gli agenti avrebbero formato delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) l’esistenza di funzioni cui sarebbero adibiti tali agenti delle varie classi, di alcune delle quali si può predicare il dominio e di altre l’essere dominate (anche, eventualmente, con la costruzione di una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli assetti (economici, politici, ideologici) di quella data formazione sociale che le dinamiche di riproduzione degli stessi.
In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto marxiano di “modo di produzione” sperava di ottenerne uno di particolare successo – tutti i discorsi si fanno generici, confusi, rinviano a erratici flussi di potere o ad una sorta di psicologia sociale degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale di incerta derivazione senza “base” alcuna; il tutto preparato, non a caso, da una presunta “critica dei fondamenti”, che apre la strada ad una serie di considerazioni di tipo sociologistico e/o politicistico, per nulla affatto ininteressanti o superflue, ma che certamente risentono in modo troppo forte delle preferenze e predisposizioni degli autori delle stesse. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un pregio, non un orpello fastidioso da buttare dietro le spalle; a patto, come già rilevato, di non presumere certezze definitive poiché tutto è sempre ridiscutibile. E credo non ci sia niente di male ad invitare almeno alcuni fra i giovani, con cui si dibattono i temi della (miserabile) situazione odierna della nostra società, a dedicarsi alla fatica della scienza. So che è molto impegnativo e difficile, e bisogna perderci tanto tempo, ma è l’unico modo di arrivare “più a fondo” nella critica – l’arma della critica e non la critica delle armi, ben consapevoli che talvolta quest’ultima è inevitabile – ai gruppi sociali, di vario ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti tra dominanti e dominati; anche la lotta CULTURALE contro tali gruppi verrebbe rafforzata da una rigorosa analisi delle loro funzioni. E d’altronde la stessa critica delle armi va adeguatamente preparata e valutata con tale tipo di analisi, mai in modo solo irruento e “viscerale”, che può essere soltanto la facciata per infiammare e condurre allo scontro masse d’uomini, ben sapendo che, sotto l’apparente disordine, deve sempre esserci una STRATEGIA (basata sul calcolo dei probabili rapporti di forza) molto lucida e fredda, pena il disastro e la sconfitta assicurati.
Quando, scrivendo e parlando, manifesto idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso, prendendolo per umorale; se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive dell’odierno ordine sociale, ci si renderebbe conto di quanto questa idiosincrasia – manifestata con assai maggior virulenza a parole – sia tributaria di una analisi del tutto “realistica” del “servizio” che detta “sinistra” rende alle frazioni peggiori dei dominanti in questione. Alla fine degli anni ’60 – nel mio periodo prealthusseriano e prebettelheimiano – scrissi un articolo (pubblicato solo nel ’73 nel Che fare?, rivista diretta da Francesco Leonetti) in cui delineavo la progressione futura della politica del PCI in quanto organizzazione che si sarebbe infine messa alle dipendenze di date frazioni di quella che designavo allora ancora come “borghesia monopolistica” (termine invecchiato). Al di là di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta di quasi mezzo secolo fa), mi si concederà che feci una previsione molto in anticipo sui tempi; ma potei farla solo in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non esito a definire come fondamentalmente scientifica, pur se certo con i termini e l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi “di superficie”, culturalistica e quasi psicologistica, conduceva la stragrande maggioranza dei critici (sessantottini) di allora a parlare, al massimo, di ideologia piccolo-borghese del PCI e cose del genere, rivelatesi del tutto errate.
Non intendo tediare oltre il lettore. Ma invito tutti – naturalmente quelli che leggeranno queste poche righe; molte solo per i lettori di questo luogo un po’ “insano” che è FB – a meditare attentamente sull’uso a volte pretestuoso che si fa di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Se qualcuno non si assume la fatica e il tedio della “fredda” scienza, non faremo molti passi in avanti. E quando dico qualcuno, intendo riferirmi non al sottoscritto, che ha ormai fatto la sua parte (o almeno il 95% di essa), bensì ai giovani (pochi invero) che mantengono, quasi miracolosamente, un atteggiamento critico ma non soltanto viscerale e “istintivo”. Si abbia il coraggio di mettere il culo sulla sedia per qualche ora al giorno, e si legga e rifletta, imparando a formulare delle ipotesi teoriche da sottoporre poi ad ulteriori letture e riflessioni, dato che nel campo delle scienze sociali non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particelle o telescopi giganti, ecc.; e lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni (nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza le strutture e dinamiche. Per difendere una certa causa, non c’è sempre bisogno di mettere bombe e nemmeno di affrettarsi a immaginare ribellioni “popolari” abbellite (e ingigantite) dalla nostra capacità di fantasticare; si può anche far funzionare il cervello che ha questa specifica capacità di “costruire” strutture architettoniche in grado di mappare, di ordinare semplificando, il territorio (sociale non meno di quello naturale) in cui ci si deve muovere, cercando di accrescere l’efficacia delle nostre analisi e interpretazioni. Sempre ipotetiche e soggette alla prova, sia chiaro!

podcast 22_Realtà oltre la fantasia. L’intreccio dei destini personali e delle strategie politiche. Il caso Skripal, di Gianfranco Campa

Clamoroso! Dopo fiumi di inchiostro e ore di immagini sul caso di spionaggio russo ai danni della spia russa al servizio dell’intelligence inglese, Gianfranco Campa ci offre un punto di vista fuori dal coro dalle implicazioni esplosive. Il caso Skripal, il suo tentativo di assassinio, ha da subito rivelato tali lati oscuri da rendere poco credibile, ad occhi appena vigili, la versione inglese di una scorribanda omicida dei servizi russi. Le interpretazioni più critiche arrivavano tutt’al più ad attribuire alla volontà inglese di creare un diversivo alle difficoltà legate alla gestione della Brexit. Campa, componendo diversamente gli elementi di un puzzle conosciuto dagli ambienti politici più avveduti, ma debitamente occultato dall’attenzione di massa, ci porta più in là. Ci offre, in particolare, ulteriori importantissimi elementi della battaglia mortale che si sta conducendo intorno e dentro la Casa Bianca. E’ sconvolgente il fatto che i fautori delle dinamiche interne dello scontro non si preoccupino minimamente dei rischi che comportano il coinvolgimento delle relazioni estere in queste faide. Non è una novità. Da che mondo e mondo le periferie e gli avversari hanno dovuto subire le implicazioni delle lotte di potere interne al centro dell’Impero. La Russia, per una parte importante e prevalente dell’establishment americano, è ancora e comunque l’avversario da battere. Sia per rivalità dirette, sia per impedire possibili sue convergenze strategiche con la Cina. Trump, privo ormai dei suoi consiglieri più fidati, rischia di essere trascinato, più o meno inconsapevolmente, in giochi più grandi di lui. I governi europei, con isolate eccezioni, sono relegati ad un ruolo meschino di servile accondiscendenza ad una delle fazioni. Gli interessi dei popoli europei vengono dopo, molto dopo. Buon ascolto. Si confida in una buona diffusione_Giuseppe Germinario

RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITÀ STRUMENTALE di G. La Grassa

Pubblichiamo qui sotto un  interessante saggio di Gianfranco La Grassa sul concetto di razionalità strategica e razionalità strumentale. La definizione ad inizio dello scritto introduce, in realtà, rapidamente al tema dell’analisi concreta delle formazioni sociali partendo dalle dinamiche conflittuali tra centri strategici e dal tentativo di riproporre in maniera più corretta e realistica la questione di una loro trasformazione che porti all’emancipazione degli strati subalterni. Un chiaro superamento della rappresentazione dualistica del conflitto sociale.

Lo scritto, tuttavia, apre più o meno esplicitamente numerose questioni piuttosto che risolverne come del resto è ovvio che sia per un tentativo di rottura critica di chiavi di interpretazioni ormai inadeguate e deleterie.

  • tende a liquidare troppo sbrigativamente il lavoro di ricerca teorico-filosofico teso ad individuare le caratteristiche intrinseche del politico e le relazioni di questo con gli altri ambiti dell’agire umano e tra esse la funzione della cooperazione oltre che del conflitto; un tale impegno è ovviamente parte integrante del contesto storico, sociale e culturale nel quale agisce ma è altrettanto indispensabile per individuare ed inquadrare sistemicamente le nuove chiavi di interpretazione, l’analisi concreta e gli obbiettivi politici senza sostituirsi ad essi, specie in Italia dove il dibattito in merito langue da almeno quarant’anni
  • il saggio, al pari delle precedenti elaborazioni di La Grassa, attribuisce un ruolo prioritario all’azione dei centri strategici, quindi all’azione e ai loro disegni politici; sottolinea che, con il rapporto capitalistico, il politico pervade ed agisce nell’economico; per meglio dire, è una mia precisazione, il ruolo politico della e nella funzione economica si accresce. Ma sino a che punto in termini assoluti e soprattutto rispetto agli altri ambiti?
  • l’autore parla di conflitto tra formazioni sociali capitalistiche e tra centri strategici (capitalistici?) in esse e tra di esse. Poiché, secondo definizione marxiana, il capitalismo è un rapporto sociale di produzione, laddove il possessore dei mezzi di produzione sovrasta il salariato, non si rischia di tornare alla surdeterminazione dell’economico, al meglio del politico nell’economico, rispetto agli altri ambiti?
  •  GLG sancisce l’inesistenza del “popolo”; sembra ricondurre la sua estinzione al processo di frammentazione e specializzazione proprio delle formazioni capitalistiche più mature ed evolute e all’incapacità, quindi, dei loro centri strategici di garantire i sufficienti livelli di coesione e di assimilazione identitaria necessari a garantire la sostenibilità interna ed esterna di esse. Mi pare una affermazione troppo apodittica che tende a sottovalutare le capacità di ricomposizione, magari sotto nuove vesti e nuovi nuclei, dei centri strategici e ad assecondare la facile, ma a mio avviso poco fondata, contrapposizione tra ad esempio i comunitaristi portatori della positiva pienezza dei valori umani, alla Fusaro e de Benoist, e i mercificatori alienatori della natura umana, propri dei capitalisti globalizzatori
  • con l’occasione il prof. La Grassa riprende il tema dell’emancipazione degli strati subalterni e delle particolari condizioni di crisi sistemica di particolari formazioni che potrebbero favorire la loro sollevazione e affermazione. Non si tratterebbero più di classi in sé, ma di gruppi o strati ben condotti da centri ben determinati ed alternativi. Il discorso nella fattispecie, una caratteristica comune a tutti, compreso chi scrive, rischia di cadere nell’indeterminatezza ed oscillare inconsapevolmente tra l’utopia di una società libera e egualitaria e l’azione magari anche meritoriamente redistributiva interna al sistema, ivi comprese le gerarchie stabilite. GLG avverte per altro saggiamente delle capacità dinamiche, propulsive e di sviluppo di un sistema fondato sulla concorrenza; della capacità, quindi, di riassorbimento, il più delle volte, delle contraddizioni più esplosive. Si tratta comunque di un avvertimento molto più opportuno e proficuo se finalizzato ad individuare nelle formazioni sociali e nei processi riformatori e rivoluzionari quelle figure e strati sociali e quei centri strategici i quali, per acquisire il controllo del potere o la partecipazione ad esso siano disposti a riconoscere un ruolo ed una condizione diversa e migliore, ivi compresa la mobilità, agli strati più subalterni. Anche in questo caso, però, il rischio di scambiare il classico piatto di lenticchie alle prospettive di sviluppo dinamico e duraturo è sempre presente. L’esperienza dei paesi socialisti, ancorché poco studiata, è tutta lì a dimostrarlo.

