“Il PRANZO DI BABELE”, di Cesare Semovigo

“Il PRANZO DI BABELE”

La sconfitta del governo di Bashar al-Assad rappresenta uno frattura epocale nella geopolitica mediorientale. Con la caduta della fragile fù Repubblica Siriana, i riabilitati miliziani di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e dell’Esercito Siriano Libero (ESL), dopo aver piegato lo spazio tempo anti-Newtoniano, conquistano la capitale. Gettano la Siria in una dimensione indefinibile ad alto rischio e le probabilità che l’area venga investita da una cronica instabilità esponenziale, sono altissime.

Forse, proprio per questo, nessuno osa fare chiarezza nella rappresentazione dei media generalisti, quasi come per esorcizzare e allontanare il momento nel quale, la consapevolezza delle masse narcotizzate del mondo “libero” dovrà fare i conti con se stessa e le sue dinamiche autoassolutorie di impero centralizzato decadente. Con solerzia, le muse dei media occidentali, ingessate dall’eccessivo uso di tossine metabloccanti, ci rassicurano, consolando prima di tutto loro stesse; attraverso la ripetizione di slogan come: “la Siria ha scelto ! “, “Finalmente liberi”, si compie il paradosso suicida di una propaganda ridondante, nuda nel manifestare i suoi intenti e quindi controproducente rispetto alla finalità ipnotica perdente.

Lasciate si compia con una disarmante scioltezza il destino del “designated survivor” al-Joulani. Partì JIadista, giunse “moderato”, suo malgrado artefice di un destino folgorante, analizzando il quale, non faccio fatica a immaginare possiate ora interrogarvi rispetto alla credibilità della sua ascesa, Avatar folgorato sulla strada di Damasco.

L’esercito siriano, ormai eroso da anni di conflitto e logorato da una crisi interna senza precedenti, si è arreso alle forze Salafite jihadiste e Turcomanne, segnando la fine del controllo dell’ultimo esponente degli Al Assad su un paese diviso e tribalizzato all’ennesima potenza, ormai incapace fisiologicamente di sopportare un altro scontro sanguinoso.

Un ruolo fondamentale nel contenimento dell’ISIS e di altre formazioni jihadiste era stato svolto dal Gruppo Wagner che operava in stretta collaborazione con le unità governative siriane. Questo contributo è stato dettagliato nel libro “Io, comandante Wagner” di Andrei Kolesnikov, ex ufficiale con legami diretti con i contractor russi. Kolesnikov descrive non solo l’ampio supporto logistico e operativo fornito, ma anche le difficoltà strutturali dell’Esercito Arabo Siriano (SAA), spesso caratterizzato da un’organizzazione efficiente e da un morale basso. Wagner è stato essenziale per compensare queste debolezze, fornendo una guida tattica e un’efficace forza d’urto nelle battaglie più critiche. Ma ecco la ciliegina sulla torta: l’escalation sia da parte di Israele che della Turchia, insieme alle gesta quasi shakespeariane di al-Julani, potrebbero non essere così casuali come sembrano. È forse una musica orchestrata da potenze maggiori?

Tra le unità più celebri assistite dal Gruppo Wagner spiccano i “Cacciatori dell’ISIS”, un’unità specializzata nella contro-guerriglia e nel recupero di posizioni chiave, e le “Tiger Brigades”, comandate dal carismatico generale Suheil al-Hassan, una delle figure più iconiche della guerra civile siriana. Al Hassan, noto per il suo stile operativo diretto e per le sue vittorie chiave, fu determinante durante l’assedio di Aleppo, un’operazione che segnò una svolta decisiva per il regime di Assad. La sua capacità di combinare attacchi mirati con una strategia di assedio prolungato ha reso le Tiger Brigades un simbolo del successo tattico siriano.

Tuttavia, con il progressivo trasferimento del Gruppo Wagner verso altri teatri operativi, come la Libia e il Sahel, si è verificato un indebolimento evidente delle linee governative siriane. La ritirata dei “musicisti”, che avevano svolto un ruolo di coordinamento critico, ha lasciato un vuoto che l’Esercito Arabo Siriano non è stato in grado di colmare. Privato di un coordinamento tattico di alto profilo e logorato da anni di conflitto, il SAA ha mostrato segni di rilassamento nel mantenimento delle posizioni.

Questa situazione ha dato il via a un effetto domino, in cui la mancanza di leadership strategica ha accelerato lo smembramento del fronte governativo. L’assenza di un supporto esterno disciplinato e la progressiva frammentazione delle forze leali hanno lasciato il terreno fertile per l’avanzata di forze jihadiste come HTS, contribuendo in modo determinante alla caduta del regime di Assad.

La “Pistola Fumante” dell’Offensiva HTS/ESL

L’attacco partito da Idlib, ironicamente ribattezzato “califfato di Idlibistan”, ha messo in evidenza la complessità delle formazioni ribelli e jihadiste attive nel quadrante settentrionale della Siria. Questa galassia di gruppi in tutto ben 13 agisce con una sorprendente coesione operativa:

  1. Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), guidata da Abu Mohammad al-Julani, ex comandante di Jabhat al-Nusra (Salafiti), che si pone come principale forza egemone nella regione.
  2. Brigate dell’Esercito Siriano Libero (ESL), parzialmente aggregate sotto l’ombrello turco e utilizzate da Ankara come strumento di pressione militare e politica.
  3. Milizie jihadiste minori, tra cui fazioni salafite e turcomanne finanziate da monarchie del Golfo, con particolare coinvolgimento del Qatar, che continua a supportare attori non statali con una chiara matrice ideologica.

L’offensiva, lanciata con impressionante rapidità entro 48 ore dagli incontri diplomatici ad Ankara, sembra essere stata sostenuta da un apparato logistico e militare di alto livello. Testimonianze locali e analisi satellitari indicano il coinvolgimento di forniture militari avanzate Standard Nato di origine Turca, Blindati Pantera (Giordania), UAV Shaheen (droni armati e da ricognizione – Giordania -), MRLS ruotati e Grad, Artiglieria AA ruotata 50 mm (affusti USA anni 50), Binate 20 mm su Toyota, sistemi di comunicazione sicuri e una logistica paragonabile a quella di eserciti regolari. Proprio il ruolo dell’industria scintillante giordana Jadara sarà la protagonista di un’inchiesta che seguirà a breve nella quale faremo chiarezza su questa realtà molto moderna e ben connessa con companys blasonate occidentali e quale è stato il suo ruolo in questa operazione e di chi abbia fornito il supporto satellitare e di targeting ai droni Shaheen che dal primo giorno di invasione hanno attirato la mia attenzione ed il fatto che nessuno ne ha fatto menzione mi ha convinto ad occuparmene, come vedrete, con risultati “esplosivi” a partire dai suoi illustri azionisti da una parte e da chi non ti saresti mai aspettato nel consiglio di amministrazione in questa parte del globo.

Questo livello di sofisticazione, unito alla coincidenza temporale con i colloqui del 23-24 novembre, solleva più di un sospetto su una possibile convergenza di interessi tra i principali attori della regione. Interessante è la tattica simile a quella usata dagli Ucraini a Kursk; in questo casa è risultata vincente, ma come vedremo dietro la staccionata il nulla. Tralascio i rumors circa gli addestratori di Budanov per i droni, vorrei non fosse vero per non confermare quella nota trash da distopic B movie alla quale siamo ormai abituati da tempo.

Interpretazioni Strategiche

La mobilitazione di Hay’at Tahrir al-Sham e delle altre fazioni che operano nella regione di Idlib può essere interpretata come parte di una strategia più ampia per contenere l’influenza iraniana, limitare la capacità di Hezbollah e spezzare ulteriormente l’asse sciita, secondo studi condotti dal Middle East Policy Council e dalla International Crisis Group. L’ottica anti-iraniana e antisciita sarebbe corroborata dal contributo di attori come il Qatar, già noto per il sostegno finanziario e politico a gruppi salafiti, il cui ruolo chiave nell’alimentare la galassia jihadista di Idlib mira a rafforzare la presenza sunnita in contrapposizione al blocco sciita. Nell’analisi di Stratfor e di alcuni report investigativi pubblicati da Al Jazeera, emerge inoltre il possibile coinvolgimento di intelligence occidentali e turche: la sofisticazione delle operazioni sul campo, compresi i sistemi UAV di ultima generazione e tecnologie di comunicazione avanzate, suggerisce una partnership non ufficiale, mediata da Ankara, con apparati euro-atlantici interessati a limitare l’influenza iraniana. Questa sinergia, da molti considerata un piano coordinato, potrebbe in realtà essere una convergenza di interessi differenti che si incontrano e si rafforzano in una dinamica assai più complessa, come ipotizzato anche dai colleghi analisti del Brookings Institution, lasciando aperti interrogativi sulla natura e la direzione futura di tale alleanza de facto in una Siria già segnata da anni di conflitto.

