“Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci) è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono – e si devono – rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell’Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all’Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l’Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri “transnazionali”, dall’altro però pensa che per riuscirvi l’Europa si dovrebbe sganciare dall’America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono “transnazionali” in quanto di necessità “agganciati” a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per “regolare” i rapporti internazionali. D’altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l’Iran o la questione dell’Ucraina o la guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo “solo” con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della “sovranità nazionale” quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o “ideologiche” ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.D’altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l’opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti rappresentava la regola non l’eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una “Internazionale” dei popoli europei. In definitiva oggi essere “inter-nazionalisti” significa sia difendere il “senso di appartenenza” che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all’euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all’imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
Il 28 febbraio si terrà il XXII congresso di Magistratura Democratica. Un buon osservatorio su cosa si muove negli ambienti giudiziari, su quale tipo di investitura intendono attribuirsi e su come intendono influire sulle vicende politiche del paese. Qui il link della relazione del segretario. Un testo particolarmente illuminante http://www.magistraturademocratica.it/congresso/2019/relazione-guglielmi
Augusto Sinagra, già magistrato ed accademico, ora avvocato, con il suo consueto acume ci offre il suo punto di vista su un ruolo così controverso e determinante delle vicende del nostro paese. I magistrati e la magistratura in qualche maniera partecipano sempre del gioco politico tra centri decisionali. Le modalità con le quali però intervengono da almeno trenta anni contribuiscono a destabilizzare sin dalle fondamenta il paese sino ad ostacolare la formazione di una nuova classe dirigente. Intanto l’orologio giudiziario prosegue intermittente. Un nuovo avviso ha raggiunto il Ministro Salvini. Questa volta per vilipendio. Buon ascolto Giuseppe Germinario
Dopo il Partito Democratico ed il Partito Rebubblicano è la volta dei terzi incomodi ad apparire sulla scena delle prossime elezioni presidenziali americane. Potrebbero essere l’ago della bilancia in grado di far pendere decisamente la bilancia a favore di uno dei due candidati principali. Più verso Trump, in caso di una sua ricandidatura, che verso il suo avversario democratico. Non solo! La loro apparizione quantomeno aumenterà le fibrillazioni appena sopite, nella compagine democratica, dall’avversione generale a Trump. La crisi dei due partiti apre comunque la strada verso mete inesplorate in quegli ambienti politici, compresa la possibilità di nuove formazioni. Buon ascolto_Giuseppe Germinario
A valutare la vicenda della Diciotti secondo i parametri (prevalenti nei commenti sui media) dell’ “uno vale uno” e della legalità (egualitaria) si perde solo tempo in discussioni senza senso e senza base. Meglio ragionare in termini a un tempo più realistici e più ordinamentali, e tener conto del pensiero politico-giuridico qualitativamente prevalente.
La questione è se Salvini (ma ormai mezzo governo) debba essere giudicato per aver tenuto la Diciotti e i suoi migranti “a bagno maria” non permettendone lo sbarco. A seconda dell’angolo visuale da cui si guarda la vicenda il tutto può costituire un reato (approccio giuridico-causidico-forenzese) ovvero una misura per la tutela di un interesse azionale (visione politico-ordinamentale). E può essere – e tante volte nella storia lo è stato – entrambi: un reato cioè, ma, al tempo. una misura politicamente opportuna. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando (il quale da giurista e statista se ne intendeva) che se avesse dovuto essere processato per tutti i passaporti falsi che aveva rilasciato da Ministro, avrebbe trascorso in galera tutta la vita. Solo che quei passaporti falsi “s’avevano da dare” per raccogliere le informazioni opportune per vincere la guerra. Ossia a rispettare la legge avrebbe compromesso l’interesse nazionale. E dato che salus rei publicae surtema lex, la via “retta” era (ed è) evidente.
Ciò non toglie che debba esserci un rimedio per conciliare le opposte conseguenze che derivavano dalla prospettiva (visuale) diversa.
Dato che lo Stato democratico-liberale è uno status mixtus che si regge sia sui principi di forma politica che su quelli dello stato borghese, il sistema per conciliare i punti di frizione è stato particolarmente sviluppato. E la giustizia penale sui politici è quella che ha raccolto più interesse anche “mediatico” da qualche secolo. Anzi già da prima Machiavelli scriveva che la giustizia “politica” è opportuna in una repubblica: ma di stare attenti alla composizione dell’organo giudicante “perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”. Dalla riflessione dei teorici dello Stato borghese (Constant per primo) si desume che la giustizia “politica” non può che essere derogatoria: non cioè uguale a quella ordinaria. Ne deriva che secondo Carl Schmitt “il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi…per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza (in cui)… deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenuta il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale”.
Se però tali deroghe e particolarità non sono poste in essere le conseguenze sono:
1) che l’organo competente a decidere diventa un’istanza politica o addirittura l’organo reale di direzione politica (così da ufficio giudiziario diventa autorità politica). Lo Stato non è più uno Stato democratico-rappresentativo, ma uno Justizstaat, ossia uno Stato giurisdizionale. E l’organo deputato alla giustizia politica è quello politicamente più influente come, un tempo il Consiglio dei dieci a Venezia.
2) che se i magistrati costituiscono una burocrazia reclutata per concorso – come avviene, per lo più, nelle democrazie moderne – il carattere democratico-rappresentativo dello Stato va perso. Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.
Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.
A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, “in una cella della prigione della Santé”?
E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente).
Il termine “sovranismo” sino a un paio di anni fa è servito più che altro ad esorcizzare tutti quei tentativi di recuperare nella battaglia politica e nell’analisi teorica il ruolo e la funzione degli stati nazionali. L’evidenza delle dinamiche geopolitiche fondate sull’azione fondamentale di questi, la crisi delle teorie globaliste più radicali e il contestuale ritorno a pieno titolo nel dibattito di queste chiavi di interpretazione hanno concesso piena legittimità a questo termine anche negli ambienti più ostici e riottosi. E’ il ritorno sulla ribalta del “politico” a scapito dell’economicismo e dell’apoliticismo sino ad ora imperanti. Un segnale positivo e promettente, ma foriero anche di indeterminatezze e fraintendimenti; un rimescolamento utile comunque a puntualizzare e sviluppare gli argomenti. Qui sotto il saggio del professor Franco Cardini apparso sul nuovo sito di particolare interesse www.vision-gt.eu_Giuseppe Germinario
Dalla “storia” personale alla storia di una falsa partenza europeista.
Pare che il cuore non invecchi: peccato che invecchi il resto, obiettano i pessimisti. Eppure, sarà un po’ il complesso di Peter Pan che molti vecchietti si portano addosso, sarà la sensazione di un discorso rimasto sospeso, di qualcosa che più che essere fallita è stata tradita e abbandonata, ma quando penso all’Europa mi pare che, per quanto mi riguarda, il tempo si sia fermato. E mi ritrovo ancora al 1965, in quella stanzetta del centro vecchio di Firenze dove una decina di noi, pagandosi mese dietro mese per autotassazione l’affitto “di tasca nostra”, discuteva di Russia e di America, di Nasser e di Fidel Castro, di “terza forza” e di non-allineamento”. Venivamo compatti da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che si caratterizzava per una curiosa schizofrenia: al di là del diffuso e seminnocuo nostalgismo neofascista che per alcuni era una caccia calda e per altri una riserva di voti, esso parlava alla base e per la base un linguaggio ispirato a un radicalismo sociale che sarebbe sembrato forse massimalista allo stesso Bordiga mentre ai vertici (ch’erano quelli ai quali si erano accomodati, se non su poltrone quanto meno su poltroncine e strapuntini, i nostri deputati, i dirigenti locali, gli intrufolati nei vari sottogoverni, i faccendieri politici eccetera) si restava fedeli a un atlantismo opaco, ostinato, che al momento buono nei corridoi del parlamento si traduceva in voti d’appoggio a quel potere costituito che pure, ufficialmente, li faceva sputare addosso dai suoi media (ma allora non si chiamavano così) e manganellare dalla sua polizia. Quanto alla chiamiamola così “ideologia” di partito, ci si fermava a un nazionalismo miope e greve, roba da “Maestrine della Penna Rossa” di de Amicis che avrebbe indignato il vecchio Corradini da quanto era sorpassato: non si andava al di là di Trieste italiana e dell’anticomunismo, e quando noi giovanotti ci ostinavamo a rievocare la nostra più eroica stagione, i fatti d’Ungheria del ’56, gli altri rimanevano tiepidi. Le prospettive europeistiche alle quali allora aderivamo, lontani da quelle del Movimento Federalista e del “Manifesto di Ventotene”, erano semmai quelle di Pierre Drieu La Rochelle che Paul Serant aveva disegnato nella monografia Romanticismo fascista.
Usciti dal MSI nel 1965, aderimmo tutti a Jeune Europe, il movimento fondato dal belga Jean Thiriart – un vecchio sostenitore di Léon Degrelle – che fu tra l’altro il primo a usare sistematicamente e intensivamente del simbolo della “croce celtica”, del quale in seguito i movimenti neofascisti si sono appropriati. Ma Jeune Europe, nonostante in tal modo sia stata qualificata dai mass media, non era affatto un movimento neofascista:
propugnava il concetto di “Nazione Europea” sostenendo che, nonostante il plurilinguismo e il suo carattere – come avrebbe scritto Massimo Cacciari – di “arcipelago” – i popoli europei avevano il diritto storico di adire a un sentimento nazionale così come i nordamericani avevano rivendicato per se stessi il diritto a dirsi “nazione americana”. Jeune Europe sosteneva la necessità storica, per l’Europa, di unirsi cancellando la separazione in “Mondo Libero” e “Mondo Socialista” che con la Cortina di Fero le era stata imposta da USA e URSS e di costituire un solo stato per un solo popolo, indipendente e neutrale (per quanto non equidistante) rispetto alle superpotenze USA e URSS. La parte migliore delle cose frettolosamente elaborate all’interno di Jeune Europe, che si sciolse spontaneamente nel 1969, è confluita poi nel Think Tank guidato da Alain de Benoist, il cui pensiero di “Nuovo Destra”, rielaborato poi in “Nuove Sintesi”, è oggi ripreso con grande libertà e sviluppato nelle riviste “Trasgressioni” e “Diorama Letterario” dirette da un apprezzato universitario specialista di scienza della Politica, il professor Marco Tarchi dell’Università di Firenze.
Non ho finora detto nulla dell’Unione Europea, nata com’è noto dallo sviluppo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) poi trasformatasi in CEE (Comunità Economica Europea) e articolatasi nelle istituzioni della Commissione Europea, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo. Posso adesso dichiarare in tutta serenità e franchezza che nell’UE avevamo riposto speranze e fiducia in quanto ingannati non già dai suoi atti ufficiali – che mai si sono discostati dalla natura economico- finanziaria di essa -, bensì da frequenti dichiarazioni dei suoi rappresentanti, che a lungo hanno fatto credere che esistesse, in prospettiva, la volontà di trasformarla in una realtà politica in qualche modo capace di esprimere una vita statuale, di tipo federativo (di modello tedesco o statunitense) o confederativo (di modello svizzero) che fosse. Insomma, quel che in qualche modo ci auguriamo e continuiamo ad augurarci erano (sono, e restano) gli “Stati Uniti d’Europa”. Bisogna dire che, specie dopo il deplorevole fallimento del decollo di una Costituzione Europea che si è fermata al preambolo scivolando sulla buccia di banana dell’affermazione o meno di “radici cristiani” alla base dell’identità europea e della sua storia, la fiducia nella volontà e nella capacità dell’UE di trasformarsi in una realtà politica è venuta del tutto meno.
