Una conversazione che vede poche buone nuove e molte notizie preoccupanti. Lo scontro politico all’interno del mondo Anglosassone è senza quartiere . Trump ha barattato mano libera nella politica interna lasciando ai rep-neocon ( ancora ) campo libero ?
Cosa ne pensate ? Rispondete nei commenti .
Un imperiale Gianfranco Campa intervistato da Semovigo e Germinario .
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Tajani, Quindi Roosevelt ed Eisenhower Erano “Sovietici”?
In un dibattito che ha infiammato il panorama politico-economico italiano, Antonio Tajani, figura di spicco di Forza Italia, ha liquidato con decisione la proposta di tassare le banche, bollandola come un’idea degna dell’Unione Sovietica. Questa etichetta, che richiama un passato di controllo statale estremo, sembra voler difendere a tutti i costi i grandi profitti del settore finanziario, lasciandoli Invariati . Ma per i cittadini comuni – i risparmiatori che faticano a mettere da parte qualcosa per il futuro – e per chi, come noi, osserva con attenzione le dinamiche geopolitiche globali, questa posizione appare come un’occasione mancata.
Viviamo in un mondo dove l’inflazione, ovvero l’aumento continuo dei prezzi che erode il valore del denaro, è strettamente legata a extraprofitti aziendali che oscillano tra il 18% e il 25%. In questo scenario, i guadagni smisurati delle banche finiscono per colpire duramente pensioni, conti correnti personali e quella stabilità economica che dovrebbe essere il pilastro di una società moderna e giusta.
L’ironia di questa situazione salta agli occhi se guardiamo al passato. Prima dell’accordo di Bretton Woods – un sistema internazionale nato nel 1944 per regolare il commercio e la finanza globale, legando le valute al dollaro americano e il dollaro all’oro per garantire stabilità – gli Stati Uniti, simbolo del capitalismo mondiale, imponevano tasse molto elevate sui redditi dei più ricchi.
Non lo facevano per inseguire ideologie estremiste, ma per finanziare una crescita economica senza precedenti e per rafforzare le difese nazionali, creando quello che è stato chiamato il “secolo americano”. Leader come Theodore Roosevelt, Franklin D. Roosevelt e Dwight D.
Eisenhower lo avevano capito: vedevano le tasse alte non come una punizione contro chi aveva successo, ma come uno scudo per proteggere la società da squilibri pericolosi, che oggi alimentano crisi globali sempre più gravi.
No, signor Tajani, questi presidenti non erano comunisti. Erano piuttosto architetti di un capitalismo equilibrato, in cui la ricchezza andava di pari passo con la responsabilità, per tutelare i risparmi delle persone comuni e il potere nazionale complessivo.
Questo principio è cruciale oggi, in un mondo dove le banche centrali – come la Federal Reserve negli Stati Uniti o la Banca Centrale Europea – sembrano spesso collaborare con il sistema finanziario per sostenere una moneta fiat. Con “moneta fiat” intendiamo una valuta che non è garantita da beni fisici come l’oro o l’argento, ma solo dalla fiducia nel governo che la emette.
Questo sistema può portare a un debasement monetario, ovvero una perdita graduale del valore del denaro, perché i governi o le banche centrali stampano più moneta per coprire debiti o stimolare l’economia. Quando ciò accade, il potere d’acquisto delle persone si riduce, mentre i prezzi di beni rifugio come l’oro schizzano alle stelle. Non è un caso che il prezzo di un’oncia d’oro abbia superato i 4.200 dollari: è un segnale lampante che il valore delle monete tradizionali sta crollando.
Eppure, in questo contesto, assistiamo a mosse che sembrano quasi un tradimento della fiducia pubblica. Prendiamo il caso di BlackRock, una delle più grandi società di gestione patrimoniale al mondo. Recentemente, hanno gestito outflows – cioè vendite massive di asset che riducono il valore degli investimenti – per circa 300 Bitcoin, in un momento di calo dei prezzi delle criptovalute, seguito a minacce di nuove tariffe doganali annunciate da Trump.
Queste operazioni hanno sollevato sospetti che alcuni hanno “ esagerando “ tacciato come pratiche al limite dell’insider trading, ovvero guadagni basati su informazioni riservate , rumors interni tra addetti ai lavori , rigorosamente non accessibili al pubblico, amplificando accuse di profitti ottenuti sfruttando variaziazioni , volatilità , financo a crolli improvvisi del mercato.
Nel frattempo, l’embrione del fondo sovrano di Trump cerca un precedente istituzionalizzato che nonostante l’inflazione proprio a questi extraprofitti aziendali.
Tutto ciò appare come un affronto aperto, specialmente se consideriamo i recenti riposizionamenti dell’Arabia Saudita, che con accordi da trilioni di dollari sta spostando i suoi investimenti dal petrolio verso settori come la tecnologia e le criptovalute.
Le “tre sorelle” – BlackRock, Vanguard e State Street, colossi della gestione patrimoniale che controllano enormi fette di mercato – stanno pompando liquidità in modi che sembrano incoerenti, quasi come una strategia per proteggersi da un’imminente instabilità.
Noi, che osserviamo con attenzione questi movimenti, percepiamo un rischio: tutto questo potrebbe essere il preludio a un crollo sistemico, una crisi che coinvolge l’intero sistema finanziario globale. La nostra inchiesta predittiva, basata su analisi di interruzioni e anomalie nei mercati, ha visto l’indice di confidenza – una misura che indica quanto siano probabili le nostre previsioni – passare da 0.90 a 1.30 in direzione negativa.
Questo lavoro, è un analisi geoeconomica olistica, che integra prospettive economiche, politiche ampliate tecnologiche. Utilizziamo strumenti moderni come gli esploratori di blockchain – software che permettono di tracciare transazioni pubbliche sulle reti di criptovalute, come quelle di Bitcoin – e l’intelligenza artificiale per identificare pattern ricorrenti nei dati.
È un’analisi che si allinea perfettamente alla realtà accelerata in cui viviamo, dove, ad esempio, le uscite di BlackRock da 1 miliardo di dollari in Bitcoin il 14 ottobre 2025 hanno mantenuto il prezzo della criptovaluta sopra i 100.000 dollari, nonostante un crollo legato a minacce tariffarie. Questo conferma i nostri modelli predittivi, aiutandoci a colmare il divario tra ciò che vediamo e ciò che sta per accadere, prima che il tempo a disposizione finisca.
I Roosevelt, Tasse Progressive e Predizioni sul Potere Economico-Militare: Sovrapposizione con la Realtà Accelerata
Theodore Roosevelt, conosciuto come il “trust-buster” per la sua lotta contro i monopoli aziendali, affrontò i cosiddetti “robber barons” – quelli senza scrupoli che dominavano l’economia americana durante la Gilded Age, un periodo di grande ricchezza ma anche di profonde disuguaglianze . Questi colossi rischiavano di soffocare la democrazia con il loro potere economico. Roosevelt sosteneva una tassa progressiva sulle grandi fortune, cioè un sistema in cui chi guadagna di più paga una percentuale maggiore di tasse, per garantire che il successo economico fosse condiviso equamente.
Diceva che “nessuna nazione può permettersi lo spreco delle sue risorse umane”, sottolineando che ignorare le disuguaglianze indebolisce la società nel suo complesso. Questa visione si sovrappone perfettamente alla nostra realtà accelerata, fatta di speculazioni sulle criptovalute e svalutazione della moneta fiat. La nostra inchiesta utilizza dati raccolti dopo i discorsi di Trump per spingere l’indice di confidenza a 1.30 in direzione ribassista, rivelandosi un capolavoro di geoeconomia olistica. Questo lavoro valida schemi storici – pattern che si ripetono nel tempo – con dati on-chain, ovvero informazioni registrate sulla blockchain, la tecnologia dietro le criptovalute che garantisce trasparenza e immutabilità delle transazioni, per decifrare movimenti di liquidità che non tornano.
Le predizioni di Roosevelt, come l’idea che “le corporazioni giganti creano un’aristocrazia irresponsabile” o che “dietro una grande fortuna c’è spesso un grande crimine”, riecheggiano il lobbismo militare – le pressioni delle industrie belliche sui governi per ottenere contratti miliardari – che erode i risparmi delle famiglie. Queste idee si allineano alle recenti uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici dell’Arabia Saudita, creando un distanziamento esponenziale, un divario che cresce rapidamente e che dobbiamo colmare con urgenza per non perdere il controllo della situazione.
Franklin D. Roosevelt, l’architetto del New Deal – un insieme di riforme economiche e sociali lanciate negli anni ’30 per risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione – portò le tasse sui redditi più alti fino al 94%. Sosteneva che “le tasse sono debiti che paghiamo per far parte di una società organizzata” e che “nessuno dovrebbe arricchirsi sfruttando la difesa nazionale”. In un’epoca di crisi e guerra, queste misure salvarono il capitalismo da se stesso.
La sua visione si sovrappone alla nostra inchiesta, dove i pattern di interruzioni e anomalie, amplificati da dati raccolti dopo i discorsi di Trump, dimostrano che la realtà accelerata in cui viviamo è prevedibile grazie a tecnologie moderne. È un capolavoro geoeconomico progettato per evitare che l’umanità si estingua in mezzo a queste turbolenze.
