Italia e il mondo

Thay e Khmer a confronto sotto i templi_Di Cesare Semovigo

Che cosa ci siamo persi stavolta al confine tra Thailandia e Cambogia? Stavamo guardando altrove ma non è un buon segnale; non lo è nemmeno essere sempre distratti dalle beghe Occidente-Centriche e lasciarci sfuggire le crescenti tensioni del  “Triangolo di Smeraldo”.

Non è infatti la solita diatriba da cortile: qui si è passati dalle carte bollate della burocrazia all’uso disinvolto degli F16 replicati da salve di MRLS pesanti da 130 mm. 

L’Indiana Jones delle nostre semplificazioni inconsce supersuprematiste penserebbe a due eserciti alla ricerca del casus belli perfetto , ma se la complessità è il tuo pane non faticherai a identificare che dietro all’escalation potrebbero esserci anche interessi alieni .

La faccenda non è nuova: da decenni Thailandia e Cambogia si osservano dalle loro postazioni di questa zona contesa, dove tra rovine antiche e vecchie ruggini coloniali non manca certo la manina che agisce sulla miccia  pronta ad accendersi. E infatti, tra una mina qua e una telefonata là, ecco arrivato il botto.

Questa volta  lo hanno fatto sul serio. 

La Cambogia decide che è arrivata l’ora delle maniere forti e tira qualche Dozzina di proiettili dai suoi lanciarazzi pesanti non guidati verso la Thailandia .

I thailandesi, da par loro, tirano fuori i loro gioielli e fanno decollare sei F-16 che, a sentir loro, bazzicavano casualmente in missioni di addestramento, praticamente un esercizio da scuola di guerra con le armi on board.

Risultato: bombardamenti veri, sfollati, feriti… e gli ambasciatori rispediti a casa con un biglietto solo andata. Insomma il vademecum della crisi regionale De Agostini. Sembra di leggere i comodi fascicoli che troppo spesso sono giunti a casa nostra copiosi e non desiderati negli ultimi anni di tensione geopolitica top level. 

Ma non c’è solo la guerra, anche la politica si infiamma e non solo in senso figurato. 

A Bangkok la premier viene sospesa “per questioni etiche” – come dire che se non ci pensa la guerra a movimentare la giornata, c’è sempre la giustizia a dare una mano. 

In Cambogia, nel dubbio, si riprende in mano il vecchio libro della leva obbligatoria. Non si sa mai, con tutto questo traffico di soldati ai confini.

Nel frattempo, la Cina  si mette comoda sugli spalti, tifa per la pace, che non fa mai male e ricorda a tutti che la stabilità nell’ASEAN è importante – insomma, più che altro vorrebbe che la gente continuasse a investire e mangiare noodles in santa pace. Da un punto di vista strategico è proprio la salvaguardia dell’attuale assetto dell’ASEAN a spingere la Cina ad una mediazione più risoluta, non ostante i legami privilegiati che storicamente ha tessuto con la Cambogia. Nata come organizzazione atlantista negli anni ’60, con la caduta del blocco sovietico e la potente emersione della Cina, cresciuta sul modello riveduto di sviluppo delle “Tigri Asiatiche”, l’ASEAN ha assunto progressivamente una fisionomia più autonoma politicamente e più legata alla cooperazione economica stretta tra i paesi del Sud-Est asiatico e tra questi e la Cina in primis, il Giappone, l’India e gli Stati Uniti, questi ultimi con una diffidenza crescente dovuta alle pesanti ripercussioni in quell’area della crisi finanziaria del 2008. La pesante diatriba sorta durante il vertice associativo dell’anno scorso tra Stati Uniti, Cina e Russia ha rammentato drammaticamente delle pesanti ingerenze tese a riproporre quell’area come terra di contesa geopolitica aperta e a rinfocolare le rivalità tra e interne a quei paesi.

Mediazione pragmatica : il catalizzatore Malese 

• La Malesia si è posta come mediatore centrale durante l’ultima escalation, ospitando il vertice decisivo per il cessate il fuoco e garantendo il primo successo diplomatico nel contenimento della crisi. Proprio la Malesia, un tempo parente povero delle “Tigri Asiatiche” e mera appendice della potenza finanziaria, commerciale e tecnologica di Singapore ed ora protagonista di un importante risveglio economico.

• Questo ruolo nasce dalla necessità di preservare la stabilità dell’ASEAN — essenziale sia per motivi di sicurezza interna sia per la solidità dei commerci marittimi e il controllo degli snodi strategici, a partire dallo stretto di Malacca, che resta la “giugulare economica” della regione.

I fondamentali di teatro La Cautela “proattiva” Malese

Pur mantenendo un profilo basso in termini retorici, la Malesia mira chiaramente a rafforzare la sua influenza come potenza pivotale e “garante di equilibrio”, consapevole che il prossimo decennio vedrà il Sudest asiatico terreno di sfide crescenti tra Cina, Stati Uniti e attori regionali emergenti.

Da qui la necessità di prevenire crisi allargate e di gestire la difficile coesistenza tra due “clienti amici/nemici” come Thailandia e Cambogia, entrambi fondamentali per l’equilibrio ASEAN ma spesso in competizione diretta.

Il Fulco omesso ma sottointeso :  “ Le future guerre dei mari”:

La posizione malese impone prudenza e costringe a una mediazione costante tra le esigenze dei “grandi” (Pechino in primis, vista la rotta delle nuove Vie della Seta e le dispute del Mar Cinese Meridionale) e quelle degli alleati-competitori interni all’ASEAN.

Man mano che il quadro Indo-Pacifico si polarizza, la Malesia tende a rafforzare il proprio apparato diplomatico, la marina e le capacità di intelligence preventiva, per evitare che crisi “locali” si trasformino in detonatori di più ampie competizioni per il controllo degli accessi marittimi regionali.

Questo approccio riflette la volontà malese di farsi riconoscere — anche sul piano internazionale — come attore “neutrale e affidabile”, dotato di credibilità sia verso i partner ASEAN sia verso i grandi player esterni. Kuala Lumpur mira a elevarsi a interlocutore di riferimento per mediare future tensioni tra leader regionali in ascesa o crisi geostrategiche legate al controllo dei mari e delle rotte energetiche

E come da copione, a pagare il prezzo sono i civili: un bambino ferito, case rase al suolo, e la classica corsa ai supermercati per accaparrarsi l’ultima bottiglia d’acqua prima che chiudano anche le frontiere. Intanto, su Facebook, ambasciate e ministeri fanno a gara a chi pubblica prima l’allerta: “Lasciate la Cambogia!” / “Andate via dalla Thailandia!” – Sembra una di quelle storie d’amore in cui nessuno vuole prendersi la colpa.

Riassumendo: altro che Indiana Jones, qui il tesoro se lo contendono a suon di razzi e veti incrociati, con l’arbitro internazionale che osserva e spera solo che nessuno tiri fuori la cartina del Risiko.

Stacco 

La Cambogia beneficia di crescenti investimenti cinesi, soprattutto a debito, per il rinnovamento delle sue forze armate, inclusa la modernizzazione della componente terrestre e navale (es. base di Ream). Questi investimenti comprendono forniture di armi leggere, sistemi logistici e formazione militare di stampo cinese, spesso in cambio di concessioni strategiche e accordi infrastrutturali. Il volume esatto degli investimenti diretti nel settore militare non è sempre trasparente, ma il sostegno complessivo da Pechino nel quadro del debito complessivo bilaterale supera decine di miliardi di dollari nel settore infrastrutturale e di sicurezza[3]. La Thailandia spende circa 7 miliardi di dollari l’anno per la difesa, ma soffre di un paradosso strutturale: grande quantità di equipaggiamenti (compresi molti obsoleti ereditati da donazioni o acquisti occidentali), con difficoltà nell’ammodernamento, manutenzione inefficiente e corruzione diffusa. La realtà è un esercito appesantito da “carrozzoni” militari invecchiati, dove l’aggiornamento tecnologico procede a rilento e le spese sono concentrate su pezzi di ricambio o esercitazioni di routine. 

La Cambogia pur moderna nelle dotazioni fornite da Cina e Russia, rimane un esercito di media-piccola scala, con limitate capacità di proiezione al di fuori del territorio nazionale. I debiti e contratti legati agli aiuti militari cinesi, però, vincolano a lungo termine Phnom Penh alle strategie di Pechino[3]. L’esercito thailandese, pur numeroso (~360.000 unità) e formalmente moderno per alcune armi, risente di una gestione inefficiente delle risorse, di vetustà degli armamenti (con apparati USA e occidentali datati), e di debolezza nel rinnovamento delle capacità tecnologiche, rallentandone la competitività regionale.