Siamo, in altri termini, all’Anno Zero dell’unità politica europea. L’Unione Europea, questa venerabile istituzione che vanta Padri Fondatori quali Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, non ha in fondo fallito ai suoi compiti, in quanto essi sono sempre stati di natura economica e finanziaria; ha conseguito traguardi d’integrazione importante quali l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione di una moneta comune e vari provvedimenti di finanziamento importante di organi ed iniziative quali i programmi universitari Erasmus. Il punto è che i popoli europei hanno sperato per lunghi anni che tutto ciò conducesse anche, in tempi ragionevolmente rapidi, a un’unità politica: Pe essa, com’è noto, sono necessari quattro elementi: la “bandiera”, vale a dire l’identità politica istituzionale”; la “toga”, vale a dire quella giuridica e giurisdizionale”, la “spada”, vale a dire il sistema comunitario di difesa”; la “moneta”, vale a dire una valuta unica. Solo il quarto di questi elementi esiste oggi: ed è garantito dalla Banca Centrale Europea, che non è soggetto di diritto pubblico. Si è parlato per lungo tempo, e si parla ancora, di un “esercito europeo”: ma per il momento ci si è limitati a obbligare qualunque stato intenda aderire all’UE ad aderire altresì alla NATO, organizzazione militare alla quale partecipano anche gli USA e che, nata per fronteggiare la potenza sovietica, non ha ancora trovato dopo la dissoluzione di essa il modo di ridefinire e di rilegittimare i suoi obiettivi, restando tuttavia egemonizzata da una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti. Nel corso della “guerra fredda”, e poi durante gli anni che hanno assistito al crescere della preoccupazione per un vero o supposto “problema islamico”, si è fatto strada un comune, crescente sentimento di semi-identificazione tra un’Europa del cui carattere istituzionale di potenza politica non si parlava più e un concetto politico-culturale vago ed ambiguo, l’Occidente.
Giunti quindi all’Anno Zero dell’integrazione europea, riconosciuto cioè che l’unione socioeconomica e sociofinanziaria disegnata dall’UE non ha condotto ad alcuna integrazione politica, e che a questa dobbiamo mirare se non vogliamo cedere al riemergere di sentimenti e d’impulsi micronazionalistici quali si presentano nella forma dei cosiddetti sovranismi, è necessario far chiarezza su che cosa sia l’Europa e che cosa l’Occidente.
Europa e Occidente
E’ problematico il sostenere l’esistenza effettiva di un’identità «occidentale», il proporne l’alterità o la complementarità rispetto a una “orientale” e magari l’identificare sia pur più o meno imperfettamente il concetto di Europa con quello di Occidente e pretendere quindi che esso possa definirsi unicamente nel confronto-scontro con “l’Oriente”, come invece con disinvoltura si tende a fare specie nei paesi della cosiddetta Europa occidentale: espressione essa stessa d’altronde abbastanza vaga, resa chiara e perentoria (e fornita dunque di una sua ingannevole “realtà”, non corrispondente ad alcun oggetto concreto) solo in seguito e a causa degli anni della “guerra fredda” e dell’affrontamento tra paesi aderenti all’Alleanza Atlantica e paesi stretti attorno al Patto di Varsavia.
Poche nozioni sono infatti più infide e scivolose di quella di “Occidente”, tanto più poi nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a metastoricizzarsi. In effetti, il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello di modernità: vero è che gli si sono trovate antiche radici – coincidenti appunto con quelle dell’Europa – facendolo erede della Grecia antica in lotta contro la Persia1 e di quella Cristianità latino-germanica (che in differente misura e in tempi diversi fu anche celtica, slava, baltica, perfino uraloaltaica con ungari e finni) la quale però poteva dirsi “occidentale” – nozione questa che, al puro livello geografico, è, come qualunque altra del suo tipo, eminentemente relativa – in quanto istituzionalmente figlia della pars Occidentís dell’impero romano, ritagliata alla fine del IV secolo da Teodosio per il figlio Onorio. Si è riusciti pertanto ad enucleare un concetto in apparenza univoco di “Occidente” solo a patto di passar sopra alle grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee, quali quella avviata da Alessandro Magno e che da almeno il I secolo a.C. fu assunta a fulcro delle scelte politiche e culturali dell’impero romano: una sintesi che preparò e rese possibile nei tre-quattro secoli successivi il trionfo in tutta l’area ellenistico-romana di una religione nata nel Vicino Oriente per quanto ormai ritrascritta largamente nei termini di una filosofia greca che aveva dal canto suo largamente attinto ai lidi dei misteri egizi, dell’astrologia caldea, della sapienza ebraica e persiana. Ma la vittoria del cristianesimo fu possibile, come ha sostenuto Arnold Toynbee in Il mondo e l’Occidente, in quanto “la minoranza dominante greco-romana che aveva devastato il mondo conquistandolo e saccheggiandolo e ora ne pattugliava le rovine come gendarmeria “autocostituita” era ormai afflitta da inedia spirituale. Il mondo ellenistico-romano aveva bisogno di un Sotèr: e fu l’Oriente a procurargliene uno.
D’altro canto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini, nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava il Novalis, di Cristianità – Chrístenheit oder Europa – non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico- ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai esso stesso, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva profondamente ridefinito. La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” – dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia, aspiravano invece a un equilibrio nuovo, a un mondo rinnovato nel quale Urbs ed Orbs coincidessero e nel quale il
messaggio di Alessandro Magno che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano si traducesse in una nuova sintesi. La linea che oppone Silla e Pompeo da una parte agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare dall’altra è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal cristianesimo) è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna la cancellazione della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposto e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane.2 D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò dal canto suo la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo. Augusto riprendeva, contro Antonio deciso sostenitore della linea di Cesare, quella ch’era stata propria di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati.
All’indomani della prima crociata Fulcherio di Chartres, osservava: “…Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali.. perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?”. E’ evidente che Fulcherio usava le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini “Oriente” e “Occidente”, “orientale” e “occidentale” acquistavano,
nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano. Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come vediamo in alcuni cronisti delle crociate, cresce e si afferma il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si presenterà con virulenza all’atto della quarta crociata.
Ma verso la metà Duecento le conquiste eurasiatiche dei tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto però richiuso su se stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi da un lato, una casuale scoperta compiuta dall’altro grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto. La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni. Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata. Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele. Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza
– fino ad allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo.
Frattanto l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di Cristianità avversa all’Islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle conseguenze della quale forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano consapevoli. L’Europa era propriamente la sede – patria e domus – della Cristianità, identificabile con la christiana religio e pertanto si poteva stimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo, come Enea Silvio aveva già dichiarato nella Prefazione alla Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era già imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare già in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa. Un’identità nella quale tuttavia l’Europa stava per così dire assorbendo la Cristianità, preparando la crociata ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale.
Modernità e processo di globalizzazione
Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latinogermanica (ormai del resto lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il medioevo e quindi non più definibile in quanto “Cristianità latina”), il nostro continente si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i greci (la cultura dei quali è comunemente avvertita ormai, almeno dal Quattro-Cinquecento circa, come la radice profonda di quella europea moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva allora – l’ha definito bene Carl Schmitt – quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme tuttavia da una comune Weltanschauung economicopolitica, quella di un’“economiamondo” l’egemonia all’interno della quale è tuttavia contesa; mentre il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche nessuna delle quali rinunzia al suo ecumenismo ma ciascuna delle quali ha un suo ruolo di fronte allo stato o agli stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono, gli offre il movente nobile (non vogliamo dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi.
Nell’accezione moderna la parola “Occidente” rinvia quindi a nuovi contenuti: essi nascono allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV XVI l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si sposta sulle rive dell’Oceano Atlantico mentre l’affermazione dello stato assoluto apre la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugura il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si prepara la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo. Senza dubbio l’Occidente elabora, col Locke, l’idea di tolleranza; e di li a poco scoprirà, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accetterà – unica forse tra le civiltà umane – di non pensare più a sé stesso come al centro del mondo. E’ non meno vero che, con la cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fino dal grande romanzo egizio prima, ellenistico poi – scopriranno di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco, il persiano, l’indiano, il centrorasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico,3 il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…)4. Ma vero è altresì che, nel contempo, esso elaborerà con il colonialismo –
anche in ciò unico tra le civiltà umane- un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio.
V’è di più: dal momento che l’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale secondo alcuni l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa dal Jefferson al Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà;5 l’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha annunziato che fine e diritto dell’uomo è la ricerca della felicità su questa terra.
Eppure non si è ancora esaurito, anzi subisce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre grecopersiane, quindi le contese tra romani e parti, poi quelle tra sasanidi e bizantini, e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia, quindi la “guerra fredda che secondo alcuni si potrebbe considerare la terza guerra mondiale, infine oggi quella che l’amministrazione Bush ha definito dopo l’11 settembre 2001 la war against Terror e che qualcuno ha proposto di considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico” e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con la guerra tra greci e persiani.
E’ logico che, da questo punto di vista, le offensive orientali siano regolarmente intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa. E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso e della civiltà resta, kiplinghianamente, «il fardello dell’uomo
bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of lífe e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze. Ma quest’Occidente corrisponde ormai a un concetto che in apparenza è antico mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi della prima metà del Novecento, quello di “civiltà occidentale”.
Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione occidentale, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere più umano,6 la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato forse, ma certo importante.
Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli stati assoluti – i quali avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita, la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e isole vergini, Rousseau e Bernardin de SaintPierre). L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare.
Modernità e Occidente: l’endiadi “Modernità occidentale-Occidente moderno”
Per questo l’Occidente – come espressione politicoculturale -, ad onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; mentre, per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una identità imperfetta. In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che dopo il 1945 il bipolarismo del “sistema di Yalta”, proponendo una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a ovest e in un “mondo socialista” a est secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa e praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica; e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia oggi una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlanticocentrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi7 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico-materiale-esistenziale dell’Europa occidentale,8 oppure nuovo Occidente americo-australiano-giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Europa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo?
Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia sparsa in e imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto dell’umanesimo
e dell’illuminismo,9 o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi, in ultima analisi, alla sua forza (e alla Volontà di Potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava):10 a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo.
Sovranità e sovranismi
Primato dell’individualismo assoluto, quindi di tutto quel che attiene alla Volontà di Potenza: economia, finanza, tecnologia; identificazione della democrazia parlamentare con un sistema che si è in grado e in diritto di “esportare”, e quindi identificazione dell’interesse dell’Occidente con quello del genere umano; civiltà dei diritti sempre più diffusi e approfonditi e della legittimazione della ricerca della felicità; espansione indefinita del ciclo produzione-consumo-profitto e parallela concentrazione della ricchezza; sviluppo indefinito dell’eguaglianza politico-culturale non accompagnata tuttavia da quella socioeconomica; tendenziale azzeramento delle differenze qualitativo-culturali e parallela esaltazione di quelle socioeconomiche. Questi i connotati della civiltà occidentale nell’attuale sviluppo del processo di globalizzazione: una “civiltà” che include tutte le élites del pianeta, qualunque sia la loro origine etnoculturale (e ne fa fede l’omogeneizzazione del sapere universitario e delle pratiche si selezione finalizzate alla riduzione della politica a “comitato d’affari” delle lobbies economiche e finanziarie).
Non è questo il profilo dinamico auspicato per la tradizione europea che rivendica le sue radici cristiane pur nella consapevolezza della laicità dei loro frutti e che, memore della lezione comunitarista già intrinseca ai patti di Westfalia del 1648 allorché si volle porre un limite alla destrutturazione etico- religiosa manifestatasi con le “guerre di religione” e con la “guerra dei Trent’Anni”, pose il principio della mutua inter christianos tolerantia a sigillo della ripresa di un processo di costruzione europea (diciamo processo: non progresso) che avrebbe dovuto essere armonico e, con la dinamica della secolarizzazione, finire con l’includere gli stessi non cristiani mantenendo tuttavia inalterato il principio secondo il quale non c’è legge immanente che non debba ancorarsi a un principio di superiore ordine metafisica.
Fu l’avvìo dell’età delle Rivoluzioni, e quindi le dinamiche connesse con l’avvìo dei nazionalismi e con il loro rapporto con le borghesie capitalistiche,
a progressivamente distruggere il carattere comunitarista della cultura europea sostituendolo con l’individualismo massificato da una parte, con il turbocapitalismo tardomoderno e postmoderno dall’altra.
Oggi, dinanzi all’arrogante superpotenza delle lobbies multinazionali che hanno distrutto gli stati facendo della politica il loro “comitato d’affari”, il sovranismo limitato e settoriale di chi si arresta praticamente alla prospettiva di una nuova indipendenza monetaria serve soltanto a spazzar via quel poco di difese comunitarie che le società possono ancora opporre alle élites mondialistiche: le quali, se sono ormai in grado di signoreggiare le realtà istituzionali sovranazionali, tanto più lo sarebbero immediatamente asservendo e fagocitando gli stati europei tornati “indipendenti” l’uno dall’altro, quindi esposti singolarmente al divide et impera delle banche e dei centri di potere privatizzati.