Mi sembrano cinque dei punti già sufficienti a consentire un’ulteriore spinta alle ipotesi di ricerca suggerite dal professore. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

 

norne

GIANFRANCO LA GRASSA _ RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITA’ STRUMENTALE  http://www.conflittiestrategie.it/razionalita-strategica-e-razionalita-strumentale-di-g-la-grassa

 

  1. Non intendo qui diffondermi troppo sui due tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai chiarire alcune differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”) – fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in ultima analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta dose di ingenuità dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque quest’ultima possa essere intesa.

La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.

D’altra parte, la valutazione della situazione sul campo non è eseguita in base alla semplice razionalità strumentale, quella del minimo mezzo o del massimo risultato; quest’ultima attiene principalmente all’ambito economico in senso stretto, pur se poi è stata ampliata ai vari aspetti della vita personale e collettiva (sociale). Sia per quanto concerne la sua applicazione in campo economico sia per il suo generalizzarsi ad altri settori di attività, detta razionalità si è affermata essenzialmente in epoca capitalistica. Nella stessa conduzione delle attività produttive, agricole e artigianali, in formazioni precapitalistiche, essa non veniva affatto in evidenza; i saperi produttivi, frutto di una lunghissima e in genere lenta accumulazione storico-culturale, non avevano molto a che vedere con una mentalità semplicemente strumentale, che sarebbe anzi stata una vera “palla di piombo ai piedi” per artigiani e contadini delle società precapitalistiche, e avrebbe condotto alla disgregazione delle stesse per l’impossibilità di conciliare la struttura produttiva con quella del potere (che è poi quanto in definitiva accaduto durante la lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo). In ogni caso, anche nella formazione sociale del capitale la posizione di preminenza attribuita alla razionalità strumentale ha carattere largamente ideologico. Certamente essa è creazione del capitalismo, e in quest’ultimo viene largamente utilizzata nei vari ambiti dell’attività sociale, ma non assurge affatto alla posizione di vertice nell’agire delle “classi” dominanti nemmeno in questa forma di società.

E’ stato un errore dello stesso marxismo – tutto centrato sul problema dell’ottenimento del massimo profitto (e quindi della massima estrazione del pluslavoro/plusvalore) da parte del capitalista, visto come essenzialmente proprietario e non invece quale agente di strategie – pensare che la razionalità strumentale (quella della cosiddetta efficienza) sia non solo acquisizione fondamentale del “modo di produzione” capitalistico, ma sorregga l’insieme dei rapporti caratteristici della società da questo strutturata e ne alimenti la dinamica decisiva; e rappresenti addirittura una conquista della Ragione che, sciolta dall’esigenza (del puro proprietario) di conseguire il massimo utile individuale, sarebbe cruciale anche nella futura società comunista onde sviluppare le forze produttive e conseguire quella massa di beni, cui potrebbe attingere ogni membro della società “secondo i suoi bisogni”.

 

  1. L’analisi della situazione sul campo – configurazione di quest’ultimo, forze in campo, ecc. – e le risposte ai mutamenti della stessa non si basano quindi sul mero principio del minimo mezzo o del massimo risultato; nel contempo, esse non consistono certo esclusivamente nel colpo d’occhio, nell’intuizione dell’agente strategico. Quest’ultima ha un che dell’arte, ma l’analisi e le risposte di cui si parla sono più vicine allo spirito dell’osservazione scientifica. Infine, nella preliminare individuazione delle tecniche e delle metodiche da impiegare per far fronte ai problemi osservati e analizzati, inizia a farsi avanti la razionalità della “efficienza economica”, quella del minimo mezzo, insomma quella detta strumentale. Quest’ultima ha dunque un ruolo subordinato, non è funzione esplicata dagli agenti “dominanti” (sto parlando delle differenti funzioni, non degli individui empirici che le supportano e che possono esercitarne contemporaneamente più d’una). Per il dominio, cioè per conquistare la supremazia attraverso la lotta, occorre l’analisi – assimilabile all’osservazione scientifica – e l’“artistico” colpo d’occhio sull’insieme e le sue intrinseche, ma non manifeste, potenzialità dinamiche (forza e direzione dei possibili eventi da provocare o impedire o deviare, ecc.) che debbono essere volte al successo della propria lotta tesa a prevalere.

Per ottenere la “vittoria in battaglia” sono perciò necessarie soprattutto le funzioni del “comandante in capo” (che, ovviamente, non è obbligatoriamente un solo individuo), capace di cogliere quello specifico potenziale insito nell’insieme, e le funzioni dello “Stato Maggiore” atte a svolgere i compiti relativi alla lucida e “scientifica” analisi del campo e delle forze in campo, con tutto ciò che segue. Il potenziale dell’insieme è la ben nota singolarità, che non è soggetta a generalizzazioni; pur se le varie “battaglie” svoltesi in passato, e le innumerevoli mosse strategiche in esse impiegate, sono sempre sottoposte a studio e a vaglio accurato in previsione di quelle future. L’analisi e valutazione del campo e delle forze in campo sono invece soggette a queste generalizzazioni (di tipo scientifico, per l’appunto), ma non debbono pesare sulle decisioni da prendere in future “battaglie” secondo una loro scolastica e pedantesca ripetizione, che condurrebbe quasi sempre a “sconfitta”. Ancor meno debbono pesare, sulle decisioni strategiche cruciali prese nella lotta per la supremazia, le tecniche e metodiche secondo cui vengono in essa impiegate “efficientemente” determinate risorse; tecniche e metodiche che, come sopra rilevato, attengono ai compiti delle funzioni strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato.

 

  1. L’aver posto tali funzioni (rette dalla razionalità strumentale) come essenziali e pervasive dell’intera attività dei dominanti capitalistici (trattati quali meri proprietari dei mezzi produttivi e finanziari) – e averne addirittura fatto una conquista generale del pensiero umano per ogni futuro sviluppo e trasformazione della società, addirittura in direzione del presunto comunismo – ha veramente ottuso le capacità critiche degli anticapitalisti. Quella che è soltanto ideologia – con la solita funzione di mascheramento delle fonti effettive del predominio degli agenti capitalistici, che non sono affatto semplici proprietari – è passata per una conquista fondamentale del pensiero razionale; una conquista, come altre del capitalismo, da mantenere e sviluppare poiché se ne supponeva l’indispensabilità anche ai fini della transizione al socialismo e poi comunismo.

Se, come ho chiarito più volte negli ultimi anni, fosse stata valida l’ipotesi di Marx relativa alla formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo cooperativo, in cui tutte le diverse funzioni (intellettuali e manuali, direttive ed esecutive) si sarebbero integrate in un unitario e compatto tessuto produttivo, allora la sussistenza di tale mascheramento ideologico non avrebbe alla fine nuociuto più che tanto. Il movimento reale – non l’opera di costruzione del socialismo da parte di presunte avanguardie della Classe (per antonomasia) – avrebbe condotto all’esaurirsi delle funzioni produttive dei proprietari capitalistici, trasformati in rentier, e all’affievolirsi dello spirito di competizione per la supremazia di dati gruppi sociali su altri. A questo punto, la razionalità del minimo mezzo sarebbe in effetti divenuta quella prevalentemente applicata nelle attività sociali (non della sola sfera economica) in quanto dirette soprattutto allo “sfruttamento” del “fondo naturale” per ottenere di che soddisfare i bisogni degli individui stretti in una società coordinata e di cooperazione, senza conflitti antagonistici né sfruttamento degli uomini su altri uomini.

Poiché la dinamica capitalistica, intrinseca o meno che sia, non conduce affatto in simili direzioni virtuose, è ovvio che le conclusioni da trarre sono totalmente differenti. La razionalità strumentale diventa un semplice mezzo per procurarsi, nel migliore (più efficiente) modo possibile, le risorse necessarie all’espletamento delle funzioni legate alla lotta per la supremazia, e che sono quelle appena sopra illustrate. La formazione sociale si frammenta, si segmenta e si stratifica sempre più complessamente, le minoranze predominano sulle maggioranze, ma attraverso lo scontro tra i vari gruppi di agenti di cui sono composte, gruppi che applicano strategie di lotta ai fini della prevalenza di alcuni su altri. Non si va minimamente formando alcun vertice ristretto e sempre più unitario di sfruttatori. La lotta tra gruppi conosce varie “periodicità” – da me adombrate con i termini di monocentrismo e policentrismo – che sono fasi (epoche) diverse in riferimento sia a quella da me indicata quale formazione sociale in generale sia alla formazione globale, costituita da una mutevole articolazione di tante formazioni particolari fra loro in conflitto, con i connessi fenomeni comportanti lo sviluppo ineguale dei vari gruppi capitalistici, in sede “nazionale” come “internazionale”.

In una società per null’affatto interessata da un movimento interno di omogeneizzazione e compattamento “armonico”, bensì da processi di frammentazione crescente e di – più o meno acuta a seconda di un periodico “pulsare” per epoche o fasi dell’evoluzione capitalistica – interazione contraddittoria e conflittuale tra i suoi vari comparti (o raggruppamenti, dominanti e non), le funzioni strumentali, attinenti al conseguimento del massimo risultato, scadono a semplice mezzo per procurarsi, con la massima “economicità”, le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni strategiche, compito precipuo degli agenti dominanti in reciproca lotta per gruppi (per “bande”) ai fini della supremazia. A questo punto, sono gli “Stati Maggiori” con i loro “Comandanti in capo” a rappresentare quella “classe capitalistica”, che il marxismo pensava fosse invece costituita da semplici proprietari. Questi avrebbero esercitato una funzione produttiva propulsiva nel capitalismo concorrenziale – poiché il conflitto era visto dai marxisti come un fatto prevalentemente economico, un fenomeno in ultima analisi orientato dalla finalità del massimo prelievo di plusvalore in quanto profitto dell’impresa capitalistica – mentre sarebbero divenuti parassiti e “similsignori” nel capitalismo monopolistico strutturato in grandi società per azioni. Si sarebbe trattato certamente di “signori” differenti da quelli feudali o protocapitalistici per il tipo di rendita percepita: non più dalla terra, non più dal semplice prestito in denaro, ma prevalentemente dalla proprietà azionaria, dalla “attività” di “staccare cedole”.

Nella società capitalistica realmente affermatasi, strutturata in gruppi sempre più numerosi e in crescente disarticolazione, con “successiva” (in senso logico) ri-connessione interattiva tramite forme varie di conflitto di periodicamente differente intensità e acutezza, i dominanti sono gli agenti strategici (del “colpo d’occhio d’insieme” e dell’analisi del campo e delle forze in campo) che rendono la società capitalistica un terreno di battaglia, in cui tutti, ai più vari livelli della scala sociale, sono coinvolti; anche se gli strati sociali bassi sono quasi sempre truppe al seguito degli “Stati Maggiori”, ecc. Solo raramente, in particolari frangenti storici (congiunture), le truppe –  “incontrando” dati gruppi di dirigenti e di capi – sono in grado di nuocere agli agenti dominanti in una certa fase di acuto scontro tra questi ultimi; ma non è affatto deciso ineluttabilmente, come il novecento ha ampiamente dimostrato, quale sia l’effettivo sbocco degli eventi “rivoluzionari”. Sia l’ideologia dei dominanti (agenti capitalistici), sia quella degli un tempo oppositori e intenzionati a trascinare le “truppe” (le masse popolari) contro il loro potere, hanno provocato un totale annebbiamento della strutturazione della formazione capitalistica: sia di quella in generale sia di quella globale con le sue articolazioni particolari.

 

  1. E’ ormai indispensabile uscire – puntando intanto su di essa il riflettore del pensiero critico – da questa ideologia della razionalità strumentale in quanto elemento fondante e carattere decisivo della struttura capitalistica e dunque del movimento dei suoi rapporti di dominazione/subordinazione; un elemento che sarebbe negativo se utilizzato dai proprietari (dei mezzi produttivi) per sfruttare il lavoro (estorsione del massimo pluslavoro/plusvalore), ma che la “rivoluzione comunista” avrebbe potuto rovesciare in positivo, “estraendone il nocciolo razionale”, eliminando la proprietà privata e affidando il coordinamento cooperativo della produzione alla classe lavoratrice (cioè alle sue pretese “avanguardie”).