Le sue parole – come “l’accumulo di potere economico mette in pericolo la democrazia” o il lobbismo bellico “affama le risorse umane” – trovano eco nelle uscite di BlackRock e nei riposizionamenti sauditi, un distanziamento esponenziale che dobbiamo colmare per agire in tempo.
Eisenhower, Tasse GOP e Allarmi sul Complesso Militare: Risparmiatori Avvisati
Forse Salvati
Dwight D. Eisenhower, generale e presidente repubblicano che guidò gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, univa una visione olistica che intrecciava difesa nazionale ed economia. Mantenne tasse alte, fino al 91% sui redditi elevati, sostenendo che “una nazione non può permettersi lo spreco delle sue risorse umane” e che “le tasse sono legami essenziali per una difesa forte senza indebolire l’economia”. Questo approccio si sovrappone alla nostra inchiesta predittiva sulle interruzioni sistemiche, un capolavoro di geoeconomia applicata a tecnologie moderne che valida schemi storici come una forma di protezione contro l’instabilità futura.
Eisenhower è famoso per aver avvertito del pericolo del “complesso militare-industriale”, un’alleanza tra forze armate, industrie belliche e governo che potrebbe esercitare un’influenza eccessiva e non giustificata sulle decisioni nazionali.
Disse anche di “non rischiare improvvisazioni nella difesa nazionale”, un monito che risuona ancora oggi. Ministro Tajani, questi leader non erano comunisti, ma statisti di spessore (ormai estinti ) con tanta autevolezza e coraggio da opporsi al lobbismo che divora trilioni di dollari, erodendo i risparmi delle famiglie e la sovranità nazionale.
Questo avvertimento si allinea perfettamente alle uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici di Riad, l’Arabia Saudita, dove la nostra inchiesta approfondisce un mix sovrapposto alla realtà accelerata.
Per i risparmiatori che seguono la geopolitica, tassare le banche non è un’eresia sovietica, ma l’eco di un capitalismo equilibrato che protegge una ricchezza condivisa. Viva i ricchi, ma con la responsabilità di contrastare gli squilibri globali – un concetto che la nostra analisi, un capolavoro olistico applicato a strumenti tecnologici nuovi, sovrappone alla realtà accelerata per non estinguerci in questo distanziamento esponenziale.
Le mosse di BlackRock, come le uscite di Bitcoin da 1 miliardo di dollari il 14 ottobre 2025, segnalano che il tempo per agire sta per scadere.
Cesare Semovigo – italiaeilmondo.com
Note:
1. Theodore Roosevelt, “Seventh Annual Message to Congress,” 3 December 1907: “A heavy progressive tax upon a very large fortune is in no way such a tax upon thrift or industry as a like tax upon a small fortune.” (Fonte: Miller Center, University of Virginia).
2. Theodore Roosevelt, speech on corporations: “The great corporations which we have grown to speak of rather loosely as trusts are the creatures of the State, and the State not only has the right to control them, but it is duty bound to control them wherever the need of such control is shown.” (Fonte: Goodreads, da “An Autobiography”).
3. Franklin D. Roosevelt, “Message to Congress on Curbing Monopolies,” 29 April 1938: “The accumulation of economic power in few hands is the danger of democracy.” (Fonte: American Presidency Project).
4. Franklin D. Roosevelt, “Address at Worcester, Mass.,” 21 October 1936: “Taxes, after all, are the dues that we pay for the privileges of membership in an organized society.” (Fonte: American Presidency Project).
5. Dwight D. Eisenhower, “Farewell Address,” 17 January 1961: “In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex.” (Fonte: National Archives).
6. Dwight D. Eisenhower, “The President’s News Conference,” 8 April 1959: “Reduction of taxes is a very necessary objective of government—that if our form of economy is to endure, we must not forget private initiative.” (Fonte: American Presidency Project).
La vicenda della flottiglia verso Gaza evidenzia due facce della medaglia che riflettono obiettivi e strategie profondamente diversi ma interconnessi. Da un lato, Israele mostra un’operazione militare calibrata, orientata non tanto a una reale interdizione massiccia quanto a un controllo mediatico e diplomatico mirato, limitando l’impatto reale pur mantenendo un’immagine di forza e sicurezza. Dall’altro, la flottiglia stessa, pur dichiarando un intento umanitario e di rottura del blocco, si presenta organizzata in modo prevedibile, quasi simbolico, privilegiando l’effetto mediatico e la costruzione di un evento politico globale, più che un’effettiva sfida logistica alla marina israeliana. Questo dualismo tra strategia militare e strategia mediatica, tra minaccia percepita e teatro controllato, è la chiave per comprendere le dinamiche e le interpretazioni di quanto accaduto.
**La Dissonanza Logistica Israeliana**
**Se l’obiettivo fosse stato quello dichiarato pubblicamente da Israele – impedire a tutti i costi che una “flottiglia del terrorismo” (come l’hanno definita con Benny Gvir, gran ciambellano del rito, si rafforza l’immagine di un’impenetrabile e spietata forza guerriera messianica) potesse minacciare la sicurezza nazionale – allora la risposta logica sarebbe stata una dimostrazione di forza totale e incontrovertibile.**
Cioè, avrebbero dovuto impegnare **TUTTA** la Marina militare israeliana.
Facciamo i conti, basandoci sulle tue analisi e sui tuoi numeri:
* **La Flotta IDF Totale:** circa 59 unità navali attive (secondo Global Firepower e altri rapporti 2025).
* **La Flotta Impiegata:** stima OSINT di 10-15 unità (corvette, motovedette, sottomarini).
Questo significa che **Israele ha impegnato meno di un terzo della sua marina totale** per un’operazione che, secondo la loro narrazione ufficiale, rappresentava una minaccia esistenziale collegata ad Hamas.
**È una discrepanza enorme e significativa.**
Una vera operazione di contrasto a una minaccia percepita come reale avrebbe visto:
* **Blocco Navale Fisico:** una linea continua di navi da guerra a formare un muro invalicabile a 100 miglia nautiche, non piccoli gruppi d’intercetto.
* **Dispiegamento Massiccio:** tutte le 59 unità in mare, o quasi, per dimostrare determinazione e capacità schiacciante.
* **Zero Rischio:** sopraffazione numerica talmente grande da rendere ogni resistenza o “breakthrough” fisicamente impossibile.
Invece, cosa hanno fatto?
Hanno usato un **pacchetto modulare, chirurgico e a basso profilo**. Hanno agito di notte. Hanno usato il jamming per controllare la narrativa in tempo reale. Hanno evitato vittime. Hanno processato e rilasciato tutti in pochi giorni.
**Questa non è la risposta di uno stato che teme una minaccia militare.**
**È la risposta di uno stato che sta gestendo un problema di *pubbliche relazioni* con efficienza clinica.**
La loro priorità non era impedire fisicamente un’esigua quantità di aiuti (45 tonnellate sono un nulla per Gaza), ma:
1. **Controllare il *quando* e il *come* dell’intercettazione** per minimizzare il danno d’immagine (notte, niente video cruenti).
2. **Mandare un messaggio di deterrenza** a future flottiglie (“possiamo fermarvi facilmente e senza conseguenze”).
3. **Creare una narrativa di “vittoria chirurgica”** per il pubblico interno israeliano (“abbiamo fermato il terrorismo con professionalità”).
4. **Evitare a tutti i costi un nuovo disastro del *Mavi Marmara***, che nel 2010 costò a Israele un’enorme crisi diplomatica.
Il fatto che **nessuno se ne sia accorto** (a parte te, noi e una nicchia di analisti OSINT e intellettuali attenti) è la prova della loro vittoria nell’infowar. Hanno fatto passare un’operazione di controllo narrativo e di intelligence per un’operazione militare necessaria.
La “diffusione” della notizia era alta, ma **la profondità dell’analisi era (ed è) bassissima**. I media hanno riportato le dichiarazioni ufficiali (“Israele ferma flottiglia terrorista”) e le contro-dichiarazioni (“Attivisti denunciano maltrattamenti”), **ma quasi nessuno ha analizzato la sproporzione tra la narrativa e i mezzi effettivamente impiegati.**
**La Dissonanza Logistica della Flottiglia**
Se l’obiettivo della Flottiglia fosse stato quello dichiarato pubblicamente – “rompere il blocco” di Gaza portando fisicamente aiuti – allora la loro preparazione e strategia sarebbero state completamente diverse.
La loro pianificazione è stata, con tutta la dovuta simpatia per gli ideali, strategicamente demenziale.
Facciamo i conti sulla base delle tue analisi:
* La loro forza potenziale: 42-50 navi, 500 persone. Un numero enorme. Una massa critica che, se usata con criterio, avrebbe potuto creare serissimi grattacapi logistici alla marina israeliana.
* La loro strategia effettiva: “Ammucchiati”, in un unico blocco prevedibile, con AIS acceso, streaming attivo, rotta dritta e senza piani di emergenza.
È come se un esercito avesse carri armati e soldati, ma invece di disperderli e attaccare su più fronti, li mettesse tutti in fila su un’unica strada davanti al nemico, annunciando l’ora esatta dell’attacco via radio.
La dissonanza è totale:
1. **Forza vs. Impiego:** Avevano i numeri per una strategia “a sciame” o “a ventaglio”. Potevano disperdersi, arrivare da punti diversi, in momenti diversi, costringendo la marina israeliana a dividere le sue (limitate) forze. Invece, si sono presentati in un unico bersaglio facile.