Questo il punto debole dei “sovranisti”: il non esserlo abbastanza. Il pretendersi tali sul paino economico e monetario, ma non su quello della politica, della diplomazia, della difesa. Il pretendere la liberazione dalla sudditanza all’euro ma non quello della sudditanza alla NATO che sta trascinando l’Europa nel suo avventurismo militare e nel gorgo vorticoso di quell’alleanza industriale-finanziaria militare ch’era già stata denunziata come un pericolo, per gli USA, da Dwight D. Eisenhower nel ’60, alla sine del suo secondo mandato presidenziale, e che oggi si è trasformata in pericolo sopranazionale, transnazionale e globale. Contro di esso è necessario in Europa un sovranismo globale, che si eserciti soprattutto e anzitutto nell’àmbito dell’etica e della politica imponendo agli europei di riprendere in mano le redini del loro destino. Per questo sono forse necessari partiti che si strutturino su una base europea battendo le difficoltà localistiche e linguistiche e mirando a una costituzione confederale – preferibile alla federale al fine di garantire maggiormente lo sviluppo delle preziose diversità culturali dell’Arcipelago Europa – appoggiata a un parlamento bicamerale in cui la Camera Bassa sia la voce proporzionale delle varie comunità etno- storico-culturali scomponendo e ricomponendo la geografia continentale sconvolta negli ultimi due secoli circa dalle pretese dei fautori dello “stato nazionale” mentre la Camera Alta sia garante della continuità rispetto al cammino storico-politico degli stati nazionali quali si sono andati configurando nel secolo XIX e che non può venire sconvolto e azzerato.
Per tutto ciò, è necessario che l’Europa miri a una sua effettiva unità politica riprendendo il cammino di libertà e d’indipendenza dai blocchi che ormai non sono più soltanto quelli politici. Per affrancarci dal potere dei “signori sconosciuti” (ma non troppo) che ci dominano con le loro lobbies è necessario affrancarci dalla sudditanza rispetto agli Stati Uniti d’America: e, dal momento che non è detto per nulla che Mister Trump ci liberi dalla sua presenza nella NATO, i legami della quale con il mondo statunitense restano stretti e molteplici, liberarci da una pastoia politico-militare divenuta a più livelli insostenibile per i costi che comporta e i rischi che rappresenta è divenuto vitale. La nuova Europa non deve ereditare nemici già precostituita: dev’esse libera di trattare con tutti, anche con gli stati della Schangai Cooperation Organization (SCO) che vede unite Russia, Cina, India e altri partners e che, attraverso la One Road, One Belt, la “Nuova Via della Seta”, si appresta a strettamente collegare mondo estasiatico e mondo mediterraneo. E’ un’occasione che una nuova Europa politicamente unita nella libertà e nella diversità non può e non deve mancare.
1 Ma va ricordato che, per gli antichi elleni, la parola “Europa” rimandava a un mondo straniero rispetto al loro: cfr. J. Goody, L’Orient en Occident, paris 1999, pp. 9, 14. Luciano Canfora ricorda che nell’ Iliade non si riscontrano né l’opposizione Europa-Asia, né quella greci-barbari; esse nascono con le guerre persiane o dopo di esse, com’è attestato dalla Geografia di Ecateo di Mileto che è divisa in due libri, l’uno dedicato all’Europa (limitata più o meno alla Grecia, Peloponneso escluso, e alle colonie greche) e l’altro all’Asia. La polarizzazione tra greci e barbari compare con Erodoto, l’opposizione tra Europa e Asia con I Persiani di Eschilo, del 472 a.C.; nella Grecia delle città si radicò profondamente l’equivalenza Grecia=Europa=Libertà/Democrazia, Persia=Asia=Schiavitù . Il rapporto Grecia-Europa-Libertà è destinato a una lunga storia (L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, pp.16-18).
2 Sulla pretestuosità della distinzione e sui suoi caratteri storicamente pregiudiziali e astratti, cfr. G. Corm, Oriente e Occidente. Il mito di una frattura, tr.it. Firenze 2002; sulla contrapposizione Oriente-Occidente come falsa e sulla sua necessaria demistificazione, cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003.
3 Cfr. V. Pinto, Sein una Raum, L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky, “L’Acropoli”, 2, marzo 2004, pp.203-24.
4 Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a
Hentsch, L’Orient imaginaire, Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in
Fleury, Dialoguer avec l’Orient, Paris 2003.
5 Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, Milano 2002.
6 Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile forse, tuttavia documentati e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it. , Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Paris 2003.
7 La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante comunque il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la tradizione europei nei valori del nuovo mondo, tr.it., Milano 1996, e a L. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna trovando adepti anche in Italia, all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, “Percorsi”, 4, genn.2004, pp.13-54.
8 Cfr. AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XX:e siècle, dir. P. D. Barjot et C. Réveillard, Paris 2002.
9 Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma-Modernità (con un cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Paris 2002.
10 Sull’Oriente come Volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Torino 2002.
Franco Cardini, professore emerito di Storia medievale nell’Istituto Italiano di
L’intera redazione di Italia e il Mondo ha deciso di sostenere e divulgare l’appello del professor Andrea Zhok. Ci pare, appunto, la condizione minima che consenta l’apertura di un confronto di merito e di una battaglia politica trasparente che espliciti i punti di vista e le intenzioni delle varie forze politiche a riguardo. L’urgenza e la fretta dettate da una situazione politica così precaria possono spingere a soluzioni abborracciate e pasticciate. Il disastro politico determinato dalla promozione e gestione dei referendum istituzionali da parte del Governo Renzi e dalle modalità di avvio delle trattative sulle competenze delle regioni adottate dal Governo Gentiloni e dai Presidenti di Regione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ha contribuito altresì ad innescare tale situazione. Troppo spesso i cambiamenti di indirizzo e di strategie interne ai partiti e alle formazioni politiche si sono compiuti negli ultimi decenni con atti di rimozione e di elusione piuttosto che di critica e di ripensamento. Le conseguenze, in particolare i trasformismi e la crisi di identità, sono ormai sotto gli occhi di tutti; la sovraesposizione inconsapevole del paese e della sua classe dirigente a dinamiche geopolitiche sempre più complesse ed ostili ne sono il portato. Un atto così importante per il futuro della nazione e delle istituzioni, per la loro stessa unità e funzionalità, rischia purtroppo, se non governato in una prospettiva di unità nazionale, di seguire questo solco e di accentuare la fragilità, la decomposizione e la subordinazione pedissequa del paese a strategie altrui, sia interne all’Unione Europea che esterne ad essa. Occorrono prese di posizione chiare e motivate non solo in Parlamento, ma anche da parte del Governo e delle istituzioni regionali, gli altri referenti ed attori determinanti di tali decisioni. L’auspicio è che la dichiarazione di Andrea Zhok, professore di filosofia all’Università degli Studi di Milano, assuma la forza di un vero e proprio appello sostenuto da un significativo gruppo di promotori_Giuseppe Germinario
UN APPELLO MINIMALISTA, di Andrea Zhok
La proposta di riforma per l’autonomia regionale, ora in via di approvazione, presenta, come sempre accade per i documenti ufficiali con valore legale, non poche complessità interpretative.
Ciò ha la conseguenza di rendere ogni confronto ed eventuali critiche necessariamente approssimativi e smentibili, comprimendo così le possibilità di discussione.
Una cosa sembra chiara: procedere senz’altro con un voto parlamentare su una questione di importanza cruciale per l’ordinamento futuro della nazione, senza che vi sia stato un approfondito dibattito pubblico NON E’ UNA PROCEDURA ACCETTABILE.
Credo perciò sia necessario chiedere con forza un CONGELAMENTO del processo parlamentare in cui è incardinata questa normativa, e simultaneamente l’avvio di un approfondimento, con dibattiti e discussioni pubbliche che ne chiariscano le implicazioni.
Se i proponenti della riforma sono certi delle loro buone ragioni, non avranno motivo di respingere questa richiesta di approfondimento.
Questa è una richiesta, di carattere insieme formale e sostanziale, rispetto a cui nessuno che abbia a cuore le sorti del paese dovrebbe sottrarsi.
Considerazioni sul pensiero di Hauriou, Schmitt e Romano
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, Schmitt. – 3. Linee di elaborazione successiva. – 4. Il carattere fondamentale del l’organizzazione nel pensiero istituzionista. – 5. Conclusione.
– All’influenza di Santi Romano dob biamo che, per i giuristi italiani non orientati verso il normativismo, è quasi un luogo comune affermare che è l’ordinamento a produrre il diritto, o meglio il diritto è tale, in quanto è ordinamento. E, per definire l’ordinamento, si è per lo più ricorsi al concetto di organizzazione (1), impie gato dal giurista siciliano per dare l’idea di che cosa, in primo luogo, fosse l’ordinamento giuridico. Da questa consapevolezza si è fatta derivare la necessità di studiare, per capire il fenomeno giuridico, le organizzazioni; e, del pari, che queste sono fonte non solo di rapporti giuridici, ma di norme, e, in genere, di diritto oggettivo.
Se però andiamo a vedere cosa s’intende per organizzazione (lasciando momentaneamente da parte l’ordinamento) si scopre una genericità definitoria, e spesso, un’assenza totale di definizione. Così tale concetto, indicato talvolta come la nuova frontiera del diritto (pubblico), assume le sembianze dell’araba fenice, di cui secondo un noto detto, tutti giuravano dell’esistenza, ma senza sapere, non avendola vista, come fosse. Soluzione che appartiene al genere delle scorciatoie scientifiche, restie alla precisione concettuale, quanto prodighe nell’impiego di termini, che, indefiniti, proprio perciò sono assai comodi. Ciascuno infatti può connotarli come vuole, e trovarsi tuttavia d’accordo, come i teologi ricordati nelle “Lettres Provinciales” con chi, pur servendosene, ne ha un concetto opposto.
Accanto a chi si contenta di questo approccio pirandelliano, vi sono altri che, volenterosamente, hanno voluto dare una fisionomia all’araba fenice. E così si è sostenuto che perché un gruppo umano possa avere un’organizzazione occorre: a) una distinzione di compiti – questa ritenuta essenziale -; b) per il raggiungimento di un fine : non sem pre ritenuto essenziale né necessario.
A ben vedere non ci si può ritenere appagati da tale connotazione tributaria più all’analisi semantica del termine che alla sua effettiva corrispondenza alla realtà.
Invero, se la si volesse seriamente applicare nel mondo giuridico, non si potrebbe fare a meno di considerare organizzazioni -e per tale via, almeno in parte e/o in nuce – ordinamenti, anche gruppi umani a carattere effimero ed occasionale. I turisti di un viaggio “organizzato” o i bambini che giocano ai quattro cantoni sarebbero così la morula delle grandi organizzazioni sociali (2). Identiche nei connotati essenziali – come l’individuo sviluppato rispetto all’embrione – e diverse solo quantitativamente, perché, come l’individuo, enormemente più ricche di cellule e assai più differenziate.
In effetti al di là delle considerazioni che possono farsi su tali concezioni, appare chiaro che sono assai lontane (e non hanno colto i caratteri più pregnanti) del concetto (di ordinamento e) di organizzazione, formulato dai giuristi – comunemente “classificati” come istituzionisti -come Santi Romano, Maurice Hauriou ed, in certa misura, il “secondo” Carl Schmitt (3). A questi, in effetti non sarebbe capitato di formulare un concetto così poco adattabile al fenomeno primario dell’esperienza giuridica da essi considerato, e cioè lo Stato.
Nel loro pensiero è l’analisi dell’istituzione-Stato a costituire la base per la costruzione dei concetti su ricordati, di cui rappresenta la forma-concreta-più complessa ed avanzata. E, dello Stato, l’essenziale è costituito dalla stabilità e dall’effettività; pertanto tutti, in misura maggiore o minore, sottolineano tali caratteri, che un gruppo umano deve avere per costituire un ordinamento. Stabilità i cui connotati sono variamente individuati: da quello puramente temporale (la durata) alla certezza dei rapporti, al progetto politico (all”‘idea” e forse anche alla “formula politica” di Gaetano Mosca) e soprattutto al concreto rapporto di comando – obbedienza che deve sussistere in ogni organizzazione sociale che non sia effimera od occasionale. Su quest’ultimo aspetto (che ha carattere determinante rispetto agli altri, perché è il sussistere di rapporti di comando ed obbedienza che conferisce durata, certezza e concretezza all’istituzione) è d’uopo soffermarsi.
Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, – In effetti nel pensiero degli autori citati, tranne che per Schmitt, l’essenzialità del rapporto comando-obbe dienza per l’esistenza di un’organizzazione sociale non è stata posta in rilievo maggiore di altri caratteri; ciò spiega in parte perché sia stata successivamente quasi totalmente dimenticata a beneficio d’interpretazioni riduttive del pen siero dei due giuristi, ma, soprattutto, della teoria istituzionista. Hauriou, com’è noto, pone in rilievo, nel costruire il proprio concetto d’istituzione, quelli di “potere” “ordine” e “libertà”. Non è inesatto affermare che dei tre concetti è stato il secondo ad aver più successo. Primo e terzo sono stati assai meno considerati. Ma non è inutile notare come è il”potere” a costituire la base del pensiero di Hauriou, nel quale tutti e tre confluiscono e caratterizzano il concetto di istituzione.
È questa a ricondurre ad unità la dialettica fra questi elementi. Ma non può dimenticarsi che nel concetto di potere il giurista francese concentrava gli aspetti volontaristici e soggettivistici della propria concezione del diritto; secondo Hauriou “Il potere è una libera energia della volontà che assume il compito del governo di un gruppo umano mediante la creazione dell’ordine e del diritto” (4). Essenziale a questo compito creativo è il comando, per cui, qual che pagina dopo, nel delineare i caratteri dell’organizzazione sociale, specifica: “Il y a d’abord une erreur à éviter (dans laquelle, bien entendu, des quantités de gens se sont précipités): c’est l’explication de l’organisation sociale par la divisione du travail ou par la différenciation des fonctions entendue au sens économique de la loi du moindre effort. Il y a une trentaine d’années, on a cru à cette explication par les organismes vivants; je pense qu’on en est revenu. En tout cas, en matiére d’organisation sociale, la differéncia tion des organes et des fonctions, au sense économique, est un phénomène tardif, et non point primaire. Les phénomèns primaires sont d’ordre politique, c’est l’apparition d’un centre directeur ou fondateur, celle d’organes de gouvernement, celle d’equilibres gouvernamentaux et, enfin, des consentements” (5); onde conclude che “l’apparizione del Centro fondatore e degli organi di governo costituisce, se si vuole, una differenziazione tra governcmti e governati, ma questa è di natura politica e non ha alcun rapporto con la divisione del lavoro” (6). L’organizzazione sociale lungi dallo spiegarsi con il meccanico svolgersi di leggi naturali, sorge da una “libera energia della volontà”, questa energia crea “l’ordine ed il diritto”; l’ordinamento (e l’organizzazione) nasce con la differenziazione tra governanti e governati, distinzione che non ha nulla d’economico.
Per Santi Romano, “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma perciò stesso in diritto… Viceversa non è diritto… soltanto ciò che non ha organizzazione sociale” (7). E che cos’è un’organizzazione sociale? Santi Romano aveva una giusta diffidenza verso il concetto: ma quando giunge a dare una rappresentazione delle istituzioni (in rapporto al concetto d’organizzazione), scrive che: “…Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizione, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti, di libertà, di freni, che riduce a sistema e unifica una serie di elementi in sé e per sé distinti. Ciò significa che l’istituzione, nel senso da noi profilato, è la prima, originaria ed essenziale manifestazione del diritto. Questo non può estrinsecarsi se non in un’istituzione, e l’istituzione intanto esiste e può dirsi tale in quanto è creata e mantenuta in vita dal diritto” (8).
Anche nel trattare della giuridicità degli ordinamenti considerati “antigiuridici” sostiene che è “un’ordinamento giuridico…; in quanto irreggimenta e disciplina i propri ele menti” (9). È significativo che Romano dia quasi per nulla peso alla differenziazione delle funzioni, e ne attribuisca tanto ai concetti di “unità” e “chiusura” per definire l’istitu zione: ma, in relazione a ciò, giova sottolineare che è difficile, se non impossibile, concepire un ordinamento “unito”, se non attraverso il potere di comando di un individuo (o di un organo) su altri individui (od organi) e il correlativo crearsi di posizioni (status) di sovra e sottoordinazione.
C’è poi un passo dell’ Ordinamento giuridico in cui ilgiu rista chiarisce in modo decisivo tale carattere essenziale dell’ordinamento: ed è quando ricorda “che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice … Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti” (10). Anche in questo passo Santi Romano individua nel potere (di comando) la condizione necessaria perché sussista un ordinamento (e con ciò l’organizzazione del gruppo sociale). D’altra parte in ciò è coerente col pensiero espresso in altri saggi. In uno dei più interessanti, !”‘Instaurazione di fatto di un ordinamento giuridico” , il rapporto forza-diritto-legittimità è analizzato in modo che risulterebbe incomprensibile, a non tener presente il concetto di istituzione, proficuamente caratterizzato dal rapporto comando-obbedienza. Analogamente nel descrivere l’organizzazione unitaria di un movimento rivoluzionario (che è un ordinamento giuridico, “sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”), Romano ricorda “ci saranno dirigenti … norme di vario genere che regolano le attività rivoluzionarie, persone ed enti che obbediscono a tali norme, sanzioni…” (11).
Sembra superfluo sottolineare che il concetto d’ordinamento giuridico da Schmitt tratteggiato negli anni ’30 presuppone, anzi è costruito, intorno al rapporto comando obbedienza. Non solo Schmitt parla ripetutamente, nel riferirsi all’ordinamento concreto ed all’istituzione, di gerarchia e di disciplina, proprio negli scritti in cui sarebbe avvenuta la svolta del grande giurista verso l’istituzionismo; ma anche negli scritti precedenti, specialmente nella Politi sche Theologie I e nella Verfassungslehre è manifesto che l’esistenza di un’ordinamento (anche se Schmitt si riferisce quasi sempre ad un ordinamento politico) è determinato dal fatto che alcuni uomini hanno il (diritto di) comando su altri uomini.
Una comunità e un ordinamento sono tali in quanto sussi stono rapporti di sovra e sotto ordinazione tra le persone che vi partecipano (12). La stessa polemica che Schmitt svolge contro il concetto di ordinamento – come inteso dai giuristi normativisti – (13) rivela, accanto alla contrapposizione principale (tra diritto come ordinamento e diritto come norma) una, secondaria ma rivelatrice, tra concezione d’ordine” elaborato sui concreti rapporti tra componenti l’istituzione e quella fondata su regole meramente tecniche o comunque applicabili solo in una società dove vigono norme basate sullo “scambio” (cioè in definitiva, costituita di rapporti tendenzialmente e prevalentemente economici). Il carattere di categoria generale ,che ha un ordine del primo tipo e quello -limitato, se non eccezionale
– del secondo non hanno bisogno di essere sottolineati.
Schmitt non sottovaluta gli elementi dell’istituzione non totalmente riducibili al rapporto comando-obbedienza: nel suo pensiero la legittimità è (in parte) il corrispondente dell’idea di Hauriou. Tuttavia l’ispirazione continua che trae dai pensatori controrivoluzionari, (il cui pensiero giuridico
– in termini necessariamente generici – potrebbe definirsi un misto di istituzionismo e decisionismo) gli evita di cadere nel soggettivismo esasperato, che è la principale strada che si apre ad un decisionista conseguente. La polemica anti romantica, contro un “Io” politico svincolato da ogni riferimento alla concreta situazione storica e politica; il suo stesso definirsi, negli anni ’30 “organo del pensiero giuri dico del popolo tedesco”, ancorava il suo decisionismo all”‘ubi consistam” della situazione storica, determinata da tutte le “costanti” di cui l’uomo di governo (e lo scienziato politico) deve tener conto.
Resta il fatto, di per sé incontrovertibile, che tutti e tre i grandi giuristi delineavano il concetto di organizzazione in termini che hanno poco a che vedere con la divisione dei compiti tra più soggetti: questa appare loro secondaria, e, tutto sommato, derivata da quell’altra, essenziale, divi sione dei compiti, che vuole il gruppo sociale costituito quando qualcuno comanda e gli altri obbediscono. Del pari la stessa attività “regolativa” o di normazione, appare secondaria e derivata rispetto all’essenzialità di quel rapporto, come giustamente rilevava Santi Romano, coll’esempio – dinnanzi ricordato – di una comunità il cui tessuto connettivo era costituito dalle decisioni dei giudici (14).
Linee di elaborazione – Nella successiva elaborazione del concetto anche da parte dei giuristi più vicini all’ipotesi istituzionista, questa costante dell’idea di ordinamento (ed organizzazione) è andata – in parte – smarrita. C’è, quindi, chi ha identificato gli elementi neces sari dell'”ordinamento giuridico”, nella plurisoggettività, nella normazione, e nell’organizzazione. E quest’ultima, come accennato sopra, è caratterizzata esclusivamente dalla divisione dei compiti, con relativa istituzione di “uffici”. Talaltro ha voluto ricavare il concetto d’organizzazione basandosi su quello di “potere” (giuridico), ritenuto un prius rispetto a quello di diritto, e in grado di spiegare, in tali termini, i rapporti tra organi della stessa organizzazione, che è poi uno dei punti dolenti delle tematiche degli ordinamenti. Con ciò indubbiamente ci si avvicina di più alle concezioni dei tre giuristi ricordati, non foss’altro perché, nell’analisi semantica del termine “potere” è implicito, in una certa misura, minima se si vuole, il concetto di dominio, di signoria e quindi di comando. Ma le potenzialità positive di tale concezione non sono state spesso conseguentemente sviluppate e portate alle logiche conclusioni.
Il potere diventa così, più che altro, il contenuto (e il limite) della competenza dell’organo, anfibiologicamente (e, talvolta, ambiguamente) definibile sia in termini di divisione dei compiti (o del lavoro) sia in relazione ai rapporti di sovra e sottoordinazione. In questo si può notare la dimenticanza di un dato giuridico essenziale, costante preoccupazione dei teorici dell’istituzione, espressa in particolare da Schmitt e da Romano: quello dell’unità dell’ordinamento. A tale proposito è appena il caso di rilevare, prescindendo, al momento, da considerazioni di teoria generale e di sociologia del diritto, che qualsiasi organizzazione sociale può agire per il diritto, in quanto “unità”. Il diritto positivo non prende in considerazione, come soggetti di diritto, se non persone, fisiche o giuridiche che siano. Perché un gruppo possa essere centro d’imputazione di rapporti, occorre che i componenti raggiungano un’unità (di volizione e/o di azione). È solo questa che consente al gruppo d’agire e di avere rilievo giuridico.
A ·trasporre questo dato in termini di teoria generale (cioè in quelli in cui lo formulavano Schmitt, Hauriou e Romano) ciò significa che un gruppo sociale può avere consistenza d’ordinamento, quando (attraverso la sua organizzazione) opera la reductio ad unitatem delle volontà dei membri; al minimo, attraverso un differente potenziale di potere tra i componenti, che assicuri in ogni caso una decisione valevole per tutti. Se questa unità non c’è, non c’è neppure ordinamento, né organizzazione. Di guisa che il problema di quale ne sia l’elemento essenziale e basilare consiste nell’identificare quello che consente di unificare le varie componenti, e renderle così capaci di agire unitariamente. Questo è, indubbiamente, l’organizzazione “gerarchica” (intendendo tale termine in senso ampio) del gruppo (15), per cui ogni organizzazione ha un centro di riferimento dominante e decisivo rispetto agli altri. È significativo del disinteresse verso tale approccio, che sia stato poco considerato come il diritto positivo, laddove, in un’ente, non si riesca a raggiungere questa unità (e conseguentemente capacità d’agire), provveda con meccanismi “di supplenza”, tipici gli organi straordinari commissari o i provvedimenti “sostitutivi”, nominati o deliberati da uffici ed organi di Enti sovraordinati. La scarna riflessione su questi istituti è in puntuale corrispondenza con la sottovalutazione dell’elemento “autoritario” e del carattere unitario dell’istituzione, che da quello è assicurato.