Deve essere contrastato questo ottundimento del pensiero, che ha condotto a pratiche inizialmente anche “eroiche” e che hanno rappresentato il famoso “assalto al Cielo”, ma che poi si sono, loro, rovesciate in aberrante dominazione di masse “abbrutite” da parte di capi degenerati in perpetua lotta (assassina) fra loro. Un comunismo, incapace di uscire dalla ideologia “annebbiante” fin qui illustrata, ha avuto un suo grande periodo in cui è sembrato essere il movimento di emancipazione dei diseredati contro i bestiali sfruttatori capitalisti (e colonialisti e imperialisti), ma ha poi abdicato completamente ai suoi ideali originari per divenire il peggiore e più devastante dei movimenti politici esistenti nell’ambito del capitalismo. Basta dunque con il comunismo in tutte le salse lo si voglia cucinare; e basta con il marxismo che ha toccato l’apice di quanto poteva farci conoscere per poi decadere a “dottrina religiosa” del tutto ottenebrante; una “religione” che non è nemmeno più l’oppio dei popoli, ma solo di piccole sette di inutili cultori del nulla teorico e politico.

Tuttavia, la reazione a questo annebbiamento ideologico non deve portare a rivalutare le sconfortanti banalità dell’ideologia conservatrice neoliberista o delle sue versioni “riformiste” neokeynesiane. Dalla padella nella brace; peggio la toppa dello strappo! Questa è l’alternativa che ci offre un ceto intellettuale fra i più fatui e sciocchi annoverati nella storia dell’Umanità; un vero campionario di “idioti con alto quoziente di intelligenza”, come recitava un “salmo” del movimento sessantottardo, che volentieri sostituirei con la più incisiva battuta di quel genio che fu Ettore Petrolini: “idioti con lampi di imbecillità”.

Ogni inizio è senza dubbio difficile. E’ tuttavia necessario che soprattutto i più giovani, e liberi di mente, non ottenebrati da quel cumulo di fanfaluche ammassate dagli intellettuali soprattutto negli ultimi trenta-quarant’anni, si mettano in moto al più presto; e prendano a calci chiunque parli di liberismo, di keynesismo, di marxismo; chiunque ancora si riempia la bocca di quelle ormai sconce parole – sia chiaro: di ben altro significato ed elevatezza molto tempo addietro – che sono democrazia liberale, socialismo, comunismo, con tutte le loro infinite variazioni.

 

  1. Cominciamo con il riportare al centro della questione, cioè dell’organizzazione dell’attuale società nella sua globalità (mondialità), il principio della preminenza delle funzioni strategiche che sottomettono, piegano ai loro fini, quelle strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato. In questo contesto, non mi sembra di alcun interesse lanciarsi in disquisizioni filosofiche o simili chiedendosi se lo spirito di competizione – teso però alla preminenza tramite prepotenza, sopraffazione, asservimento (e anche inganno e raggiro) esercitati dagli uni sugli altri – sia connaturato o meno all’essere umano. La millenaria storia dell’Umanità non induce certo all’ottimismo in proposito, ma tenuto conto degli orizzonti temporali su cui siamo in grado di allargare la nostra “vista” (teorica), compiendo analisi e sviluppando argomentazioni dotate di un minimo di realismo e credibilità, è assolutamente inutile arrovellarsi sulla “natura” umana, sulle “costanti antropologiche”, e via dicendo. Credo che discussioni del genere abbiano senso, così come ha senso dibattere sulla religione, sull’esistenza o meno di un Essere chiamato Dio e su molti altri problemi dello stesso ordine che, se hanno da sempre spinto grandi intelletti a profondervi le migliori energie, non sono evidentemente destituite di significato come spesso pensano coloro che hanno cervelli simili a computer, e sistemi nervosi solo dediti alle più elementari sensazioni animalesche.

Tuttavia, per una analisi che in qualche modo si richiami alla scienza della struttura e dinamica della società nell’attuale epoca storica – un’analisi che voglia porre le basi di prese di posizione pratico-politiche in essa, pur se magari ancora assai generali e non indirizzate alla soluzione di problemi “puntuali” – non è gran che rilevante decidere se le tendenze al conflitto per la preminenza, tramite sconfitta e subordinazione dell’avversario, fanno parte dell’intima costituzione dell’essere umano oppure se vi sono speranze circa l’avvento, in un futuro imprecisato, di una società fondata su rapporti interindividuali, al limite ancora competitivi, non però caratterizzati dalla prevaricazione, dalla menzogna e subornazione, ecc. Penso che chi non accetta la società così com’è adesso, diciamo pure quella capitalistica (perché abbiamo in definitiva a che fare con strutture sociali di questo tipo), debba mantenere un atteggiamento di contrasto e di critica radicale dello spirito conflittuale, basato sulla prepotenza e ricerca del predominio, che in detta società si dispiega pienamente in tutte le sue sfere (economica, politica, ideologico-culturale); non ci si deve però porre nella situazione del “profeta disarmato”.

E’ ora di farla finita con la favoletta della non violenza gandhiana, che sarebbe il miglior modo di vincere le proprie battaglie e di porre le basi per una organizzazione sociale di pace e armonia. A parte le falsità storiche raccontate dall’agiografia di Gandhi, che non era poi così pacifico come si vuol far credere (ai gonzi), la sua vittoria è nata dalla reale sconfitta subita dall’Inghilterra nella seconda guerra mondiale. Apparentemente tale paese faceva parte delle potenze vincitrici, ma in realtà uscì dalla guerra nettamente ridimensionato, avendo definitivamente perso il suo ruolo di grande potenza capitalistica e imperialistica (coloniale). Non poteva in nessun caso mantenere l’India nella situazione precedente la guerra, così come dovette rinunciare alle sue altre sfere di influenza asiatiche e africane. Non parliamo del “pacifismo” attuale dell’India, dotatasi dell’arma atomica, in ricorrente conflitto con il Pakistan, con alcuni (molti) suoi governi locali che reprimono moti popolari tipici di un paese lanciatosi nello sviluppo ad alti ritmi, con le sue “naturali” conseguenze fortemente squilibranti in termini sociali.

Oggi, c’è solo da decidere se è relativamente prossima (qualche decennio) una nuova epoca policentrica, con il rinnovarsi dei conflitti per la supremazia tra le diverse formazioni particolari componenti quella globale; oppure se permarrà ancora a lungo una sostanziale preminenza, sempre più deficitaria comunque, degli USA mentre altri paesi (Russia, Cina, India, Giappone, ecc.) non riusciranno ad andare oltre un conflitto tra potenze di carattere “regionale” (degli outsiders insomma). Credo che la tendenza sia verso un autentico conflitto policentrico, preceduto comunque da un periodo, probabilmente di alcuni decenni, in cui si assisterà al rafforzamento delle potenze “regionali”. E tenendo sempre in debito conto il problema dello sviluppo ineguale, per cui si verificheranno durante tale periodo delle “sorprese”: qualche formazione particolare (paese), oggi in ascesa, si arresterà e “deluderà” le aspettative, mentre magari ne verrà fuori alla distanza qualche altra.

Non si deve comunque contare – per tutto il periodo lungo il quale si sarà in grado di formulare qualche previsione in base al processo di gestazione di nuove categorie teoriche interpretative (ipotetiche) – sull’affievolirsi delle tendenze al conflitto e al predominio. E si deve tener presente che le tendenze in questione saranno prevalentemente guidate dai gruppi dominanti strategici di diverse formazioni capitalistiche. I conflitti più acuti si svilupperanno tra: a) la potenza (formazione particolare) centrale odierna e le potenze per il momento regionali, che non possono rinunciare (pena la decadenza dei gruppi dominanti all’interno di esse) al tentativo di contrastare il predominio della prima; b) tra le formazioni particolari o pienamente sviluppate capitalisticamente (USA in testa) o in forte ascesa quanto a sviluppo capitalistico e quelle arretrate o che hanno appena iniziato il loro sviluppo (ad es. l’Iran). In queste formazioni, ancora non pienamente maturate dal punto di vista capitalistico, i gruppi dominanti appaiono in buona parte con-fusi con la massa del popolo, un aggregato anche in tal caso non del tutto omogeneo, ma comunque nemmeno scisso in raggruppamenti ben distinti come nel capitalismo avanzato; un aggregato spesso cementato da una solida cultura comune, spesso da una forte religione. Assai meno acuti e rilevanti appaiono, al presente, i conflitti interni alle formazioni particolari capitalisticamente avanzate, dove la frammentazione sociale è assai spinta e l’interazione tra i vari comparti, in orizzontale e in verticale, non sconvolge la riproduzione capitalistica dell’insieme societario, poiché ci si limita a ridiscutere sia la divisione della “torta” (prodotto complessivo sociale) – il che implica mutamenti di condizioni di vita e di lavoro dei vari comparti in oggetto – sia le rispettive posizioni quanto a “fette di potere”, a status, a diritti e doveri, ecc.

 

  1. Una volta fissato un quadro orientativo di larga (larghissima) massima, si deve decidere dove collocarsi nello svolgimento della propria attività teorica e pratica; ricordando che la teoria – nella misura in cui sia solo quella di carattere scientifico attinente alla “visione” della struttura e dinamica della società – è in definitiva un lato della pratica stessa. Ha certo suoi caratteri propri, esige particolari strumentazioni, ma non “sta da un’altra parte”, non risponde ad altre esigenze, quelle che definiamo, non importa se propriamente o meno, “spirituali”. In questo senso, “la teoria è grigia” e tale deve rimanere. Non è che ciò la renda impermeabile alla penetrazione, mascherata e inconsapevole, di una qualche ideologia; ma deve stare sempre in guardia contro simili influssi (pur non sapendo in anticipo da che parte arriva il pericolo), deve compiere i suoi passi con prudenza e sempre sorvegliandosi. Non punta in ogni caso ad accendere gli animi, a suscitare entusiasmi, a dare un senso alto alla propria lotta. Questi compiti spettano ad altri lati dell’agire umano.

Guai se Lenin fosse sceso nell’agone della rivoluzione russa con in mano Il Capitale o anche semplicemente il suo Che fare o il saggio sull’imperialismo; guai se avesse “predicato” la teoria del valore lavoro e insegnato che questa dà la certezza dello sfruttamento della forza lavorativa (dei dominati); guai se avesse spiegato il concetto di modo di produzione (e l’intreccio tra forze e rapporti produttivi), se si fosse messo ad elucubrare sullo sviluppo ineguale, e via dicendo. Avremmo una rivoluzione in meno e un mondo assai diverso; e chissà se in poche righe, in un qualche manuale di storia, verrebbe ricordato che in un qualche anno dell’inizio del novecento, in un qualche luogo della Russia, un pazzo furioso era stato picchiato a sangue (forse ucciso) da masse popolari mentre stava vaneggiando e pronunziando parole smozzicate, prive di senso compiuto; e aveva malamente reagito all’indifferenza degli astanti, li aveva insultati, minacciati, maledetti per la loro ignoranza.