L’incredibile sincronia tra gli incontri diplomatici di alto livello ad Ankara e il successivo inizio delle ostilità è difficile da interpretare come una semplice combinazione fortuita. Piuttosto, appare come il risultato di una convergenza tattica tra attori con obiettivi complementari: indebolire il regime di Damasco, arginare l’influenza iraniana e consolidare il controllo turco sulle aree settentrionali della Siria. Sebbene non si possa parlare con certezza di un’alleanza formale tra Turchia, Qatar e potenze occidentali, emergono chiari segnali di una complementarietà strategica, dove interessi autonomi si sovrappongono nel perseguire obiettivi comuni.

La “pistola fumante” dell’offensiva HTS/ESL non sta solo nelle armi avanzate o nei sofisticati sistemi di intelligence, ma anche nella precisa tempistica con cui è stata orchestrata. Questa operazione, condotta con il tacito avallo — o almeno la neutralità benevola — di vari attori internazionali, ha portato a una nuova destabilizzazione del Levante.

Le Conseguenze di un Levante Rimodellato

Le implicazioni di questa offensiva vanno ben oltre la Siria settentrionale. L’azione militare ha ulteriormente frammentato il territorio siriano, lasciando il Libano ancora più isolato e aumentando le difficoltà logistiche per Hezbollah. La comunità internazionale, intanto, sembra sempre più distante dal trovare una soluzione politica condivisa, lasciando la Siria intrappolata in un conflitto di lunga durata che alimenta la precarietà regionale. Se l’obiettivo di Ankara, Israele e delle monarchie del Golfo era ridisegnare l’assetto del Levante, l’offensiva HTS/ESL potrebbe essere vista come un passo determinante in questa direzione, ma con costi umani e politici enormi.

Mentre gli attori regionali ricalibrano le loro strategie, Israele e Turchia emergono come due protagonisti principali. Pur senza formalizzare un’alleanza, entrambi sembrano perseguire interessi strategici complementari, sfruttando l’opportunismo che accomuna queste due potenze regionali.

La trasformazione di HTS, sotto la guida di Abu Mohammad al-Julani, da organizzazione jihadista a potenziale forza governativa, apre scenari inquietanti. La leadership di al-Julani, un tempo affiliata ad al-Qaeda, solleva interrogativi sulla sostenibilità di questa “nuova Siria”, ma ancor più sul ruolo delle potenze che hanno, direttamente o indirettamente, facilitato questa transizione. La sceneggiatura, degna di un film di Carpenter, racconta tradimenti e reazioni tossiche (l’Occidente e quella fidanzata difficile chiamata verità) che segnano un capitolo amaro. Come la parabola del nostro Nicolas Cage salafita, che dopo l’arresto rieducativo nelle carceri dorate del più famoso servizio segreto cinematografico, vive ora il meritato successo, rendendo orgogliosi i suoi produttori: i padri dell’epopea dell’Hollywoodismo.

Mi riferisco allo script scadente, visto e rivisto, della narrativa decadente del “Nuovo Secolo Americano”. Fonti anonime spoilerano persino il titolo del film: al-Julani alla ricerca del tesoro per conto dei Templari.

Il suo discorso “magnum” (camicia da “Barbudos” pacatezza da condottiero salafita) che lo ha lanciato nell’olimpo della storia moderna, è avvenuto nella più iconico luogo di culto della tradizione ottomana in Siria: la Moschea di Tekkiye Süleymaniye (o Moschea Süleymaniye) a Damasco. Tutte le strade portano ad Ankara e Tel Aviv.

Geopolitica degli intrighi e menti raffinatissime.

Questa volta abbiamo intersecato un lavoro certosino di fonti con la ricerca di piccole note stampa insignificanti, tuttavia senza le intuizioni scaturite dai primi droni israeliani sulla Siria durante le operazioni contro Hezbollah, le varie localizzazioni e tracce radar parziali dagli aeroporti di partenza fino all’appoggio indiretto idf a htf colpendo i ponti sulla linea logistica delle retrovie di Homs non saremmo riusciti ad condurvi insieme a noi a ritroso fino realizzare l’algoritmo logico e fattuale che ha prodotto queste nostre solide ipotesi. Ma a volte le risposte più serie si nascondono dietro le battute più leggere. Proprio in questi momenti ci rendiamo che “essi vivono” insieme a noi come nei film John Carpenter, il maestro del surrealismo esoterico.

Ankara: convergenze o alleanze?

Prendiamo il recente incontro tra Ronen Bar, capo dello Shin Bet israeliano, e İbrahim Kalın, capo dell’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca (MIT). Questo summit non proprio alla luce del sole si è svolto ad Ankara il 16-17 novembre 2024, in un fine settimana che potrebbe sembrare come tanti.

Ma ecco la ciliegina sulla torta: l’escalation sia da parte di Israele che della Turchia, insieme alle gesta quasi shakespeariane di al-Julani, potrebbero non essere così casuali come sembrano. È forse una musica orchestrata da potenze maggiori?

L’obiettivo dell’incontro? Discutere il possibile ruolo della Turchia nella ripresa dei negoziati per uno scambio di prigionieri con Hamas. E qui entra in gioco l’Egitto, che secondo le fonti israeliane, dovrebbe mantenere il ruolo di mediatore principale, nonostante il Qatar abbia messo temporaneamente in pausa i suoi sforzi di mediazione, in attesa di vedere un autentico spirito di collaborazione tra Israele e Hamas.

Il balletto degli ostaggi e le pressioni su Hamas

La questione degli ostaggi detenuti da Hamas rappresenta un nodo cruciale nelle dinamiche regionali. Fonti israeliane indicano che la liberazione degli ostaggi è al centro di intense trattative, con Israele che sollecita un intervento più deciso da parte degli Stati Uniti per esercitare pressioni su Hamas. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, vede in una risoluzione positiva di questa crisi un’opportunità per rafforzare la sua posizione politica interna.

Nel frattempo, il Qatar ha sospeso i suoi sforzi di mediazione, dichiarando che riprenderà solo quando entrambe le parti dimostreranno una reale volontà di dialogo. Questo ritiro ha aperto spazi per la Turchia, che, riallacciando i legami con i Fratelli Musulmani, potrebbe assumere un ruolo più attivo nel processo, sebbene non come mediatore principale.

Questi incontri suggeriscono una ricalibrazione delle relazioni tra Turchia e NATO, con Ankara che cerca di rafforzare la sua posizione all’interno dell’Alleanza, mentre persegue parallelamente i propri interessi regionali.

 

Le manovre israeliane nel sud della Siria e in Libia

 

Israele sta ampliando il suo raggio d’azione oltre Gaza, concentrandosi sul sud della Siria e sulle comunità druse. Alcuni analisti ipotizzano che Netanyahu stia considerando mosse per consolidare il controllo su queste aree strategiche, sia per motivi di sicurezza che per rafforzare la sua posizione politica interna.

Parallelamente, emergono speculazioni su possibili iniziative israeliane nel sud della Libia, volte a stabilire alleanze con tribù locali per estendere la propria influenza nel Nord Africa.

Il bello viene ora: nonostante le relazioni tra Israele e Turchia siano tese, aggravate dalle critiche incendiarie del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nei confronti delle operazioni militari israeliane a Gaza, i due paesi sembrano avere una capacità quasi camaleontica di mantenere i canali di comunicazione aperti. È un po’ come vedere due ex amanti che, nonostante si lancino i cocci, non riescono a smettere di mandarsi messaggi erotici di mezzanotte.

Il 23 novembre, un altro incontro si svolge in uno scenario meno pubblicizzato. I dettagli sono oscuri, le fonti scarse, ma gli echi di discussioni sulla sicurezza regionale tra figure chiave suggeriscono che il plot si infittisce.

Poi, il 24 novembre, il segretario generale della NATO, l’lOlandese Rutte, incontra a porte chiuse alcune delle stesse figure chiave. Gli argomenti? Coordinamento su sicurezza e, forse, un po’ di diplomazia preventiva. E come un buon dramma siriano, tutti sanno che oggi alleati possono essere domani avversari.

Numerosi rilevamenti geolocalizzati indicano che la mobilitazione dei ribelli sia avvenuta nei pressi della base militare turca di Gaziantep, uno snodo strategico da cui storicamente transita un notevole volume di rifornimenti destinati alle operazioni turche in Siria. Subito dopo tali incontri, HTS ed ESL hanno lanciato una campagna contro le residue difese del regime di Assad a Idlib, evidenziando un alto grado di organizzazione e un supporto logistico avanzato. Parlare di coincidenze risulta dunque arduo: la stretta vicinanza temporale tra i vertici di alto livello e l’offensiva solleva il sospetto di una regia comune o, quanto meno, di un tacito coordinamento mirato a sfruttare la vulnerabilità del regime siriano e dei suoi alleati.

Faccio presente ai colleghi che ancora non ho letto una sacrosanta interpretazione del funambolico attentato ai gioielli dell’industria bellica di Ankara, appioppato — perdonatemi il volgare — alle armate di San Sebastiano Curde, che a quanto pare, dopo aver rinnegato anche l’Odisseo del PKK, attendevano questo epilogo degno dell’Anabasi, ma in direzione inversa e senza ritorno. Spero possa perdonarmi Senofonte per questa mia misera licenza per niente eroica nell’immagine che fornisce.