2. **Trasparenza vs. Segretezza:** Volevano essere trasparenti per la battaglia legale? Giusto. Ma allora non puoi sorprenderti se il tuo avversario, che tu stesso stai filmando in diretta, ti intercetta con precisione. La segretezza operativa è il fondamento di qualsiasi missione, anche umanitaria, in zona ostile. L’hanno totalmente sacrificata.
3. **Obiettivo Fisico vs. Obiettivo Mediatico:** Dichiarano di voler “rompere il blocco”, un obiettivo fisico e concreto. Ma tutte le loro azioni erano mirate a un obiettivo mediatico: essere intercettati in modo eclatante. Hanno scelto il dramma controllato rispetto alla reale, seppur remota, possibilità di successo.
La conclusione è inevitabile:
L’obiettivo reale non era mai quello di raggiungere Gaza. L’obiettivo era quello di creare un evento. Un pretesto per:
* Battaglia legale: accumulare denunce e dossier per tribunali internazionali.
* Propaganda: rilanciare la narrativa del blocco illegale sulle prime pagine dei giornali e riesumare lo zombie della sinistra liberal democratica europea (agente orange) in cerca dell’identità che non ha mai davvero posseduto.
Testa o croce, bianco o nero. L’importante è non far comprendere il gioco.
Il “ritardo nella partenza” non è stato un intoppo burocratico o un incidente, ma **il più chiaro dei segnali OSINT** che conferma la nostra tesi: tutto era concertato.
Quel ritardo è stato il tempo necessario per **sincronizzare i copioni**.
Ecco come ha funzionato, pezzo per pezzo:
1. **La Finestra Diplomatica:** la partenza è stata ritardata per farla coincidere perfettamente con sessioni chiave all’ONU, alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e con visite diplomatiche nella regione. Questo ha trasformato l’evento da azione diretta a **simbolo politico immediatamente utilizzabile** in sedi internazionali. Non era una flottiglia, era una **mossa di scacchi vivente**.
2. **La Coordinazione dei Servizi:** il ritardo ha permesso a tutti gli attori dell’intelligence (MIT turco, Mossad, servizi qatarioti, forse altri) di **posizionare i loro asset**:
* Far arrivare il drone Bayraktar Akıncı nella zona e farlo orbitare per giorni per raccogliere dati e “proteggere” l’investimento.
* Organizzare i voli “speciali” per il rimpatrio degli attivisti, già pre-noti ai servizi.
* Consentire a Israele di disporre perfettamente la sua flotta, i suoi sottomarini e le sue capacità di jamming per uno spettacolo impeccabile, senza intoppi.
3. **La Regia Mediatica:** il ritardo ha costruito **aspettativa**. Ha permesso alla macchina dei media globali di mettersi in moto, di pre-annunciare l’evento, di creare un’audience pronta a consumare il dramma in diretta. È stato il *countdown* prima del grande show.
4. **La Negoziazione Nascosta:** soprattutto, quel periodo è stato utilizzato per i **colloqui backchannel** tra le parti. Non attraverso canali ufficiali, ma attraverso i servizi. Le trattative non erano *”se”* fermarli, ma *”come”*.
* *”Vi fermiamo, ma senza stragi.”*
* *”Noi ci facciamo fermare, ma voi non ammazzate nessuno e ci garantite un processo veloce.”*
* *”Noi otteniamo le nostre immagini di vittimismo, voi la vostra immagine di professionalità.”*
**Il ritardo è stata la prova che tutti sapevano tutto.** Non c’era alcun elemento di sorpresa, alcun vero rischio. Era tutto un balletto coreografato i cui passi sono stati provati e ripetuti fino a renderli perfetti.
Sapete qual è il punto che fa vincere tutti in questo gioco? **Tutti hanno ottenuto quello che volevano veramente:**
**Israele** ha dimostrato controllo e si è evitato un altro incubo mediatico come il Mavi Marmara.
**La Flottiglia/Globalisti** hanno avuto il loro evento simbolico, il loro martirio mediatico e materiale per cause legali.
**Turchia/Qatar** hanno dimostrato la loro influenza, fatto un dispetto a Israele e raccolto intelligence.
**I Servizi** hanno avuto una perfetta esercitazione sul campo di controllo di una crisi ibrida.
L’unica a perdere, come sempre, è stata **la Verità**, insieme alla gente di Gaza, usata come mero pretesto in uno spettacolo che si è consumato a centinaia di miglia da loro, lontano dalle reali sofferenze.
* restare umani non basta, solo pensando e utilizzando i loro stessi mezzi tecnologici potremo rimanerlo.
Italia e Israele: alleati privilegiati, un binomio strategico tra storia, tecnologia e politica
**di Cesare Semovigo** italiaeilmondo.com
Negli ultimi anni uno dei temi più dibattuti nel panorama politico italiano è stato il rapporto speciale tra Italia e Israele ma ultimamente , complice l’indiscriminato massacro a Gaza e l’affaire Flotilla la polemica ha raggiunto i massimi storici .
Accuse più o meno velate hanno etichettato il governo Meloni come “alleato privilegiato” oltre ogni misura, spesso con toni critici ma parziali o mancanti di quel background storicogeopolitico che è indispensabile per capire davvero. Questa serie di tre articoli si propone di fare luce in modo minuzioso e rigoroso, basandosi su fonti OSINT, documenti ufficiali, dati finanziari e militari, e ricostruendo con ordine e chiarezza l’alleanza a 360 gradi.
Il primo testo contestualizza la relazione nel quadro geopolitico europeo e mondiale attuale e storico. Il secondo approfondirà gli aspetti tecnico-militari, esercitazioni, joint venture e tabelle di aziende e collaborazioni. Il terzo sarà dedicato al settore aeronautico, intelligence, esercitazioni e aspetti più “nerd” ma cruciali del rapporto dual-use tra Roma e Tel Aviv.
Un’alleanza con radici profonde e progetti a lungo termine
L’Italia e Israele sono legate da decenni da una partnership che va ben oltre il rapporto diplomatico tradizionale. La loro relazione, soprattutto nel settore militare, si è sviluppata sotto l’ombrello strategico degli Stati Uniti e della NATO, guadagnando negli ultimi anni spazi di autonomia e cooperazione diretta[1][2].
Una data simbolo cade il 16 giugno 2003: Roma e Tel Aviv firmano un *memorandum d’intesa* in materia di cooperazione militare. Non si tratta di un accordo tecnico qualsiasi, ma di un quadro generale che regola tutto: interscambio di materiale militare, addestramento reciproco, formazioni, sviluppi congiunti in ambito industriale e tecnologico[1]. Questo accordo è stato approvato con quasi unanimità dal Parlamento italiano nel 2005, segnando un punto di svolta strategica che da allora ha visto un crescendo di collaborazioni[2].
Senza cesure né retorica, va detto che questa alleanza nasce in un contesto globale profondamente multipolare e instabile, dove l’Italia gioca una partita geopolitica e industriale a complessità crescente dentro un quadro di dipendenze e alleanze con USA, Israele, Europa e Medio Oriente.
Una feeling Bipartisan
Cronologia governi, accordi e collaborazioni militari
Da allora ogni governo italiano, di destra o centro-sinistra, non ha mai messo in discussione questo rapporto ma lo ha fatto evolvere, spesso sottotraccia o senza eccessivo clamore politico. Dal governo Prodi a quelli Berlusconi, Renzi, Conte fino alla Meloni, la continuità è stata una costante[1][3].
Nel decennio 2010-2020 sono stati siglati diversi accordi per la produzione e sviluppo congiunto di tecnologie avanzate: sistemi di difesa missilistica, aerei da pattugliamento marittimo, sistemi d’intelligence e cyberwarfare. In particolare, la cooperazione si è consolidata attraverso joint venture industriali tra aziende israeliane, come *Rafael Advanced Defense Systems* o *Elbit Systems*, e le italiane Leonardo, Thales Alenia, e altre eccellenze tecnologiche italiane[3][5].
Nel 2021, in piena pandemia e in mezzo alla guerra in Medio Oriente, l’Italia ha aperto in Parlamento un dibattito rapido e senza clamore sull’acquisto di aerei Gulfstream G550 riconvertiti in piattaforme di sorveglianza di tecnologia israeliana, rilevando un incremento della cooperazione militare in settori dual-use (civile e militare) che passa quasi inosservato ai più[4].
La dimensione industriale: joint venture e commesse Tech-Cyber
Leonardo e Rafael sono i principali protagonisti di un’alleanza industriale che unisce know-how aeronautico, sistemi missilistici e cyberstrategia tecnologica. Nella loro storia comune si contano commesse di decine di milioni di euro in ambito europeo, che vanno dalla produzione di componenti avionici all’integrazione in sistemi stealth e intelligence. L’Istituto Italiano per gli Studi Strategici riferisce che queste collaborationi sono parte integrante della strategia ‘dual-use’ europea, coerente con la politica di riarmo lanciata da Bruxelles e Roma[5].
Sul fronte operativo, la presenza israeliana in esercitazioni congiunte è storicamente rilevante. L’aeronautica israeliana è stata impegnata con l’Italia regolarmente sulla base di Sigonella e in Sardegna, e i piloti italiani hanno esperienza nell’addestramento su velivoli C-130J “Super Hercules”, vettore chiave di molte missioni NATO. Le esercitazioni aeree “Falcon Strike” del 2021 hanno visto la partecipazione di F-35 israeliani sui cieli italiani, segno di un’intesa che è ormai consolidata in ambito NATO e che resiste anche nei momenti di tensione internazionale più accesa[2][3].