 

  1. A me sembra evidente che chi vive nel nostro paese debba accettare la prospettiva di sviluppare la propria attività (teorica e pratica) nell’ambito di una formazione particolare appartenente all’area del capitalismo avanzato, di quella tipologia che in altra sede ho indicato quale formazione dei funzionari (strategici) del capitale. E’ nell’ambito di questa che si dovrà “studiare” come muoversi, almeno in un primo approccio orientativo. Viene in evidenza, innanzitutto, l’impossibilità di trascurare l’humus conflittuale in cui si attua la riproduzione dei rapporti tipici della società in questione. Due errori sono da evitare. In primo luogo credere di poter contrastare immediatamente e direttamente la mentalità del conflitto per il predominio, che permea la società ad ogni livello. Non si tratta di un comportamento tenuto soltanto dagli agenti dominanti. Questi, essendo una minoranza, avrebbero già perduto ogni potere – ed è quanto pensava Marx che non immaginava affatto un capitalismo tanto durevole – se la conquista della supremazia non fosse il movente dell’agire in ogni più piccolo ambito della società. L’ideologia dei dominanti chiacchiera in continuazione della cooperazione, dell’utilità di unirsi, ecc. Ma ogni coagulazione di gruppi di individui si verifica sempre con il fine di meglio lottare contro altri gruppi; non ci si allea per spirito di fratellanza, ma perché, come dice il detto popolare: “l’unione fa la forza”. Anche dove, a parole, si celebra ad ogni istante l’amore (ad es. nella famiglia), in realtà si vivacizza sovente un confronto più o meno aspro o invece attutito dalla “giusta” valutazione delle rispettive posizioni di forza.

E’ ovvio che si cerchino tutti i marchingegni (legali) possibili per contemperare l’uso reciproco della violenza, per non andare incontro alla generale disgregazione e indebolimento, ecc. Ma si tratta del conseguimento di equilibri del tutto instabili che, qualunque sia la loro assai diversa durata, sono comunque soltanto periodiche soste tra uno squilibrio e l’altro. Non si raggiunge per via puramente formale ciò che non diventa insito nel movimento riproduttivo dei rapporti sociali. Nella società capitalistica, d’altronde, si è solo verificata l’estensione alla sfera economico-produttiva del principio del conflitto, che in altre epoche storiche vigeva soprattutto in quella politico-militare e in quella ideologico-religiosa. Certamente, questa estensione ha “involgarito” le classi dominanti; la generalizzazione della forma di merce, che significa la pervasività sociale del pagamento in denaro, ha reso tutto “comprabile”: l’onore, la dignità, il coraggio, la lealtà, ecc. Tutte queste belle qualità, però, servivano nelle precedenti epoche a stabilire regole diverse, e forse più “nobili”, di scannamento generale (o di duello individuale). Il principio del conflitto per sopraffare gli altri e assumere la predominanza non è però differente da quello degli “ultimi”….cinque o diecimila anni (o quanti? Credo da sempre).

Lo sviluppo nella “pacifica” India è del tutto simile a quello in atto nella “crudele” Cina; poiché è comunque disarmonia, squilibrio, lotta. Prima si sviluppano alcune regioni del paese e poi, sussistendo certe politiche effettuate da dati gruppi dominanti, assistiamo ad un trasmissione del dinamismo all’insieme, ma senza che si verifichi alcun livellamento delle differenze; quasi sempre, invece, in accentuazione. L’arricchimento di una parte della società – dei gruppi dominanti – è poi seguito, sempre se vengono attuate le opportune politiche, da un più “timido” innalzamento del livello di vita degli strati sociali dominati, e non in modo uniforme ed eguale neppure in quest’ambito. Il realismo impone di prendere le mosse dalle considerazioni appena fatte, non dalle menzogne, consapevoli o meno che siano, di ideologi imbonitori al servizio delle classi dominanti (sempre, anche quando sembra che difendano i dominati). Qui si pone quel problema che i vecchi “marxisti” incanalavano, con “falsa coscienza”, nella discussione sul rapporto tra riforme e rivoluzione. Ormai, tale problema non mi sembra proprio debba essere più posto nei termini di un tempo ben lontano.

I vecchi comunisti e marxisti pensavano l’attività riformistica – necessitata qualora ci si trovasse in un contesto sociale ancora fortemente dominato dalla classe capitalistica proprietaria – quale periodo di training e di accumulazione delle forze della classe in sé portatrice della rivoluzione. Le riforme, attuate nella sfera della distribuzione e del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (salariati), avrebbero vieppiù messo in evidenza l’impossibilità di contrastare per tale via lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro, sia pure nella ingannevole forma del valore-lavoro delle merci, che sembra assicurare il mero scambio di equivalenti); nel contempo, tramite le lotte riformistiche si sarebbe rinsaldata l’unione della classe deputata al rivolgimento dei rapporti capitalistici, già in via di compattamento a causa del movimento intrinseco alla riproduzione sociale, teso alla già rilevata formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Una volta abbandonata questa scorretta e ormai inaccettabile visione della dinamica capitalistica, e appurata la crescente frammentazione (segmentazione e stratificazione) del tessuto sociale, le lotte dei vari raggruppamenti – di lavoratori o meno; e di lavoratori sia salariati che cosiddetti autonomi – restano strettamente confinate al livello distributivo della riproduzione dei rapporti sociali. I problemi della crisi, non nel suo semplice aspetto economico che è il meno dannoso e pericoloso per i dominanti capitalistici (malgrado l’enfasi posta su di essa dagli epigoni di Marx), nascono proprio dalle modalità assunte dallo sviluppo nell’ambito sia della formazione in generale che, soprattutto, di quella globale con riferimento all’articolazione di quelle particolari che la compongono. Lo sviluppo, causato dalla forte tensione dinamica impressa dalla lotta per la preminenza (estesasi nel capitalismo anche alla sfera economico-produttiva), provoca scissioni e distanziamenti tra ceti sociali e tra le diverse formazioni particolari (in genere paesi o gruppi degli stessi); diventano così molto probabili periodiche acutizzazioni delle tensioni sociali e delle lotte che da queste derivano.

Tuttavia, la situazione si aggrava nettamente quando si verifica lo sviluppo ineguale: sia tra gruppi dominanti diversi in una certa formazione particolare sia tra differenti formazioni particolari nell’ambito di quella globale. E’ l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali, in specie tra quelli dominanti e soprattutto quando i mutamenti avvengono rapidamente in seguito a lotte estremamente acute, a provocare crisi politico-istituzionali, ideologico-culturali, ecc. che lacerano il tessuto sociale con possibilità di ristrutturazioni radicali. Le stesse considerazioni valgono per le crisi legate all’affermarsi di differenti rapporti di forza tra formazioni particolari e al precipitare di scontri accesi tra di esse per la preminenza globale. Va anche detto che spesso, e più facilmente, le crisi interne a determinate formazioni e quelle inerenti al confronto tra più formazioni in ambito (geopolitico) globale si intrecciano e alimentano vicendevolmente.

E’ bene ricordare ancora una volta che, per quanto riguarda sia la lotta tra gruppi all’interno di una data formazione particolare sia il conflitto tra più formazioni particolari, le crisi di maggiore intensità e ampiezza si manifestano quando lotta e conflitto si inaspriscono soprattutto tra dominanti. Se una certa costellazione di forze dominanti (costituita da intrecci di agenti strategici delle varie sfere sociali) fa entrare una formazione particolare in situazione di difficoltà, stagnazione, crisi, malcontento sempre più generalizzato, ecc., è più probabile, almeno in un primo tempo, l’emergere di altri gruppi dominanti che si pongono in alternativa. Così pure, quando si transita alle fasi policentriche, il conflitto si acutizza specialmente, provocando i più netti risultati trasformativi (passaggi d’epoca), tra formazioni particolari dell’area a capitalismo avanzato, caratterizzate da differenti ritmi di sviluppo, che non accettano più di sottostare alla formazione particolare fino ad allora in posizione predominante.

 

  1. Non è qui il caso di riferirsi specificamente alla formazione particolare Italia, che andrà analizzata ad un “più basso” livello di astrazione teorica. Tuttavia, sia pure per linee assai generali e generiche, è bene trarre alcune conclusioni da quanto fin qui sostenuto. Non esiste intanto alcuna classe, in via di omogeneizzazione e compattamento, da cui emerga uno strato di élite in grado di avere una visione complessiva e ben delineata della necessaria prassi trasformativa del capitalismo; per di più nella direzione di una determinata società altra del tipo del comunismo. Nemmeno è più possibile pensare ancora alla formazione, pur in qualche modo artificiale, di avanguardie “di classe”, che presuppongono pur sempre la sussistenza dell’in sé di quest’ultima, dunque di un movimento oggettivo verso la suddetta sua omogeneizzazione e compattamento, che faccia da supporto alla soggettiva azione rivoluzionaria delle avanguardie in questione.

Esistono sempre, in ogni epoca e in numero maggiore o minore, singoli gruppi di soggetti (individui) – per null’affatto caratterizzati in maggioranza da una determinata collocazione “di classe”, anzi provenienti dai più svariati comparti in cui si frammenta vieppiù la società del capitale – che si pongono criticamente rispetto ai caratteri di prepotenza, sopraffazione (e certo inganno, raggiro, ecc.), tipici del conflitto in questa (come in precedenti) forma di società. Tali gruppi di “critici” si espandono e rafforzano nelle situazioni in cui le tensioni sociali si fanno via via più acute: sia all’interno di una formazione particolare come tra più formazioni (in sviluppo ineguale) nell’ambito di quella globale. Tali gruppi perdono le loro potenzialità – e al limite possono di fatto costituire una “carta di riserva” per i dominanti – se “distraggono” forze da una critica sociale adeguata; soprattutto quando, con estremismo apparente, predicano l’eguaglianza, il pacifismo e altre favole edificanti. In primo luogo, bisogna comprendere la positività della competizione, se sfrondata dei lati di aperta violenza per conquistare la supremazia eliminando o asservendo i competitori. In secondo luogo, va rilevato che la critica alla forma assunta dal conflitto nel capitalismo deve comunque tener debito conto di essa e saperla gestire e sfruttare per i propri fini.

Le “anime belle”, spesso non proprio in buona fede, sono comunque, quand’anche “oneste” (anzi, sono ancora più pericolose in tal caso), del tutto negative e vanno combattute perché indeboliscono l’azione critica. E’ perfettamente inutile cercare di sfuggire alla contraddizione: da una parte è obbligatorio criticare, anzi opporsi drasticamente alla forma capitalistica del conflitto per la preminenza; tuttavia, è nel contempo necessario condurre la propria azione contro i gruppi dominanti, sapendo di strategia e del misto di forza e malizia che l’agire trasformativo (“rivoluzionario”) comporta nell’attuale società. Così pure, è indispensabile orientare i dominati – e prima di tutto unire i raggruppamenti decisivi degli stessi (che non sono affatto in via di amalgama) – per ottenere i risultati trasformativi (di rivoluzionamento sociale); nel contempo, bisogna saper entrare, e proprio nei momenti in cui ciò diventa possibile, nelle contraddizioni tra gruppi dominanti, le cui interrelazioni conflittuali e rispettivi rapporti di forza sono differenti in epoche diverse, in fasi mono o invece policentriche. E via dicendo.

Di tutto ciò è meglio essere ben edotti, avendo inoltre la piena consapevolezza che la propria azione tende a convergere, e rischia di confondersi, con quella degli agenti politici da me denominati rivoluzionari dentro il capitale, messi in campo da nuovi gruppi di dominanti intenzionati, una volta rottisi gli equilibri precedenti, a rovesciare il potere dei vecchi gruppi, le cui strategie – sia interne ad una formazione particolare sia applicate al confronto tra più formazioni –  aprono congiunture di crisi, di tensione sociale, di sfarinamento delle istituzioni, di caduta del consenso, ecc. In definitiva, si tratta delle stesse congiunture in cui si manifestano le maggiori possibilità d’azione da parte dei gruppi anticapitalistici. A causa di questa confusione, di questa “fatale” vicinanza di intenti “rivoluzionari” profondamente diversi, non è mai assicurato il successo, nemmeno nei momenti di massima crisi interna a date formazioni particolari, delle forze che agiscono specificatamente contro il capitale.