E come sempre, nel grande gioco del Medio Oriente, le alleanze sono come le onde del mare: vengono, vanno, e talvolta travolgono.

E mentre il mondo osserva, analizza e ipotizza, le manovre imperialiste di USA, Turchia e Israele potrebbero essere interpretate come un’orchestrazione coordinata, un trio che danza sul filo del rasoio geopolitico, con la Siria come scacchiera.

Gli ultimi sviluppi sul campo siriano si inseriscono in una più ampia strategia di contenimento dell’Iran, che sta progressivamente erodendo la capacità di Teheran di mantenere il suo storico corridoio logistico verso il Mediterraneo. Con la caduta di Assad e il conseguente vuoto di potere a Damasco, il cosiddetto “Asse della Resistenza” — composto da Siria, Hezbollah e Iran — si trova di fronte a sfide sempre più pressanti.

Hezbollah, tradizionalmente il pilastro sciita nell’area, è stato costretto sulla difensiva. I suoi ritiri oltre il fiume Litani e le crescenti difficoltà logistiche hanno minato la sua capacità operativa. Inoltre, la perdita di accesso diretto e sicuro alla Siria complica ulteriormente il rifornimento delle sue linee e la sua capacità di resistenza contro Israele. La situazione è aggravata dall’attivismo della Turchia, che sostiene milizie di etnia turcomanna e finanzia forze anti sciite, e dal coinvolgimento di intelligence euro-atlantiche, spesso coordinate con attori del Golfo a matrice salafita. Questa pressione multiforme che combina tattiche militari, finanziamenti regionali e operazioni di intelligence ha reso quasi impossibile per Teheran mantenere la solidità della sua influenza su Damasco, Beirut e lungo il confine siriano-libanese. L’Iran si trova così a fronteggiare una coalizione di interessi regionali e internazionali che, pur agendo in maniera non sempre coordinata, converge sull’obiettivo comune di ridurre l’influenza iraniana nel Levante.

Parallelamente, Israele ha approfittato della debolezza dell’asse sciita per intensificare i suoi attacchi mirati contro obiettivi strategici in Siria. L’attivismo di Tel Aviv, unito all’azione turca e al sostegno delle monarchie del Golfo alle formazioni jihadiste, configura una situazione in cui l’asse Damasco-Teheran-Beirut è sempre più accerchiato e indebolito. Questa pressione non solo impedisce all’Iran di espandere la propria sfera d’influenza, ma pone in seria discussione la sua stessa capacità di mantenere una presenza efficace nell’area.

La posizione dell’Iran, quindi, è in bilico, intrappolata tra la necessità di consolidare le sue alleanze e l’impossibilità di contrastare efficacemente una pressione combinata, che si manifesta sia sul piano militare che su quello economico e politico. Se il corridoio iraniano verso il Mediterraneo dovesse cedere definitivamente, le implicazioni strategiche sarebbero enormi, non solo per Teheran, ma per l’intero equilibrio regionale.

Questa offensiva, scattata a poche ore dalla fragile tregua tra Israele e Hezbollah, sembra mirare a scalzare ulteriormente le residue posizioni governative in Siria. L’isolamento del Libano via terra dall’Iran e l’indebolimento dell’asse Damasco-Teheran-Beirut costituiscono obiettivi strategici chiari, perseguiti con azioni ben sincronizzate e metodicamente pianificate. L’apparente passività di alcune unità governative siriane durante l’offensiva, unite a segnalazioni di abbandono di posizioni senza distruggere depositi di armi e mezzi, potrebbe riflettere protocolli di pressione o persuasione negoziata operati da intelligence turche (MIT) e partner occidentali. Ah, chiedo perdono al Mossad, che non si offenda, è dato per scontato.

Da un lato, la Turchia continua a coltivare rapporti con HTS, offrendo un canale di legittimazione per l’organizzazione, nel tentativo di mantenere la pressione su Assad e, al contempo, contenere la presenza curda. Dall’altro, i successi di HTS consentono ad Ankara di consolidare la sua influenza su una fascia strategica del nord della Siria, che le permette di proiettare potere sulla regione senza un coinvolgimento diretto e costoso. La complementarità di obiettivi con Israele appare evidente: entrambi perseguono, con modalità diverse, la frammentazione dell’asse sciita e il contenimento dell’Iran.

Israele e il “bottino di guerra”: Eau de Escalation (N°5)

Israele, sempre pragmatico e spietato nelle sue mosse geopolitiche, sembra uscire da questa crisi come il principale vincitore. La caduta di Assad segna un duro colpo per l’asse sciita, isolando il Libano dall’Iran e costringendo Hezbollah a ritirarsi oltre il fiume Litani. Ma il vero colpo da maestro potrebbe essere l’annessione di fatto del Golan, un progetto che Israele ha cullato per decenni e che, grazie alla disgregazione siriana, si avvicina sempre di più alla realtà.

Con la disintegrazione del potere centrale siriano, Tel Aviv ha iniziato a ventilare progetti di intesa con la comunità drusa del sud della Siria. Gli elementi chiave di questo piano comprende la concessione del doppio passaporto — una strategia già applicata ai drusi del Golan, quasi tutti cittadini israeliani — e una narrazione di protezione e integrazione che mira a cementare il controllo israeliano sull’area. Questo non solo rafforzerebbe la sicurezza ai confini settentrionali, ma fornirebbe a Netanyahu, noto per la sua abilità camaleontica, un “bottino di guerra” politico capace di rilanciare la sua carriera.

Bibi Netanyahu, sempre fedele al motto mai lasciare che una crisi vada sprecata, potrebbe infatti vendere questo risultato come un successo senza precedenti. Un sequel politico inaspettato per un leader longevo e opportunista, che ha fatto del rischio calcolato la sua cifra distintiva. Persino il miglior giocatore d’azzardo non avrebbe potuto prevedere che la disintegrazione della Siria avrebbe offerto una ricompensa così ricca e insperata. Ma Netanyahu non è solo un rischiatutto: è il tipo di uomo che non solo punta tutto al tavolo da gioco, ma riesce anche a convincere gli altri che il mazzo è segnato a suo favore (il banco, in ogni caso, tende a dargli le carte che desidera).

Sebbene non vi siano prove definitive di un’alleanza formale tra Turchia e Israele, la complementarità dei loro obiettivi strategici appare evidente. La frammentazione della Siria, l’isolamento dell’Iran e la marginalizzazione dell’asse sciita servono sia gli interessi di Ankara che quelli di Tel Aviv. La Turchia ottiene un’enclave operativa nel nord della Siria, utile per contenere i curdi e proiettare potere nella regione. Israele, dal canto suo, elimina un nemico storico e si garantisce una sicurezza strategica senza precedenti lungo il confine settentrionale.

Questa complementarità potrebbe non essere frutto di un coordinamento esplicito, ma il risultato è tanto efficace quanto lo sarebbe una vera alleanza. Ankara e Tel Aviv stanno riscrivendo le regole del gioco in Medio Oriente, ciascuna perseguendo i propri interessi ma sfruttando le stesse dinamiche regionali.

Tralascio colpevolmente le scuse Israeliane, attendo la prossima: Abbiamo portato il sale pensando fosse Cartagine. Preventivamente nelle migliori delle tradizioni, in fede Mosè D…. Sorry Bibi.

Rapporti di buon vicinato

Alla luce della situazione, diviene sempre più evidente la presenza di un complesso intreccio di interessi regionali e internazionali. La convergenza di interessi occulti salafiti, qatarioti, turcomanni, oltre agli immancabili servizi anglo-occidentali, combinati al supporto logistico turco, sembra orchestrare un’azione coordinata atta a contenere i successi del Cremlino sul fronte ucraino e a ridisegnare gli equilibri del Levante, in particolare mirando alla marginalizzazione dell’asse sciita e alla frammentazione del fronte della resistenza.

L’imminente transizione politica negli Stati Uniti, con l’arrivo della futura amministrazione Trump, potrebbe accelerare ulteriormente le iniziative militari e diplomatiche di attori regionali, intenzionati a consolidare posizioni prima che nuove politiche estere possano ridefinire le priorità globali in un contesto saldato alle più che pronosticate contromisure del tutt’altro che sconfitto stato profondo.

La Giordania, pur essendo uno dei principali punti di transito per gli armamenti verso la Siria, si è sempre dichiarata estranea alla proliferazione non controllata. Tuttavia, il ruolo di questo crocevia logistico resta controverso, e l’ampia disponibilità di armi avanzate nelle mani di HTS pone interrogativi inquietanti. Quali meccanismi hanno consentito che tali forniture raggiungessero un gruppo jihadista? E quanto della frammentazione siriana può essere attribuito a errori — o strategie discutibili — nei programmi di armamento internazionale?

il Qatar, l’Italia e il denaro che parla la lingua dei Fratelli Musulmani

Che il Qatar sia da anni il “salvadanaio globale” dei Fratelli Musulmani non è un mistero per chi osserva la politica mediorientale con occhio lucido. Doha, attraverso Qatar Charity e altre strutture finanziarie, si è distinta come epicentro di un’attività capillare: finanziamenti a moschee, centri islamici e progetti educativi con chiara matrice politico-religiosa, specialmente in Europa. Larry Johnson descriverebbe il metodo con la freddezza tipica della CIA: “Non serve mandare armi quando puoi inviare milioni. La religione è un fiume, il denaro è la sua sorgente”. Ed è esattamente ciò che è avvenuto, soprattutto in Italia, uno dei principali terreni di coltura dell’influenza qatariota.