Contesto della crisi

La nuova ondata di scontri tra Thailandia e Cambogia, maturata tra giugno e luglio 2025, affonda le radici in dispute storiche mai realmente risolte sul confine terrestre, tra le quali la gestione dei templi di Preah Vihear, Ta Kwai e Ta Muen Thom. Linee di faglia risalenti agli imperi Khmer e Siam alimentano una rivalità che si rinnova ciclicamente, marcata da forti elementi identitari e nazionalistici.

Dopo settimane di schermaglie locali e mine su entrambi i lati, la crisi è esplosa con una serie di scontri armati, per ora circoscritti ma molto cruenti, che hanno costretto decine di migliaia di civili a fuggire dalle province di confine.


L’area degli scontri resta limitata e, nonostante la chiusura dei valichi e la forte militarizzazione, non si registrano al momento estensioni a zone urbane o coinvolgimento diretto di altri attori regionali. 

I nazionalismi per dissociare le fragilità interne 

La disputa attuale riflette non solo questioni di sovranità territoriale, ma fragilità politiche e dinamiche interne: in Thailandia, la crisi è stata accelerata da un’intensa fase di instabilità istituzionale che ha visto la sospensione del premier e l’emergere di nuove leadership militari; in Cambogia, il conflitto è stato usato dal governo per consolidare il fronte interno e rafforzare la coesione nazionale.

I nazionalismi, alimentati da secoli di tensioni tra le due “tribù” regionali, offrono terreno fertile per retoriche revansciste, e vengono periodicamente riattivati per gestire fasi di crisi sociale, mutamento politico o transizione di potere

La dimensione internazionale e la cautela ASEAN

Pur in un contesto a rischio di escalation, la crisi viene “gestita” entro confini simbolici e pratici definiti, con la decisa intermediazione di attori ASEAN — in particolare la Malesia — che ha contribuito a realizzare il cessate il fuoco e ad evitare il coinvolgimento diretto delle grandi potenze.

Sia la Cambogia che la Thailandia appaiono oggi consapevoli di quanto la stabilità regionale sia un interesse condiviso e di quanto pesi, sulle loro future possibilità di crescita, il mantenimento dell’ordine e l’evitamento di guerre “totali”1


 (Analisi/Segnali finali) — Il ruolo delle potenze globali

La componente esterna (Cina, USA) rimane più accennata che dominante: Pechino si limita a segnali di prudenza e sostegno politico finale; Washington agisce in chiave di dissuasione commerciale e formale mediazione, come dimostrato dall’intervento di Trump che ha esplicitamente “chiesto” la fine delle ostilità sotto minaccia di sanzioni commerciali3


Nell’analisi di scenario, la vera sfida è la capacità delle medie potenze ASEAN — Malesia, Indonesia, Vietnam — di “stabilizzare” il gioco regionale, offrendo piattaforme di dialogo e disinnesco delle future crisi in una regione sempre più centrale nelle nuove dinamiche multipolari.

Fonti 

• Scenari Economici sulle implicazioni geopolitiche ed economiche della crisi.

• Marketscreener sulle dichiarazioni ufficiali e la gestione internazionale del cessate il fuoco

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China e India alla corte di Ursula la disgregatrice_di Cesare Semovigo

China e India alla corte di Ursula la disgregatrice

Negli ultimi anni, la posizione della Cina e dell’India all’interno dei BRICS è apparsa sempre più ambivalente, soprattutto alla luce delle tensioni globali e dei mutati rapporti di forza tra Occidente e Oriente.

Modi a Cipro ha lanciato il guanto al Dragone e benché condividano una parte di cammino nei Brics , i loro destini possiamo scommetterci usciranno dai binari , fino ad impattare .

Da un lato, entrambi i paesi si presentano come leader dell’emergente blocco economico-politico alternativo a quello occidentale, promuovendo la multipolarità e contestando il dominio euroatlantico.

Dall’altro, sia Pechino che Nuova Delhi coltivano interessi nazionali divergenti e strategie talvolta contraddittorie, soprattutto quando si tratta di relazioni economiche con l’Unione Europea. Tale doppiezza si riflette, ad esempio, nella reticenza ad assumere posizioni univoche sul conflitto ucraino, nel tentativo di tutelare sia i legami strategici con Mosca sia i rapporti commerciali vitali con Bruxelles.

La Russia, osservando questa dinamica, fatica a fidarsi del tutto dei due giganti asiatici: da un lato cerca di consolidare il proprio asse strategico con la Cina – partner essenziale dopo l’isolamento imposto dall’Occidente e peraltro fallito – dall’altro si mostra sempre più diffidente verso l’India, storica alleata ma oggi oscillante tra i BRICS e le tentazioni di apertura ai mercati e alle tecnologie occidentali . Quello che per ora è stato l’unico vero successo dell’amministrazione Trump , disossare i conflitti interni ai Brics , corteggiando con successo l’India , mandare un messaggio a Pechino e dimostrare a Mosca quanto il cammino verso la moneta alternativa al dollaro non sarà una gita di piacere .

Nonostante i toni fermi adottati nei confronti della Cina, la postura dell’Unione Europea appare sempre più contraddittoria e miope. A dominare è una linea dettata dagli interessi del blocco anglosassone – con la BCE spesso prona alle pressioni dei mercati finanziari – a discapito di una reale autonomia strategica continentale , dove il vero nemico dichiarato e obbiettivo finale è l’attacco sistematica del risparmio privato in salsa iper digitalizzata .

L’UE, invece di affermare un’agenda estera indipendente e coerente con gli interessi profondi dei cittadini europei , delle imprese agisce troppo spesso da “secchione” della NATO o delle direttive di Washington e Londra, penalizzando le proprie industrie e disperdendo risorse in una competizione che non sembra poter vincere. In questa veste, rischia di compromettere quella stessa vocazione di potenza equilibratrice che avrebbe il potenziale di giocare a suo vantaggio su scala globale.

Paradossalmente, l’attuale atteggiamento dell’Unione Europea assomiglia più a quello di un “guastatore” che si inserisce negli equilibri tra Cina, India e Russia non per dettare nuove regole del gioco, ma per ostacolare gli altri dall’esterno, mosso più da frustrazione che da progettualità politica.

La fragilità economica post-Brexit, le divisioni interne fra stati membri e la gestione spesso dogmatica da parte della BCE delle crisi finanziarie lasciano l’UE in una posizione di debolezza strutturale; ne consegue una spasmodica ricerca di visibilità nelle crisi internazionali, spesso a scapito della propria credibilità ed efficacia.

Più che un attore consapevole, Bruxelles rischia così di ridursi a spettatrice rumorosa e, di fatto, impotente nelle grandi trasformazioni dell’ordine mondiale in atto.

La partita sotto traccia si chiama Africa

Il continente africano è diventato un campo di confronto strategico non secondario ma centrale, anche se spesso trattato “sotto traccia” rispetto ai riflettori su Pechino e Nuova Delhi .
Nel 2024 i BRICS si sono ampliati includendo Egitto ed Etiopia, e partner come la Nigeria, confermando che il continente è parte integrante delle strategie di queste due potenze.

Tanto la Cina quanto L’India competono, oltre che cooperare, per l’influenza in Africa.

Pechino ha consolidato negli anni una presenza economico-infrastrutturale capillare (nuova Via della Seta, investimenti diretti, prestiti), mentre l’India ha rilanciato la propria agenda africana puntando su scambi, tecnologia e formazione, cercando di presentarsi come alternativa meno invasiva e più “paritaria”.

La visita di Modi nel 2025 in paesi africani chiave indica che Nuova Delhi mira a capitalizzare l’assenza di Xi Jinping e a guadagnare visibilità come portavoce genuino del Sud Globale.

Rispetto alla filosofia Russa ben ancorata alle tradizione sovietiche riguardo alla cooperazione con l’Africa , entrambe si adoperano come tutti gli outsider quando entrano in un nuovo mercato .
La delicatezza e condizioni favorevoli accompagnate da investimenti ( soprattutto la Cina ) hanno avuto il merito di stimolare e incrinare entropicamente un teatro incancrenito dal metodo post-coloniale occidentale .