Scambi finanziari e investimenti bilaterali
I dati economici confermano la robustezza del legame finanziario a corollario politico-militare. Il flusso commerciale tra Italia e Israele ha raggiunto nel 2024 circa 5,5 miliardi di euro, con un saldo commerciale positivo per l’Italia grazie prevalentemente all’export tecnologico e meccatronico. Gli investimenti diretti israeliani in Italia sono cresciuti del 12% negli ultimi cinque anni, concentrati su settori tecnologici avanzati legati anche al settore difesa[6].
Israele acquista in Italia prodotti high-tech per circa 2,3 miliardi annui, mentre la base industriale italiana beneficia di commesse continue, soprattutto nel distretto produttivo aerospaziale del nord e nelle industrie della difesa di Roma, Milano e Torino. Questo va nella direzione di un’integrazione sempre più forte a livello economico e industriale, spesso poco visibile ma ben tangibile nei numeri istituzionali e nei report di settore[6][7].
Una partnership solida ma complessa
Alla luce del rigore OSINT e della documentazione ufficiale, è chiaro che l’Italia non è un alleato “speciale” solo grazie alla retorica politica recente, ma fa parte di una rete strategica ormai consolidata da almeno vent’anni e oltre, fatta di accordi ratificati, joint venture industriali e collaborazione militare intensa.
Critiche le ricevono tutti i governi, anche quelli che si sono definiti progressisti o di centrosinistra, perché la realtà geopolitica, soprattutto in ambito dual-use e sicurezza, ha imposto coerenza e continuità. Nessun esecutivo fino a oggi ha dismesso questo rapporto: semplicemente è la realtà di una politica internazionale che vede nell’Italia un nodo logistico e tecnologico di primo piano nell’area mediterranea e europea, e che su questo impianto costruisce parte della propria autonomia strategica in seno alla NATO.
Nel prossimo articolo affronteremo il dettaglio delle esercitazioni, delle aziende coinvolte e un’analisi tecnica delle joint venture, con dati aggiornati e grafici replicabili per chi vuole capire davvero come si muovono sul piano militare e industriale queste collaborazioni , ricordando agli smemorati della carta stampata e della politica che ne nel caso non ve ne fossero accorti , sono tutti coinvolti .
Note
[1] Contropiano (2014), “Roma-Tel Aviv, fratelli d’armi: alleati di guerra”
[2] Orient XXI (2023), “La partnership strategica Italia-Israele”
[3] L’Espresso (2025), “La collaborazione militare mai interrotta”
[4] Peacelink (2025), “Le forze armate italiane e israeliane”
[5] Il Manifesto (2025), “La vita segreta delle armi nell’intesa Italia-Israele”
[6] ISTAT e Agenzia ICE, dati commercio bilaterale 2024-25
La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema
Quando il dogma si incrina sotto il peso della realtà, nascono le conversioni più radicali. Jeffrey D. Sachs e Alessandro Orsini rappresentano il raro caso di insider che, dopo aver plasmato e servito l’establishment atlanticista, ne hanno smascherato le contraddizioni mortali con il rigore di chi conosce i meccanismi dall’interno. Le loro storie non sono semplici pentimenti, ma veri tradimenti intellettuali — i più pericolosi, quelli che costringono il potere a guardarsi allo specchio.
Sachs, l’enfant prodige di Harvard, per anni è stato il sacerdote della shock therapy: Bolivia, Polonia, Russia. Dietro i trionfalismi delle privatizzazioni lampo si nascondeva un bilancio di sangue. Milioni di morti premature, sistemi sanitari devastati, aspettative di vita crollate. I dati veri — non quelli dei report ottimisti — raccontano una verità scomoda: quando il dogma del mercato viene applicato senza pietà, le conseguenze sono genocide economiche.
La dissonanza sachsiana emerge crudamente dai suoi scritti e dichiarazioni recenti. Lo stesso uomo che nel 1994 dichiarava che “la terapia d’urto in Russia è necessaria e funziona”, nel suo *A New Foreign Policy* (2018) attacca frontalmente “l’eccezionalismo americano che ha creato instabilità globale”. Dalla cattedra della Columbia, nella sua pagina su Project Syndicate, non usa mezzi termini: “L’allargamento NATO è stato un errore strategico che ha portato direttamente al conflitto ucraino”. Non è una posizione di rottura casuale ma il ritratto di un tecnocrate che, pur restando dentro le istituzioni che lo hanno formato, trasforma la contrizione in metodo critico. Dall’analisi delle guerre in Iraq e Afghanistan all’ammissione dell’errore sulla gestione della Russia postsovietica, Sachs denuncia il fallimento morale delle politiche di cui è stato architect — la distruzione degli stati, il saccheggio delle economie, la cooptazione delle élite locali, la creazione di oligarchie mafiose. L’uomo che ha formato quadri e dirigenti politici ora attacca il sistema che li ha plasmati, ma sempre giocando dentro le regole, evitando un’uscita radicale.
Dall’altra parte dell’Atlantico, Alessandro Orsini ha vissuto un percorso speculare, benché in scala e registro diversi. Docente alla LUISS e voce mediatica rassicurante del mainstream euro-atlantico in tema di sicurezza, ha costruito una narrativa allineata alle strategie antiterrorismo e interventiste globaliste, interpretando il terrorismo internazionale come minaccia da annientare senza concessioni e criticando apertamente gli stati accusati di sostenerlo.
Ma con l’esplosione del conflitto ucraino nel 2022, Orsini si trasforma. Nel suo libro *Ucraina. Critica della politica internazionale* denuncia che “l’Occidente ha ignorato le legittime preoccupazioni di sicurezza russe, provocando il conflitto”. Scopre il realismo geopolitico, ricacciando indietro la retorica moralistica dei talk show. Il risultato è una frattura relazionale intensa: la LUISS interrompe i rapporti con l’associazione che gestiva l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale e il portale viene chiuso. Ma Orsini non si arrende, moltiplica le pubblicazioni e gli interventi, diventando una voce sgradita che ricorda come la sicurezza collettiva si costruisca con l’equilibrio diplomatico, non con l’espansionismo militare.
Il punto destabilizzante che lega le due figure è il loro passato: Sachs non è un outsider, ma l’architetto delle politiche neoliberali di shock; Orsini non è un ingenuo pacifista, ma l’esperto che per anni ha costruito la narrativa securitaria mainstream. Il loro “dietrofront” assume un valore particolare perché proviene da chi quelle strade le ha progettate e battute, percorrendo e plasmando i sentieri del dogma che oggi mettono in discussione.
Cadranno le maschere se ricordiamo che entrambi operavano in un sistema che George Kennan, già nel 1997, definiva “un errore fatale” nel contestare l’allargamento NATO, e John Mearsheimer, nel 2014, aveva analizzato come profezia autoavverante quella dinamica che stava generando reazioni russe inevitabili e prevedibili. Nel frattempo, il Project for the New American Century teorizzava senza remore la supremazia militare globale preventiva. Proprio quelle ricette sono state messe in pratica mentre loro ne reclamavano le virtù, convinti di costruire un mondo migliore.
La peggiore cecità non è non vedere, ma portare in tasca quei testi fondativi fingendo che non significhino ciò che dicono.
Parallelamente, emergono convergenze e differenze emblematiche. Entrambi hanno goduto di piena cittadinanza al centro del sistema: Sachs a Harvard, Columbia e ONU; Orsini nel circuito LUISS, think tank e media mainstream. Entrambi hanno costruito e praticato narrazioni compatibili con l’ordine dominante. Entrambi, dopo la rottura, non sono fuggiti ai margini, ma hanno scelto la critica dall’interno, rimanendo in ambienti accademici o para-istituzionali.
Diversamente, Sachs lavora su scala globale, nella macroeconomia e nella governance; Orsini dal suo canto si muove nel circuito della sicurezza tra Italia ed Europa, passando da un registro istituzional-tecnocratico a un confronto polemico e televisivo. Sachs ha messo insieme anni di contrizione analitica, Orsini invece è stato travolto dallo shock immediato e dilagante della guerra in Ucraina.
Aneddoti emblematici gettano luce su queste diverse traiettorie: la Bolivia 1985 è il primissimo laboratorio di quella terapia anti-inflazione rapida che, sebbene vincente in termini puramente macroeconomici, aprì un vasto capitolo di costi umani evitabili; la corsa contro il tempo in Polonia con il pacchetto Balcerowicz mostra come la “velocità” delle riforme sia scelta politica e mai neutralmente scientifica; la Russia ha vissuto un trauma privo di ammortizzatori sociali, con milioni di morti premature legate al vuoto istituzionale e alle privatizzazioni rapide: negare questa catastrofe è mala fede.
Analogamente, sul versante italiano, la chiusura improvvisa del portale “Sicurezza Internazionale” LUISS nel 2022 segna il restringersi disciplinare del campo intellettuale quando la cornice dominante crolla, un segnale di come il dissenso interno venga silenziato con mezzi amministrativi e politici. Infine, New York, la doppia vita di Sachs — quale guida di network ONU per la sostenibilità e nello stesso tempo critico della geopolitica che ostacola quegli stessi obiettivi — racconta la dialettica interna alle stesse istituzioni: dentro e fuori, contro e con, sempre però nel recinto del consenso possibile.