Il libro Qatar Papers di Georges Malbrunot e Christian Chesnot ha squarciato il velo. I finanziamenti milionari qatarioti sono arrivati direttamente nelle mani delle comunità islamiche più vicine all’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), a sua volta collegata all’influenza dei Fratelli Musulmani. Non parliamo di “charity”, ma di una strategia ben congegnata. Dai centri islamici in Lombardia fino a moschee in Toscana e Sicilia, Doha ha riversato fondi per consolidare quella che si potrebbe definire “una testa di ponte culturale mascherata da tolleranza religiosa”. È soft power, con implicazioni profonde e di lungo termine: non solo religione, ma un’architettura politica che plasma il pensiero.

L’Italia, spesso inconsapevole o troppo compiacente, è stata il terreno perfetto. La Qatar Investment Authority (QIA), con i suoi 335 miliardi di dollari, non si limita a finanziare infrastrutture: possiede quote in banche, alberghi di lusso e settori strategici italiani. I soldi del Qatar, ammantati di legalità, comprano accesso e influenza.

Primavere Arabe e la caduta dei Fratelli Musulmani: un passo indietro per prepararne due avanti

Dopo le Primavere Arabe, i Fratelli Musulmani erano destinati al trionfo. La vittoria di Mohamed Morsi in Egitto sembrava l’incipit di una nuova era islamista. Poi arrivò il 2013. Il golpe militare di Abdel Fattah al-Sisi, sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, ha decapitato il movimento in modo sistematico. Arresti, esecuzioni, un’intera generazione di quadri politici distrutta. I Fratelli sono passati da vincitori ad appestati Quando la politica fallisce i carri armati risolvono il problema. E Al-Sisi risolse, ma il prezzo fu alto: un regime che oggi appare come una fortezza di sabbia, sostenuta da corruzione e spese militari folli.

Eppure, i Fratelli non sono mai scomparsi. Come un fiume carsico, si sono nascosti, sostenuti in esilio da Doha e dalla Turchia di Erdoğan, dove hanno trovato protezione e risorse. Il Qatar è il cuore finanziario, la Turchia il braccio politico e militare. Questo rinascimento islamista preoccupa Al-Sisi, che non ha dimenticato l’ombra lunga della Fratellanza. Gli scontri verbali degli ultimi giorni tra il Cairo e Ankara riflettono questa tensione: Erdoğan gioca su più tavoli, alimenta le frange islamiste per tenere Al-Sisi sotto pressione, mentre rafforza il proprio ruolo di mediatore nella crisi siriana e palestinese.

 

 

Al-Sisi sotto assedio: l’Egitto tra crisi economica e ricatti geopolitici

 

La disputa con l’Etiopia per la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) è solo la punta dell’iceberg. Per proteggere il controllo sul Nilo, Al-Sisi ha inviato uomini, armi e denaro ai governi alleati in Somalia e Eritrea, nel tentativo di isolare Addis Abeba.

Ma mentre l’Egitto combatte questa battaglia a sud, un’altra tempesta si avvicina da nord. Israele, con il suo approccio “preventivo” come lo definisce Scott Ritter “capolavoro artistico sionista di sopravvivenza politica e territoriale”, guarda all’Egitto come all’anello debole. Gli 8 miliardi di dollari offerti da Israele ad Al-Sisi per ospitare i palestinesi nel Sinai non sono stati accettati. E qui il problema: Israele non chiede, impone. Al-Sisi ha risposto schierando l’esercito al valico di Rafah. È una mossa disperata per difendere non solo i confini, ma la propria legittimità.

 

Quando il nemico ti chiede di accogliere milioni di rifugiati, non sta offrendo aiuto. Sta preparando la tua fine.

 

Israele e Turchia, con obiettivi diversi ma complementari, stanno preparando un doppio cappio: destabilizzare Al-Sisi con la minaccia interna dei Fratelli Musulmani e con quella esterna della pressione umanitaria palestinese.

La nostra prossima inchiesta in arrivo si occuperà di queste dissonanze e svelerà il ruolo unilateralmente velenoso del rapporto di pessimo vicinato tra i player del Medio Oriente, oltretutto svelando come la reputazione del sovrano più genuflesso e “Badogliano” dell’area abbia, anche questa volta, giocato un ruolo determinante, confermando che l’occasione rende auto assolto anche il traditore fedelmente seriale. Ironicamente, pertanto sia opera ardua, questo presupposto potrebbe assegnare per disperazione le attenuanti generiche alla catastrofica alleanza dei Curdi stretta con “l’altare di Baal” chiamato Stati Uniti.

In definitiva, l’ascesa dell’auto-proclamato “Idlibistan” non può essere considerata un evento isolato o fortuito. Al contrario, essa appare come il risultato di un ben orchestrato sistema di convergenze tattiche, progettato per destabilizzare l’asse sciita e rafforzare l’influenza di potenze come Turchia e Qatar, con il tacito sostegno di servizi euro-atlantici. Le prossime settimane saranno probabilmente decisive per capire se questa convergenza evolverà in un’escalation ancora più ampia, aggravando le già precarie condizioni di un Medio Oriente in perenne crisi.

Prossimamente assisteremo alla nascita embrionale del piano Neo-Ottomano tanto atteso dal grande manovratore di Ankara; il momento tanto atteso dai Fratelli Mussulmani per lavare l’onta successiva alla primavera araba. Questa realtà sottolinea come HTS non sia solo un fenomeno locale, ma il risultato di un intreccio globale di dinamiche geopolitiche, errori di calcolo e convergenze di interessi. Un “califfato” armato, ben organizzato e determinato, che ora si configura come un nuovo polo di potere nella regione, con risvolti difficili da prevedere, ma certamente destabilizzanti.

Chi osserva con attenzione sa che quello che si vede è solo una frazione di quello che accade, e se non si collegano i fili tra eventi apparentemente scollegati si rischia di perdere il senso del quadro più grande. Israele ed Egitto, dopo un periodo lungo di distensione quasi cortese , oggi sono due attori in collisione su più fronti, e questa frizione si manifesta su scenari molto distanti, ma profondamente connessi: Gaza, il Sinai e il Corno d’Africa. La radice è chiara: il rifiuto di Al-Sisi di accogliere i palestinesi in fuga da Gaza, a fronte delle proposte israeliane di 8 miliardi di dollari. Questo “no” di Al-Sisi è stato interpretato da Tel Aviv non solo come una sfida politica, ma come un ostacolo alla sua strategia di lungo termine. Israele non dimentica e non perdona, e quando i propri interessi sono bloccati, reagisce in anticipo. Le ultime mosse israeliane nel Corno d’Africa sono la manifestazione concreta di questa risposta della quale ci occuperemo nella prossima inchiesta contemporanea sulle filiere logistiche degli armamenti made in Giordania.

La Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD), imponente progetto idroelettrico sul Nilo Azzurro, rappresenta non solo un’ambizione nazionale etiope, ma anche un nodo cruciale nelle dinamiche geopolitiche regionali. L’Egitto, fortemente dipendente dal Nilo per le sue risorse idriche, percepisce la GERD come una minaccia esistenziale, temendo che il suo riempimento e funzionamento possano compromettere l’approvvigionamento idrico e, di conseguenza, la stabilità economica e sociale del paese. Nonostante anni di negoziati, non è stato raggiunto un accordo vincolante tra Egitto, Sudan ed Etiopia sulla gestione della diga, e il completamento del quarto riempimento da parte dell’Etiopia nel settembre 2023 ha ulteriormente inasprito le tensioni, con il Cairo che ha definito l’azione “illegale” e unilaterale.

In questo contesto, l’interesse di attori regionali come Israele e la Turchia aggiunge ulteriori strati di complessità. Israele ha mostrato un crescente interesse nel rafforzare i legami con l’Etiopia, offrendo assistenza tecnologica e supporto diplomatico. Questo coinvolgimento può essere interpretato come una strategia per aumentare la propria influenza nella regione e per bilanciare le relazioni con l’Egitto. D’altro canto, la Turchia, sotto la leadership di Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di espandere la sua presenza in Africa orientale attraverso accordi economici e cooperazione militare, mirando a consolidare la sua posizione come potenza regionale.

È interessante notare che sia l’Egitto che l’Etiopia hanno recentemente aderito ai BRICS, un gruppo di economie emergenti che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’adesione ai BRICS potrebbe offrire a entrambi i paesi una piattaforma per negoziare e risolvere le loro divergenze in un contesto multilaterale, sfruttando le opportunità economiche e diplomatiche offerte dal gruppo. Tuttavia, la Turchia, pur avendo espresso interesse ad aderire ai BRICS, non è ancora membro a pieno titolo, il che potrebbe limitare la sua influenza nelle dinamiche interne al gruppo.