L’ultimo bilaterale Russo Francese infatti aveva sul tavolo anche le emergenze di Parigi in quei territori che l’arroganza transalpina , sbagliando , aveva dato per troppo tempo come scontate .

Certe convergenze potrebbe essere state trovate proprio per ottiche interne di casa Brics .

Una mano lava l’altra se si tratta di evitare uno sbilanciamento delle influenze verso Pechino nel vastissimo supermercato africano delle terre rare.

Modi e Xi cercano di presentarsi come difensori degli interessi africani per legittimare un ruolo egemonico nei nuovi assetti multipolari – una dinamica che alimenta sia cooperazione diplomatica che tensione competitiva.

Chiaramente a parte settori molto specifici vista l’abbondanza in patria , Mosca gioca una partita diversa , meno ancorata alla necessità ma più politicamente orientata . La sensazione che la Russia sia stata costretta ad irrigidire certi atteggiamenti nei confronti dei due alleati , soprattutto tra gli analisti non è un mistero .

La situazione incandescente delle tensioni guerreggiate nel Kivu
e la quasi per niente sorprendente manovra del Dipartimento di Stato Usa, con Rubio come arbitro nell’auto-eleggersi come mediatore , potrebbe aggiungere chiarezza al caos controllato che vedremo in Africa negli anni a venire .

L’Europa in Africa : Può Accompagnare Solo
Comprimari per disperazione

L’Unione Europea, seppur storicamente presente in Africa, sta vivendo una fase di crisi strategica. La sua postura, spesso percepita come subalterna agli interessi anglo-americani, la penalizza nel competere con il dinamismo e la liquidità consistente delle potenze asiatiche.

Tale marginalità , termine che risuona quasi come un complimento esagerato , rischia di relegare Bruxelles a spettatrice, mentre Pechino e Nuova Delhi investono per presidiare risorse critiche e alleanze diplomatiche nella regione.

Nel delineare la partita tra UE, India, Cina e in side la Russia, si deve dunque sottolineare come l’Africa sia divenuta sempre più il “terreno di contesa decisiva”: la centralità africana, apparentemente marginale nei vertici UE-India-Cina, è in realtà il vero discrimine del futuro ordine mondiale, spazio dove si misurano capacità di proiezione strategica, influenza sulle nuove narrazioni egemoniche del “nuovo multipolarismo”.

Inserire questa chiave di lettura rafforza l’argomento che l’evoluzione delle rivalità e delle possibili convergenze tra Delhi e Pechino avrà un impatto profondo e diretto sulle traiettorie di crescita, con ovviamente gli interessi locali all’ultimo posto, stabilità e come collettore per la politica africana in cerca di nuove alleanze – e, per incrocio, sulla posizione globale della Ue.

Tuttavia, permane una ambivalenza fortemente disomogenea tra cooperazione Sud-Sud e la crescente competizione asimmetrica, il cui epicentro rimane sempre più a sud del Sahara; fattore che porterà di fatto Parigi e la Ue lontane dalla partita .
Insomma alla vecchia Europa rimarranno più problemi che opportunità, e probabilmente , a questo cerino per rappresentanza e orgoglio dovrà restare aggrappata .

La Russia

La Russia adotta una strategia diversa, meno improntata alla retorica del “partenariato paritario” e più centrata su obiettivi di influenza politica e militare.

Mosca sostiene regimi attraverso forniture militari, addestramento ed impiego di gruppi paramilitari (come Wagner), agendo spesso con modalità che non nascondono la ricerca di vantaggio, senza la pretesa di “fare del bene” o di essere partner allo stesso livello .

Non troppo lontano nel tempo molti di noi ricorderanno bene le sorti delle pattuglie dei “Musicisti” accerchiate e sterminate proprio dai guerriglieri Berberi nel triangolo di terra , di tutti e di nessuno , tra il Mali e la Libia .

Esattamente le stesse milizie che durante l’anarchia seguita all’imbarazzante guerra illegale per porre fine al regime del Colonnello , trasferirono nelle proprie basi, alcuni dicono appoggiati dal cielo da imprecisate forze aeree occidentali, buona parte dell’arsenale di Gheddafi .

Questa franchezza russa , per certi versi “cinica”, differenzia il suo approccio, indifferente al camuffamento dei suoi fini, pur sollevando altrettanti interrogativi su effetti e stabilità a lungo termine.

Questa distinzione non deve mitizzare il modello russo, ma piuttosto riconoscerne l’estremo realismo e quella cautela che anche durante la Smo , in molti abbiamo sottolineato .

Cesare Semovigo

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La vecchia Europa si riscopre Bambina_di Cesare Semovigo

La vecchia Europa si riscopre Bambina
Dai dazi al D.S.A : Chiagni e Fotti

Nel momento di massima frizione tra Stati Uniti ed Europa la narrazione pubblica, oggi dominata da commentatori impulsivi e scarso rigore tecnico, rischia di perdere di vista le vere linee di tensione sistemica che plasmano il continente.

L’accordo commerciale, letto fuori dalle distorsioni emotive e identitarie, mostra una Vecchia Europa che, sotto pressione, riscopre la propria vulnerabilità: non più matrona autorevole ma, complice la miopia gestionale degli ultimi anni, quasi “bambina”, costretta a trattare da posizione di scarsa forza negoziale.

In questo quadro, la strutturazione di dazi reali e nominali segnala il ritorno della politica industriale e della sicurezza strategica: tariffe apparentemente alte mascherano un riequilibrio spesso già consolidato sui settori “golden power”, e il vero tema non è la capitolazione ma la maturazione, la necessità di un’Europa finalmente adulta e responsabile verso i propri cittadini invece che verso le suggestioni del momento.

Questa crisi di consapevolezza si amplifica nel digitale. L’introduzione e la rapida enforcement del Digital Services Act, presentato come scudo democratico dall’Unione ma aspramente criticato dagli USA già dalla “bacchettata” di J.d Vance a Monaco e ora additato dal Congresso come minaccia “censoria della libertà di espressione “ rafforza la dissonanza tra i due blocchi.

La posta in gioco è la capacità di uscire dal frame della “resa per manifesta inferiorità ” e dell’autoreferenzialità emotiva .
Questo è oggi il vero salto di soglia per guidare le policy senza subirle per strumentalizzarle in seguito per politica interna e cabotaggio del dualismo aleatorio dell’alternanza democratico .

L’accordo appena raggiunto, con dazio base fissato al 15% (e non all’abolizione promessa sui media) e fortissimi impegni in campo energetico e negli investimenti, mette l’UE di fronte alla necessità di uscire da un infantilismo gestionale e abbracciare una postura adulta: negoziare in modo trasparente, valutare le conseguenze reali e difendere gli interessi comuni senza cadere nelle trance mediatiche del mantra suprematista censoreo o o nelle indignazioni per la pancia del pueblo .

In questo quadro, etichette come “capitolazione” o “resa” riflettono la vecchia tendenza europea all’autocommiserazione o alla ricerca di colpe esterne, più che un’analisi strutturale dell’intesa e dei propri evidenti deficit sistemici : gran parte delle tariffe zero sono già frutto di precedenti assetti e molti settori golden power restano protetti da vincoli normativi e non solo fiscali.

La responsabilità vera ora è cogliere la crisi come occasione di passaggio di soglia: l’Europa dovrà imparare ad agire come soggetto consapevole e attivo, sviluppando la capacità di valutazione autonoma e la leadership tecnica necessaria per navigare una realtà geopolitica sempre meno protetta da automatismi atlantici garantiti all’infinito e sempre più esposta a scelte avanzate , razionali solo producendo una classe dirigente neomedicea potremmo salvarci . Ma ovviamente non succederà .

I dazi UE verso l’export strategico USA su settori strategici sono già oggi generalmente bassi o nulli, salvo casi particolari.
La narrativa della “concessione” europea ignora che molte di queste condizioni erano già in essere e che il vero impianto dell’accordo riguarda equilibri di governance e sicurezza nazionale, non solo mera fiscalità sugli scambi .
Dal ragionamento prettamente orientato alla concertazione e al controllo digitale escludiamo il tasto NATO e Riarmo Europeo affrontandolo in seguito .

Molti media e commentatori trascurano il fatto che, negli accordi tariffari USA-UE, per vari settori strategici (aerospazio, farmaceutica, high-tech, materie prime) i dazi sono già allo zero reciproco da tempo, e che l’intesa attuale si limita ad allineare formalmente le regole.