 

  1. Riassumiamo. Quella che continuiamo a chiamare società capitalistica – composta da ondate successive di sviluppo di formazioni sociali caratterizzate da via via differenti strutture di rapporti (capitalismo “borghese”, dei “funzionari del capitale”, ecc.) – non ha (più) molto a che vedere con le indicazioni forniteci dalla teoria di Marx; a meno di non rifarsi alla banale ripetizione delle “giuste” previsioni marxiane circa la centralizzazione monopolistica dei capitali, la generalizzazione della forma di merce e la continua estensione del mercato globale, e via cianciando. Se Marx avesse “scoperto” solo simile “acqua calda”, sarebbe veramente uno studioso di secondo rango. Ha detto molto di più, può quindi stimolare ben altre formulazioni teoriche; queste però debbono oggi soltanto aiutarci a percorrere nuovi sentieri. Le riflessioni di Marx vanno prese come un invito pressante a rimuginarne di nuove, che si distanzino dalle sue; è ben noto che, quando ci si allontana criticamente da un grande pensatore, non lo si abbandona e tanto meno lo si tradisce, bensì lo si usa – proprio mediante la negazione determinata delle sue tesi – quale pungolo ancora fecondo e vitale. Solo i dottrinari “chiesastici”, quali sono i rimasugli marxistoidi d’oggi, non capiscono tale problema e ci propinano sterili rimasticature del passato remoto.

I gruppi dominanti non tendono a centralizzarsi ed unificarsi, permangono invece in conflitto continuo con alternanza di acutizzazione e attenuazione dello stesso; quell’alternanza che, al livello delle interazioni fra formazioni particolari nell’ambito di quella globale, danno vita alle epoche (di lunga durata) di mono e policentrismo. All’interno delle singole formazioni particolari, le fasi di accentuazione dello scontro tra dominanti conduce, non però necessariamente e ineluttabilmente, a congiunture di “rivoluzione” con sbocchi non predeterminati: contro o dentro il capitale (più facilmente si realizza la seconda soluzione). Le modalità del conflitto sono quelle da sempre in uso tra i dominanti nelle diverse forme storiche di società; solo che in quelle precapitalistiche, le strategie del conflitto per la supremazia, fondate su forza e astuzia (detto in estrema sintesi), erano utilizzate nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale, mentre nel capitalismo pervadono pure l’intera sfera economica duplicatasi in merce e denaro (produzione e finanza), una sfera che fornisce a questo punto i mezzi essenziali per l’attuazione delle strategie in ogni ambito sociale.

Un conflitto del genere produce sviluppo, e tramite questo consente l’egemonia dei gruppi dominanti e l’accettazione del dominio da parte dei sottoposti che migliorano comunque – come tendenza di lungo periodo – le loro condizioni di vita; diciamo pure quelle materiali, ma con ciò non si incrina di un ette il consenso generalizzato per questa forma sociale. Oltre allo sviluppo, il conflitto produce anche segmentazione e stratificazione crescenti della società, con interazione, quanto meno non armonica, tra i vari spezzoni e comparti sociali (segmenti e strati). Lo sviluppo è esso stesso disarmonico, avviene con ritmi diseguali in tempi e spazi diversi e conduce a periodi (e aree) di acutizzazione. Soprattutto nei periodi e aree (formazioni particolari o loro gruppi) in cui si accentuano disarmonia e crisi, si rafforza la “disaffezione” e spesso l’antagonismo nei confronti delle modalità di uno sviluppo fondato sulle strategie del conflitto per prevalere con la forza e con l’inganno; inizialmente lo scontro si fa più acuto tra i dominanti, ma ne vengono poi investiti sempre più largamente tutti gli altri ceti sociali.

I gruppi di agenti che criticano apertamente le caratteristiche del conflitto strategico tra dominanti – gruppi del tutto minoritari e relativamente isolati nelle fasi di attenuazione delle lotte e di prevalente consenso al capitale – non sono avanguardia di “una classe”, ma hanno anzi “estrazione sociale” assai composita. Chiedersi che cosa li unisca e che cosa essi rappresentino oggettivamente non è senza senso, ma credo costituisca in determinati periodi un esercizio perfettamente inutile. E’ più interessante chiedersi come mai essi – in genere figli di una passata epoca di acutizzazione del conflitto interdominanti – si trovino in situazione di crescente debolezza e di isolamento nell’ambito di formazioni particolari, man mano che queste accedono agli alti gradini dello sviluppo capitalistico, nel raggiungimento dei quali il processo di differenziazione sociale ha sciolto la “massa” del popolo dai suoi legami con più antiche tradizioni e culture. Non esiste anzi nemmeno più un popolo in senso proprio, bensì un insieme articolato di vari comparti sociali fra loro in interazione, diversamente posizionati sia in orizzontale che in verticale.

I gruppi critici (anticapitalistici) debbono comportarsi piuttosto differentemente nei periodi di attenuazione e in quelli di accentuazione degli scontri. Essi si muovono necessariamente tra molte contraddizioni che vanno assunte consapevolmente e senza pretese di una “purezza” di intendimenti, che si pretendono rivolti all’“amore per il popolo”, ormai del tutto inesistente come appena rilevato. E’ necessario condurre una critica delle modalità strategiche del conflitto tra dominanti, demistificando le varie ideologie “armoniciste” (e di falsa cooperazione) che le occultano e mistificano; e tuttavia si debbono conoscere tali modalità e rivolgerle contro i dominanti. Vanno condotte azioni politiche – sottoposte all’attento vaglio di date ipotesi teoriche circa la struttura e dinamica capitalistiche – atte a favorire il collegamento tra gli strati “bassi” della società (quelli più nettamente dominati) e la possibile loro alleanza in un dato “blocco sociale”; sarebbe però un errore decisivo dimenticare la lotta interdominanti e non assumere determinate posizioni in grado di acuirla e di favorire comunque i gruppi nuovi e più dinamici contro quelli ormai intorpiditisi e tendenzialmente parassitari. E’ semplicemente sciocco e avventuristico – tanto da far pensare talvolta alla mala fede di certi finti critici del capitalismo – inimicarsi proprio gli strati sociali “bassi” predicando contro lo sviluppo (solo “materiale”; che “orrore”! Questo però lo affermano certi intellettuali dalla pancia fin troppo piena); e tuttavia non vi è dubbio che non ogni tipo di sviluppo favorisce la crescita delle forze dette “antisistema”.

In ogni caso, si tenga presente che le possibilità “rivoluzionarie” si presentano soprattutto nelle congiunture di crisi. Ovviamente, come più sopra rilevato, non si tratta mai di crisi puramente economiche; occorrono ben altre condizioni di sfilacciamento della trama sociale complessiva, di affievolirsi del consenso e di forti incrinature degli apparati politici e istituzionali. Condizioni simili rendono perciò problematico lo sviluppo; questo diventa del resto ancora più debole, incerto e soggetto ad inversioni di tendenza anche in seguito al sempre più duro confronto interdominanti, che vede spesso intrecciarsi il conflitto tra formazioni particolari nel contesto globale e quello tra gruppi dominanti “vecchi” e “nuovi” all’interno delle formazioni particolari. Qui nasce allora una ulteriore complicazione per i gruppi di agenti politici che nutrono aspirazioni anticapitalistiche. La loro lotta si interseca, e rischia di confondersi, con quella degli agenti “rivoluzionari” dentro il capitale, intenzionati a rilanciare il sistema capitalistico sostenendo sia i nuovi gruppi di agenti capitalistici in una data formazione particolare, sia la propria formazione particolare contro le altre sul piano internazionale (epoche policentriche). Anche per questo, pur in congiunture adatte è comunque difficile l’attività dei gruppi anticapitalistici, che debbono porre molta attenzione a quanto predicano, pena l’alienarsi le simpatie di gran parte dei segmenti e strati – perfino di quelli situati nei bassi gradini della scala sociale (ed economica) – che tendono allora a raggrupparsi in “blocco sociale” sotto la direzione dei suddetti “rivoluzionari” dentro il capitale.

Se l’esperienza del fascismo, ma soprattutto del nazismo, non ha insegnato nulla, allora poveri noi! Vogliamo ancora sostenere la menzogna, sciocca e illusoria, che le masse erano antifasciste e antinaziste, che sono state subornate (chissà come e perché), che sono state piegate antidemocraticamente con la pura violenza? Se vogliamo continuare ad autoingannarci, seguendo i mediocri antifascisti che blaterano sciocchezze da tempo immemorabile, sotto la copertura della vittoria delle “democrazie” capitalistiche (il “migliore involucro della dittatura borghese” per Lenin), facciamolo pure; ma non avremo imparato nulla dall’esperienza storica. E ripeteremo i clamorosi errori degli anni trenta; non solo l’errore di definire socialfascisti i socialdemocratici, ma anche quello di aver in seguito costituito con questi ultimi un’alleanza “antifascista” confusa e pasticciata, che ha posto una bella pietra tombale su ogni velleità anticapitalistica. Non entro evidentemente in questa sede in una discussione, più storica che teorica (ma comunque orientata da nuove ipotesi teoriche), che sarebbe lunga e qui sviante. Certo, se qualcuno infine assolvesse un compito del genere, si farebbe chiarezza su temi ormai avvolti dalla spessa nebbia ideologica sparsa dai vincitori (capitalisti tanto quanto i perdenti).

 

  1. Questo è un altro piccolo pezzo di una lenta e faticosa costruzione teorica, che tenta in ogni caso di staccarsi dai vecchi lidi senza affatto perderne la memoria. Pur dove magari non sembra, mi confronto in realtà sempre con il passato (non solo teorico), sforzandomi però di prendere un diverso indirizzo. Non ho certo la pretesa di possedere le capacità intellettive di alcuni grandi di tempi trascorsi – non mi riferisco semplicemente a Marx e ai marxisti – che hanno dato forti contributi alla crescita di una teoria della società, soprattutto di quella capitalistica; una teoria capace anche di suggerire precise pratiche politiche ed economiche. Resto inoltre ben saldo sulla posizione assunta da Althusser quando affermò che Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia.

Malgrado quanto appena ricordato, sono sempre più convinto della necessità di percorrere nuove strade, tornando eventualmente sui propri passi se ci si accorge di essere incappati in un “cul di sacco”; non arretrando però fino a ritrovarsi al punto di partenza per poi fermarsi e segnare il passo con stanche giaculatorie. Del resto, tanto per fare un esempio eclatante, Galileo, pur essendo un genio, non giungeva all’altezza di pensiero di Aristotele; eppure seppe mandare al diavolo gli aristotelici del suo tempo. Non mi sembra di vedere oggi in giro geni “galileiani”, ma ciò non deve impedire ad alcuna persona appena un po’ sensata di mandare infine al diavolo i marxisti o i weberiani o gli schumpeteriani o i keynesiani….ecc. ecc. (tanti sono i grandi del passato) onde avviarsi lungo sentieri non ben segnati, estirpando intanto un bel po’ di erbacce che intralciano il cammino.

Quindi mi sento tranquillo: non sono presuntuoso e tanto meno folle, so bene di essere lontanissimo dai livelli di intelligenza di Marx, ma anche di tanti altri marxisti minori. Tuttavia, sono del tutto insoddisfatto delle attuali analisi della società da qualsiasi parte provengano; credo perciò che ci sia spazio per pensare e “innovare”. Comunque tento, e andrò avanti passin passino, con estrema prudenza. Solo alla fine, se ne avrò il tempo, sonderò la possibilità di elaborare il tutto in un nuovo libro che segni un deciso passo in avanti rispetto agli Strateghi del capitale.