D’altra parte, l’acuta sensibilità di Schmitt e Romano ai problemi del diritto “statu nascenti” ed alla concretezza storico-politica faceva dell’idea di unità il dato (e l’esigenza) necessaria e centrale. Lo studio, acuto anche se non approfondito, dell’organizzazione rivoluzionaria che fa il giurista siciliano, lo rende palese. Tutti, d’altra parte, possono immaginare che fine avrebbe fatto la Rivoluzione d’ottobre, se, dopo la votazione del comitato centrale nella notte del 23 ottobre 1917, maggioranza e minoranza bolscevica fossero andate ciascuna per la propria strada, e, ancor di più se i militanti non avessero eseguito (o eseguito solo in parte) le decisioni del Comitato centrale.
L’idea di unità è d’altronde implicita nel concetto di “pouvoir” che tanta importanza ha nel pensiero di Hauriou. È importante notare come allo stesso appariva del tutto naturale che nell’idea di “pouvoir de droit” confluiscano i due aspetti della competenza (intesa in senso lato) e del dominio (che per Hauriou, dato il carattere burocratico dell’istituzione-Stato consiste soprattutto nel potere di controllo).
Dato che, come abbiamo visto, il concetto d’organizzazione accolto da alcuni giuristi successivi non è, se non in modesta misura, riferibile al pensiero di Romano, Schmitt ed Hauriou occorre ricavare quali referenti culturali abbia la concezione criticata.
È condivisibile che una teoria istituzionista del diritto, è, come sostiene Schmitt con espressione sintetica, una teoria caratterizzata dal carattere di sovrapersonalità, cui si contrappongono la personalità del decisionismo e l’impersonalità dell’impostazione normativistica (16). Tale scriminante, in sé riferibile più che al pensiero concretamente espresso, a tipi ideali, è un punto di partenza per comprendere i presupposti di una teoria istituzionale “debole”.
È indubbio che dopo il soggettivismo ed il razionalismo della seconda metà del XVIII secolo, fondamenti ideali della rivoluzione borghese, col XIX si apriva un periodo di prevalenza degli aspetti oggettivistici, considerati le “determinanti” del diritto. Non era solo la Scuola storica del diritto, né la filosofia hegeliana o i suoi epigoni (tra cui Marx): era la maior pars del pensiero politico-giuridico a reagire al soggettivismo razionalistico della Rivoluzione Francese. In linea generale ciò appare evidente: è più interessante però notarne le conseguenze sulla teoria generale del diritto.
A tale proposito, la prevalenza, nella seconda metà del XIX secolo, del positivismo giuridico, ha costituito un freno al formarsi di concezioni giuridiche che tenessero in gran conto gli aspetti sociologico-fattuali non solo come condi zionanti (in modo decisivo) il diritto, ma come costitutivi dello stesso, attraverso concetti come !'”istituzione” o simili ( ciò con l’eccezione, notata abitualmente, di Otto Gierke).
In questo senso, il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 ha impedito che le concezioni maturate in altri ambiti scientifici potessero avere compiuta rispondenza in quello giuridico. Questo è vero in particolare per la teoria dell’istituzione. È certo, a tale riguardo, che tra il pensiero istituzionista e le (prevalenti) concezioni politico istituzionali del periodo della Restaurazione c’è un nesso evidente; del pari molti giuristi hanno sottolineato il carattere “sociologico” della concezione istituzionista, creando un nesso (che c’è, ma probabilmente più tenue di quanto si creda) tra sociologia e teoria istituzionale.
Senonché la sociologia, come qualunque scienza naturale, va alla ricerca delle determinanti e delle costanti dell’agire sociale; una spiegazione del diritto in termini puramente (meglio sarebbe dire piattamente) sociologici porta a sottovalutare e ad espungere dal mondo giuridico l’azione della libera volontà umana (Hauriou) e l’orgoglio della decisione fondamentale (Schmitt). E, quel che è più gra vido di conseguenze negative, la sociologia studia il diritto come fatto, mentre la scienza del diritto ha – ovviamente – una visione più ampia, comprensiva e diversa del fenomeno giuridico.
Ad applicare (con una certa ingenuità) il metodo delle ricerche sociologiche, è chiaro che costituiscono fatti l’esistenza di un gruppo sociale, la normazione che questi si da e l’organizzazione in cui si articola. Mentre sono spiegazioni di tali fatti, che l’organizzazione sia tale anche perché c’è una distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra ciò che è comune e ciò che è individuale, o per la funzione che ha l’istituzione.
La spiegazione di un fatto però si presta, agli occhi di metodologi incantati dalla “oggettività” e dalla “misurabilità” del dato empirico, ad essere tacciata di non scientificità, se non di pregiudiziali ideologiche. A poco vale che, in uno specifico campo d’indagine, il dato empirico spieghi assai meno di una valutazione e definizione degli elementi in gio-
co, o meglio che quello sia solo (e in parte) la base su cui lavorare per arrivare a conclusioni di reale interesse.
Quando poi l’empirismo sociologico si coniuga con il determinismo economico, la distorsione del dato reale è assicurata. Da un simile mélange , tutti i concetti giuridici
vengono piegati ai presupposti elementari di un sistema di pensiero economico. La distinzione dei compiti nell’apparato di “governo” del gruppo diventa così una sottospecie della divisione del lavoro: come questa è determinata dalla razionalità funzionalistica di una migliore utilizzazione delle attitudini di ciascuno, ai fini di una maggiore produttività sociale; la stessa distinzione tra chi comanda e chi obbedisce (che è la base, sia pure funzionale, dell’ineguaglianza tra governanti e governati) diventa irrilevante, ma più ancora incompatibile, con un sistema di pensiero dominato dai postulati dell’eguaglianza tra homines aeconomici e della loro libertà di scegliere, acquistare e vendere, a pari condizioni, dei beni.
Al termine di questa strada, non si riesce più a comprendere in cosa una società cooperativa differisca dallo Stato, o, all’altro estremo sociologico, da un gruppo sociale occasionale. Che proprio teorici come Schmitt ed Hauriou aves sero messo in guardia contro queste interpretazioni economicistiche del diritto e del concetto d’istituzione è cosa che potrebbe, al limite, interessare poco, se non si volesse poi, attribuire alla teoria istituzionale implicazioni espressamente rifiutate dai “soci fondatori”. Come del pari, è evi dente che, come sopra cennato, lungi dal ricondursi ad una qualche forma di determinismo sociale, il pensiero di Hauriou appare ispirato al bergsoniano èlan vita!, all’istituzione come impresa della volontà umana libera e creatrice; e quello di Schmitt alla decisione sovrana, condizionata sì dalla situazione storica, ma, quanto meno nel caso d’eccezione, libera nei mezzi e, in certa misura, negli stessi fini.
Sotto un diverso aspetto, la teoria dell’istituzione è stata percepita (e recepita) come reazione avverso la “statalità” del diritto e come negazione del “monopolio” statale alla sua produzione, cui contrappone la pluralità degli ordina- menti giuridici.
Le valenze pluralistiche della teoria sono state tra le meglio accette, specie quando si coniugavano con precise (ancorché differenti) posizioni ideologiche. È stato quindi una conseguenza logica che dalla constatazione della pluralità degli ordinamenti si passasse al pluralismo, dal relativismo vitalistico e realistico all’ideologia del neo-corporativismo, se non del neo-feudalesimo (17). Questa è stata grandemente facilitata dall’immissione di robuste dosi di normativismo nella teoria dell’istituzione: il pluralismo così inteso consente infatti di coniugare il diritto “originario” all’esistenza ed all’autonomia dei più svariati gruppi (ed istituzioni) con le garanzie che solo uno Stato legislativo parlamentare, con le sue norme “misurabili”, promulgate con leggi (costituzionali ed ordinarie) non facilmente modificabili, può offrire congruamente.
Applicando ai tipi di pensiero giuridico le correlazioni che Schmitt stabilisce tra “tipi” di Stato (giurisdizionale, legislativo-parlamentare, governativo-amministrativo) e scelte politiche (conservatorismo, evoluzionismo progressista, radicalismo di destra o di sinistra), si può affermare che un tipo istituzionale “puro”, si coniuga col conservatorismo; quello normativista col progressismo moderato ed evoluzionista; il decisionismo col radicalismo. Con tutte le approssimazioni e i distinguo che il tema ed il carattere di queste classificazioni impone, il massimo della chiarezza nei risvolti politici di tali concezioni può però ancor meglio ritrovarsi nelle forme “miste” che nei tipi “puri” di pensiero. Sotto tale profilo, nella realtà storica la miscela più con servatrice è indubbiamente quella tra istituzionismo e normativismo. (nel senso precisato). In effetti una teoria istituzionale “pura” è una teoria del “movimento” (evolutivo) del diritto prodotto dalle varie articolazioni dell’istituzione (Hauriou); mentre una regolamentazione legislativa rigida dell’attività sociale tende ad imbalsamarla in forme e rap porti la cui evoluzione viene resa più difficile.
A ben vedere questa particolare “garanzia” della stabilità, tipica della vulgata pluralista, non la si trova nel concetto d’istituzione (o di ordinamento) di nessuno dei tre grandi giuristi: il paragone della scacchiera di Santi Romano, con l’organizzazione come prius e “ragione sufficiente” rispetto alla produzione normativa, con la stessa coesione dell’ordinamento ritenuta indipendente dalle “norme”, ma assicurata dal comando, rende bene il senso del concetto, in cui è il reale che precede e prevale, in ogni caso, sul normativo.
Come lo rende la contrapposizione di Schmitt tra la necessaria indeterminatezza di certi concetti, peculiari di un ordinamento concreto, perciò stesso applicabili solo in un determinato contesto di rapporti sociali, ed il concetto di “norma” della dottrina normativista (18).
Ciò perché, a differenza di alcune impostazioni “pluralistiche”, la teoria dell’istituzione non prescinde mai dai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, né dalla concreta situazione che in quelli trova una costante. La pluralità di ordinamenti e la loro compresenza nella realtà sociale non ne significa l’eguaglianza, né tanto meno il diritto all’esistenza. Un pluralismo, gravido di implicazioni giusnaturalistiche, concepisce invece l’esistenza di una pluralità di ordinamenti come diritto all’esistenza medesima. Sostituendo così l’indi viduo ed i diritti dell’uomo, punto di partenza del liberali smo politico, con i gruppi ed i loro diritti “naturali” o “storici”, senza che con ciò, mutino presupposti e risultati; né si attingano le valenze realistiche della teoria dell’istituzione.
Partendo da un simile pluralismo non si riesce a comprendere neppure il reale significato di quello che è il punto d’Archimede della teoria istituzionale: e cioè l’esistenza di ordinamenti illeciti accanto (e/o all”‘interno” di) quelli leciti. L’apparente antinomia si risolve, per Santi Romano, nell’effettività (e quindi nella “validità”) di entrambi, assicurata dal rapporto comando-obbedienza all’interno di ciascuno di essi; per un pluralista coerente il problema è – a ben vedere -irrisolvibile: o la liceità reciproca è frutto di un impossibile “riconoscimento”, o l’asserita illiceità dell’uno
è frutto di un errore evidente se non di un inammissibile sopruso.
La caratteristica saliente, e il risultato, cui porta la conce zione criticata è la spoliticizzazione di ogni istituzione e di ogni teoria del diritto pubblico che si basi – anche se non totalmente – su categorie “politiche”. Organizzazione senza gerarchia e parità tra ordinamenti significa null’altro che la realizzazione del sogno sansimoniano di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose (19).
Un’organizzazione caratterizzata dalla mera ripartizione di competenza e lavoro tra più uffici, a cui è estraneo ogni rapporto di subordinazione, non ha, invero, altro senso. Politica è invece, in primo luogo, comando e subordinazio ne: anche se tale requisito non basta a qualificare il “politico”, è indubbio che la sua eliminazione dal mondo significherebbe rendere impossibile l’attività politica, che, per definizione, è attività di gruppi umani fortemente coesi.
Del pari la rivendicazione della “parità” tra ordinamenti (o del diritto all’esistenza) si muove sullo stesso percorso. Parità tra ordinamenti vuol dire parità ed eguaglianza tra uomini che ne fanno parte, e, più ancora, tra coloro che li guidano. Il “diritto” all’esistenza di più ordinamenti, del pari, significa negazione dell’assolutezza della volontà che ne tiene unito almeno uno. Infatti ad una volontà che si assume assoluta non può contrapporsi alcun ostacolo giuridico. Entrambe le affermazioni sono quindi contrarie all’essenza del politico, che postula la subordinazione dell’uomo all’uomo e un comando privo di limiti, perché sussista una comunità politica (20). In questo contesto l’interpretazione pluralista della teoria dell’istituzione è l’esito, compiuto e coerente, della tendenza alla spoliticizzazione, tipica di un certo pensiero moderno.