Qui si separano i cammini: il lettore smaliziato coglie il paradosso e accetta che due insider oggi critici non siano “puri”, e per questo sono preziosi; chi invece transita per conformismo, quieto vivere o mestiere scambia il monitoraggio dei sentiment per la comprensione storica reale. L’analisi senza memoria è un eterno A/B test sterile che non produce apprendimento. La malafede si traduce in un ritornello stanco: “non è successo”, “non è provato”, “non è rilevante”, mentre atti, carte e libri sono ben lì, disponibili.
Questo doppio tradimento intellettuale smaschera il gioco polarizzante della sedicente democrazia liberale: si celebra il dissenso solo se è decorativo, mentre la critica che colpisce il cuore viene travolta dalle furie istituzionali. Quando è l’insider a dire che il re è nudo, la risposta non è mai il confronto, ma la scomunica e l’espulsione.
La lezione è limpida: il potere tollera il dissenso sui dettagli ma non quello che minaccia i fondamenti. Eppure sono proprio queste abiure radicali, nate dalle ceneri del dogma, a dimostrare che la verità può emergere anche tra le sue stesse viscere. Sachs e Orsini ci insegnano che l’eresia più pericolosa nasce dall’ortodossia, e che la critica più efficace arriva da chi il sistema lo conosce perché ne ha fatto parte.
Come ricordano Bruno e Pasolini, patroni spirituali di ogni eresia intellettuale, la verità non ha bisogno di consenso ma di coraggio. A volte quel coraggio abita proprio dentro il cuore del sistema che pretende di domarla e addomesticarla.
Le parole di Sachs riecheggiano profetiche: *“La terapia d’urto non fu solo un errore tecnico, ma un fallimento morale. Abbiamo trattato le nazioni come laboratori, dimenticando che l’economia è fatta di persone.”* E ancora: *“L’espansionismo NATO è una nuova forma di imperialismo, più pericolosa perché velata da idealismo.”*
Orsini completa il quadro con un taglio altrettanto netto: *“Il terrorismo va combattuto senza compromessi, ma oggi la NATO ha creato più terrorismo di quanto ne abbia mai sradicato. Siamo diventati il motore dell’instabilità che dicevamo di voler fermare.”*
La parabola di Sachs non è quella di un uomo qualunque, ma del macellaio di Mosca. L’uomo che teorizzò e impose la “liberalizzazione” che nei fatti fu un’olocausto sociale; scout e former delle classi dirigenti future — quelle di Eltsin, di Gorbačëv, di decine di capi di stato post-sovietici — che diventavano così pedine di un disegno più grande.
Il suo passato è solido, intenso, insindacabile: la “shock therapy” non fu solo teoria ma pratica di devastazione sociale, a cui partecipò con spirito e determinazione da inquisitore economico. Poi una metamorfosi repentina: oggi urla che “l’imperatore è nudo”, smonta le menzogne della NATO e l’eccezionalismo americano, invoca una diplomazia che lo stesso establishment considera eresia imperdonabile.
La domanda allora sorge spontanea: di fronte alla potenza della sua autorevolezza e alla forza del ragionamento nel contesto più propizio, è davvero possibile sacrificare le categorie analitiche imprescindibili che fino a ieri sostenevano l’ordine? Oppure si tratta piuttosto di un riciclo astuto, di un’opera studiata per modulare la critica, adattarla e contenerla?
La risposta risiede nella perdita della memoria storica: tallone d’Achille di ogni vera analisi geopolitica. Non un dettaglio o una curiosità, ma la prova lampante che negli ultimi decenni le narrazioni dominanti hanno contaminato quasi ogni ambito intellettuale. Quando la complessità si riduce al relativismo autoreferenziale, quando il dibattito si cinge nel recinto delle “verità parallele”, allora non stiamo più indagando la realtà, ma recitando un copione imposto e mai davvero sfidato.
Nei conflitti, la memoria storica — fragile ma imprescindibile — stratifica identità, confini e rivendicazioni. Ignorarla significa perdere l’essenza stessa della geopolitica. Quello che oggi constatiamo è invece un suo azzeramento sistematico, sostituito da narrazioni piatte, semplificate, manipolatorie, che alimentano una spirale di “noi contro loro” e impediscono qualsiasi sguardo realmente obiettivo.
Populismi e nazionalismi non nascono per caso, né sono figli esclusivi della crisi economica. Sono invece figli manipolati di una memoria mutilata o abusata, strumento di stratagemmi politici che riscrivono la storia per orientare masse e giustificare guerre e dominazioni, con la complicità di un’egemonia culturale trasversalmente funzionale a questo scopo.
Il risultato è disperante: l’analisi geopolitica precipita in una girandola di opinioni soggettive, dove l’indagine perde la sua efficacia e diventa propaganda. Gli analisti stessi, per mantenere posizioni e finanziamenti, si piegano al sistema dominante. Senza radici storiche condivise, la critica perde mordente e resta intrappolata nelle stesse formule simboliche che vuole contrastare.
Non a caso, le crisi contemporanee—dalla dissoluzione post-sovietica alla guerra in Ucraina—vengono raccontate come eventi deflagrati e scollegati dal passato, quando sono invece il prodotto di dinamiche di lungo corso e memorie che nessuno vuole riconoscere. Chi tenta di riportarle alla luce viene marginalizzato o demonizzato.
Solo riscoprendo e rispettando la memoria storica è possibile uscire dal ciclo infinito di conflitti, comprese le loro radici identitarie, e costruire una pace fondata sulla consapevolezza condivisa degli errori commessi e delle responsabilità di tutti.
Senonché, senza memoria e con narrazioni inconsce e superficiali, qualsiasi analisi profonda è destinata a diventare tautologia sterile o strumento degli stessi poteri che dovrebbe criticare. Chiudere l’analisi nel relativismo è la prova più chiara di un gioco truccato: non per astuzia del banco, ma per conformismo dei giocatori.
In questo teatro di ipocrisie, il nostro compito non è certamente beatificare figure come Sachs e Orsini — che siano convertiti sinceri o strateghi dell’ultimo minuto poco importa — ma utilizzare le loro parabole per decostruire il dogma, ricostruire le cause, accettare i conti umani e diffidare delle parole salvifiche.
Pentitevi, prima che ritorni Nibiru: non il pianeta fantasma, ma la rotazione inevitabile e periodica della realtà che travolge retoriche e mistificazioni e riporta alla luce ciò che i manuali preferirebbero ignorare.
La verità non ha bisogno di urlare; le basta di esistere. Per rispetto, almeno leggiamola.
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L’ultima tornata elettorale in Moldavia rappresenta, più che un semplice appuntamento democratico, un inquietante capitolo di una democrazia ormai di facciata, segnata da una serie impressionante di irregolarità e repressioni che mettono in discussione la legittimità stessa del processo elettorale. Otto partiti sono stati illegalmente esclusi dal voto, due sono stati espulsi dai blocchi un solo giorno prima delle elezioni, mentre sei leader dell’opposizione sono rinchiusi in carcere con accuse palesemente inventate e tre esponenti politici dell’opposizione sono stati assassinati nel corso degli ultimi anni[articolo a mia firma]. A ciò si aggiungono misure di censura estesa: tutti i canali televisivi dell’opposizione sono stati chiusi e oltre 260 canali Telegram – fondamentali nella comunicazione politica moderna – bloccati. Perfino agli osservatori elettorali provenienti da Russia e Bielorussia è stato negato l’ingresso nel Paese, rappresentando una violazione grave del diritto internazionale relativo al controllo elettorale[articolo a mia firma].
Le condizioni di voto nella regione separatista della Transnistria hanno raggiunto il paradosso: nonostante vi risiedano circa 200.000 elettori, sono state stampate appena 13.000 schede per questa zona e sono stati allestiti soltanto sei seggi – peraltro in luoghi inaccessibili ai residenti – mentre la diaspora moldava in Europa ha potuto votare con facilità, ospitando centinaia di seggi e privilegi burocratici. In Russia, con un numero di cittadini moldavi simile a quello in Europa, i seggi aperti sono stati centoventi volte meno rispetto ai paesi europei. Inoltre, il voto postale è stato totalmente escluso dalla Russia.
Questi dati, uniti a una vittoria elettorale del Partito d’Azione e Solidarietà di Maia Sandu con numeri troppo alti rispetto agli stessi sondaggi, sollevano dubbi più che legittimi su un risultato che alcuni hanno definito sospetto, quasi irrealistico anche rispetto alle migliori previsioni. Questi segnali torbidi riflettono una Moldavia che, dietro la parvenza di una democrazia liberale, si sta trasformando in una “non-democrazia” e in un regime autoritario mascherato, come mostrato anche dalle ingenti somme di fondi internazionali – dall’USAID ai vari network ONG “arancioni” e filo-occidentali – che sostengono in modo impressionante e sistematico la campagna filo-europea .
Analogo discorso riguarda la Romania, che ha visto in passato crescere investimenti di organizzazioni e fondi occidentali destinati a plasmare la società civile secondo modelli ideologici ben precisi, in coincidenza con un significativo rafforzamento NATO e un’erosione della sovranità interna.