La stessa Meloni , se parliamo del Bel Paese , rilascia dichiarazioni al limite della Stand Up Comedy :
“Bene così ma devo ancora studiare i dettagli “
Delega distratta insomma .

Fatti oggettivi (fonti ufficiali)

• L’accordo Usa-Ue appena annunciato prevede una tariffa base del 15% sui dazi applicati agli scambi reciproci.

• L’UE si impegna ad investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare 150 miliardi in energia e armi statunitensi.

• Per acciaio e alluminio i dazi restano al 50%; Trump dichiara che «per queste materie non cambierà nulla»

• Trump e von der Leyen hanno definito l’intesa «il più grande accordo mai raggiunto» e auspicano che porti “stabilità, unità e amicizia”

Sul nuovo accordo USA-UE, la narrativa dominante parla di una grande “concessione” europea sulle tariffe, ma si dimentica spesso di chiarire che molte di queste tariffe “a zero” derivano dal fatto che gli USA già applicano condizioni simili per determinati prodotti oppure che si è raggiunto un equilibrio reciproco su alcuni settori strategici.

Ecco cosa dicono i dati tratti dai documenti ufficiali :

• L’accordo prevede una tariffa base al 15% sulla maggior parte delle merci, ma “dazi zero per zero” su alcuni prodotti strategici:

• Aeromobili e componenti, prodotti chimici, alcuni farmaci generici, apparecchiature per semiconduttori, agroalimentare selezionato, risorse naturali e materie prime essenziali sono esclusi da dazi e vengono scambiati a tariffa zero.

• La questione della reciprocità tariffaria:

• Le dichiarazioni ufficiali riportano esplicitamente che sui prodotti “strategici” l’accordo è di reciprocità: “zero per zero” significa che gli USA già da tempo applicano tariffe zero su questi beni e, ora, anche l’UE viene allineata in piena reciprocità.

• Negli altri settori, il 15% di dazio equivale a una media più bassa sia rispetto alle minacce massime annunciate dagli Stati Uniti (che parlavano anche di 30% e oltre), sia rispetto alle tariffe Usa su altri partner commerciali.
• Nella comunicazione pubblica questo dettaglio viene spesso omesso: Lo storytelling politico e mediatico tende a enfatizzare l’attesa “concessione” europea e il rischio di “capitolazione”, trascurando la realtà tecnica che per i settori più dinamici e hi-tech la prassi dello “zero reciproco” era in gran parte già consolidata negli USA.

• Von der Leyen lo afferma, ma il messaggio non passa:

• La presidente UE lo ha detto chiaramente in conferenza stampa, ma il dettaglio finisce spesso “in nota”, con la conseguenza che la pubblica opinione e gran parte della stampa enfatizzano solo l’aspetto del sacrificio europeo.

La narrativa distaccata dall’oggettività

È particolarmente istruttivo il modo in cui, soprattutto tra i media progressisti e liberali europei , si tende ad addossare la responsabilità per le nuove forme di censura, moderazione forzata e controllo digitale a X o a figure iconiche come Pavel Durov, raffigurandoli come “maestri delle chiavi” del populismo Maga o surfers del web filo russi .

In realtà, la documentazione recente dimostra con nettezza che il baricentro del controllo – almeno sul versante europeo – oggi risiede negli apparati normativi e nelle spinte regolatorie dell’Unione Europea, non nel mero arbitrio delle piattaforme private della Terza Roma o dei CEO-cowboy della Silicon Valley.

Il caso Telegram e l’arresto di Durov in Francia esprimono questa crisalide demenziale che non diventerà mai farfalla : qui non è tanto la big tech a imporsi sulla libertà d’espressione, quanto la pressione crescente dei governi nazionali e, soprattutto, di Bruxelles, che attraverso normative come Chat Control, DSA ed estensione delle responsabilità dei provider pretende che le piattaforme si adeguino a richieste sempre più prescrittive di sorveglianza e collaborazione investigativa.

Paradossalmente, Durov viene accusato proprio di troppa resistenza agli automatismi censorî, difendendo la privacy criptografica contro gli ordini di Stato sia in Russia che in Occidente.

È dunque fuorviante imputare alle big tech statunitensi l’origine del “nuovo ordine censorio” in Europa: è lo stesso legislatore comunitario, nel tentativo (più o meno dichiarato) di controllare i flussi informativi e tutelare la sicurezza nazionale, a introdurre obblighi che ribaltano la narrativa di Silicon Valley come unico arbitro del discorso digitale. I fatti mostrano che il censore europeo oggi agisce, spesso con efficacia superiore a quello americano, introducendo logiche di controllo centralizzato e responsabilità penale dei provider, mentre i CEO delle piattaforme si ritrovano spesso sulla difensiva – quando non proprio perseguiti per resistenza.

In questa fase storica, la retorica dell’“élite tecnocratica californiana” serve più da specchio dell’esercizio duale entropico come attivatore delle paure , che non da reale descrittore dei rapporti di forza nella regolazione concreta della libera espressione digitale.


L’esempio perfetto : Calenda su X dazi Ue – Usa

“Quello presentato da #Trump non è un accordo ma una capitolazione dell’Europa. Tariffe a zero vs 15% e acquisti di energia per 750 mld e armi a piacere, più 600 miliardi di investimenti europei in USA. Stasera mi vergogno di essere europeo. La #vonderLeyen ha fatto la figura della scolaretta e dovrebbe essere mandata via seduta stante.”

Un esempio perfetto di quello che dicevamo: quando il discorso pubblico si affida a tweet e dichiarazioni estemporanee, si crea un mix di informazioni fattuali, giudizi emotivi e slogan che rende più difficile la valutazione obiettiva del quadro complessivo.

Cesare Semovigo

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Gli archetipi della successione, di Cesare Semovigo

Gli archetipi della successione
La scena ucraina, a metà 2025, è divenuta la sintesi cosciente della crisi del modello occidentale: mutazione accelerata, tensione tra sopravvivenza della forma e bisogno di mutamento. Dopo il ciclo delle grandi controffensive e delle narrazioni d’acciaio, il sistema di Kiev appare prigioniero della necessità archetipica di un simbolo e un garante — ma non necessariamente l’attore che lo interpreta deve essere lo stesso uomo.
Volodymyr Zelensky verso la sua consacrazione ad Archetipo
La sopravvivenza della “causa Ucraina”, agli occhi di alleati e società, passa anche dalla sua presenza — come funzione simbolica, come “capitale residuo”, come garanzia della resistenza esistenziale. Action man.
Arrivato a un consenso dimezzato e polarizzato, con pressioni ormai evidenti dagli alleati per una successione ordinata, la sua esfiltrazione (logistica o almeno politica) diventa opzione concreta oltre la sua incolumità effettiva. La necessità di mantenere intatto il simbolo — anche fosse su un altro scacchiere, in ruoli internazionali, o attraverso una “uscita alta” — viene discussa a porte chiuse, nelle ambasciate e nelle società di consulenza strategica occidentali.
In una riunione a luci basse, un consigliere occidentale avrebbe osservato: “In questa fase, Zelensky può salvare più da remoto che da vicino: l’icona funziona solo se resta intatta”.
Valeriy Zaluzhny è, nel frattempo, stato oggetto di una delle “mosse di parcheggio” più cariche di presagio della storia recente: spedito a Londra con le insegne di ambasciatore ben prima della transizione aperta, quando il suo consenso in patria superava quello del presidente.
Il sistema lo ha già scelto come “designated survivor”: una figura che resta inattiva su carta, ma pronta e in regia, circondata da reti alleate e operatori della diaspora, capace di tornare “funzionale” sia nel caso di crisi interna, sia come soluzione gradita agli sponsor euro-atlantici.
Negli incontri UE-NATO a Kiev, è circolata la battuta — “In Ucraina il più potente è quello che non parla” — parte il brindisi, per alcuni imbarazzo e per altri un sollievo.
Le profonde divergenze tra Zelensky e Zaluzhny — su strategia, mobilitazione, perfino sulla narrazione pubblica della guerra — sono state il motore segreto della recente “putsch bianco”, dove la sostituzione ha permesso, almeno per ora, di non spezzare la cornice della legittimità. La nuova fase vede Zaluzhny a Londra come garanzia di continuità, pronto a rientrare se e quando il sistema (interno o esterno) giudicherà esausta la traiettoria di Zelya.
Nel frattempo, il conflitto intraoccidentale, soprattutto tra l’asse UK-FR e la prudenza tedesca, si acuisce e modula ogni gioco ucraino: armi, tempistiche negoziali, retoriche di coesione, tutto è oggetto di scambio e bilanciamento continuo, fattore che disorienta Kiev e complica qualsiasi transizione lineare del potere, se non abilmente sceneggiata. Niente scherzi, l’imprevisto mette ansia. Meglio preparare un copione prepagato. Caro.