 

 

EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA, di Gianfranco La Grassa

EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA

Tratto dal sito http://www.conflittiestrategie.it/europa-unita-europa-sottomessa

Il saggio rappresenta un breve consuntivo dell’elaborazione di analisi politica dell’autore. In particolare la ricostruzione seguita al secondo dopoguerra e la costruzione comunitaria in Europa sono il frutto anche di una elaborazione collettiva portata avanti dal sito negli ultimi sei anni cui www.italiaeilmondo.com intende riferirsi

 Qui

Il nord industriale Usa schiaccia il sud “cotoniero” nella guerra civile (o di secessione) e il paese si avvia così a divenire quella grande potenza che sarà nel XX secolo. Inizia subito l’allargamento della sua sfera d’influenza e innanzitutto batte l’ormai nettamente decaduta potenza spagnola a fine secolo XIX sottraendole Cuba e soprattutto le Filippine (1898), dove tuttavia insorsero forze indipendentiste, sconfitte a loro volta nella guerra condotta tra il 1899 e il 1902, con code fino al 1906 e poi ancora, molto debolmente, fino al 1913. Con quell’azione gli Usa si lanciano alla conquista della primazia in Asia e si scontreranno perciò a lungo con il Giappone, paese pure lui in forte crescita, che divenne una delle grandi potenze in conflitto nella prima metà del ‘900 (assieme a Inghilterra, Usa e Germania), soprattutto dopo aver vinto contro la Russia nel 1904-5 (sconfitta russa all’origine della prima grande rivoluzione antizarista del 1905, immortalata da Eisenstein ne “La corazzata Potemkin”).
Nella prima guerra mondiale, il Giappone entra al fianco della “Triplice Intesa” (Gran Bretagna, Francia, Russia) già nel 1914. Un impegno assai limitato, più che altro per togliere ai tedeschi quei pochi insediamenti da essi avuti in Asia (tipo Isole Marianne e Caroline). In ogni caso, quando gli Usa entrano in guerra nel 1917, il Giappone è ufficialmente loro alleato. In realtà, vi sarà sempre contrasto tra le due potenze per l’area del Pacifico. Ben noto è l’attacco “proditorio” giapponese del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor, che spinse gli Stati Uniti all’entrata nella seconda guerra mondiale. Attacco provvidenziale poiché il Congresso americano si opponeva costantemente, e pressoché all’unanimità, all’intervento in guerra, fortemente voluto invece da Roosevelt; il presidente “buono”, quello del New Deal, atto per null’affatto risolutore della crisi del ’29-’33 (come raccontano storici ed economisti), dato che dopo un paio d’anni d’attenuazione della stessa, nel 1936 (proprio quando esce la keynesiana “Teoria generale”) si è di nuovo in stagnazione; solo la seconda guerra mondiale risolverà il problema. Anche qui, le solite superficialità sull’importanza della domanda enormemente accresciuta per fini bellici, mentre l’uscita dalla stagnazione (accompagnata da intensi progressi in tema d’energia e tecnologici) dipende dalla netta supremazia statunitense conquistata in tutta l’area del capitalismo più avanzato, con coordinamento generale di tali sistemi capitalistici da parte del “centro” statunitense.
Comunque, l’attacco a Pearl Harbor viene condotto dopo una lunga serie di tensioni nippoamericane e non certo tutte dovute ai giapponesi. Inoltre, è meno noto che pochi giorni prima dell’“imprevista” aggressione, tutte le portaerei americane (e credo anche alcune corazzate) avevano abbandonato il porto poi bombardato. Difficile ormai sapere la verità. Certamente è sorprendente (comunque, qualunque sia la verità) che i giapponesi non sapessero dell’allontanarsi delle principali navi da battaglia americane e, se lo sapevano, abbiano attaccato egualmente. In ogni caso, non si sfugge all’impressione che il gruppo dirigente Usa fosse ben conscio (e lieto) dell’aggressione, l’abbia favorita in tutti i modi, per superare l’ostilità del Congresso all’entrata in guerra. E così, sacrificando i 2400 soldati uccisi a Pearl Harbor – e certamente con un numero ben più alto di altri morti, non però per bombardamenti sulla popolazione civile americana, specialità lasciata al teatro europeo e asiatico – si concluse il confronto pluridecennale per la supremazia nell’area del Pacifico.
Ancora più complicato decifrare l’andamento degli eventi nell’area europea. Fu solo un errore (e madornale) l’aggressione tedesca all’Urss nel giugno del 1941? Gli “storici dei vincitori” (quasi tutti) raccontano di una decisiva “Battaglia d’Inghilterra” (nel 1940, di carattere aereo), in cui la RAF vinse sulla Lutwaffe e così bloccò l’invasione tedesca dell’Inghilterra. Credo si tratti di un’altra grossa balla. Dopo la rapida vittoria in Francia (dove si creò inoltre la Repubblica di Vichy, che non fu proprio contrastata dall’intera popolazione francese come poi hanno raccontato i soliti storici), la Germania si sentiva sicura della vittoria. E’ facile che invece di sbarazzarsi subito dell’Inghilterra, indubbiamente boccone più difficile da “ingoiare”, abbia iniziato (ma credo soprattutto per iniziativa dell’Inghilterra) segreti contatti onde arrivare ad una qualche intesa; e in questo sappiamo che aveva qualche carta da giocare il Duca di Hamilton. E penso che lo stesso Churchill, magari senza esporsi troppo, sia stato al gioco.
Infine, nel maggio del ’41 Rudolf Hess vola in Scozia e tenta di raggiungere il Castello del Duca di Hamilton. Certo, viene arrestato e poi sempre detenuto senza che mai sia stato rivelato (nemmeno dal “viaggiatore”) il reale motivo di quella “intemerata”, attribuita a malattia mentale dell’autore o a una sua caduta in disgrazia presso Hitler (e altre menzognere chiacchiere). Nel giugno dello stesso anno parte appunto l’Operazione Barbarossa contro l’Urss, con qualche ritardo (dovuto fra l’altro al colpo di Stato in marzo a Belgrado dove presero il potere dei militari favorevoli alla Gran Bretagna, causando così l’attacco tedesco). Sarebbe iniziata l’aggressione antisovietica senza contatti tra inglesi e tedeschi? E ben precedenti al viaggio di Hess che comunque – pur messo in galera per motivi evidenti, dato che la popolazione inglese non doveva affatto sapere di “strane trattative” in corso – potrebbe aver avuto egualmente abboccamenti di rilievo. Naturalmente, l’ipotesi più semplice da avanzare è che Churchill, direttamente o meno vista la non piacevole situazione dell’Inghilterra, abbia fatto credere a Hitler la possibilità di una trattativa che avrebbe messo fine alla guerra fra loro con soddisfazione tedesca e qualche concessione al suo paese insulare.
Eppure vorrei avanzarne una in po’ differente e forse ardita. Gli Stati Uniti, per null’affatto sconvolti (parlo dei dirigenti, non della popolazione) dalla “grande crisi”, erano ormai consci d’essere il nuovo capitalismo vincente; un capitalismo senza alcun ascendente “nobiliare” con cui fare ancora i conti, in assenza completa di ogni scrupolo morale o di senso dell’onore, strettamente imbricato alla criminalità, ecc. Del resto, vorrei ricordare che nel grande documentario sovietico di Vertov (“La sesta parte del mondo” del 1926!), il paese capitalistico per antonomasia sono appunto gli Stati Uniti. In Urss l’avevano già capito; mentre in Europa no. In particolare, nemmeno Germania e Italia avevano afferrato questo epocale mutamento. E Inghilterra e Francia ancora “giocavano” ai grandi protagonisti, pur dopo la misera figura fatta alla Conferenza di Monaco del settembre 1938.
Roosevelt (cioè il gruppo dirigente americano degli anni ’30) afferra che è possibile iniziare un reale confronto per il predominio pure nell’area europea; e non solo in Asia dove, come già considerato, ci si scontra con il Giappone. Sono dunque probabilmente gli Usa – consci dell’approssimarsi della loro entrata in guerra, resa difficile dal comportamento del Congresso, ma evidentemente già si stava lavorando ad una occasione infine arrivata con Pearl Harbor – a “consigliare” Churchill circa la necessità di prendere tempo, facendo inoltre credere a Hitler che poteva scatenarsi contro l’Urss, ma senza affatto arrivare ad alcun reale accordo. E scrivo consigliare tra virgolette perché ho la sensazione che il governo inglese, se avesse deciso da solo, avrebbe magari potuto intavolare – con gradualità e metodi tali da non crearsi vasta impopolarità presso una popolazione bombardata, ormai accesa nemica dei tedeschi, ecc. – qualche trattativa pregnante. Questo avrebbe impedito agli americani di arrivare da “liberatori” in Europa e avrebbe limitato la loro egemonia all’area asiatica.
No, ormai gli Stati Uniti erano maturi per ben altro: quindi inganno, spinta all’aggressione tedesca all’Urss, ma nessuna sospensione di ostilità di alcun genere; questo pretesero probabilmente gli Usa dall’Inghilterra, promettendo il loro decisivo aiuto assai presto. Ed infatti, a fine anno, giunge la sospirata occasione dell’aggressione giapponese e il convincimento del Congresso alla guerra. E credo che si siano andati accentuando anche gli “incidenti”, ormai in atto da tempo, con navi tedesche in modo da ottenere perfino la dichiarazione di guerra da parte della Germania quattro giorni dopo Pearl Harbor. E pure in tale occasione, comunque, si constata un decisivo errore di valutazione del governo tedesco, evidentemente convinto che il Giappone avesse distrutto una buona parte della potenza statunitense e si fosse portato in posizione di vantaggio. Inoltre, lo ripeto, penso proprio che Hitler, non meno di Mussolini, considerasse ancora troppo importante l’Inghilterra, non avendo capito con che tipo di nuovo capitalismo assai potente avesse a che fare; lo spirito eurocentrico ha giocato un brutto scherzo