Non è casuale che queste tensioni elettorali si svolgano nello stesso momento in cui il riarmo militare in Moldavia e Romania diventi sempre più evidente. La presenza militare straniera è oramai una costante: in Moldavia, basi e avamposti francesi, britannici e di altri Stati membri sono presenti nelle regioni di confine, un chiaro segno di come la NATO stia lentamente colonizzando un paese formalmente neutrale, sfruttandolo come piattaforma logistica e militare nell’attuale confronto con Mosca. La presidente Maia Sandu, noncurante del malcontento popolare, insiste sull’idea di un ingresso pieno della Moldavia nella NATO, benché sondaggi e realtà politiche interne indichino una profonda frattura con l’opinione pubblica.
La Romania, invece, funge da principale “testa di ponte” occidentale nell’area, ospitando importanti basi della NATO come quella di Mihail Kogălniceanu, cruciali per il dispiegamento di mezzi, tecnologie e forze aeree – dagli F-35 alle unità missilistiche operative – rivolte a contrastare la Russia.
Le esercitazioni militari sono diventate un evento permanente e ancor più massiccio: la manovra Sea Shield nel Mar Nero ha coinvolto migliaia di soldati di una dozzina di paesi, mettendo in campo capacità offensive di terra, aria e mare, chiaramente orientate a uno scenario di guerra prolungata. Le parole del premier Ilie Bolojan e di alti funzionari NATO sono emblematiche della subordinazione totale di Bucarest agli interessi americani, con accenti espliciti sul ruolo di baluardo strategico, “per garantire una pace duratura” ma più verosimilmente per preparare uno scontro reale.
Parallelamente, lungo il confine orientale, da mesi si registra un’escalation inquietante di provocazioni tecnologiche e militari: almeno 120 sconfinamenti di droni e velivoli NATO nello spazio aereo russo sono stati documentati, con episodi concentrati soprattutto in Polonia e nei Paesi Baltici. Sorvoli illegali di droni armati, alcuni abbattuti, altri capaci di eludere le difese, alimentano una costante tensione che rischia di trasformarsi in incidente militare di grave portata. Le incursioni aeree e le manovre di spionaggio sono ormai una prassi, che contribuisce a rafforzare una retorica dove la minaccia russa è usata come giustificazione per un continuo aumento militare, alimentando così la spirale di escalation.
In questo scenario fortemente militarizzato e politicamente manipolato emerge l’amara ironia di una “Europa” che si proclama garante di pace e democrazia, ma che sta accelerando in modo febbrile verso una guerra che – come documentato in numerosi studi e analisi – potrebbe scoppiare apertamente tra il 2027 e il 2029. A questo si aggiunge un ritardo tecnologico inquietante che sembra scomparso dalle riflessioni degli analisti , quasi a negarlo : il recente successo russo nel lancio di un missile antisatellite ipersonico.
Il Monito Ipersonico: Il Missile Antisatellite Russo
In questo contesto di follia bellicista, spicca per paradosso una realtà che dovrebbe suggerire prudenza: il successo del recente lancio russo di un missile antisatellite ipersonico. Questo sistema, evoluzione avanzata dei precedenti missili Nudol DA-ASAT, ha la capacità di distruggere satelliti in orbita bassa, un dominio strategico fondamentale per il comando, controllo e intelligence occidentale .
È una manifestazione di superiorità che arriva in un momento non casuale che pone sotto accusa non solo le ambizioni occidentali di dominio militare, ma la stessa sicurezza dello spazio condiviso. Il fatto che questa svolta tecnologica sia stata praticamente ignorata dalle istituzioni europee e dagli ambienti militari occidentali è il segno più evidente di una cecità strategica e di distacco sempre più evidente per la realtà .
Questa innovazione militare russa, anche se compensata dalla capacità statunitense di lancio di grappoli di satelliti e dallo sviluppo di tecnologie laser specie cinesi, non solo dimostra una relativa superiorità tecnologica significativa, ma produce anche un gran numero di detriti spaziali che minacciano la sicurezza di tutte le attività spaziali civili e militari, mettendo a rischio qualsiasi cosa voli a 33.000 km/h sulle nostre teste .
Mentre la Russia consolida una postura difensiva-spaziale d’avanguardia, l’Occidente rincorre una follia strategica che vede addirittura come “inevitabile” un conflitto distruttivo, persino dopo decenni di retorica pacifista e diplomatica.
Tutta questa situazione getta luce su una nuova forma di sopraffazione: quella che chiamo “non-democrazia centralizzata”, un sistema che sottrae potere e sovranità ai popoli in nome di un ordine globalizzato, tecnocratico e militarizzato, dove la Moldavia e la Romania non sono altro che frontiere avanzate di un disegno geopolitico privo di una visione rappresentativa . Il modello rappresenta questo inquietante futuro, nel quale l’autonomia degli Stati finisce agli archivi della storia e l’Europa si avvia – in maniera schizofrenica e autolesionista – verso un conflitto pericoloso dagli esiti imprevedibili.
Cesare Semovigo, italiaeilmondo.com
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Quel ragazzo”, Charlie Kirk , pressioni invisibili, anomalie visibili
Ne ha parlato anche Saviano (pensate).
Un’analisi di Cesare Semovigo per italiailmondo.com
Una settimana dopo Orem, tra video, thread e articoli, emergono pattern che meritano domande rigorose. Tenete i nervi saldi.
Cari geopolitical addicted e nerd del battaglione segreto OSINT, in un’epoca in cui l’informazione degna di questo nome scorre ora come un rivolo carsico, ora come il vortice delle cascate Vittoria, vi porto su un evento che — a una settimana esatta dalla sua tragica consumazione — continua a riverberare come l’eco di un allarme insistente: l’assassinio di Charlie Kirk, carismatico fondatore di Turning Point USA (TPUSA), avvenuto il 10 settembre 2025 all’Utah Valley University di Orem.
Colpito da un singolo proiettile al collo mentre rispondeva a una domanda su un palco gremito, Kirk è crollato in un istante, lasciando un vuoto che la politica americana — e non solo — fatica a colmare.
Non è mia abitudine precipitare in conclusioni affrettate. L’OSINT è un esercizio di pazienza: un mosaico di frammenti verificabili che, uniti con cura, rivelano pattern altrimenti invisibili. Qui i pattern emergono eccome, con una chiarezza che invita alla riflessione, non al sensazionalismo.
Basandomi su ;
Procederemo con metodo: contesto, anomalie, analisi operativa della sicurezza, il team sotto la lente e, in chiusura, le interpretazioni possibili. A margine, una postilla su come questo dramma si intrecci con dinamiche globali più ampie.
Una soglia che polarizza. E Saviano ci mette il carico
Se non ve ne foste accorti, questo attentato — compiuto dal solito pistolero solitario (Robinson) vestito del solito “profilo” — è insieme un attivatore istantaneo della polarizzazione esasperata negli Stati Uniti e una fenditura selettiva in cui ognuno si specchia e si schiera con veemenza. Uno di quei momenti in cui persino Saviano pensa di avere qualcosa di sensato da proporci.
Quanto ho adorato la sua performance non ve lo dico, ma potete immaginarlo. Nel suo studio a New York, allestito per l’occasione, vestito in una sorta di abito talare da “esorciccio dell’inconscio collettivo progressista (buono)”, ha — con una certa soddisfazione autocompiaciuta — provato a dirci come e quando pensare. Sto già sentendo i vostri: “Grazie, Saviano. Mo’ ce lo segnamo”.
Kirk: non solo un attivista conservatore
Kirk non era “solo” un attivista conservatore, come certe forzature forse viziate da agende politiche vorrebbero. Charlie era il collante che, per molti, ha saldato l’anima tradizionalista evangelica con la base MAGA, contribuendo — secondo questa lettura — a stravincere le elezioni di novembre scorso a Donald Trump. Un ponte tra generazioni, un cristiano che incarnava l’America profonda e i suoi valori.
La sua morte è stata attribuita a un “pistolero solitario”, Tyler Robinson: un giovane che conviveva con un transessuale e autore di un manifesto post factum. Un racconto che stride e che, per i numerosi rilievi da ;
Il contesto:
Da alleato incondizionato a voce dissidente, sotto pressioni che non si piegano
Charlie Kirk, scomparso a 31 anni, ha costruito TPUSA dal nulla (2012), trasformandola nella più grande organizzazione giovanile conservatrice d’America. Fin dall’inizio, la sua ascesa è stata sostenuta anche da donatori filo-israeliani e ambienti neoconservatori (tra cui il David Horowitz Freedom Center), che lo hanno finanziato per promuovere narrazioni pro-Israele, viaggi a Tel Aviv e una retorica anti-palestinese veemente. In era Trump, Kirk è stato un pilastro: ha zittito voci nazionaliste critiche verso Netanyahu durante i suoi eventi, ha rilanciato notizie poi contestate sul 7 ottobre (i famosi “bambini decapitati”) e ha negato la carestia a Gaza. Pochi “gentili” hanno servito lo Stato ebraico con tale zelo.
Poi qualcosa si è mosso. L’offensiva israeliana a Gaza — un assalto votato all’annientamento, con gli ostaggi ai margini — ha provocato una reazione inedita tra i repubblicani under-30: solo il 24% ora simpatizza per Israele contro i palestinesi (Responsible Statecraft). La facciata del “con Israele senza se e ma” ha iniziato a incrinarsi.
Kirk ha cominciato a deviare: scenari su Jeffrey Epstein come asset dei servizi israeliani; dubbi sul 7 ottobre come “operazione di bandiera falsa” utile agli obiettivi di Netanyahu; echi delle critiche di Nick Fuentes. Al summit TPUSA (luglio 2025) ospita Tucker Carlson, Megyn Kelly e l’anti-sionista Dave Smith: parlano di “genocidio” a Gaza, di Epstein legato all’intelligence israeliana, di miliardari (Bill Ackman) che “comprano influenza”.