Alla luce di queste dinamiche, emerge una domanda cruciale: le manovre di Israele e Turchia nel contesto della GERD sono semplici mosse tattiche per aumentare la loro influenza regionale, o fanno parte di una strategia più ampia per mettere sotto pressione l’Egitto, già indebolito economicamente, e ridurre il suo ruolo nel conflitto siriano?

HTS e il “Califfato Siriano”

Con la rapida avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e il crollo del regime di Assad, il panorama del nord-ovest siriano si è trasformato in un mosaico frammentato, dominato da questa potente formazione jihadista. HTS, sotto la guida di Abu Mohammad al-Julani, ha consolidato il controllo su Damasco e gran parte della Siria settentrionale, aprendo la strada a un progetto di “califfato siriano” che si presenta come una minaccia diretta alla stabilità regionale.

Le risorse militari di HTS appaiono impressionanti e non sono il risultato solo di saccheggi o appropriamenti locali. Diverse fonti indicano come parte dell’arsenale sia riconducibile ad armamenti provenienti da reti clandestine di traffico, con armi leggere e munizioni che avrebbero origini giordane. Secondo alcune ricostruzioni, le armi destinate originariamente ad attori legittimi durante le fasi iniziali del conflitto — comprese quelle fornite tramite programmi occidentali di supporto ai ribelli moderati — sarebbero finite nelle mani di HTS, alimentando la loro capacità bellica.

Premetto che indugerò sulla figura del Fidel dei Sunniti e sul ruolo giordano in vista di un’inchiesta che seguirà a breve. Alcuni analisti, e parzialmente concordo con loro, reputano inconsistente la “massa” cinetica militare degli islamisti per uno strike completo delle forze di Assad. Io penso sia parzialmente vero. Né senza l’ammorbidimento sotterraneo delle forze di intelligence avverse, né senza i “partners” finanziatori dell’operazione si sarebbe potuto fare jackpot.

Con onestà intellettuale ammetto che probabilmente è buona responsabilità — di cui un buon 50% riconducibile all’embargo e al furto di risorse Usa e turco — dell’ormai disciolta Repubblica Siriana, da troppi anni pallido simulacro del sogno baathista della dinastia fondata da Assad padre, umiliato anche dopo la morte dal carosello macabro degli jihadisti sul suo sepolcro, dato alle fiamme dopo aver “canniBaalizato” i marmi preziosi.

Un rito pagano che i più occulti esoteristi, seguaci di Aleister Crowley, avranno celebrato in qualche dimora vittoriana dello Lincolnshire o dondolando nel patio “bianchissimo” di fronte alle colonne in stile coloniale di qualche esclusiva villa d’oltreoceano (con buona pace dei complottisti, senza se e senza ma, di YouTube).

Approfondisco per apportare fonti alle mie affermazioni e rendere l’idea della difficoltà oggettiva di far fronte a limitazioni realisticamente draconiane.

 

Sanzioni Occidentali (Make Siria poor, again and again)

 

Le misure adottate dai Paesi occidentali nei confronti del governo siriano si configurano come una strategia di pressione multilivello, con effetti profondi e spesso devastanti sull’economia nazionale e sulla capacità del regime di mantenere il controllo politico e militare. Tali provvedimenti, combinati a una situazione geopolitica già compromessa, hanno contribuito a delineare uno scenario di fragilità sistemica.

In primo luogo, spicca l’isolamento quasi totale della Banca Centrale Siriana dal circuito finanziario internazionale, una misura che ha bloccato le capacità di finanziamento del governo, riducendo drasticamente la possibilità di avviare progetti di ricostruzione o di ammodernare le forze armate. Questa limitazione si accompagna al congelamento dei beni e dei conti correnti riconducibili a l’élite politica e militare del regime, indebolendo ulteriormente le reti clientelari che storicamente costituiscono una delle colonne portanti del potere in Siria.

Un ulteriore colpo è stato inferto dalla proibizione di importare petrolio e relativi derivati, una misura che ha impedito a Damasco di convertire i proventi degli idrocarburi in valuta pregiata. La Siria, tradizionalmente dipendente dalle esportazioni petrolifere, si è trovata costretta a dipendere in misura crescente dagli aiuti esterni, con una progressiva riduzione delle sue capacità di autofinanziamento.

A rendere ancora più complicata la gestione del conflitto interno e della crisi economica vi sono le restrizioni imposte sull’export di tecnologie “dual use”. Questi vincoli limitano l’accesso a componenti essenziali per la manutenzione e l’ammodernamento delle Forze Armate, dei sistemi d’arma e degli apparati di sorveglianza elettronica. Il risultato è un esercito sempre meno efficace, con infrastrutture logistiche che si avvicinano progressivamente al collasso.

Il quadro è ulteriormente aggravato dalle sanzioni secondarie, che penalizzano chiunque intrattenga rapporti con soggetti siriani già colpiti dalle misure internazionali. Questo meccanismo alimenta un effetto domino di deterrenza che scoraggia potenziali partner commerciali e diplomatici, isolando ulteriormente il Paese.

Secondo diversi report (U.S. Department of the Treasury – Syrian Sanctions Program; Council of the European Union – Syria: EU Sanctions; HRW – Syria: Impact of Sanctions), tali disposizioni hanno eroso progressivamente le risorse del governo siriano, compromettendo il mantenimento delle strutture militari e amministrative.

A fronte di ciò, la capacità di contrastare le milizie jihadiste e di gestire le dinamiche interne è stata drasticamente ridotta. In questo contesto, è emerso un assetto bellico frammentato, in cui attori esterni e forze jihadiste hanno trovato terreno fertile per espandere la loro influenza, colmando il vuoto lasciato dal regime.

Le sanzioni, concepite per indebolire un regime già isolato, hanno così finito per accentuare una spirale di instabilità. Se da un lato hanno limitato la capacità di manovra del governo di Assad, dall’altro hanno contribuito a lasciare campo aperto alle potenze regionali e alle milizie jihadiste, aggravando una situazione che si presenta oggi come uno dei nodi geopolitici più complessi del Medio Oriente.

 

Fonti documentali delle sanzioni alla Repubblica Araba Siriana

  • U.S. Department of the Treasury – Syrian Sanctions Program

Documenta le disposizioni in vigore, comprese le sanzioni secondarie e il “Caesar Act”.

  • Council of the European Union – Syria: EU sanctions

Elenca i diversi atti normativi dell’UE contro funzionari e comparti industriali siriani.

  • HRW (Human Rights Watch) – Syria: Impact of Sanction

Analisi dell’effetto delle misure sul tessuto sociale ed economico siriano, incluse le criticità per l’accesso a beni di prima necessità.

La Russia e il Ritiro: Tra Pragmatismo e Nuove Opportunità

Il rapido crollo del governo di Bashar al-Assad ha imposto alla Russia una ricalibrazione delle sue strategie in Siria. Di fronte a un panorama geopolitico mutato, Mosca ha avviato un ritiro ordinato dalle basi avanzate, ridistribuendo le sue forze verso il mare e le due basi principali. Questo ridimensionamento sembra rispondere non solo a necessità operative, ma anche al chiaro intento di evitare un coinvolgimento prolungato e infruttuoso in un conflitto che sta sfuggendo a qualsiasi controllo centralizzato.

Le immagini satellitari hanno documentato smontaggi logistici di infrastrutture militari, incluso il trasferimento di elicotteri dalle basi avanzate a Hmeimim. Contemporaneamente, i voli degli Ilyushin Il-76, aerei cargo pesanti, continuano a imbarcare mezzi blindati, artiglieria e altri equipaggiamenti pesanti, segnalando un’azione pianificata e sistematica di ripiegamento. Questo movimento non rappresenta un abbandono totale della Siria, ma piuttosto una razionalizzazione delle risorse, con l’obiettivo di concentrare la presenza russa nei punti nevralgici e ridurre al minimo l’esposizione a rischi non necessari.

Parallelamente, alcune fonti anonime suggeriscono che Mosca stia mantenendo canali di comunicazione discreti con Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) per garantire che non si verifichino incidenti fortuiti che potrebbero innalzare la tensione. Sebbene tali contatti non siano confermati ufficialmente, appaiono coerenti con l’approccio pragmatico del Cremlino, che preferisce prevenire eventuali provocazioni piuttosto che dover rispondere con azioni militari in un momento in cui le priorità russe sembrano essere altrove.

Un Capitolo Libico per Mosca?

La domanda che emerge è inevitabile: la Russia sta preparando un nuovo capitolo operativo in Libia? Con il generale Khalifa Haftar che continua a offrire ospitalità strategica alle forze russe, la Libia rappresenta un’opportunità unica per Mosca. In un contesto relativamente meno caotico rispetto alla Siria e con evidenti prospettive economiche legate ai giacimenti energetici, il teatro libico potrebbe essere la nuova priorità per il Cremlino. Un disimpegno graduale dalla Siria potrebbe essere interpretato non come una sconfitta, ma come un riallineamento strategico, che riflette la volontà di concentrare le risorse russe su contesti dove esiste un ritorno geopolitico più immediato e gestibile.