Sul Mar Nero, la costante presenza dei tre assetti EW (guerra elettronica top gamma e ricognizione: olandese, francese, britannico) evidenzia il massimo livello di vigilanza alleata e funge da monito operativo e politico: è sia deterrente verso Mosca che rassicurazione attiva verso i partner interni e la società civile, in modo che nessun vuoto di potere passi inosservato e nessuna crisi resti senza supervisione.
Un giovane analista della Nato ha sussurrato: “Questi aerei non scrutano solo i radar russi. Cercano anche il segnale che Kiev cambia pagina, per avvertire chi e chi di dovere”.
Macro : risonanza del futuribile
Più in generale, questa fase sancisce il passaggio dall’idea di crisi isolata a quella di sistema di crisi concatenate. Tutto il Mar Nero, il Baltico, il Caucaso risuonano della stessa incertezza: i polverieri congelati possono riattivarsi, ma il focus — come in un laboratorio da guerra fredda — rimane su Kiev, case study eurasiatico di successione archetipale pilotata.
La dialettica tra la funzione simbolica (esfiltrare e salvare Zelya, investirlo di ruolo internazionale, mantenendo così intatto il racconto della “giusta causa occidentale”) e quella “tecnico-militare” (parcheggiare e poi rilanciare Zaluzhny come erede legittimo e praticabile) è la grammatica segreta della governance ucraina odierna, e — di riflesso — della postura occidentale nei confronti dell’intero fronte euroasiatico.
A Bruxelles circola una vecchia massima diplomatica: “È bene lasciare sempre una stanza con due uscite.” In queste settimane, la frase rimbalza tra appunti riservati e messaggi cifrati, mentre la partita sui nomi tiene col fiato sospeso anche chi conta su altri tavoli.
Le crisi regionali — dalla tensione a Kaliningrad ai nuovi attriti caucasici, alla partita energetica del Mediterraneo — compongono un cortile allargato in cui ogni cambio-mossa a Kiev produce eco e riverberi: una risonanza di aspettative, sorveglianze e accelerazioni che renderà impossibile, nelle prossime settimane, separare il destino dei singoli attori da quello del sistema complessivo.


La “transizione soft” pianificata — con esfiltrazione di Zelya e riattivazione di Zaluzhny — è oggi tanto una soluzione tecnica quanto un gesto rituale, che serve a rassicurare ciascun livello (interno, alleato, mediatico) e a prolungare l’utilità agonistica e simbolica di una crisi che, nella realtà, è ormai più sistemica che internazionale.

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I costi di un cedimento_Cesare Semovigo

Poco dopo l’incontro formale di Trump con Bin Salman per la costituzione dell’IA Board in terra saudita, la pressione sul versante mediorientale è immediatamente aumentata: il cosiddetto “zio Donny” ha subito un attacco coordinato e neocon fra Tel Aviv ed Ankara, con la regia spiccatamente opaca dell’asse Erdoğan–Netanyahu.

In questo scenario, i Drusi sono stati abilmente manovrati e comprati dallo Shin Bet, generando doppi passaporti per tutti ridotti a una simulata alleanza che nella realtà li ha trasformati in pedine di un gioco spietato, segnando per Trump un periodo nefasto di solitudine strategica, dove ogni certezza passata si è sciolta nell’acido del nuovo ordine mediorientale.

Fra i molti si dice raccolti sui teatri della crisi, si rafforza la percezione che l’intesa antica e mai del tutto interrotta tra Francia e Israele – nata già dai tempi della famigerata “bomba di David”, ovvero la collaborazione nucleare franco-israeliana fra anni ’50 e ’60 – venga oggi rinnovata sul campo.

Opportunità e calcoli geopolitici hanno storicamente spinto Parigi a riproiettarsi laddove le proprie influenze, specialmente tra Siria e Libano, rischiano di polverizzarsi: ecco allora il supporto diretto, non solo politico ma militare, ai Drusi e alle formazioni “utili”, confermato dal trasferimento tempestivo dei venti Rafale che la stampa generalista finge di non vedere.

D’altronde, la tradizionale protezione francese dei cristiani maroniti e il peso dei vecchi equilibri levantini si sommano alle esigenze attuali di tornare decisivi dove serve, con la convinzione che la mano dell’Eliseo si muova sempre in sintonia con i voleri indistinti – quanto influenti – dei grandi sistemi bancari d’area sionista, senza che vi sia mai bisogno di esplicitarli nei dettagli.

In quest’ottica, perfino incontri come quello Macron–Putin, ufficialmente focalizzati su Africa e flussi migratori per i gonzi, sono stati in realtà teatro trattative per ridisegnare l’intero scacchiere tra Siria, Sahel, Israele , come sanno bene tutti gli osservatori non più ingenui o costretti alla rappresentanza da

televendita deI Brics.

LA PIANIFICAZIONE DELLA Guerra Infinita

Durante la surreale avanzata di Al-j lungo la costa e la campagnaq parallela dell’FSA in direzione Raqqua e Deirhezor si erano notati tramite rilevamenti open source e dati ufficiali, operazioni aeree della RAAE Israeliana che, nonostante apparente dissociazione operativa, avevano caratteristiche tra una vera e propria cobelligeranza e un supporto aereo avanzato di supporto.

Non tardò la scontata associazione nell’individuare l’arcipelago delle milizie Drusa come vero beneficiario di tale “Cortesia“ già dalla prima settimana del raid sui generis che sancì la fine della

Repubblica Araba Siriana.

Le immagini del Ministero della Difesa a Damasco colpito, fermano il tempo, sommandosi a decine di istantanee simili, quasi sovrapponibili, tanto da faticare nel ritornarle nella nostra memoria. L’unica certezza è l’angoscia di vivere in un parallelo dissonante dominato da una sola regola randomica: “futuro è passato di una guerra infinita, senza un vero presente.”

Chiudendo gli occhi la vertigine dovrebbe sopraffarci, ma un battito di ciglia dopo realizziamo come l’incertezza del sonno della ragione rimanga l’unico fedele compagno con il quale senza accorgertene abbiamo imparato a condividere il cammino.

Abbiamo preso il mare e ritoccare terra è un miraggio, quasi come se solo il naufragio imminente e impellente sia l’unica vera speranza che permette di sentirci vivi.

Più la tempesta aumenta di intesità e meno le auto assolutorie semplificazioni che abbiamo costruito per proteggerci dal caos organizzato e autonomo sembrano consolarci.

Le tifoserie e le religioni autocompilate falliscono, abbracciare la complessità, per quanto ardua, diventa necessità conservativa.

Gli stessi custodi della soglia di un mondo quasi epico si stanno trasformano in cloni edulcorati di quello che si voleva contrastare.

Stiamo facendo l’abitudine all’indicibile.

Stiamo bene, stiamo male, come una formalità, non ricordo più bene una questione di qualità.

Nemmeno più personaggi giocanti della simulazione, rassegnati al ruolo passivo, accontentandosi, di quel ruolo virtuale che oltre a non muovere una virgola, ci consuma riproponendo esattamente quelle miserie umane protagoniste del nostro narcisismo latente. Nutrimento della negazione ipocrita mascherata da messianica chiamata di eroi senza macchie e fustini di Dash acquistati con moneta digitale a debito.

Senza tregua, senza un centro, spostati dal focus da migliaia di stimoli, diventati talmente usuali che appena cerchiamo di decongestionarci, finiscono per mancarci.

Con questi presupposti, senza indugi smetti di mentire a te stesso e rimani davanti a due scelte che appena le lasci cadere nel fiume quasi non lineare della realtà, oltre a fare praticamente lo stesso rumore, quasi cullano quell’attimo brevissimo nel quale respiri e te ne privi.

Ma è niente è come il Gollum del famoso Anello soffri se te ne separi. La nostra società non esiste più ma preferiamo giocare con la consolle della nostra vita virtuale sulla quale è regola non avere nessun controllo.

Restiamo umani ripetiamo. Sinceramente vi ricordate l’ultima volta che lo siete stati?