Il carattere fondamentale dell’organizzazione nel pensiero – È stato asserito che la teoria istituzionale (specie nella formulazione di Hauriou) peccherebbe di “sociologismo”. L’errore (o meglio l’insufficienza) sarebbe quella di costruire il diritto sul “gruppo sociale”, mentre, perché un gruppo sociale sia coeso, occorre che i rapporti si organizzino nel (e con il) diritto. Questo sarebbe così l’elemento determinante nel dare consistenza giuridica al gruppo. Il fatto che questo esista viene così svalutato essendo, nella ipotesi più favorevole, una condizione, necessaria ma non sufficiente, perché si possa parlare di diritto.
In effetti la concezione criticata prende le mosse dalla necessità di differenziare, nei gruppi sociali, quelli che costituiscono istituzioni da quelli occasionali, ed effimeri: e sarebbe il diritto a distinguere gli uni dagli altri. Inoltre è stato sostenuto, specie per Hauriou, che la sua impostazione non tiene conto della possibile genesi “contrattuale” delle istituzioni, che farebbe così venir men il presupposto “autoritario” della volontà del fondatore. Tale critica non pare cogliere nel segno: è infatti viziata, in primo luogo, dalla mancata individuazione dell’elemento essenziale dell’istituzione, che imprime giuridicità (ed assieme lo rende tale) al gruppo sociale: la presenza dei rapporti di sovra e sotto ordinazione. Infatti, anche se da taluno è stato notato l’elemento “autoritario” che segna l’istituzione, è chiaro che tale critica presuppone di non tener conto (o non tenere nel dovuto rilievo), il rapporto comando-obbedienza. Invero ciò che differenzia un gruppo occasionale da un'”istituzione” non è il carattere giuridico (che è posterius), ma, come già scritto, tale rapporto, che ne assicura l’unità e la stabilità, e con ciò la giuridicità. Non è in altri termini il diritto ad autocrearsi, ma è sempre un elemento pre-giuridico a generare i rapporti giuridici.
Inoltre non è stato notato come sostenere che vi è un ordinamento “giuridico” quando è organizzato dal (o mediante il) diritto vuol dire esprimersi per tautologie,
come il malato immaginario di Molière durante l’esame di dottorato (21). Resta così da tale impostazione inspiegato il principale carattere innovativo della teoria dell’istituzione; quello di ridurre a questa il diritto, stabilendone l’identità. In realtà come scrive Schmitt, ciò che differenzia un giurista “istituzionista” da un “decisionista” o da un “normativista”, non è il negare che il diritto consista, oltre che di istituzioni, di norme e decisioni (e viceversa, per gli altri “tipi” di pensiero giuridico), ma a quale di questi tre concetti, possa ridursi, in ultima analisi, il diritto. Affermare che un ordinamento è giuridico in quanto “organizzato” dal diritto, significa sottrarre dalla connotazione del concetto il termine diritto, dando per scontato che debba aggiungersi dal l’esterno, e, nel contempo, negando l’identità tra diritto ed istituzione, su cui si regge la teoria istituzionista (22).
D’altra parte l’elemento normativo (inteso nel senso di comando, e non di regola) è per il diritto necessario ed insostituibile: è strano che questo, ritenuto generalmente essenziale per il “giuridico”, sia stato trascurato nello studio della teoria istituzionale. Specie se si tien conto che l’accentuato che la definizione dell’istituzione formulata da Hauriou non ne esclude affatto la fondazione “pattizia” (23), v’è da dire che gli istituzionisti pensavano principalmente alle istitu zioni – comunità (e non alle istituzioni – società) (24), non solo perché quella più complessa ed interessante per il giurista, ovvero lo Stato, è un’istituzione – comunità (25); ma perché queste non consentono di spiegare il diritto in base a termini giuridici, spiegazione che può essere avanzata per le altre. Sono, in parole diverse, gli ordinamenti comunitari a costituire il caso-limite (il quale, proprio per questo, è più interessante in sede scientifica), che permette d’individuare, nella purezza concettuale, gli elementi essenziali del diritto. La comunità prescinde dal consenso individuale, dal patto tra volontà libere ed eguali: l’elemento sociale e il carattere necessario (se non “naturale”) dell’ordinamento ne vengono così esaltati; la comunità è, per definizione, intessuta di rapporti di sovra e sotto-ordinazione, sin dal momento “costitutivo” (quasi sempre non individuabile); non è fondata sullo “scambio”. L’istituzione-società può prescindere da gran parte di questi elementi: solo da uno (forse da due) non può sfuggire: dalla presenza, una volta costituita, di una (o più) volontà “prevalenti”, decisive per l’agire comune. Così lo stesso carattere “pattizio” della costituzione di un associazione non toglie che, perché que sta possa esistere, vi debba essere un centro direttivo, che esercita dei poteri sociali, quanto meno quelli che consentono all’istituzione di agire unitariamente (26).
– Secondo la nota tesi, esposta da Schmitt nella Politische Theologie e in Politische Romantik, De Bonald, de Maistre e Donoso Cortès sono pensatori emblematici del decisionismo politico. In effetti Schmitt ne espone il pensiero contrapponendolo sia al liberalismo della restaurazione che al romanticismo politico. Di fronte a posizioni ispirate al soggettivismo, al razionalismo, all’occasionalismo e alla sostanziale negazione della sovranità, il pensiero dei controrivoluzionari, dominato dall’oggettività della concreta situazione storica e dalla costante affermazione dell’insostituibilità di decisione e sovranità, ha il pregio della chiarezza e della coerenza, che solo una radicale opposizione, intessuta (e derivata) di esperienze di vita oltre che di convinzioni e di cognizioni teoriche può dare. Ciò non toglie che il giurista tedesco sia troppo avvertito per sottovalutare i tratti del pensiero dei controrivoluzionari riconducibili al “tipo ideale” del pensiero istituzionista: solo che non li sviluppa, probabilmente perché non interessanti i temi affrontati nella Politische Theologie (alcuni cen ni, anche se non riçollegati alla teoria istituzionale, vi sono invece in “Politische Romantik” ).Nella realtà la concezione dei controrivoluzionari può essere ricondotta ad un mélange di istituzionismo e decisionismo, o meglio dei “tipi ideali” dell’uno e dell’altro. Del primo i controrivoluzionari hanno il senso del condizionamento storico-sociale delle istituzioni, l’infuenza su queste del sentire comune; un certo (limitato) determinismo storico; e la coscienza che ciò che è esistente, duraturo e proprio perciò vitale è, di per sé, produttivo di diritto. Del secondo la consapevolezza che comunque la comunità è tale (e può esistere) in quanto vi è un autorità assoluta, capace di prendere decisioni inappellabili; e che il potere consiste nel decidere per (e al di sopra degli altri). La formula paolina “om nis auctoritas a Dea”, (che si converte in quella maistriana che ogni potere è buono quando è costituito), non è interpretata dai controrivoluzionari nel senso, fatalista e determinista, dell”‘impersonalità” del potere, determinato da scelte imperscrutabili della Provvidenza (e/o della Storia), ma, in quello della necessità dell’autorità (cioè nel senso della “costante” storico·-politica di un potere sovrano), e nel contempo della personalità della stessa, libera nel prendere le decisioni fondamentali (27).È capitato così che i controrivoluzionari sono stati i primi ed energici assertori, in epoca contemporanea, di quelle tesi ricordate, fondamentali nel pensiero istituzionista. La consapevolezza di ciò non è stata, in genere avvertita; e, conseguentemente si è studiato poco o punto il rapporto tra questi e quelli.Ma, indubbiamente, il limite più grave che ne è derivato, è non aver compreso appieno il pensiero dei teorici dell’istituzione, non avendo tenuto conto, nella giusta misura, del carattere decisivo che gli stessi attribuivano ai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, ed all’importanza dell’organizzazione “gerarchica” dell’istituzione. Ne è conseguita l’accentuazione del carattere sovra-personale (e, a tratti, impersonale) del pensiero istituzionale. Del determinismo sociale rispetto all’azione e alla volontà umana. Dell’istituzione come “cosa” (se non “macchina”), rispetto all’istituzione come insieme organizzato di rapporti tra uomini. Da ciò a passare ad una concezione tendenzialmente sansimoniana ed “oggettivistica” dell’istituzione il passo è stato breve
Nella realtà, questo può compiersi solo a costo di fermarsi all’aspetto superficiale ed esteriore dell’istituzione, dimenticandone la funzione e, soprattutto, omettendo di approfondire i risvolti più interessanti.
Nel pensiero dei tre grandi giuristi, come dei loro precursori contro-rivoluzionari, l’istituzione è strettamente legata alla decisione ed alla struttura “gerarchica”; l’oggettività dell’organizzazione non prescinde, anzi è fondata sulla soggettività del comando. Elementi oggettivi e soggettivi stanno in equilibrio. Anche perciò può parlarsi di una concezione che è un misto dei tipi ideali dell’istituzionismo e del decisionismo. L’impostazione vitalistica e l’approccio realistico con cui si accostano ai problemi del diritto li colloca, anche se in misura diversa, vicini ai più noti scienziati politici italiani del primo novecento, loro contemporanei, in cui la sensibilità sociologica si coniugava col realismo con cui indagavano sui rapporti politici.
La teoria della classe politica e delle élites, la legge ferrea delle oligarchie, la funzione ordinatrice dei principi di legittimità, sono acquisizioni che appaiono – in larga parte – comuni ai “machiavellici” ed ai giuristi ricordati (28). La relazione tra il pensiero degli uni e quello degli altri, come
per i controrivoluzionari, è ancora poco approfondita, probabilmente in omaggio a specializzazioni scientifiche che sovente riescono, così, ad occultare le relazioni più interessanti ed a precludersi una comprensione esauriente. Ma è sicuramente vero, come scrive Schmitt, che chi disturba questa divisione del lavoro nell’ingranaggio scientifico, diventa un guastafeste. E il guastafeste è, com’è noto, “sempre l’aggressore”.
Teodoro Klitsche de la Grange
( 1) Il concetto (o meglio il termine) di organizzazione è stato impiegato per connotare sia il concetto di ordinamento che come “nuova frontiera” della dottrina del diritto pubblico. In ambo i casi la letteratura non manca, per cui ci limitiamo a citare i contributi più caratterizzanti, rimandando per il resto alla dottrina citata da F. MODUGNO voce “Ordinamento giuridicodottrina” in Enciclopedia del diritto, p. 678 n. Quanto al primo problema si veda M.S. GIANNINI. Glielementi degli ordinamenti giuridici, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1958, p. 219; quanto al secondo i contributi sono assai più numerosi. A prescindere dalla nota impostazione di DE VALLES. Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931 e 1936; v .. da ultimo, G. BERTI Il principio organizzativo del diritto pubblico, Padova 1986 (con ampia trattazione del concetto di organizzazione); per contributi meno recenti v. S. FODERAR O La personalità interorganica, II ed, Padova 1957; il volume collettaneo L’organizzazione amministrativa. Atti del IV Convegno di scienza dell’amministrazione, Milano 1959.
(2)È rilievo simile a quello formulato da M.S. GIA NNINI. Gli elementi,
cit.. che ne rileva la inconsistenza per la ricostruzione dei fenomeni giuridici.
(3)Per SANTI ROMANO v. L’Ordinamento giuridico, 1918 v. anche voce Organi in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1983; Prin cipi di diritto costituzionale generale Milano 1947; per HAURIOU Préçis de droit constitutionel (1929), risi. 1965; IDEM. Theorie de l’institution et de la fondation ora in traduzione italiana ne la Teoria giuridica de/l’istituzione e della fonda_zione, Milano 1967; per C. SCHMITT v. Legalitiit und legimitiit; Uber die drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, ora entrambi tra dotti in italiano (anche se non totalmente) ed inseriti nella raccolta di saggi “Le categorie del politico” Bologna 1972.
(4)Préçis de droit constitutionel, , p. 15. D’altra parte tenuto conto del l’influenza che il pensiero di Bergson ha esercitato sul giurista francese, è proprio il “potere” col suo carattere dinamico e creativo a dover costituire l’elemento primario di un pensiero giuridico influenzato da una filosofia vita listica.