La ritirata verso Tartus e Hmeimim non è solo una necessità logistica, ma una scelta strategica. Con Assad fuori dai giochi e la frammentazione del territorio siriano ormai conclamata, la permanenza prolungata in Siria rischierebbe di trasformarsi in una trappola logorante. Ogni giorno in più aumenta la probabilità di episodi fortuiti o provocazioni intenzionali, che potrebbero costringere Mosca a risposte che non è in grado di sostenere senza conseguenze politiche o militari.

Il ritiro russo, dunque, non è un segnale di debolezza, ma di pragmatismo. Analizzeremo nei prossimi approfondimenti i retroscena e quella inesauribile predisposizione all’adattamento liquido della cultura diplomatica e militare di Mosca e della sua ineluttabile tradizione nell’implementazione dei piani B. Se la Libia diventerà davvero il prossimo teatro operativo per la Russia, il Cremlino dovrà dimostrare di aver imparato dalla complessa esperienza siriana, trasformando il disimpegno in un’opportunità per rafforzare la propria influenza in una regione altrettanto strategica.

In Libia, la Russia ha saputo costruire una presenza strategica significativa, rafforzando i legami con il Generale Khalifa Haftar, figura centrale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA). Le sue forze, ufficiali o meno, sono state coinvolte nel consolidamento del controllo su aree chiave come Bengasi e la Mezzaluna Petrolifera, regioni cruciali per le ricchezze energetiche del paese. Attraverso basi operative come Al-Jufra, Mosca ha garantito un punto di appoggio nel cuore del conflitto libico, utilizzando la Libia non solo come piattaforma per proiettare influenza nel Mediterraneo, ma anche come nodo di accesso a risorse e rotte strategiche.

In verità qualcosa mi suggerisce che le due basi principali della Siria siano ancora sul tavolo e la grande saggezza pragmatica combinata a una buona dose di opportunismo , cammuffato da scaltrezza di Mosca potrebbe ancora salvare il salvabile , distribuendo l’equipaggiamento e gli uomini dragati dalle basi minori abbandonate nella zona Orientale del paese verso le coste Libiche.Vedremo se sarete voi a pagarmi la birra o , sarò io a finire rovinato per aver perso la scommessa.

 

Uno scenario possibile ?

L’ipotesi di un coordinamento segreto per lanciare l’offensiva jihadista da Idlib dopo l’intesa di cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah è forse la parte più inquietante di questa vicenda, suggerendo che l’orologio della guerra in Siria non abbia mai veramente smesso di ticchettare e che a detta di molti era già stata progettata da tempo. Indizio è il tempismo maniacale considerando la crisi dell’“ancien régime” sul fronte del Donbass dove tutte linee rosse immancabilmente superate suggeriscono che anche questo tavolo secondario in verità non sia altro che una conseguenza di quello principale, nel quale sono in gioco anche le nostre insignificanti vite di questa partita con il nostro daemon più oscuro.

In questa partita di texano chiamata “Il pranzo di Babele”, dove tra gambler immortali, cabalisti e bluffatori emuli di Ataturk, credo che alla fine, come la mia esperienza di giocatore di poker, solito nel contare le carte mi insegna, vince chi non gioca.

Sono sicuro che avrete capito chi stia aspettando la mano giusta. Ma da qualche tempo, timidamente, il banco ha smesso di vincere, quasi sempre.

Anarmygeddon 23

 

Fonti, riferimenti, storici e media agency

  • Al-Masdar News – aggiornamenti quotidiani sulla situazione siriana.
  • Syria Live Map – piattaforma di mappatura in tempo reale dei conflitti.
  • Andrei Kolesnikov, “Io, comandante Wagner” – testimonianza parziale su Wagner in Siria.
  • Elijah J. Magnier – analisi e reportage su Hezbollah e conflitti nel Levante.
  • Moon of Alabama (MoA) – osservazioni e discussioni sulle dinamiche internazionali in Siria.
  • BBC Monitoring / Reuters – notizie sulle visite di Hakan Fidan, Ronen Bar e Mark Rutte ad Ankara.

 

Link citati:

  1. Aljazeera: Filling of Grand Ethiopian Renaissance Dam

https://www.aljazeera.com/news/2023/9/10/filling-of-grand-renaissance-dam-on-the-nile-complete-ethiopia-says

  1. ISPI Online: Egitto sotto pressione da Gaza al Corno d’Africa

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/egitto-sotto-pressione-da-gaza-al-corno-dafrica-184375

  1. Geopolitica.info: Relazione Turchia-Israele Erdogan

https://www.geopolitica.info/relazione-turchia-israele-erdogan/

  1. Focus on Africa: Turchia in Etiopia come accesso all’Africa

https://www.focusonafrica.info/etiopia-lavanzata-della-turchia-come-accesso-per-lafrica/

  1. Notizie Geopolitiche: Etiopia, tensioni con l’Egitto per la diga GERD

https://www.notiziegeopolitiche.net/etiopia-crescono-le-tensioni-con-legitto-per-la-diga-gerd/

  1. Il Sole 24 Ore: Turchia verso i BRICS

https://www.ilsole24ore.com/art/turchia-siamo-stati-invitati-essere-partner-brics-AGzG206

  1. CESI Italia: La Turchia e i BRICS

https://www.cesi-italia.org/it/articoli/la-turchia-verso-i-brics-prospettive-e-opportunita-economiche

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SOTTO A TIK TOK – Golpe Romeno ? Georgia Colorata -TRACCE DI CLASSE -SEMOVIGO – GERMINARIO-

Le democrazie a suon di colpi di stato; il bene imposto; la comunicazione che sostituisce l’informazione. Cambia la grammatica dell’esercizio del potere in Europa, ma cadono con essa le maschere che legittimano l’operato delle élites europee. Sempre più evidente che il conflitto politico che affligge gli Stati Uniti si allargherà qui in Europa e avrà nelle attuali élites europee e presenti in Europa uno dei capisaldi delle proprie politiche oltranziste, guerrafondaie e di tragica regressione economica e sociale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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UCRAINA, RUSSIA AVANZA 72a puntata! SIRIA BASI RUSSE CIRCONDATE- MAX BONELLI C SEMOVIGO-G GERMINARIO

SIRIA BASI ACCERCHIATE , DONBASS RUSSIA AVANZA . In Ucraina, in un contesto di lenta avanzata russa, l’area di Toresk sembra essere l’attuale punto debole della difesa ucraina. In Siria il colpo subito dalla Russia è serio, ma al momento non del tutto irrimediabile. Tutto dipenderà da come si risolverà il confronto, anche militare, tra le varie fazioni vittoriose sul regime di Assad. Le cause profonde del collasso del regime risiedono nella incapacità di ricomporre il frazionamento etnico-sociale della comunità siriana e di ricostruire nei pochi anni di relativa tregua una ossatura credibile dell’esercito, reale perno fondatore di quel sistema di potere. E’ mancato il sostegno economico degli alleati, in particolare della Cina, necessario alla ricostruzione e a sopperire al peso delle sanzioni. Nell’immediato il regime è caduto nel dilemma tra un sostegno militare aperto ad Hezbollah e all’Iran, probabilmente con l’apertura di un terzo fronte contro Israele sul Golan, la concessione alle pressanti richieste di Erdogan e una ricucitura dei rapporti con i paesi della penisola arabica. Da qui il sorprendente voltafaccia dei vari reparti dell’esercito. L’Ucraina rimane, comunque, il fronte strategico dal quale Putin non può distrarre l’attenzione e dal quale intende e può ottenere i maggiori risultati. Il resto sono focolai che, però, in futuro potranno rivelarsi gli anelli deboli di una unica catena. Gli avversari non sono, comunque, in una condizione migliore. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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SIRIA VERSO L’IGNOTO ? CON ROBERTO IANNUZZI L’ANALISI DI UNA FINE ANNUNCIATA-SEMOVIGO-GERMINARIO

FACCIAMO LUCE SUGLI EVENTI CHE HANNO PORTATO ALL’EPILOGO LA SIRIA E LA DINASTIA DEGLI ASSAD IN UN INTERVISTA A ROBERTO IANNUZZI , UNO DEI MAGGIORI ESPERTI GEOPOLITICI DELL’AREA MEDIO ORIENTALE . Al momento della pubblicazione di questo filmato, il regime di Assad è giunto al suo epilogo, con l’appendice tragica della probabile uccisione dell’ex-presidente in fuga da Damasco. A poco più di un mese dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca stiamo assistendo a drammatici sconvolgimenti sino a svestire i comportamenti delle vecchie leadership di ogni maschera di presentabilità. Siamo all’esibizione nuda e cruda del potere e della coercizione. Qualche tentativo di ricondurre i fatti più salienti e drammatici in qualche canale diplomatico e in una transizione meno caotica è ancora in atto. Vedremo se i vertici di Doha e Astana porteranno a qualche esito controllato. Permane, comunque, una costante in tutti questi tentativi degli ultimi anni. L’assenza del convitato di pietra, gli Stati Uniti! Il modo di lasciarsi le mani libere nelle proprie scorribande così nefaste. Roberto Iannuzzi è titolare del sito https://substack.com/@robertoiannuzzi? Giuseppe Germinario