Quanto a Siria e Levante, parlo per esperienza diretta: con Germani ho seguito tutta la guerra, senza preconcetti e senza appartenenze.

Poi sono diventato troppo libero e anarchico – troppo per qualunque schieramento – con un crescendo di insofferenza verso il centralismo social capitalista del partito cinese e il cinismo russo.

Ma le apparenze, quasi sempre, sono ben più ingannevoli di qualsiasi report o narrazione per bandierini .

Il baratto deludente di Trump, di Cesare Semovigo

Il baratto deludente di Trump.

Le E-lezioni di “Medio Oriente

Come dicevamo nelle riflessioni precedenti – e come mi ripeto ogni volta che vedo certi sorrisetti a denti stretti di Hegseth quando la Casa Bianca annuncia nuove forniture di armi a Kyiv – barattare la politica interna con quella estera si è rivelato per l’ennesima volta quel tipico affare all’italiana: ottieni il voto a casa, ma perdi il bandolo della matassa a Washington. E ora eccoci! Lo scenario che paventavamo prende forma: i neocon, come virus latenti nella tappezzeria, tornano ad aggirarsi tra i corridoi della Casa Bianca senza nemmeno bisogno di un nuovo 11 settembre. Trump, tra un’ordinanza e un dietrofront, si ritrova a dover gestire una guerra che non voleva, con uno stock di armi che assomiglia più a una lista di nozze di un aspirante survivalista che al magazzino della superpotenza mondiale.

Le riserve sono stremate – e non solo per l’Ucraina: c’è da badare a Tel Aviv, alle basi in Medio Oriente e, appena la Cina sbadiglia, anche alle questioni del Pacifico. Trump, in un ballo tragicomico, ordina una pausa alle consegne, poi riprende l’invio di armi, mentre il Pentagono cerca di tenere insieme i pezzi e Zelensky scrive su Telegram che i droni sono la priorità, ma almeno servono le risorse per produrli.

Gli alleati europei accelerano sulla produzione interna, mentre gli americani – per la prima volta dalla guerra in Corea – devono scegliere chi salvare per primo: l’alleato di turno al fronte o la propria deterrenza globale.

E tutto questo, caro mio {specchio}Mirror, era perfettamente evitabile. Bastava solo che qualcuno se ne andasse fin dall’inizio, lasciando spazio a una decisione chiara: tuffarsi anima e corpo nella partita ucraina oppure lasciarsi bruciare la candela da un’altra parte. Invece, l’eterno ritorno dei neocon, il balletto delle scorte vuote, l’incertezza alla Casa Bianca e quelle facce che non promettono nulla di buono ci ricordano che, come diceva Totò, qui la commedia non finisce mai. E la politica estera continua a essere la moneta con cui paghiamo i nostri debiti di consenso in patria.

Le elezioni di MediOrientesono arrivate in anticipo

E così, caro Mirror, mentre scandagliavamo gli scenari geopolitici e i rituali occulti delle alleanze dei Brics sono arrivate in anticipo rispetto alle nostre peggiori previsioni le elezioni di “mediOriente”.

Nemmeno tu te ne saresti aspettato , lo so , ma il sistemone profondo era già in “dimensione Hannibale-Sansone” e come già la scorsa estate scrivendo , per contenere gli entusiasmi dei Brics addicted, sottolineavo quanto fosse irrealistico sottovalutarne il potere pervasivo multilivello e dalle risorse pressoché infinite .

E dopo la fine dei sogni puntuale è arrivata la mazzata dei dazi al 30% su tutto l’export europeo, minacciando di raddoppiarli alla prima ritorsione.

Un colpo durissimo, mascherato dalla solita retorica dell’“America First”, che lascia l’Unione Europea a leccarsi ferite da record. Secondo le ultime stime, il conto annuo per l’export europeo potrebbe superare i 115 miliardi di euro solo per il primo anno, con effetti devastanti anche per il made in Italy, già messo a dura prova dalla stagnazione e dalla concorrenza internazionale

Nel calderone finiscono acciaio, automotive, tecnologia, farmaceutica: la lettera minatoria di Trump a von der Leyen sancisce l’inizio di una nuova guerra commerciale, senza esclusione di colpi e con la promessa di tariffe al 60% in caso di “ripicche” da Bruxelles.

L’Italia costruisce stazioni perdendo tutti i treni .

Naufragata quindi la possibilità di sganciarci dalla contrattazione comunitaria e prediligere una diplomazia bilaterale ( vedi Orban),eccoci nella morsa dei dazi da una parte e di una gestione “von der Lobby” dall’altra, troppo attenta a difendere la linea comune ReArm First , anche davanti all’evidenza del disastro .

Paghiamo così il prezzo della coesione europea: le spese schizzano al 5%; solo per l’Italia, le perdite previste potrebbero toccare i 35 miliardi – roba da “affarone”, altro che ripresa, e ci manca solo una guerra vera per completare il quadro

La risposta di Bruxelles, tutta fatta di dichiarazioni solenni e minacce di contromisure, rischia di produrre solo una catena di escalation tariffarie che danneggerà soprattutto le nostre imprese e i nostri cittadini.

A questo punto, non sorprende che le mosse di Musk e la nascita del “America Party” – quell’esperimento elettorale che solo pochi mesi fa sembrava visionario o naif – inizino a sembrare un’ipotesi tutt’altro che peregrina. In mezzo a un sistema bipartitico in crisi di consensi, con i repubblicani ostaggio del protezionismo e i democratici impantanati nel consueto dibattito interno, chi offre un’alternativa trova spazio e ascolto.

Mentre a Washington si litiga sulle priorità, in Europa si paga il prezzo dei ritardi e di scelte mai sovrane: Musk fiuta la crepa e prova a incunearsi, e con ogni nuovo colpo inferto dall’asse Trump-von der Leyen, il suo progetto acquista senso e appeal.

Francamente, un assalto di questa portata me lo sarei aspettato alle midterm, quando gli equilibri americani di solito si frantumano nei giochi di potere di metà mandato. Ma, come si diceva, le “elezioni di medio oriente” – quelle in cui il perno neocon, l’AIPAC e Bibi Netanyahu muovono il bastone e la carota tra Tel Aviv e la West Wing – hanno anticipato tutto: stavolta la tempesta è arrivata prima, e l’Europa ci si è trovata dentro senza nemmeno la protezione di un ombrello degno di questo nome.

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Multipolarismo a due velocità ?_di Cesare Semovigo

Multipolarismo a due velocità ?

A Rio de Janeiro il vertice BRICS ha messo in scena una cena di famiglia dove i principali invitati latitano, segnando il primo vero interrogativo geopolitico di un alleanza delle grandi ambizioni identitarie .
Si dovrebbe prendere atto, passando per disfattisti , che la battuta di arresto dell’alternativa Multipolare antagonista dello strapotere del petrodollaro sta affrontando la sua prima vera crisi politica .

Mandare la palla in tribuna arrampicandoci sull’Esquilino dei Brics , non smuove nemmeno le statistiche degli Stream pompati . Continuiamo così, facciamoci del male.
Come se ammetterlo non sia già abbastanza difficile .

Il vecchio catenaccio della Perfida

Lo sfacciato incontro Cipriota di Modi con i CEO Cap. Venturedi vecchio catenaccio della Perfida Albione, ha rappresentano la prima vera prova strutturale del sistema BRICS .

Per non infierire troverete qui sotto il rito dove , il presidente Indiano riceve (esattamente come il dono di Re Charles a Mattarella -Cipro era il centro congressi)

Condividere una sogno non sottintende l’istinto autoconservativo a confonderlo con il desiderio.

L’imminente tracollo del dollaro sembra sempre più lontano .

La notizia ufficiale: il “club degli emergenti” si allarga e apre le porte a Iran, Egitto e Indonesia, quasi a voler compensare la mancanza dei veri protagonisti. Perché diciamolo: senza Putin e Xi Jinping ,la foto di famiglia somiglia più al bilaterale con invitati tra il Dragone e il Brasile .

Eppure, tra brindisi e dichiarazioni per la stampa, la realtà si impone: l’accordo vero, quello che conta, resta l’asse tra Pechino e Brasilia. Una coppia male assortita che si studia da anni, ballando tra opportunismo e diffidenza.

Lula si muove con la leggiadria di chi sa di non poter troppo irritare né la Cina, né l’India (prossima alla presidenza BRICS) e neppure l’Occidente che guarda con sospetto ma non disdegna. Così, evita la Belt and Road Initiative ma giura fedeltà ai forum con Pechino, la cui “assenza strategica” viene liquidata con un’elegante scusa di diplomazia informale: meglio non dare nell’occhio .