(5) cit., 72, si noti che Hauriou cita la tesi di Prévost-Paradol per cui
”l’obéissence est le lien des Societès”.
(6)loc. cii.
(7)L’ordinamento giuridico, Firenze 1967, pp. 43-44
(8)ult. cii., p. 43.
(9)Op. ult. cii., p. 44.
( IO) Op. ult. cit.. p. 21.
(11) Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico Milano 1983 p. 224.
(12) in C. SCHMI1T Politische Theologie I, trad. it. in “Le categoriedel politico” pp. 57-58. Schmitt, esponendo il pensiero di Hobbes rivela il carattere personale e concreto di ogni forma di subordinazione. “Se un potere dev’essere sottoposto ad un altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere”.
(13) Nel saggio “Uber die drei Arten”, in particolare pp. 251-255 trad. cit.
(14) È interessante notare che nel concetto d’istituzione formulato da Max Weber il rapporto di comando è Infatti l’istituzione è defi- nita “gruppo sociale”, i cui ordinamenti statuiti vengono imposti (con rela- tivo successo), entro un dato campo di azione, ad ogni agire che rivesta deter- minate caratteristiche (Wirtschaft und Gese//schaft, trad. it., p. 51).
Inoltre Weber richiama continuamente, quando scrive di “ordinamenti” dei gruppi sociali, l’elemento autoritario: così “per costituzione di un gruppo si deve intedere la possibilità effettiva di disposizione ad obbedire … nei con fronti della forza di imposizione della autorità di governo sussistente” (op. cit., p. 48).
Peraltro secondo Max Weber si ha un “gruppo sociale” quando l’osser vanza dell’ordinamento di questo “è garantita dall’atteggiamento di determi nati uomini, propriamente disposti a realizzarlo, cioè di un capo e, eventual mente, di un apparato amministrativo” ( op. cit., p. 46); al riguardo perché si abbia un gruppo, non ha importanza la distinzione tra comunità ed “associa zione”. L’essenziale è che vi sia la presenza di un “capo capo di famiglia, comitato di un unione, direttore di un impero, principe, presidente della repubblica, capo della Chiesa, il cui agire sia disposto a realizzare l’ordina mento del gruppo”; agire “non soltanto orientato in vista dell’ordinamento ma diretto alla sua imposizione coercitiva”
Imposizione che diventa connotato essenziale del concetto di “gruppo sociale”. Infatti – prosegue Weber “non ogni comunità od associazione costituisce un gruppo sociale- ad esempio non lo costituisce né una relazione erotica né un gruppo parentale privo di “capo”. Onde !'”esistenza del gruppo sociale è interamente legata alla presenza di un capo”.
Interessante è anche la distinzione che Weber fa tra “ordinamento ammi nistrativo” (che regola l’agire del gruppo) ed “ordinamento regolativo” che regola “un agire sociale di altro genere”, che, secondo lo stesso, coincide in generale – con quello tra diritto pubblico e diritto privato (p. 50).
Resta il fatto che, nella sociologia weberiana i concetti di “gruppo sociale”, “ordinamento” ed istituzione sono strettamente collegati alle relazioni sociali di comando e potere. Rilievo minore ha, invece, l’esistenza e la pro duzione di “regole” o “norme” relative all’azione dei consociati.
Anche secondo altri sociologi, ilconcetto d’organizzazione è strettamente legato alla struttura gerarchica. Gli apparati organizzati sono “comporta menti collettivi che sono ordinati, gerarchizzati, centralizzati.” (v. Gurvitch Trattato di Sociologia, Milano 1967, p. 229 v. anche p. 295).
(15) È chiaro che nel testo il termine “gerarchia” non è inteso nel senso
“tecnico” e riduttivo con cui lo impiegano (correttamente nel loro campo d’indagine) gli studiosi del diritto amministrativo, dove tale termine significa un certo tipo di rapporto tra uffici amministrativi (ed anche Enti), che viene, con ciò, contrapposto, ad altri modelli d’organizzazione.
(16) il saggio Uber die drei Arten. cit., trad. it. cit.. p. 252.
(17)L’uso di termini come “neo-corporativismo” e “neo-feudalesimo” richiama istituzioni medievali, contrapposte allo Stato moderno e che riaffio rano nell’età contemporanea, che si pensa caratterizzata dalla crisi della forma -Stato. Con ciò si vuole denotare sia un processo di “patrimonializza zione” e di “appropriazione” collettiva (od individuale) dei poteri pubblici, accanto (o in luogo) dell’unità e della “sovranità” dello Stato. Senonché la differenza (se ne possono indicare tante) che pare opportuno sottolineare tra il pluralismo corporativo feudale medievale e quello sindacai-partitico moderno è che, mentre in quello si concepiva l’ecumene o l’unità politica (per debole e frammentaria che fosse) come una comunità di comunità; nel
secondo la si concepisce come una società di società. Con conseguenze assai rilevanti, sul carattere dell’autorità, sull’appartenenza individuale, sui legami sociali e sulla stessa “governabilità” dei gruppi sociali (istituzioni) intermedi, che è interessante approfondire.
(18) Uber die drei Arten …, trad. it. cit., in particolare pp. 258-260
(19) Per la verità la frase di Saint-Simon (ripetuta poi da Engels), spesso interpretata nel senso utopistico cennato nel testo, aveva una valenza tecno cratica più che libertaria (o anti-autoritaria).
Come notava Michels “la scuola di Saint-Simon non immaginava affatto un avvenire senza classi …”. Essa anelava al contrario alla creazione di una nuova gerarchia, senza privilegi di nascita, ma con forti privilegi acquisiti, “deshommes /es plus aimant, /es plus intelligens et lesplus forts”; e proseguiva “uno dei più fervidi, sansimonisti … indotto a difendersi dal rimprovero di agevolare, mediante la sua dottrina, la via al despotismo, arrivò perfino al punto di sostenere che la maggioranza degli uomini deve ubbidienza all’auto rità emanata dalla capacità …” ( Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze1933 pp. 4-5). Col tempo, in taluni, il carattere politico e (relativamente) “autoritario” del pensiero dei sansimoniani si è smarrito. Ne è rimasto quello utopistico, il più adatto a mascherare realtà, di fatto, totalmente opposte.
(20) L’una e l’altra possono ricondursi al pensiero di Schmitt, in partico lare alla Politische Theologie, ed al Begriff des Politischen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, cit., p. 89-208.
(21)In effetti le definizioni di Santi Romano (come quella di Maurice
48 Hauriou) non cadono nell’ingenuità scientifica di spiegare un.termine con un sinonimo, come fanno certi giuristi, col risultato di trovarsi così sempre al
punto di partenza. Ma quel che più interessa è che la definizione di Santi Romano del diritto non contiene, nel “definiens” nessun termine (o elemen to) specificamente giuridico (v. L’ordinamento giuridico, cap. 10, p. 25, 28). Società, ordine sociale, organizzazione sono tutti termini che possono essere impiegati indifferentemente nella scienza giuridica ed in altre scienze sociali, e, quel che più conta, denotano enti e rapporti concreti e “fattuali”. La circo stanza che. in sede di definizione non abbia impiegato alcun termine giuridi co, dimostra non solo il carattere euristico del processo logico seguito, ma più ancora che Romano riduceva il diritto al fatto dell’esistenza, in un grup po, degli elementi indicati come qualificanti.
(22) Nella realtà l’interpretazione del pensiero di Santi Romano è stata spesso viziata da una serie di equivalenze e di presunte antinomie in cui il pensiero del giurista siciliano andava, in buona parte, perso. In effetti 9ndo Santi Romano, il rapporto tra i termini “diritto” “ordinamento giu ridfco” e “istituzione” sono perfettamente equivalenti , secondo il seguente schema logico: diritto=ordinamento giuridico=istituzione (anche se Santi Romano distingue due modi di intendere il termine diritto, v. “L’ordina mento giuridico”, p. 27).
Invece secondo la tesi criticata la sequenza è totalmente diversa, ed è gra ficamente esprimibile così: ordinamento+diritto=istituzione. In cui, in effetti il concetto d’istituzione non coincide con nessuno degli altri due. Ma tale impostazione è stata fuorviata da un altra equivalenza, più o meno espressa, per cui non tutti gli ordinamenti sociali, pur essendo gruppi (e, in certa misura, organizzati) sono ordinamenti giuridici
Nel pensiero dei tre giuristi considerati invece un gruppo sociale ordinato
è perciò stesso, un ordinamento sociale e, conseguentemente, giuridico (e l’equivalenza è chiarissima soprattutto in Schmitt. come rilevato da P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Milano 1982, p. 98- 99); mentre un gruppo sociale “non ordinato”, perciò stesso non è un ordina mento giuridico. È il concetto d’ordine (di “chiusura”, di “orientamento” unitario e relativamente uniforme – dell’agire sociale attraverso una volontà prevalente) a costituire il discrimine tra gruppi sociali che sono ordi namenti (e quindi sono ordinamenti giuridici) e quelli che non Io sono. È a questo, ed ai connotati che esso ha necessariamente, che va ridotto il diritto. E concetti come ordine, comando, ed effettività del comando stesso, sono, occorre ripeterlo, “fattuali” prima che “giuridici”.
(23)la definizione in Préçis de droit constitutionel, cit. p. 73 (per la forma dell’istituzione).
(24) Hauriou (op. cit, 76), riferendosi allo Stato (come istituzione) scrive che ha una “structure formelle parfait” (rispetto alle “institutiones similaires” ); esso è “/’organitation parfait de ce mouvement” (che è il “movimen to” intrinseco al concetto che dell'”ordre” ha Hauriou); mentre a pag. 1 ricorda che Io Stato è una forma perfezionata dell’ ordre.
La nozione di potere, ordine, Stato di Hauriou, con l’importanza che danno ai concetti di consenso “coutumier”; con il continuo richiamo alla communautè per la formazione dell’istituzione – Stato (ed anche per le altre istituzioni), mostrano come pensava, in primo luogo alle istituzioni “communitaires”.
(25) Ci scusino i lettori esperti della metodologia weberiana l’impiego dei “tipi ideali” comunità e società per classificare situazioni Chi scrive pensa, che è nel giusto Cari Schmitt a sostenere che, al fondo, anche lo Stato (o l’unità politica) più impregnato dell’idealtipo “società” a fondo, o nelle situazioni d’emergenza, si rivela più vicino al tipo ideale “comunità”. In tal senso è da prendere l’affermazione del testo: non cioè che nello Stato moderno manchino gli elementi riconducibili al tipo “società”; ma solo che, in definitiva, sono (o diventano) prevalenti quelli accostabili al tipo “comuni tà”. In effetti talvolta tali concetti vengono impiegati non come “tipi ideali”, ma come denotanti realtà sociali concrete, riconducibili in tutto e per tutto agli stessi (come le classificazioni zoologiche e botaniche). Èsignificativo tal volta leggere scritti di giuristi tutti convinti che, come “esistono” in concreto contratti e provvedimenti, così dovrebbero esistere “comunità”, “società”, “patrimonialismo” e, quel che più conta, persuasi di aver compreso, così facendo il senso dell’opera e del metodo di Max Weber (in particolare per chiarire il reale pensiero di quest’ultimo v. la raccolta di saggi pubblicati in traduzione italiana col titolo “limetodo delle scienze storico-socia/i”, Torino 195).
(26) Ci riferiamo, per la contrapposizione e la definizione tra comunità e società (e quindi tra le istituzioni – comunità e le istituzioni – società) alla (classica) ripartizione di Ferdinand TONNIES (v. Gemeinschaft und Gesell schaft, it. Milano 1979, in particolare p. 45-47); non si comprende a tale proposito come taluno abbia potuto affermare (v. M.S. GIANNINI, Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 31) che TONNIES “di stinse due sorta di gruppi: quelli diffusi non organizzati, che sono la società e quelli, diffusi o concentrati o organizzati, che sono le comunità”. Mentre è noto che per TONNIES il fundamentum distinctionis tra le une e le altre non era, come pensa GIANNINI, di avere o meno un’organizzazione, ma quello di basarsi su rapporti di tipo “meccanico” o, invece su rapporti “organici”. Per TONNIES (com’è intuibile nell’osservazione della realtà sociale e giuri dica) la Fiat è una società, mentre la setta valdese è una comunità. Ciò non toglie che entrambe siano ed abbiano delle organizzazioni.