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SIRIA:MAPPE TATTICHE-TARTUS/HOMS SOTTO ATTACCO-Tracce di Classe-Gabriele Germani-Semovigo-Germinario

Le colonne degli islamisti avanzano verso la periferia di Homs , nei comunicati si ricomincia a parlare di stato islamico .L’esercito Siriano si sta riorganizzando lentamente mentre l’aviazione Russa martella senza sosta fronte e retrovie . Droni ed esplosioni nei pressi delle basi russe di Tartus e Tiyas . Con Tracce di Classe e Gabriele Germani analizziamo le mappe tattiche e i risvolti geopolitici . Domani seguiranno aggiornamenti . Un nuovo format di Italia e il Mondo . Siria uno scenario drammatico in velocissima evoluzione . Mentre Iran e Iraq annunciano aiuti militari , le milizie Isis , FSA, Ahrar al-Sham continuano ad avanzare mentre centinaia di migliaia di civili fuggono verso sud . Le navi russe abbandonano il porto . Sotto l’icona del filmato, la traduzione di un articolo di Craig Murray _ Cesare Semovigo

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La fine del pluralismo in Medio Oriente 116


Un cambiamento veramente sismico in Medio Oriente sembra stia avvenendo molto rapidamente. Al centro c’è un patto del diavolo: la Turchia e gli Stati del Golfo accettano l’annientamento della nazione palestinese e la creazione di un Grande Israele, in cambio dell’annientamento delle minoranze sciite di Siria e Libano e dell’imposizione del salafismo in tutto il mondo arabo orientale.

Questo significa anche la fine delle comunità cristiane del Libano e della Siria, come testimoniano l’abbattimento di tutte le decorazioni natalizie, la distruzione di tutti gli alcolici e l’imposizione forzata del velo alle donne di Aleppo.

Ieri i jet statunitensi Warthog aria-terra hanno attaccato e gravemente ridotto i rinforzi che, su invito del governo siriano, erano in viaggio verso la Siria dall’Iraq. I costanti e quotidiani attacchi aerei israeliani alle infrastrutture militari siriane per mesi sono stati un fattore importante nella demoralizzazione e nella riduzione della capacità dell’Esercito Arabo Siriano del governo siriano, che è semplicemente evaporato ad Aleppo e Hama.

È molto difficile vedere la svolta in Siria. I russi ora devono o rafforzare massicciamente le loro basi siriane con truppe di terra o evacuarle. Di fronte alle esigenze dell’Ucraina, potrebbero fare quest’ultima scelta, e si dice che la marina russa sia già salpata da Tartus.

La velocità del collasso della Siria ha colto tutti di sorpresa. Se la situazione non si stabilizza, Damasco potrebbe essere assediata e l’ISIS tornare sulle colline sopra la valle della Bekaa entro una settimana, data la velocità della loro avanzata e le brevi distanze coinvolte.

Un nuovo attacco israeliano al Libano meridionale in coincidenza con un’invasione salafita della valle della Bekaa sembrerebbe allora inevitabile, poiché gli israeliani vorrebbero ovviamente che il loro confine con il nuovo vicino della Grande Siria di stampo talebano fosse il più a nord possibile. Potrebbe essere una corsa per Beirut, a meno che gli americani non abbiano già organizzato chi se la prenderà.

Non è una coincidenza che l’attacco alla Siria sia iniziato il giorno del cessate il fuoco tra Libano e Israele. Le forze jihadiste non vogliono essere viste combattere a fianco di Israele, anche se combattono contro forze che sono state bombardate senza sosta da Israele e, nel caso di Hezbollah, sono esauste di combattere contro Israele.

Il Times of Israel non si fa scrupolo di dire la parte silenziosa ad alta voce, a differenza dei media britannici:

In realtà i media israeliani stanno dando molta più verità sulle forze ribelli siriane rispetto ai media britannici e americani in questo momento. Questo è un altro articolo del Times of Israel:

Mentre l’HTS si è ufficialmente separato da Al Qaeda nel 2016, rimane un’organizzazione jihadista salafita designata come organizzazione terroristica negli Stati Uniti, nell’UE e in altri Paesi, con decine di migliaia di combattenti.

La sua improvvisa impennata solleva il timore che un’eventuale presa di controllo della Siria possa trasformarla in un regime islamista di stampo talebano, con ripercussioni per Israele al confine sud-occidentale. Altri, invece, vedono l’offensiva come uno sviluppo positivo per Israele e un ulteriore colpo all’asse iraniano nella regione.

I media britannici, che dal the Telegraph e l’Express al Guardian hanno promosso la narrazione ufficiale secondo cui non solo le stesse organizzazioni, ma anche le stesse persone responsabili di torture ed esecuzioni di massa di non sunniti, compresi i giornalisti occidentali, sono ora teneri liberali.

Nessuno di questi casi è più evidente di quello di Abu Mohammad Al-Jolani, a volte scritto Al-Julani o Al-Golani, che ora viene promosso dai media occidentali come leader moderato. Era il vice leader dell’ISIS e la CIA ha messo una taglia di 10 milioni di dollari sulla sua testa! Sì, la stessa CIA che lo finanzia, lo equipaggia e gli fornisce supporto aereo.

I sostenitori dei ribelli siriani tentano ancora di negare il sostegno israeliano e statunitense – nonostante il fatto che quasi un decennio fa negli Stati Uniti ci sia stata una testimonianza aperta del Congresso che, fino a quel momento, oltre mezzo miliardo di dollari era stato speso per l’assistenza alle forze ribelli siriane, e gli israeliani hanno apertamente fornito servizi medici e di altro tipo ai jihadisti e un efficace supporto aereo.

Una conseguenza interessante di questo sostegno congiunto NATO/Israele ai gruppi jihadisti in Siria è un’ulteriore perversione dello Stato di diritto interno. Per fare un esempio nel Regno Unito, in base alla Sezione 12 del Terrorism Act è illegale esprimere un’opinione che sostenga, o possa indurre qualcun altro a sostenere, un’organizzazione proibita.

L’abuso di questa disposizione da parte della polizia britannica per perseguitare i sostenitori palestinesi per aver presumibilmente incoraggiato il sostegno alle organizzazioni proibite Hamas e Hezbollah è noto, con presunti riferimenti anche tangenziali che portano all’arresto. Sarah Wilkinson, Richard Medhurst, Asa Winstanley, Richard Barnard e il sottoscritto sono tutte vittime illustri, e la persecuzione è stata notevolmente intensificata da Keir Starmer.

Anche Hay’at Tahrir Al-Sham (HTS) è un gruppo proscritto nel Regno Unito. Ma sia i media mainstream britannici che gli outlet musulmani britannici hanno apertamente promosso e elogiato HTS per una settimana – francamente molto più apertamente di quanto abbia mai visto qualcuno nel Regno Unito sostenere Hamas e Hezbollah – e nessuna persona è stata arrestata o anche solo avvertita dalla polizia britannica.

Questo è di per sé il più forte degli indizi che i servizi di sicurezza occidentali sono pienamente dietro l’attuale attacco alla Siria.

Per la cronaca, penso che sia una legge spaventosa, e nessuno dovrebbe essere perseguito per aver espresso un’opinione in qualsiasi modo. Ma l’applicazione politicamente distorta della legge è innegabile.

Quando l’intera società e i media statali in Occidente diffondono una narrazione unificata secondo cui i siriani sono felicissimi di essere stati liberati dall’HTS dalla tirannia del regime di Assad – e non dicono nulla delle torture e delle esecuzioni di sciiti che le accompagnano, e della distruzione delle decorazioni e delle icone natalizie – dovrebbe essere ovvio a tutti da dove viene questo.

Eppure – e questa è un’altra ripercussione interna al Regno Unito – un numero molto consistente di musulmani nel Regno Unito sostiene l’HTS e i ribelli siriani, a causa dei finanziamenti pompati nelle moschee britanniche da fonti salafite e emiratine. Questo si allea all’influenza dei servizi di sicurezza britannici esercitata anche attraverso le moschee, sia attraverso programmi di sponsorizzazione e “think tank” che beneficiano i leader religiosi approvati, sia attraverso l’esecrabile programma coercitivo Prevent.

Gli outlet musulmani britannici che sono stati apparentemente pro-palestinesi – come Middle East Eye e 5 Pillars – sostengono con entusiasmo gli alleati siriani di Israele nel garantire la distruzione della resistenza al genocidio dei palestinesi. Al Jazeera alterna articoli che descrivono i terribili massacri in Palestina ad articoli che esaltano i ribelli siriani che hanno portato il dominio di Israele in Siria.