Il Brasile ostenta identità globale, ma poi si risveglia ogni mattina con la realtà di essere il primo partner commerciale della Cina sull’intero continente latinoamericano: il 45% delle esportazioni brasiliane si ferma comodamente a Pechino, altro che multipolarismo.

Ogni dichiarazione di autonomia viene immediatamente smentita dai dati che rivelano una dipendenza ormai strutturale e di fatto ineludibile dalla real politique e dalla strategia di Trump e del suo protezionismo predittivo , apparentemente schizofrenico .

Cina: egemonia senza sbraitare (ma con calcolatrice in tasca)
Pechino, dal canto suo, conduce il gioco con la pazienza di chi sa di aver già vinto. Investe, firma accordi anti-dollaro, ma evita i toni ruvidi e le imposizioni alla vecchia maniera: meglio una egemonia “zen” che non faccia scattare l’allarme nei partner moderati, soprattutto ora che il BRICS si trova a dover gestire quadri sempre più eterogenei e dialoghi surreali dovuti all’ingresso di attori come Iran ed Egitto.

L’espansione del blocco fa notizia, ma la sostanza non cambia. L’allargamento può dare l’illusione della forza, ma serve soprattutto a Pechino per allargare il fronte anti-sanzioni.

A Brasilia, invece, l’idea di condividere il tavolo con Iran e co. provoca più di una perplessità : Lula corre ai ripari, moltiplica gli incontri diretti bilaterali con India e UE, sponsorizza la COP30 e cerca di restare in gioco senza irritare troppo il vero padrone di casa.

In un mondo in cui tutti fingono di essere contro l’Occidente ma nessuno vuole realmente mollare l’osso, BRICS si conferma un raffinato laboratorio di realpolitik:

Lula recita il suo ruolo di mediatore, la Cina prende appunti e nessuno si sogna di spiegare davvero perché sono più amici di prima .

Ma Putin e Xi ?

Cesare Semovigo

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L’Italia e i Rapporti con le Due Libie e Mezzo_di Cesare Semovigo

L’Italia e i Rapporti con le Due Libie e Mezzo

L’Opposto al Sole

La recente luna di miele in Libia tra il comparto del golden power turco e italiano mi ha colpito, e molto. Parliamo di un’inversione storica clamorosa: eravamo quelli che bastava portare il nome e ci facevano accomodare in prima fila; ora ci tocca aspettare il nostro turno dietro la porta e, soprattutto, farci garantire il passaggio proprio dagli ex sfidanti ottomani. Sembra quasi di casa: quando ti si rompe la chiave nella serratura puoi metterti a sbracciarti o forzare, ma spesso tocca arrendersi e chiedere al vicino turco di tirarti fuori con il grimaldello giusto. Questa, più o meno, è diventata la condizione italiana in Libia: per entrare nella grande operazione ricostruzione – l’affare dove si decide chi vivrà e chi marcirà per i prossimi vent’anni – ci siamo dovuti piegare. Senza la “chiave” di Ankara, niente slot, niente commesse grosse, niente partita vera: in Libia oggi, se vuoi il biglietto, te lo timbrano i turchi alla frontiera degli affari. Ma cosa ha cambiato davvero le carte? Qui il prequel è spudoratamente monetario. Undici miliardi di dollari che si materializzano, come nei migliori colpi da Far West, direttamente nella disponibilità di Saddam Haftar, il figlio prediletto del generale. Soldi formalmente destinati alle grandi opere pubbliche e alla stabilizzazione, ma che nel contesto locale – dove governance significa in realtà controllo personale e delle risorse – diventano il carburante per alimentare clientelismi, pagare le milizie e comprare fedeltà. Chi detiene la banca e il porto, a Bengasi, non solo tiene in vita il potere, ma letteralmente compra la pace sociale. Ecco perché i fondi finiscono lì: in Libia non conta lo Stato, conta chi sta fisicamente seduto sulla cassaforte. Saddam Haftar questo ruolo non lo ha per caso, ma perché sa tessere la tela fra famiglia, esercito e tribù; il grosso dei flussi internazionali passa su quello snodo, garantendo solo a lui la possibilità di “offrire il banchetto”. Ma la festa, per Bengasi, rischia di essere l’ultima. Sotto l’urto delle azioni militari rivali, delle pressioni ONU e dei giochi sempre più aggressivi di Tripoli, il sistema di Haftar traballa ogni giorno di più. Se la Cirenaica perde la banca centrale e il controllo del porto – fonte di approvvigionamento e pagamento sia per le armi che per la fedeltà di centinaia di migliaia di stipendiati – finisce la magia. Si secca la linfa, le milizie cambiano bandiera, e il potere in Cirenaica si sgretola all’istante: senza cassa e senza traffico navale, Haftar rischia di non riuscire a comprarsi più nemmeno la fedeltà del parcheggiatore, figuriamoci quella dei comandanti. E, mentre la sabbia si sposta sotto i piedi dei potentati libici, l’Italia si è presentata con i soliti dossier polverosi e infinite cene tra funzionari, assumendo che per diritto naturale il tavolo spettasse a noi. Inoltre, non va sottovalutato come per Riyadh (e alleati) il controllo delle rotte commerciali e di traffico nel triangolo meridionale della Libia rappresenti un obiettivo parallelo a porto e finanza: una piattaforma fondamentale per influenzare i flussi dal Sahel verso il Mediterraneo, con tutto ciò che ne deriva in termini di sicurezza e proiezione regionale. L’equilibrio geopolitico che l’Arabia Saudita ricerca per il secondo piano politico di lettura con il nucleo dei “Fratelli Mussulmani “ si riconosce anche nelle influenze in quest’area , esattamente come facilmente riscontrabile nel ben controllato sostegno all’Egitto di Al Sissi . Il conto però stavolta ce lo hanno portato Turchia, Baykar : se vuoi giocare sei il benvenuto, dicono, ma toccherà passare dalla loro porta d’ingresso. Siamo scesi dal palco principale e ora impersoniamo , non per copione ,il ragazzo del latte che porta il cappuccino nei camerini, come comparse, pur di strappare ancora un giro di pista al grande banchetto della ricostruzione. Un discorso a parte lo merita il rapporto di Roma con il governo di Tripoli, la cui profondità strategica ormai rivaleggia esclusivamente con l’adulatoria cordialità tra i portieri di condominio e la signora dell’attico . Anche qui logorati dalla consuetudine post 92 di equiparare l’infrastrutturale delle ex Controllate Statali della golden era con il Mil-Diplomatico , stimo come era prevedibile raccogliendo i frutti , quelli buoni per il macero . E come sopra siamo passati al ricevere inviti che somigliano sempre più a quei biglietti da visita cinesi: dorati fuori, ma nel retro solo la scritta “vedremo” e ancora più in piccolo : se conosce qualcuno che vende un locale , paghiamo in contanti . Il protocollo “ Smile “ resiste per le agenzie stampa dove qualche sorriso si trova sempre; Il fatto deludente è che rispetto alla sue entità politiche e mezzo della Libia , l’Italia sia riuscita per l’ennesima volta di non conservare nemmeno il mezzo . A Tripoli infatti , ci fanno partecipare al valzer dei negoziati solo perché ogni tanto , per mezzo di qualche ricatto sul quale non mi dilungo , ma che potete facilmente immaginare , conviene chiamarci ancora . Onestamente , nel paese dove la linea tra il cerimoniale e l’umiliazione è sempre più sottile, questo tipo di trattamento per innegabili meriti storici ( esclusa la gestione Mattei) ce lo meritiamo pure , ed essere inseriti nella categoria “amici e parenti del sindaco”, non risulta nemmeno eccessivamente severa . Eccoci quindi alla somma delle conseguenze e alle valutazioni . Possiamo condensarle in questi termini : Il Paese che insegnava la diplomazia agli altri, oggi costretto a chiedere il permesso perfino per piantare una tenda nella casa che un tempo ci apparteneva per diritto di storia e influenza. Piccola considerazione finale detestando l’ipocrisia . L’Italia ha condotto una politica tra il tragico e il grottesco negli ultimi quindici anni in Libia e oltre a non avere fatto ammenda dopo l’intervento autolesionista nella guerra di Libia , assecondando Francesi e Anglosassoni e bombardando nei fatti i propri asset quasi secolari , si è giocata ancora peggio il dopo e nell’ultimo periodo nel tipico stile del nuovo mondo liberista , sacrificando la politica gli interessi privati in balletto incomprensibile ( dove ha anche il ricatto subito attraverso la leva dei migranti – vedi Al-Masri) tra il Governo sempre più debole di Bengasi e la zona controllata dal Generale Haftar . Cesare Semovigo

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Iran-Israele: incipit di uno scontro Con Augusto Sinagra

Augusto Sinagra ” L’Avvocato” di Italia e il Mondo con Semovigo e Germinario si confrontano in una conversazione sulle prime fasi del conflitto dei ” Dodici Giorni” tra Iran e Israele

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CROCIERE, CAVI E SOVRANITÀ ALLA EUROPEA: La Marina Italiana in Indo-Pacifico sfida il Dragone?_di Cesare Semovigo

CROCIERE, CAVI E SOVRANITÀ ALLA EUROPEA:

La Marina Italiana in Indo-Pacifico sfida il Dragone ?