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Questo lungo preambolo, e tuttavia succinto nei suoi punti salienti, voleva ricordare con quale paese predominante abbiamo a che fare ormai dalla metà del secolo scorso. Si tratta di qualcosa che, non so quanto appropriatamente (ma non vedo altra scelta), possiamo definire un neocapitalismo assai più efficiente di quello borghese, prevalente nell’Inghilterra ottocentesca (e che Marx prese a modello della forma capitalistica di società), ormai in fase di sostituzione all’epoca della prima guerra mondiale. Non a caso, la teoria marxista, divenuta ideologia della “rivoluzione proletaria”, confuse quella fine con il superamento del capitalismo tout court (“imperialismo, ultima fase del capitalismo”), mentre ne veniva avanti, vittorioso, un altro ben più duraturo. L’ho denominato provvisoriamente “dei funzionari del capitale” solo in parte influenzato dall’analisi di Burnham, comunque vicino alla realtà e che parlò di “rivoluzione manageriale”. Il “funzionario del capitale” non è però semplicemente il manager – pur privo della proprietà dei mezzi di produzione, che per Marx era invece decisiva nel designare il reale dominante, il borghese capitalista – figura direttiva dei vari processi in svolgimento soprattutto nell’impresa, ma certo anche negli altri apparati non soltanto economici della società. I funzionari del capitale non sono semplici direttori, bensì più precisamente strateghi di quel conflitto mirante alla supremazia sia nel contesto dei gruppi sociali attivi in un paese sia nel rapporto con altri paesi in date aree territoriali e, in ultima analisi, nel mondo intero.
Parleremo in altra sede dell’errore commesso da Marx – e ancor più da coloro che trasformarono la sua teoria scientifica in una sclerotizzata ideologia creduta sempre più per fede – nell’ignorare la funzione sociale decisiva (e dominante) svolta dai “non proprietari dei mezzi produttivi” e strateghi d’un conflitto, da cui derivava immediatamente la “non funzione rivoluzionaria” dei non proprietari e fornitori di plusvalore (vedremo meglio altrove questo problema); errore che non è certo causa minore del fallimento definitivo della sedicente “costruzione del socialismo” con crollo dei regimi politici ostinatamente attaccati a quell’ideologia. Per il momento, limitiamoci a sottolineare come il capitalismo americano – sottovalutato pure dai regimi che tentarono di sostituirsi al capitalismo borghese, senza tuttavia mettere definitivamente fine alle sue pratiche e mire ormai storicamente superate; mi riferisco principalmente a fascismo e nazismo che di questo tentativo sono a mio avviso stati artefici – abbia avuto in ultima analisi la via aperta alla supremazia mondiale, impropriamente contrastata dal presunto “campo socialista” e soprattutto dal centro di quest’ultimo, l’Urss. Si è parlato di mondo bipolare, e di “guerra fredda” tra i centri dei due poli. Malgrado la durata di quel bipolarismo (un po’ meno di mezzo secolo, che storicamente è un “fiat”), non vi è stato affatto vero equilibrio; l’Urss non riusciva a contrastare realmente gli Usa (malgrado certe pretese vittorie, come quella così sopravvalutata e incompresa in Vietnam). E anche su questi eventi cruciali manchiamo di una qualsiasi seria analisi con gli storici contemporanei che abbiamo avuto (e abbiamo) e che hanno occupato (e occupano tuttora) i posti salienti nelle Università e in altri luoghi culturali, annientando ogni decente valutazione del XX secolo.
Resta il fatto che gli Stati Uniti hanno indubbiamente mostrato una notevole abilità e flessibilità nel dare vita alla loro mitica “grande democrazia”, che semmai ha qualche rassomiglianza con il modello elitistico-competitivo di Weber-Schumpeter; e tuttavia non può essere ridotta nemmeno a questo. In ogni caso, si formano nell’agone della politica due schieramenti (in certi casi anche di più, ma due è senz’altro meglio per una reale efficacia nell’azione) decisamente contrapposti nei progetti e aspettative che suscitano nella popolazione. La contrapposizione è in genere più violenta a parole che nei fatti; talvolta però si deve anche passare dalle prime ai secondi. Nel contrasto non possono non venire forgiandosi ed enucleandosi due vertici dirigenti (vere élites), in grado di formare attorno a loro una costellazione di organismi addetti agli svariati bisogni e modalità del conflitto; alcuni organismi devono spesso essere molto appariscenti per la conquista dei favori popolari, altri devono agire in segreto, sempre pronti a quelle circostanze in cui è necessario passare, come già ricordato, dalle parole ai fatti (magari con qualche assassinio mascherato da incidente o da azione di un pazzo, ecc.).
I due schieramenti (o talvolta più, ma con efficienza in calando quanto più aumenta il numero) entrano in contrasto acuto, esacerbandolo se e quando necessario per convincere la popolazione che, scegliendo tra i due, si effettua una vera decisione di primaria importanza. Ovviamente, la scelta non è tra gli schieramenti, ma tra i vertici degli stessi; e dunque tra i vari organismi, appariscenti o segreti, che questi hanno già creato in un lungo processo storico di formazione. La popolazione viene chiamata a esprimersi, senza effettiva conoscenza della struttura organizzativa delle parti per cui opta; essa è sicura che i progetti dichiarati saranno poi mantenuti, mentre a volte proprio mutamenti imprevisti degli equilibri, sia interni che verso l’estero, impongono altre decisioni, prese necessariamente (anche per la velocità con cui devono essere prese) dalle élites e dai nuclei strategici da esse messi in piedi proprio per cogliere simili modificazioni delle situazioni.
Le popolazioni sono soddisfatte e anche chi resta in minoranza attende la possibilità successiva di rovesciare le posizioni. Per intanto, la minoranza deve accettare le scelte di quella élites maggiormente votata. Tuttavia, non vige il famoso “centralismo democratico” dei partiti comunisti, che è indubbiamente meno gradito e dunque di fatto errato, salvo che in momenti cruciali quali un grande, rapido e squassante rivolgimento politico-sociale. La minoranza (in realtà l’élite meno votata) può continuare a darsi da fare e a criticare, cercando di dimostrare gli errori avversari e la maggiore congruità delle sue proposte (pur esse in gran parte di facciata, soprattutto perché non dovendo decidere, è più facile dedicarsi all’agitazione parolaia). In ogni caso, una delle più grandi menzogne di tutti i tempi è quella che racconta come le “libere elezioni” esprimano la volontà popolare nella scelta di coloro che dirigeranno gli affari interni e mondiali dai cui esiti dipenderà la vita e la sorte dei popoli.

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Come già detto, dopo la seconda guerra mondiale, i veri vincitori sono gli Usa. Ad essi si contrappone per un certo periodo l’altra vincitrice della guerra, l’Unione Sovietica, che però sarà sempre in tono minore malgrado varie apparenze. Gli altri pretesi vincitori tipo Inghilterra e Francia (sull’Italia stendiamo il classico pietoso velo) sono in realtà perdenti e lo dimostreranno diminuendo via via d’importanza e confondendosi con le altre nazioni nella sedicente “comunità europea”: prima quella occidentale e, dopo il crollo sovietico, tutto l’insieme. Nell’aprile 1949 nasce il patto militare, la Nato, che già sancisce la subordinazione europea agli Stati Uniti, pur se vanno concessi indubbi meriti al governo francese durante il periodo gollista, che tuttavia non è servito ad impedire il definitivo servaggio anche di questo “illustre” paese. Iniziano subito dopo la guerra le mene per l’unità d’Europa che arrivano infine alla creazione della UE (Unione Europea) nel 1993. Si potrebbero spendere molte parole umoristiche su questa unione; mi basterà ricordare che essa nel 2012 (l’anno dopo la “primavera araba”, l’aggressione alla Libia con barbara uccisione di Gheddafi, ecc.) riceve il premio Nobel per la pace, da unire, nel ridicolo, a quello assegnato ad Obama nel 2009. Con la differenza che Obama è il presidente dei “padroni”, la UE è l’unione dei “servi”.
Ho sopra ricordato che negli anni ’30, all’avvicinarsi della guerra, gli Usa di Roosevelt già compresero di poter essere i dominatori della nostra area così come di quella asiatica. E nel dopoguerra, si servirono dei cosiddetti “padri dell’Europa”, uno più vergognoso dell’altro (e non starò a ricordarli per nome, perché sono accomunati nella stessa miseria). Nel 2000 (e di anni ne sono passati da allora) un meritevole ricercatore, evidentemente diverso dagli usuali “storici dei vincitori”, Joshua Paul della Georgetown University, ha portato alla luce molteplici documenti che dimostrano come tutti questi “Padri” emeriti, e i più importanti uomini di governo europei del dopoguerra, siano stati ampiamente finanziati appunto per giungere intanto all’unione di quei paesi europei non conquistati dai sovietici, sotto il predominio statunitense. E più tardi, altri servitorelli, ancora più scadenti e meschini, hanno continuato la loro opera; la creazione della UE è solo il perfezionamento della servitù, cui si sono prestati questi ignobili europeisti ben finanziati per divenire sempre più proni agli Usa. Lasciamoli festeggiare; la loro turpitudine verrà sempre più alla luce con il passare del tempo poiché la nostra decadenza sarà sempre più evidente. E l’ultima farsa (tragica), l’accoglimento di masse di migranti – che escono dai loro paesi grazie alle malefatte americane – sarà la tomba di questi asserviti. Purtroppo, però, solo storicamente parlando; ancora per un bel po’ di tempo, questa inesistente unione europea – poiché la UE è semplice organismo collaterale alla Nato e comunque nettamente influenzata dall’esterno – continuerà ad indirizzarci verso il disfacimento della nostra civiltà e costumi.
E’ vero che adesso si sono verificati alcuni eventi nuovi e persino imprevisti – tipo la brexit, l’elezione di Trump, ecc. – che sembrano indicare una notevole stanchezza e irritazione delle stesse popolazioni, non proprio consapevoli di quanto accade, nei confronti della politica svolta dagli Stati Uniti e dai loro scherani europei in questi ultimi decenni, soprattutto dopo la fine dell’Urss e del “campo socialista”. Tuttavia, è ancora troppo presto per comprendere se e quando il percorso storico fin qui seguito dall’“occidente” muterà direzione. Per il momento, UE e governi europei continuano a svolgere la stessa politica e ad essere legati al vecchio establishment Usa, ancora ben vivo e in continuo attacco alla nuova presidenza. E’ del tutto evidente, intanto, che i dirigenti europei non sono in grado di decidere politiche diverse da quelle eterodirette. Inoltre, appare poco chiara anche la politica trumpiana; da una parte, viene contrastata in modo aperto come non mai negli stessi Usa (e con lo strumento di Cia e Fbi, i fondamentali apparati dei Servizi) perché sarebbe troppo amichevole verso la Russia; dall’altra, Trump aumenta a dismisura la spesa militare, rafforza il settore nucleare, si permette adesso di criticare, in nome della falsa “democrazia”, la politica interna russa, tesa a disarmare i gruppi che vorrebbero rovesciare l’attuale dirigenza. E in questo comportamento ostile sembra dunque in linea con il già citato vecchio establishment.
E allora? Cerchiamo anche qui di andare un po’ oltre le apparenze che ci ammanniscono questi falsificatori dell’informazione in campo “occidentale”. Come al solito, partiamo da lontano ma per veloci cenni. Dopo il crollo dell’Urss, con la fine del bipolarismo, per qualche anno sembrò in atto una tendenza al monocentrismo americano, solo contrastato – ma molto più nella propaganda avversaria, in questo unita alla stupidità degli “orfani del socialismo” – dallo sviluppo cinese. In realtà, soprattutto con l’avvento del nuovo secolo, si chiarì una precisa tendenza al multipolarismo con rinascita più che discreta della Russia (anche se ridotta di dimensioni e potenza bellica rispetto all’Urss) e della suddetta Cina; alcuni troppo ottimisti vi hanno aggiunto l’India (abbastanza legata agli Usa, pur se si vi sono stati alcuni accordi con la Russia), il Brasile (oggi in notevole crisi) e perfino il Sud Africa (qui siamo ben lontani dalla realtà). Semmai, ma nel medio periodo, farei attenzione al Giappone, per il momento comunque in qualche difficoltà e che gioca un ruolo ancora assai subordinato agli Stati Uniti.
Quando infine si compilerà un serio bilancio della storia del bipolarismo, e della conseguente “guerra fredda”, si constaterà che quella situazione mondiale assicurò al campo occidentale un periodo di notevole tranquillità e di ottimo sviluppo; e con la completa centralità statunitense, che indubbiamente riorganizzò quest’area tuttora decisiva negli affari mondiali malgrado le tante chiacchiere fatte in contrario. Se vogliamo fare un paragone storico, dobbiamo rifarci alla centralità dell’Inghilterra tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la nascita delle grandi potenze: Usa (dopo la guerra civile nel 1861-65), Germania (dopo la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1970-71), mentre il Giappone seguirà a fine secolo e inizio del XX (quando vincerà la Russia nel 1904-5). E anche allora quella centralità fu caratterizzata dal completamento della prima rivoluzione industriale in Inghilterra e dalla sua impetuosa continuazione in Continente, con però il seguito della “grande depressione” (1873-95) quando iniziò ad affermarsi il multipolarismo.
Il bipolarismo – decisamente imperfetto grazie al lento declino dell’Urss dopo la seconda guerra mondiale, declino in crescita negli anni ‘50 e precipitato con Gorbaciov – è stato un periodo di rafforzamento continuo degli Stati Uniti; e che sarebbe stato ancora più veloce se la dirigenza americana non avesse manifestato notevoli divergenze negli intenti strategici (salvo il comune perseguimento del predominio mondiale), come si mise in evidenza sia nei contrasti seguiti a certi accordi (ancor oggi rimasti nascosti) tra Kennedy e Krusciov sia nell’aver contrastato l’intelligente mossa di Kissinger-Nixon con “apertura” alla Cina (non caratterizzata da spirito veramente amichevole come solitamente raccontato). In ogni caso, il bipolarismo è stato un periodo florido per il “campo occidentale” centrato sugli Usa. In seguito al crollo e fine di tale “stato del mondo”, si è creduto da parte statunitense – e questa è ancora l’opinione prevalente, che guida la forte malevolenza di democratici e forti settori repubblicani nei confronti della neopresidenza – di poter passare finalmente al predominio aperto e dichiarato del proprio paese.
Il caos creato non ha prodotto i risultati sperati. Allora, si può leggere l’apparente inversione di tendenza come un tentativo di ripristinare un nuovo bipolarismo, addirittura migliore del precedente poiché adesso tutta l’Europa è sotto il tallone statunitense e la sua parte orientale è perfino più accanita in senso antirusso. Si è inoltre riusciti a creare forti tensioni contro il paese eurasiatico in Ucraina; e anche in Georgia, ecc. Si è tentato pure con le Repubbliche centrasiatiche, ma lì al momento le mosse compiute non sembrano molto riuscite. La parte “trumpiana” (con il solito suggeritore Kissinger) cerca di creare qualche maggiore ostilità nei confronti della Cina; e probabilmente tale politica vuole anche giocare sulla notoria scarsa simpatia tra questa e la Russia, che fu in piena evidenza nel passato maoista. Un periodo di nuovo bipolarismo – con la Russia decisamente meno potente dell’Urss, non però in declino e anzi, almeno a mio avviso, in rafforzamento graduale – consentirebbe, secondo l’opinione dei centri rappresentati da Trump, di meglio studiare una nuova strategia “non caotica” pur sempre tesa al conseguimento dell’agognato predominio mondiale centrato sul proprio paese.