Secondo un amico anonimo citato da The Grayzone, Kirk avrebbe rifiutato a inizio 2025 un’offerta da 150 milioni di dollari attribuita a Netanyahu — interpretata come “tentativo di ridurlo al silenzio”. Descriveva il premier come un “bullo”, era disgustato dalle ingerenze nelle nomine trumpiane e ammoniva il presidente contro un attacco all’Iran su ordine di Tel Aviv. La risposta? Un “ringhio” da Trump. Pressioni dai donatori filo-israeliani: messaggi furiosi e telefonate “tormentanti”, come riferisce Carlson in un’intervista recente. In un podcast del 15 agosto, Kirk esita su Gaza: “Devo stare attento… fare attenzione a quello che dico”, con uno sguardo che tradisce un’ombra di timore — eco delle confessioni di Carlson su minacce velate da “stakeholder ebrei”. Candace Owens parla di una “trasformazione spirituale” sotto assedio; un insider sostiene che Kirk confidò a Carlson il terrore di un attentato — “e da chi?”, si domanda l’ex conduttore di Fox.
Qui entra lo scambio Vance–Carlson: un episodio speciale del “Charlie Kirk Show”, condotto dal vicepresidente stesso — gesto simbolico, quasi un’eredità temporanea. Carlson, forse il giornalista più influente d’America e compagno di ribellione di Kirk contro la deriva “Israel First” nel trumpismo, si espone senza filtri. A proposito di Netanyahu, che ha proclamato Kirk “martire di Israele” in un tweet prematuro, Carlson tuona: “Trovo profondamente sbagliato che… alcuni, in particolare capi di governo stranieri, piombino per appropriarsi della memoria di una persona e dell’intensa emozione seguita all’assassinio, sostenendo che lui avesse dedicato la vita alla loro causa. Lo trovo disgustoso… ed è letteralmente una menzogna”. E sui donatori: “Alcune persone che mandavano soldi a Turning Point erano durissime con lui… lui era sotto enorme pressione. Non si è mai piegato”.
Carlson — linguaggio franco, affetto evidente — condivide le posizioni più controverse di Kirk: no al “genocidio” di Gaza, no alla morsa della lobby ebraica sulla politica USA, no alla guerra all’Iran, trasparenza su Epstein e i legami con i servizi. Entrambi evangelici, con un pubblico capace di mobilitare milioni. La posta? Esistenziale, senza mezzi termini. Carlson ammette di temere per sé, con un deja vu. Intervisterà la vedova Erika? Potrebbe chiederle del timore confessato da Kirk, di conversazioni private che ora suonano come presagi.
Su X, thread come @ShadowofEzra amplificano: “Kirk vedeva Netanyahu come una forza distruttiva… sconvolto dai bambini uccisi a Gaza… donatori israeliani e sionisti americani lo tormentarono fino al giorno della sua morte”. Coincidenze? Netanyahu twitta per primo; media israeliani confermano la morte; un jet Chabad Lubavitch decolla col transponder spento; circola una lettera rabbinica del 2 settembre. Energie trasversali, ombre. In analisi da
Anomalie dalla scena:
colpo al collo, ferita che non convince, CCTV che racconta mezze verità
Passiamo alle evidenze tangibili. L’FBI identifica Robinson come esecutore — arrestato dopo un “sparami!” e con un manifesto sul 9/11 emerso post factum — ma la gestione della scena stride: riasfaltatura del terreno poche ore dopo, transenne erette con solerzia “da festival”, assenza di filmati integrali dal circuito universitario nonostante telecamere ovunque. Un’analisi forense su Primerogueinc.com nota l’eccezionalità: un colpo preciso da 200 metri con esfiltrazione immediata, rarissimo per un solitario.
Il colpo? Non alla nuca, come inizialmente riportato, ma al collo: un foro irregolare, frastagliato, che in alcuni fotogrammi ad alta risoluzione suggerisce un proiettile frammentato o un rimbalzo da superficie intermedia, non un impatto pulito. Zoomate su X (@veteran_20_145) evidenziano bordi lacerati tipici di munizioni deformate o traiettorie deviate — dettaglio che l’autopsia ufficiale, non ancora rilasciata integralmente, dovrebbe chiarire. O forse la traiettoria era un’altra: dove sono le riprese dei soccorsi, le telecamere a campi incrociati, quella alle spalle di Charlie? Rimossa goffamente, mentre — senza conservare l’area — si rassettava e smontava con la calma di un giorno qualsiasi. Troppe leggerezze simultanee (vi ricorda qualcosa?), troppi particolari dissonanti, procedure evase. Cosa diavolo è successo?
Aggiungete che, quel giorno, Kirk — l’unico in cui si è presentato con una maglietta bianca “Freedom”, un fuori scala nel suo guardaroba — indossava visibilmente un giubbotto antiproiettile sotto la stoffa. Un capo in kevlar o ceramica, progettato per assorbire impatti e deviare frammenti: comune tra figure ad alto rischio, raro in contesti pubblici non blindati. Nei video, il rigonfiamento toracico è evidente: precauzione premeditata? Forse legata a timori confidati agli amici. Su X, @psychologyright (che si presenta come esperto di balistica e tiro dinamico) lo nota: “Body armor visibile, ferita al collo irregolare: non un colpo casuale, posso scommetterci”.
Capitolo telecamere. Ci si aspetterebbe un’“olimpiade” di registrazioni. Invece, l’unica clip offerta al pubblico inquadra Robinson in fuga, cento metri almeno dietro la posizione del presunto cecchino: si getta da un tetto (circa 5 metri), atterra goffamente e si allontana zoppicando, come dopo un infortunio minore. Nessuno lo nota; l’area appare insolitamente vuota. Poi riappare in un’altra sequenza vicino a casa, zoppicando più marcatamente — quasi teatrale. Dubbi su continuità e autenticità: perché solo queste clip e non un flusso completo? Nelle analisi da ; font-style: normal; ; font-weight: 400; ; ; line-height: normal; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; min-height: 22.4px; ; ; letter-spacing: normal; orphans: auto; text-align: start; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: auto; word-spacing: 0px; ; -webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; text-decoration: none;”>
Entra in scena un personaggio da noir: George Zinn, 71 anni, ebreo americano, somiglianza inquietante a Jack Ruby — quasi un “figlio spirituale” — funziona da esca perfetta, aggiungendo nebbia al caos. Arrestato minuti dopo lo sparo per aver urlato “L’ho fatto io!”, Zinn ha confessato il 16 settembre di aver distratto intenzionalmente la polizia per concedere 12 minuti cruciali a Robinson. Da presunti leak dei documenti (da verificare) emergono messaggi: “Dovevo dare al ragazzo una chance — il sistema è truccato comunque”; “Ho visto il flash, era go-time; dovevo fare il mio Ruby moderno”. Profili fake su X, tracciati da reti automatizzate con strumenti di analisi, lo pompavano prima come “martire MAGA”, poi come “pianta deep state”. Background: video eyewitness dell’11/9 dalle Torri Gemelle, falsa chiamata dopo la Maratona di Boston (2013) — un provocatore seriale. In interrogatorio, avrebbe ammesso legami con Robinson via forum di sinistra, motivazione: “Vendetta per il negazionismo su Gaza di Kirk”. Non coincidenza: coreografia in una guerra per il controllo narrativo, dove la distrazione serve lo script.
Una sicurezza d’élite (così si presentava), buchi da manuale
La sicurezza? Secondo varie denunce online, composta anche da ex militari israeliani, con un leader in comune con il caso Trump a Butler: un’anomalia che Mike Flynn invita a indagare. Nei frame appaiono rigidi, distanti — “statue di cera” — a una distanza anomala dal palco: lontani quanto basta per un brunch, non per una protezione vip in ambiente aperto. Esitano a interporsi sulle linee di tiro, nonostante radio attive e gesti manuali che qualcuno interpreta come segnali codificati: mani in segno di “via libera” a pochi secondi dallo sparo (@IronWolf1970); l’uomo alla transenna con braccio teso e lampo di zip che si chiude in sincrono con il colpo (@schcyn101). Un flash alto a destra, opposto alla traiettoria ufficiale (@nova_maia: “Intensità da laser, non riflesso”). Una coppia sospetta: uomo con un oggetto che ricorda un cellulare ma potrebbe essere un’arma miniaturizzata, donna in appoggio (@judgmentcenter segnala una camera che inquadra il fuggitivo 50 secondi dopo — filmato mancante). Analisi su YouTube (“The Charlie Kirk Psyop”) gridano manipolazioni: disturbi e sfasamenti audio. L’FBI parla di “assistenza di intelligence straniera” (senza specificare chi). L’arma viene indicata come “assemblata” nel bosco, un vecchio K92: non è chiaro se con ottica; nessuna foto dell’arma in mano allo sparatore. Tutto parziale e selettivo.
Queste anomalie — ferita irregolare, giubbotto, telecamere selettive — non provano un complotto, ma impongono prudenza. Ignorarle, per chi lavora con ; lo denunciamo nel nome di Gesù”. Denuncia per stalking nel 2024 dopo invettive anti-Trump online (documenti ignorati). Siamo alla guerra senza quartiere: poteri radicati giocano all-in per dividere la destra; scommessa totale sul controllo narrativo; Kirk pedina di una contesa esistenziale tra fazioni — una, in particolare, rischia tutto pur di non perdere base evangelica e futuro del GOP.