Nonostante l’entusiasmo dei comunicati e la bandiera sempre ben stirata sulle navi in partenza, la partecipazione italiana alle esercitazioni e alle “crociere operative” nell’Indo-Pacifico si conferma una di quelle operazioni che fanno più rumore nei corridoi delle cancellerie che nelle piazze di casa nostra. E non solo per il rischio di sentirsi un tantino fuori rotta, ma per il sospetto – sempre più consistente – che il coinvolgimento sia manovrato con la stessa trasparenza con cui si tirano i cavi per le illuminazioni festive.

Infatti, mentre Londra e Parigi si alternano in plancia per dare il ritmo, la Marina italiana si ritrova spesso nel ruolo di chi “fa squadra”, ma senza mai davvero mettere mano alla rotta. E se la triade a guida Starmer ormai manovra con decisione tanto il Dragone (vero bersaglio del “gioco”) quanto la sedicente portaerei italiana, il rischio che la nostra partecipazione serva più a mandare segnali oltreoceano che a rafforzare una reale autonomia strategica è tutt’altro che trascurabile.

Più di una perplessità aleggia tra gli addetti ai lavori: la narrazione ufficiale insiste sulla tutela della sovranità (“niente obblighi, nessun comando esterno, ognuno per sé, ma tutti insieme!”), eppure, quando si va a cercare chi davvero dirige la crociera, i riferimenti diventano flebili — quasi che parlare chiaro sia imbarazzante per chi la rotta l’ha solo ricevuta.

In questo clima, il sospetto che sia stato richiamato persino Schettino per dare colore alla cabina di comando serve ormai a mascherare il monotono refrain: “vedo non vedo, comando non comando”.

In fondo, l’opportunità vera di questo coinvolgimento da spot anni ‘80 tinte pastello sembra quella di esibire la bandiera in acque lontane, sacrificando interessi nazionali nei confronti della Cina .

E allora, il rischio è quello di continuare a promuovere crociere a tema mentre chi dirige l’orchestra (e gli interessi strategici veri) si trova altrove, lasciandoci – ancora una volta – a metà tra il salotto buono e la sala macchine.

“Questa cuccetta sembra un letta a due piazze , si ci sta meglio
che in ospedale “.

La sincronizzazione dei dispiegamenti di portaerei tra Italia, Francia e Regno Unito nell’Indo-Pacifico nasce formalmente all’interno della European Carrier Group Interoperability Initiative (ECGII), una piattaforma di cooperazione tecnico-operativa che ha come scopo il rafforzamento della capacità europea di proiettare forza navale in chiave multinazionale.

Attraverso la collaborazione tra i tre Paesi, si punta a rendere sempre più interoperabili i rispettivi gruppi portaerei con azioni quali l’allineamento di ali imbarcate, navi di scorta e risorse logistiche, così da formare – quando richiesto – una formazione navale europea capace di agire in modo coeso.

Dal punto di vista politico-militare, questa scelta viene presentata come contributo alla sicurezza regionale e come risposta credibile all’intensificarsi delle attività militari cinesi nell’area di Taiwan, compreso il recente dispiegamento di più portaerei della Marina cinese oltre la First Island Chain.

Dal punto di vista operativo, il meccanismo ECGII prevede espressamente la salvaguardia della sovranità nazionale: ogni Paese mantiene la libertà di decidere la partecipazione alle singole missioni e conserva pieno controllo sulle proprie capacità, evitando ogni integrazione forzata in commandi permanenti.

Tuttavia, proprio questo “coordinamento senza vincoli”, se da un lato esalta la flessibilità, dall’altro solleva interrogativi sulla reale efficacia strategica e sulla capacità di azione autonoma in caso di crisi matura .

Non si giunge, infatti, alla costituzione di una vera task force europea permanente, ma piuttosto a un’intesa di massima visibilità, con significativa ricaduta di soft power e deterrenza simbolica sulle rotte più strategiche del pianeta.

“Imperialismo morente”?

Va però sottolineato come molte analisi anglosassoni e continentali leggano questo sforzo europeo come il riflesso di un “imperialismo morente”: una proiezione di potenza più orientata a dimostrare vitalità e presenza piuttosto che a incidere concretamente sugli equilibri della regione indo-pacifica.

La necessità di mostrarsi coesi e “presenti” rischia di servire più agli alleati tradizionali (USA in testa), che a una reale autonomia strategica continentale. Così, mentre a parole si ribadisce la tutela delle singole sovranità, nella prassi la cabina di regia resta fuori portata e le decisioni cardine sono spesso prese altrove

Nonostante la retorica su autonomia e cooperazione, è difficile non vedere che la vera regia delle operazioni resta appannaggio di pochi decisori e che la sostanza di queste “crociere” europee resta soprattutto simbolica, come segnale all’alleato d’oltreoceano e, indirettamente, ai competitor asiatici.

Chi davvero dirige la rotta – e per quali finalità strategiche ultime – resta dunque questione aperta e fonte di non poche perplessità tra analisti e addetti ai lavori e semplici capitani di macchine .

Italia

  • Portaerei: ITS Cavour (F-35B, elicotteri)
  • Fregata: ITS Virginio Fasan (classe FREMM)
  • Nave rifornitrice: ITS Vulcano
    Regno Unito
  • Portaerei: HMS Queen Elizabeth (F-35B)
  • Cacciatorpediniere: HMS Diamond, HMS Dauntless (Type 45)
  • Fregata: HMS Kent, HMS Richmond (Type 23)
  • Logistica: RFA Fort Victoria
    Stati Uniti
  • Portaerei: USS Theodore Roosevelt (Nimitz class)
  • Cacciatorpediniere: USS Halsey, USS Daniel Inouye (Arleigh Burke)
  • Logistica: USNS John Ericsson, USNS Tippecanoe
    Giappone
  • Portaelicotteri/portaerei leggera: JS Izumo
  • Cacciatorpediniere: JS Atago, JS Myoko, JS Takanami, JS Suzutsuki
    Australia
  • Cacciatorpediniere: HMAS Hobart (classe Hobart)
  • Fregata: HMAS Anzac (classe Anzac)
    Francia
  • Fregata: FS Provence, FS Languedoc (classe FREMM)
    Canada
  • Fregata: HMCS Ottawa (classe Halifax)
    Corea del Sud
  • Cacciatorpediniere: ROKS Sejong the Great (KDX-III)
    Nuova Zelanda
  • Fregata: HMNZS Te Kaha (classe Anzac)
    Singapore
  • Fregata: RSS Steadfast (classe Formidable)

Il dispositivo di scorta che accompagna la Cavour : una singola fregata e una nave rifornitrice.

Fregata: ITS Virginio Fasan (classe FREMM)

Nave rifornitrice: ITS Vulcano

Gli Stati Uniti impiegano la USS Theodore Roosevelt con una scorta composita di cacciatorpediniere Arleigh Burke e un’unità logistica, a conferma del ruolo americano di “garante” della sicurezza marittima nella regione.

Dal Giappone e dall’Australia arrivano rispettivamente la portaelicotteri Izumo e la HMAS Hobart, simboli di un coinvolgimento regionale in forte crescita ma ancora ben orchestrato da Washington.

Lo schieramento rivela il reale equilibrio dei pesi: presenza europea di supporto, comando operativo americano e partecipazione controllata degli alleati locali, in uno scenario dove la proiezione di forza serve più alla diplomazia delle immagini che a eventuali crisi militari.

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