Tra i meccanismi che impiegano per conciliare tutto ciò c’è il rifiuto di riconoscere il ruolo vitale della Siria nel consentire la fornitura di armi dall’Iran a Hezbollah. In ultima analisi, per molti musulmani sunniti, sia in Medio Oriente che in Occidente, sembra essere più forte l’odio settario verso gli sciiti e l’imposizione del salafismo, piuttosto che impedire la distruzione definitiva della nazione palestinese.

Non sono musulmano. I miei amici musulmani sono quasi interamente sunniti. Personalmente, ritengo che la continua divisione sulla leadership della religione, avvenuta più di un millennio fa, sia profondamente inutile e fonte di odio continuo e non necessario.

Ma come storico so che le potenze coloniali occidentali hanno consapevolmente ed esplicitamente usato la divisione tra sunniti e sciiti per secoli per dividere e governare. Negli anni Trenta del XIX secolo, Alexander Burnes scriveva relazioni su come utilizzare la divisione nel Sind tra governanti sciiti e popolazioni sunnite per favorire l’espansione coloniale britannica.

Il 12 maggio 1838, nella sua lettera da Simla in cui esponeva la decisione di lanciare la prima invasione britannica dell’Afghanistan, il governatore generale britannico Lord Auckland includeva piani per sfruttare la divisione sciiti/sciiti sia nel Sind che in Afghanistan per favorire l’attacco militare britannico.

Le potenze coloniali lo hanno fatto per secoli, le comunità musulmane continuano a cascarci e gli inglesi e gli americani lo stanno facendo proprio ora per favorire il loro rimodellamento del Medio Oriente.

In poche parole, a molti musulmani sunniti è stato fatto il lavaggio del cervello per far sì che odiassero i musulmani sciiti più di quanto odiassero coloro che attualmente stanno commettendo il genocidio di una popolazione a stragrande maggioranza sunnita a Gaza.

Mi riferisco al Regno Unito perché ne sono stato testimone in prima persona durante la campagna elettorale a Blackburn. Ma lo stesso vale in tutto il mondo musulmano. Nessuno Stato a guida musulmana sunnita ha mosso un solo dito per impedire il genocidio dei palestinesi.

La loro leadership sta usando il settarismo anti-sciita per mantenere il sostegno popolare a un’alleanza di fatto con Israele contro gli unici gruppi – Iran, Houthi ed Hezbollah – che hanno effettivamente tentato di dare ai palestinesi un sostegno concreto nella resistenza. E contro il governo siriano che ha facilitato l’approvvigionamento.

Il patto non detto ma molto reale è questo. Le potenze sunnite accetteranno la cancellazione dell’intera nazione palestinese e la formazione di un Grande Israele, in cambio dell’annientamento delle comunità sciite in Siria e in Libano da parte di Israele e delle forze sostenute dalla NATO (compresa la Turchia).

Ci sono, ovviamente, contraddizioni in questa grande alleanza. È improbabile che gli alleati curdi degli Stati Uniti in Iraq siano contenti della distruzione da parte della Turchia dei gruppi curdi in Siria, che è ciò che Erdoğan guadagna dal ruolo militare molto attivo della Turchia nel rovesciare la Siria – oltre a estendere il controllo turco dei giacimenti petroliferi.

Il governo iracheno, favorevole all’Iran, avrà ulteriori difficoltà a conciliare la continua occupazione statunitense di vaste aree del suo Paese, poiché si renderà conto di essere il prossimo obiettivo.

L’esercito libanese è sotto il controllo degli Stati Uniti e Hezbollah deve essere stato molto indebolito per aver accettato il disastroso cessate il fuoco con Israele. Le milizie cristiano-fasciste tradizionalmente alleate di Israele sono sempre più visibili in alcune zone di Beirut, anche se è lecito chiedersi se sarebbero così stupide da fare causa comune con i jihadisti del Nord. Ma se la Siria dovesse cadere interamente sotto il dominio jihadista – cosa che potrebbe accadere rapidamente – non escludo che il Libano possa seguirla molto rapidamente ed essere integrato in una Grande Siria salafita.

Come reagirebbero i palestinesi di Giordania a questa disastrosa svolta degli eventi, è difficile esserne certi. Il Regno hashemita, fantoccio britannico, è la destinazione designata per i palestinesi della Cisgiordania ripuliti etnicamente secondo il piano della Grande Israele.

Quello che potenzialmente tutto questo rappresenta è la fine del pluralismo nel Levante e la sua sostituzione con il suprematismo. Una Grande Israele etno-supremacista e una Grande Siria salafita religiosa.

A differenza di molti lettori, non sono mai stato un fan del regime di Assad o cieco alle sue violazioni dei diritti umani. Ma ciò che ha innegabilmente fatto è stato mantenere uno Stato pluralista in cui le più sorprendenti tradizioni religiose e comunitarie storiche – tra cui sunniti (e molti sunniti sostengono Assad), sciiti, alauiti, discendenti dei primi cristiani e parlanti l’aramaico, la lingua di Gesù – sono state tutte in grado di coesistere.

Lo stesso vale per il Libano.

Quello a cui stiamo assistendo è la distruzione di tutto ciò e l’imposizione di un governo in stile saudita. Tutte le piccole cose culturali che indicano il pluralismo – dagli alberi di Natale ai corsi di lingua, dalla produzione di vino alle donne che si svelano – sono appena state distrutte ad Aleppo e potrebbero esserlo da Damasco a Beirut.

Non pretendo che non ci siano autentici democratici liberali tra l’opposizione ad Assad. Ma hanno un’importanza militare trascurabile e l’idea che possano essere influenti in un nuovo governo è un’illusione.

In Israele, che pretendeva di essere uno Stato pluralista, la maschera è caduta. Il richiamo alla preghiera dei musulmani è stato appena vietato. I membri della minoranza araba della Knesset sono stati sospesi per aver criticato Netanyahu e il genocidio. Ogni giorno vengono costruiti altri muri e cancelli, non solo nei territori occupati illegalmente, ma anche nello stesso “Stato di Israele”, per imporre l’apartheid.

Confesso che una volta avevo l’impressione che Hezbollah fosse di per sé un’organizzazione religioso-supremacista; l’abbigliamento e lo stile della sua leadership sembrano teocratici. Poi sono venuto qui e ho visitato luoghi come Tiro, che è stata sotto il governo locale eletto da Hezbollah per decenni, e ho scoperto che i costumi da bagno e l’alcol sono consentiti sulla spiaggia e il velo è facoltativo, mentre ci sono comunità cristiane completamente indisturbate.

Ora non vedrò mai Gaza, ma mi chiedo se sarei stato altrettanto sorpreso dal governo di Hamas.

Sono gli Stati Uniti a promuovere la causa dell’estremismo religioso e della fine, in tutto il Medio Oriente, di un pluralismo sociale simile alle norme occidentali. Questa è ovviamente una conseguenza diretta del fatto che gli Stati Uniti sono alleati dei due centri religiosi suprematisti di Israele e dell’Arabia Saudita.

Sono gli Stati Uniti a distruggere il pluralismo, mentre sono l’Iran e i suoi alleati a difendere il pluralismo. Non l’avrei visto chiaramente se non fossi venuto qui. Ma una volta visto, è di un’evidenza accecante.

Beirut 6 dicembre 2024

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Marcello Foa su “l’Europa nello scontro politico statunitense” Con Gianfranco Campa

Le importanti e pesanti implicazioni dell’acceso, virulento conflitto politico statunitense in Europa. Le nomine destinate a rivoluzionare e governare i centri amministrativi e di potere rivelano più di tante parole le intenzioni della nuova presidenza Trump. Le élites europee, nella loro maggioranza, pur in condizione precaria, paiono trepidanti e tremebonde, spinte come sono da una hubris autodistruttiva e cieca che non corrisponde, per altro, ad una reale forza ed autorevolezza espressa sul campo. Il perentorio discorso di Putin, pubblicato sul nostro sito https://italiaeilmondo.com/2024/11/22/dichiarazione-del-presidente-della-federazione-russa/ e la notizia di un patto di reciproca difesa tra Moldova e Gran Brentagna, apparsi mentre registriamo la conversazione, sono l’ulteriore conferma dell’avventurismo di una e della determinazione dell’altra parte. Due mesi negli States e un anno in Europa terribili concitati che determineranno un cambio di rotta o la discesa verso una tragedia fondata sull’azzardo. Ne parliamo con Gianfranco Campa e Marcello Foa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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REPORTAGE LIBANO 1° parte con Elisa Gestri, Cesare Semovigo, Gabriele Germani e Giuseppe Germinario

Il Libano, al momento, sta diventando il punto focale e l’area più esposta ai venti distruttivi innescati dall’operazione del 7 ottobre e dalla violenta e sistematica reazione della leadership israeliana. Un paese composito, punto di incontro e di conflitto di culture e civiltà millenarie entro il quale hanno buon gioco l’influenza e le pressioni di forze esterne ai suoi confini in un’area nella quale i confini statali sono troppo stretti per contenere la rete di relazioni e le commistioni sedimentasi nel corso dei secoli. La maggiore deterrenza ad una deflagrazione distruttiva, coscientemente alimentata soprattutto da parte statunitense, rimane l’incubo di un ritorno della terribile guerra civile degli anni ’80. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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