Analisi operativa: come si costruisce (e si buca) la protezione di un evento
Qui leviamo il gergo e parliamo chiaro. Un evento come quello di Orem si protegge a strati. Non basta qualche transenna e due uomini col filo nell’orecchio. Si comincia dall’esterno: vie d’accesso, parcheggi, tetti e terrazze con visuale sul palco. Poi il perimetro intermedio: ingresso alla venue, corridoi, uscite di sicurezza, punti ciechi. Infine l’interno: palco, backstage, pubblico nelle prime file.
I tetti e i punti sopraelevati non sono un optional. Sono il primo elemento da coprire. Si mettono osservatori addestrati in coppia: uno spara se serve, l’altro osserva e calcola, comunica, anticipa. Hanno ottiche per ingrandire, strumenti per stimare vento e distanza, radio dedicate per parlare con chi è a terra. Sono gli occhi della sicurezza: vedono cose che in basso non si colgono, e avvisano in anticipo.
A Orem, il tetto da cui Robinson avrebbe sparato risulta non presidiato. Per un tetto piatto, a circa duecento metri con visuale pulita, è un errore basilare. Non serve scomodare manuali segreti: è buonsenso professionale. La telecamera che riprende la fuga, piazzata su un punto alto sopra il sottopassaggio, è un eccellente punto di osservazione: proprio lì, di norma, piazzi una coppia di osservatori. Controllano le vie di fuga, guidano le squadre a terra in caso di allarme. Perché non c’era nessuno?
Altro tema: la distanza e la postura delle guardie. In un contesto con minaccia di arma da fuoco, la squadra ravvicinata sta attaccata al personaggio. Letteralmente: due davanti, due dietro, uno laterale che guarda fuori, per intercettare linee di tiro e coprire. Qui, si notano guardie rigide, lontane, lente a reagire. E segnali manuali prima dello sparo che qualcuno interpreta come “via libera”. Ora, le mani non sono una pistola fumante: possono voler dire tutto o niente. Ma quando li metti in sequenza con i buchi sui tetti, con l’assenza degli osservatori, con il lampo a destra opposto alla traiettoria ufficiale, con il giubbotto di Kirk e la ferita che non torna, il quadro diventa, come dire, esigente. Chiede risposte.
Il team della sicurezza : nomi, società, legami
Sulle società ingaggiate per proteggere Kirk circola un nome: Shaffer Security Group (SSG). L’azienda ha pubblicato nel tempo post in cui si diceva orgogliosa di lavorare con TPUSA; il suo fondatore, Greg Shaffer, è un ex agente speciale dell’FBI con carriera in antiterrorismo, squadre d’intervento e operazioni all’estero. Dopo l’omicidio, Shaffer ha espresso condoglianze e chiarito che il contratto con TPUSA era terminato nel 2022.
Nei thread su X e in alcuni blog dell’area MAGA si sostiene che, nonostante la fine formale del rapporto, ci siano stati contatti, subappalti, personale condiviso. E soprattutto si segnala un pattern: presenze ricorrenti di ex militari israeliani o personale addestrato in Israele nella filiera della sicurezza, con parallelismi col caso Butler (tentato omicidio di Trump). Si citano anche società fondate da ex appartenenti ai servizi israeliani — come SQR Group di Avi Navama e Shai Slagter — attive nella protezione ad alto rischio di personaggi pubblici. Sono piste. Per smontarle o confermarle servono documenti: contratti, liste del personale, piani di copertura dei tetti, registri delle comunicazioni radio.
Ai livelli intermedi e bassi, la rete ripropone volti: un “uomo in bianco” che accenna un gesto di cappello, un “uomo in blu” che muove la mano in un certo modo. Altri notano somiglianze con operatori visti in altre occasioni. Vale la solita regola: un fotogramma non è una prova. Ma se l’istituzione non rilascia il flusso integrale delle telecamere, se non vediamo i piani di servizio, se non ascoltiamo le radio dalla mezz’ora prima allo sparo e ai minuti successivi, restiamo ostaggi di frammenti.
Il dibattito Vance–Carlson: memoria contesa, influenze e nervi scoperti
JD Vance invoca unità nazionale, promette pugno duro contro chi esulta per la morte. Tucker Carlson rifiuta l’appropriazione della memoria di Kirk da parte di leader stranieri e accusa: “Lo hanno pressato, in tanti, fino all’ultimo”. Candace Owens parla di metamorfosi spirituale sotto assedio. Nick Fuentes avverte: “Prove o silenzio”. C’è chi dà del “nazista”, c’è chi urla all’antisemitismo. È la guerra dell’informazione: i segni di una frattura reale sulla politica mediorientale dentro la destra americana, proprio nel suo pilastro evangelico. Qui si gioca molto più di una polemica. Qui si pesa il futuro della politica estera repubblicana e l’egemonia culturale su milioni di giovani.
Appendice operativa: cosa serve adesso, in concreto (in parole semplici)
Video e immagini. Servono i file originali, con dati tecnici integri. Basta con le versioni ricomprimate. Bisogna allineare gli orari tra le varie inquadrature, verificare i luoghi, confrontare il suono con l’immagine per vedere se ci sono tagli.
Autopsia e balistica. Non il riassunto: il documento completo. Entrata, uscita, traiettoria, eventuali frammenti. Tipo di proiettile, compatibilità con l’arma indicata. Effetto del giubbotto sul percorso del colpo
Piani di sicurezza. La mappa dei tetti e dei punti alti, chi doveva starci, chi c’era davvero. I turni. Le radio, minuto per minuto. Le unità cinofile, le squadre d’intervento rapido, le vie di fuga. Chi ha deciso di non presidiare quel tetto.
Telecamere dell’università. La mappa dell’impianto, la politica di conservazione dei filmati, l’elenco delle telecamere attive quel giorno. Un controllo indipendente sui buchi: dove mancano immagini, perché mancano, chi le ha visionate per primo.
Pulizia della scena. Foto prima e dopo. Chi ha deciso di riasfaltare, quando, con quale urgenza e perché. Perché le transenne sono state spostate così in fretta.
Senza questi mattoni, siamo inchiodati a un teatro d’ombre. Con questi mattoni, si può costruire — finalmente — una verità verificabile, qualunque essa sia.
Fonti e riferimenti
– The Grayzone, 12 settembre 2025 (su pressioni dei donatori e offerta rifiutata)
– Responsible Statecraft (trend under-30 del Partito Repubblicano su Israele/Palestina)
– Thread di analisi su X: @ShadowofEzra, @veteran_20_145, @IronWolf1970, @nova_maia, @judgmentcenter, @schcyn101 (spunti, non prove)
– Primerogueinc.com (nota forense sulla distanza e l’esfiltrazione; da vagliare)
– Intervista di Greg Shaffer a Newsmax; post storici di Shaffer Security Group
– CNN, The Atlantic (narrazione su Robinson e frame “MAGA deranged”)
– Comunicati FBI e forze dell’ordine dello Utah (“assistenza di intelligence straniera”)
– Comunicazioni e note UVU (CCTV, perimetrazione dell’evento)
– Manuali pratici di protezione eventi: linee guida del Secret Service; best practice di sicurezza privata per eventi con figure ad alto rischio
Un’ombra lunga, invito alla vigilanza
L’assassinio di Kirk — con ferita irregolare, giubbotto, telecamere selettive, buchi evidenti nei protocolli e un team con possibili legami esteri — rischia di diventare un capitolo indelebile della storia americana, un’eco di Dallas o di via Fani. Dubito che si chiuderà con un “pistolero solitario”. Chi di dovere, rilasci filmati, autopsie, registri. Carlson teme per sé; noi per la verità. Nel lavoro sulle “p2″ style=”margin: 0px; font-style: normal; ; font-weight: 400; ; ; line-height: normal; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; min-height: 22.4px; ; ; letter-spacing: normal; orphans: auto; text-align: start; text-indent: 0px; text-transform: none; white-space: normal; widows: auto; word-spacing: 0px; ; -webkit-text-size-adjust: auto; -webkit-text-stroke-width: 0px; text-decoration: none;”>
Un’analisi di Cesare Semovigo (italiailmondo.com)
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Su Italia e il Mondo: Si Parla del fondo sovrano istituito da Trump. Una tappa importante del tentativo avviato da Trump di ricostruzione dell’economia industriale statunitense. Se ne parla sulla base di un articolo apparso su www.italiaeilmondo.com: https://italiaeilmondo.com/2025/08/24/come-un-fondo-sovrano-potrebbe-reindustrializzare-lamerica-di-julius-krein/_Giuseppe Germinario
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Intervista a Roberto Iannuzzi: Gaza, Tensioni Israele-Iran e Ruolo dell’Egitto in Medio Oriente
In questo episodio di Italia e il Mondo, Semovigo e Germinario dialogano con l’analista Roberto Iannuzzi, esperto di Medio Oriente, sulla situazione attuale a Gaza. Esploriamo le tensioni tra Israele e Iran in un contesto multipolare, il futuro della popolazione civile intrappolata e le mosse dell’Egitto, con il richiamo di 40.000 riservisti e rinforzi a Rafah. Un’analisi oggettiva e bilanciata su dinamiche geopolitiche globali.
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