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Se quanto ipotizzato dovesse rivelarsi anche parzialmente esatto, ne risulterà abbastanza complicata la strategia che dovranno approntare le forze oggi in contrasto netto con questa Europa comunque in difficoltà e fortemente degradata. Non ci si deve fidare troppo di un Trump, poiché persegue, come finalità di fondo, la solita supremazia americana agognata da sempre, direi fin dalla guerra civile di un secolo e mezzo fa; e comunque affermata con particolare brutalità a partire dalla seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo, però, la politica del nuovo presidente ha la possibilità di scompaginare e mettere in crisi l’establishment della UE, che è al servizio di tale supremazia, ma si è strutturato secondo gli intendimenti dei centri strategici in auge con le ultime presidenze statunitensi seguite al crollo del mondo bipolare (i due Bush, Bill Clinton, Obama) e che la Clinton intendeva ulteriormente rafforzare.
Le cosiddette sinistre europee – inutile ricordare che ormai la distinzione storica destra/sinistra ha poco a che vedere con quanto oggi esistente in un mondo politico in totale disfacimento; e non parliamo dei partiti detti di “centro” (tipo quello “diccì” della Germania oggi guidato dalla Merkel), ben poco distinguibili dalle “sinistre” – si sono dimostrate le più adatte a servire gli interessi statunitensi negli ultimi decenni. Mi sembra comunque ancora carente la conoscenza dei percorsi tramite cui si sono formate queste fantomatiche forze politiche dette di sinistra. Quanto alle destre, vi sono quelle che si distinguono appena, quanto a politica perseguita, rispetto ai loro avversari, da cui differiscono solo in merito a certe questioni di costume e di tradizione: sulla famiglia, sui gay, sul femminismo e via dicendo. Quanto alla politica (interna ed estera), a corruzione massima, a occupazione con metodi subdoli o corruschi delle varie posizioni di privilegio negli organismi politici, economici, nell’informazione e presunta cultura (che più degenerata di così non si è mai riscontrata in nessun’altra epoca), non ci sono grandi differenze tra presunte sinistre e altrettanto presunte destre.
Vi sono però oggi, e sembrano in crescita (ma difficoltosa), alcune forze, per la maggior parte assegnate alla destra, che vanno considerate parzialmente positive per il loro atteggiamento fortemente critico nei confronti della UE. Alcune manifestano anche attenzione ai rapporti amichevoli con la Russia che, lo ripeto, benché decisamente meno potente della defunta Urss è in crescita e non in declino com’era la (multi)nazione sovietica. Occorrerà tuttavia una lucidità d’analisi che ancora ci manca (e manca secondo me a tutti) per non cadere dalla padella nella brace, favorendo il progetto degli attualmente instabili nuovi centri strategici Usa con la loro probabile tendenza a creare un secondo mondo bipolare, nuovamente cristallizzato in senso tutto sommato favorevole agli americani. Anche perché, se poi questa instabilità della neopresidenza Usa dovesse favorire il ritorno dei vecchi “marpioni”, ci troveremmo nuovamente rafforzata questa ignobile organizzazione europea, il nostro autentico nemico, con le “sinistre” da tenere quale obiettivo principale della lotta anti-UE.
Abbiamo per fortuna, come già rilevato, la Russia in crescita di forza e d’influenza e non in declino come l’Urss. Lasciamo stare la crisi economica che l’attanaglia, problema principe per tutti i limitati economisti che non vedono al di là di tale orizzonte. Gli Stati Uniti della “grande crisi” (per nulla vinta e superata con il New Deal come si narra da sempre) si dimostrarono il capitalismo vincente e, con la seconda guerra mondiale, si lanciarono verso la supremazia mondiale. La Russia odierna può farcela a crescere progressivamente; non è cosa sicura e definitiva, ma piuttosto probabile. Quanto alla Cina, ben venga il suo rafforzamento se ciò implicasse una tensione futura con gli Usa nell’area del Pacifico; questo non potrebbe che indebolire tale paese prepotente. A noi interessa però l’area europea ed è qui che non mi sembrano ancora adeguate le forze anti-UE. Bisogna far perdere di popolarità – il che implica la capacità, al momento minima, di avere in mano importanti strumenti di informazione e di creazione di consenso presso le “imbambolate” popolazioni europee – a tutti i manipolatori di tale consenso per conto dell’UE e dei governi dei paesi ad essa aderenti.
La strategia del caos, messa in atto dall’ultima Amministrazione americana (quella di Obama), ha provocato la massiccia migrazione dall’Africa e dal Medioriente verso l’Europa. Probabilmente, si è trattato, ma solo in parte, di un processo sfuggito di mano; oggi non è solo ampiamente sfruttato da autentici banditi (tipo le ONG e l’Associazione che si fa risalire a Soros) per lucro economico (e che po’ po’ di lucro). Indubbiamente le “sinistre” al governo in Europa cercano di utilizzarlo pure per mantenere il loro potere che sembra in crisi. Come detto in altra occasione, non escluderei nemmeno la segreta intenzione di formare in futuro delle bande criminali in grado di intimorire popolazioni sempre più scontente della crisi, che si va accentuando con simile afflusso a volte somigliante ad un’invasione. Tuttavia, la “mistica” dell’accoglimento, cui si sta prestando anche la nuova dirigenza ecclesiastica cattolica, è causa di divisioni fra i vari governi europei e va corrodendo il consenso un tempo goduto da certe “sinistre”.
Vedremo se nasceranno forze in grado di approfittare del momento per certi versi favorevole. Alle “sinistre” si dovrebbero riservare trattamenti “speciali”, per il momento loro risparmiati da organizzazioni politiche di debole opposizione, ancora rimbecillite dalla lunga stagione in cui si è inseguito semplicemente il favore elettorale, essendo incapaci di comprendere che oggi sarebbero indispensabili ben altri metodi di ottenimento del consenso; non della maggioranza delle popolazioni scisse al loro interno dall’attuale crisi e in cui esiste sempre una grossa quota di indecisi e di inconsapevoli, bensì della parte più incattivita delle stesse, quella in grado di giungere a sufficiente grado di consapevolezza del degrado in atto. La migrazione odierna può ben essere un detonatore di una qualche forza e tuttavia non è sufficiente. Inoltre, non ci si deve fissare sul problema dei migranti in se stesso considerato, ma farne solo motivo di accentuata ostilità contro i “buonisti” di ogni ordine e orientamento.
Per rientrare nell’alveo di una nuova “normalità” finalmente favorevole allo sviluppo (e all’autonomia) dei nostri paesi – ma andando per gradi, conquistando posizioni di potere in alcuni di essi e da lì facendo leva per aggredire le attuali organizzazioni “servili” dell’intera UE – è necessario attraversare un’epoca di violento e distruttivo attacco a queste ultime e a chi le supporta. Non si chiedano voti per traccheggiare con meschino opportunismo; si disgreghino invece le forze politiche (e quelle di manipolazione ideologica) degli avversari (anzi nemici) con il supporto deciso e privo di mediazioni di coloro che non le sopportano più. E’ indispensabile che si entri, come in altre epoche, nello stato d’animo del “o noi o loro”. E deve cadere ogni pietismo più o meno falso, devono rinascere caratteri forgiati all’uso di metodi e strumenti “non gentili” e non adusi a compromessi. Gli attuali establishment dei governi europei, asserviti alla politica americana degli ultimi 70 anni, sono pronti ad impiegare simili metodi, magari con la loro solita ipocrisia e facendo strame della nostra antica civiltà e costumi. La risposta deve essere meno ipocrita e più netta poiché deve ripulire appunto tutta la me…lma accumulata in così tanti anni e decenni. Non si appoggi comunque alcuna lotta “clandestina”, sempre utilizzata dal nemico come gli anni ’70 e ’80 hanno dimostrato. Occorre una furia aperta, un autentico ciclone che tutto spazzi via. Come al solito bisogna concludere: staremo a vedere. Molti sono i dubbi in proposito.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI-CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?,di Gianfranco La Grassa

Con questo intervento si completa la quadrilogia ripresa dall’incontro di metà aprile organizzato dal gruppo di www.conflittiestrategie.it e da questi già pubblicato. In basso a destra ddi questa pagina web, nella sezione dossier troverete tutti e quattro gli interventi
Incontro di C&S sul tema: Stato, Interesse Nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’Autonomia Nazionale.
Questo è l’intervento che farò a Bologna nel seminario del prossimo fine settimana (di fatto domani). Ho preferito scriverlo perché poi, a voce, sarò molto succinto; sia per ragioni di tempo che per le condizioni della mia voce (e anche un po’ fisiche in generale). Consiglio perciò anche ai partecipanti all’incontro di leggerselo per capire quanto sostengo. Spero di essere stato sufficientemente chiaro.
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?
Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudorivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, reazionaria, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la Nato e poi le varie organizzazioni intereuropee, ecc. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. Ci si ricordi sempre la sua lettera a Kugelman del 1864 in cui si dice che anche i bambini sanno che, se non si producesse per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un socialismo di mercato.
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti di gruppi sociali, che vanno appunto alleandosi e unendosi a fini comuni in risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della Nato. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza per la geopolitica e per il tema dell’indipendenza o autonomia nazionale. Abbiamo semplicemente preso atto della fine della mitica lotta di classe e constatiamo che attualmente sono in ribasso anche le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione; e qualche perplessità la nutro pure intorno alle mosse russe), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.), sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia massimamente importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente irrilevanza italiana.
Se con questo si vuole sostenere che mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno, siamo d’accordo. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità coloniali. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Valuto negativamente pure le sedicenti opposizioni, invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per l’autonomia nazionale. E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia. Nessuna particolare simpatia per questa e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di subordinazione. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.

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