Invero secondo TONNIES comunità significa un certo modo di atteggiarsi di relazioni sociali per cui “la comunità debba essere intesa come un organi smo vivente, e la Società, invece come un aggregato e prodotto meccanico” ( op. cit., p. 47). La prima è concepita come “vita sociale ed organica”; la seconda è una “formazione ideale e meccanica” (op. cit., p. 45).
Com’è noto che TONNIES, sviluppando questa intuizione basilare, rap portava ad uno dei grandi gruppi (o meglio ai tipi ideali) di associazioni sociali una serie di concetti, anche giuridici, derivanti dallo schema comu nità/società, come: volontà essenziale/volontà arbitraria; io/persona; pos sesso/patrimonio; suolo/denaro; diritto familiare/diritto delle obbligazioni; status/contratto (op. cit., p. 229). In questo, com’è chiaro. non c’è nulla che lasci presagire un fundamentum distinctionis come quello che attribuisce GIANNINI al sociologo tedesco, tenuto conto anche del fatto sopra cenna to, che sia le “società” che le “comunità” hanno un’organizzazione.
Il pensiero di TONNIES è stato peraltro costantemente interpretato nel senso esposto: basti citare all’uopo Max Weber, il quale pur innovando -in parte – alla distinzione di TONNIES, definisce “comunità” la relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una “comune appar tenenza oggettivamente sentita”; “associazione” se poggia “su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente”. (Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Milano 1980, p. 38).
(27) Il discorso sulla connessione tra istituzionismo e decisionismo nel pensiero dei controrivoluzionari potrebbe apparire impreciso, atteso l’im piego di termini e formule che, nate nella dottrina del diritto, possono tra sporsi con una certa difficoltà a problematiche non del tutto coincidenti
In effetti, come spesso notato, la dottrina dello Stato di Bonald, Maistre e Donoso Cortés (ma anche – in parte – quella di Haller) è incentrata sul rap porto tra metafisica (e visione del mondo) e società politica. L’uno determi nante l’altra; è il reale, che si tratti di leggi naturali o credenze, a determinare il normativo. In questo contesto il ruolo autonomo della decisione è quello (insopprimibile) della scelta -in un contesto dato-tra male e bene; è il libero arbitrio applicato alla politica. La libertà di scelta tra più situazioni determi nate. Il cattolicesimo di Bonald, Maistre e Donoso Cortés impediva loro di cadere sia in un determinismo storico-sociale assoluto, sia nell’altrettanto assoluto soggettivismo. L’espressione forse più chiara di questo rapporto la si trova formulata da Maistre all’inizio delle “Considerations sur la France”; “siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Libera mente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno real mente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali. Ognuno di questi esseri occupa il centro di una sfera di attività, il cui diametro varia a piacere del geometra eterno, che sa estendere, restringere, arrestare o diri gere la volontà, senza alterare la sua natura. Nelle opere dell’uomo, tutto è misero come l’autore: le vedute sono ristrette, i mezzi rigidi, le molle infles sibili, i movimenti penosi, e monotoni i risultati. Nelle opere della divinità, le ricchezze dell’infinito si mostrano allo scoperto fin nel minimo dettaglio: la sua potenza agisce come per gioco; nelle sue mani tutto è docile, nulla le resiste; per essa tutto è mezzo, perfino l’ostacolo: e le irregolarità prodotte dall’operare dei liberi agenti trovano il loro posto nell’ordine generale.
Se si immagina un orologio di cui tutte le molle variassero continuamente di forza, di peso, di dimensione, di forma e di posizione, e che indicasse tut tavia l’ora invariabilmente, ci si farà un’idea dell’azione degli esseri liberi in relazione ai piani del Creatore. Nel mondo politico e morale, come nelmondo fisico, esiste un ordine comune, ed esistono eccezioni a questo ordine. Comunemente vediamo una serie di effetti prodotti dalle stesse cause; ma in alcune epoche vediamo azioni sospese, cause paralizzate ed effetti nuovi.”
(v. trad. it., Roma 1985, p. 3). Dalle due impostazioni, soggettivismo ed oggettivismo, il primo negherebbe l’uomo, nella sua natura problematica e nel suo essere libero e perciò nelle sue possibilità di salvezza, ilsecondo Dio e la Sua trascendenza. Nella realtà i riferimenti di Bonald, Maistre e Cortès (nonché di Haller) ad una concezione “istituzionale” (ante litteram) dello Stato (e – in minor misura – del diritto) sono così frequenti e ripetuti che larga parte delle tesi di Hauriou, Schmitt e Santi Romano ne sembrano la diretta derivazione, se non un’aggiornata ripetizione. Data l’influenza delle concezioni aristotelico-tomistiche sui controrivoluzionari non c’è neppure da stupirsi che la loro visione dello Stato non sia diversa. All’uopo è sufficiente ricordare l’affermazione di Bonald che: “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza” (v. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Stael, trad. it. La costituzione come esistenza, Roma, 1985 p. 35); e che ciò che fa uno Stato sono “monarchia, religione e giustizia” (op. cit., p. 36); ovvero l’importanza che tutti i controrivoluzionari danno all’idea (e cioè alla visione del mondo) come determinante le istituzioni, come nello stesso senso alle cause storiche e naturali; o anche l’affermazione di De Maistre che “la costituzione è un’opera divina” e che “le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta “(Essai sur !es constitutions politiques I e IX); ovvero quella di Donoso Cortès che considera “le leggi fatte per la società e non viceversa ” ( Discurso sobre la dictatura, trad. it., Brescia 1964). Tutte affermazioni (e tante altre se ne potrebbero ricordare, a voler esaspe rare la pazienza del lettore) che confermano il carattere “istituzionalista” della loro visione della società politica.
(28) I rapporti tra le teorie di PARETO, MOSCA, MICHELS, FERRERO, e quella dei tre giuristi considerati, sono, ancor più di quelle tra questi e controrivoluzionari, largamente (se non totalmente) da Secondo PARETO le società umane non possono sussistere senza una gerarchia ( Oeuvres, voi. VII, p. 422 v. anche J. FREUND, Pareto, trad. it. Bari 1976
146), e che comunque ogni società è divisa in due strati “uno strato superiore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati”. ( Oeuvres voi. XII p. 1301). La “costante” della divisione in classi (governante e governata) nelle società umane è confermata da Mosca: “Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politi ci, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta; in tutte le società … esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati” ( La classe politica, rist. Bari 1966 p. 61). Il termine “organizzazione” viene talvolta da Mosca riferito alla classe dirigente, tal’altra all’intera società. Ma, in ambedue i casi, Mosca chiaramente riferisce il concetto al rapporto comando -obbedienza, sia in funzione del dominio stesso (la classe politica si organizza per esercitare il comando o, il che è lo stesso, per imporre la volontà dei propri componenti alla maggioranza), sia in funzione dell’esistenza della comunità globalmente intesa (v. op. cit., p. 177). Ancor più chiaro è il collegamento tra dominio delle élites ed organizzazione in MICHELS. Secondo questi “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici… Essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti …; il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione induce necessariamente i soci… a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e competenze, ai soli capi. .. L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che è governata” ( Studi sulla democrazia e l’autorità; Firenze 1933 p. 32-33).
MONACO DI BAVIERA – L’Europa sta scivolando nell’oblio come in preda al sonnambulismo, e i popoli europei devono svegliarsi prima che sia troppo tardi. Se questo non avverrà, l’Unione europea è destinata a finire come l’Unione sovietica nel 1991. Né i nostri leader né i cittadini sembrano comprendere che stiamo vivendo un momento di grande rivoluzione, che abbiamo davanti a noi un ventaglio infinito di possibilità, e che per questo vi è grande incertezza sul risultato finale.
La maggior parte di noi pensa che il futuro sarà più o meno simile al presente, ma questo non è affatto scontato. In una vita lunga e movimentata come la mia, ho vissuto in prima persona molti momenti di quella che io chiamo “radicale instabilità”. Ebbene, oggi stiamo attraversando uno di questi momenti.
Il prossimo punto di svolta sarà rappresentato dalle elezioni del Parlamento europeo che si terranno a maggio del 2019. Purtroppo, le forze anti-europee godranno di un vantaggio competitivo nel processo di votazione per una serie di ragioni, tra cui il sistema partitico superato che vige in gran parte dei paesi europei, l’impossibilità pratica di modificare il trattato e la mancanza di strumenti legali per disciplinare gli stati membri che violano i principi fondanti dell’Unione europea. L’Ue può imporre l’acquis comunitario (il suo corpus giuridico) ai paesi candidati, ma non ha capacità sufficiente per garantirne l’osservanza da parte degli stati membri.
L’antiquato sistema dei partiti ostacola coloro che vogliono preservare i valori su cui poggia l’Ue, mentre aiuta chi vuole sostituire tali valori con qualcosa di profondamente diverso. Questo vale per i singoli paesi e ancora di più per le alleanze transeuropee.
Il sistema partitico dei singoli stati riflette le divisioni che hanno avuto rilevanza nel diciannovesimo e ventesimo secolo, come il conflitto tra capitale e lavoro. Ma la spaccatura che più conta al giorno d’oggi è quella tra le forze favorevoli e contrarie all’Europa.
Il paese dominante nell’Ue è la Germania, e l’alleanza politica dominante in Germania – quella tra l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e l’Unione Cristiano-Sociale in Baviera (CSU) – è divenuta insostenibile. Tale alleanza ha funzionato finché non c’era alcun partito degno di nota a destra della CSU in Baviera, ma le cose sono cambiate con l’ascesa del partito estremista Alternative für Deutschland (AfD). Alle elezioni federali del settembre scorso, la CSU ha incassato il peggior risultato da oltre sessant’anni, mentre l’AfD ha fatto il suo esordio nel Parlamento bavarese.
L’ascesa dell’AfD ha vanificato la ragion d’essere dell’alleanza CDU-CSU, che però non può infrangersi senza innescare nuove elezioni, non auspicabili né per la Germania né per l’Europa. Allo stato attuale, la coalizione di governo non può essere così filoeuropea come invece sarebbe senza l’incombente minaccia dell’AfD a destra.
La situazione è lungi dall’essere disperata. I Verdi tedeschi si sono confermati come l’unico partito realmente europeista del paese, e continuano a guadagnare consensi nei sondaggi, mentre l’AfD sembra aver raggiunto il suo apice (tranne nell’ex Germania orientale). Ora, però, gli elettori dell’alleanza CDU-CSU sono rappresentati da un partito il cui impegno verso i valori europei è ambivalente.
Anche nel Regno Unito una struttura partitica obsoleta impedisce alla volontà popolare di trovare la giusta espressione. Tanto i laburisti quanto i conservatori sono divisi al loro interno, ma i rispettivi leader, Jeremy Corbyn e Theresa May, sono così determinati a portare a compimento la Brexit da acconsentire a collaborare pur di riuscirvi. La situazione si è complicata a tal punto che la maggior parte dei britannici vuole solo farla finita, pur se ciò segnerà il destino del paese per i prossimi decenni.
Ma la collusione tra Corbyn e May ha suscitato una certa opposizione all’interno dei rispettivi partiti, che nel caso dei laburisti rasenta la ribellione. Il giorno dopo l’incontro tra Corbyn e May, quest’ultima ha annunciato un programma per aiutare i distretti laburisti più poveri nel nord dell’Inghilterra, favorevoli alla Brexit. Corbyn è ora accusato di essere venuto meno all’impegno manifestato alla conferenza del partito laburista del settembre 2018 di appoggiare un secondo referendum sulla Brexit se non sarà possibile andare alle urne.
D’altro canto, la gente sta cominciando a rendersi conto delle conseguenze nefaste dell’uscita dall’Ue. Le probabilità che l’accordo di May venga respinto il 14 febbraio prossimo aumentano giorno dopo giorno. Ciò potrebbe suscitare un’ondata crescente di sostegno a favore di un nuovo referendum o, meglio ancora, di una revoca della notifica dell’articolo 50.
L’Italia si trova in una situazione analoga. Nel 2017, l’Ue ha commesso l’errore fatale di applicare rigorosamente l’Accordo di Dublino, che ingiustamente grava sui paesi di primo approdo per i migranti, come l’Italia. La situazione venutasi a creare ha spinto nel 2018 l’elettorato italiano, prevalentemente favorevole sia all’Europa sia all’immigrazione, verso il partito anti-europeo della Lega e il Movimento 5 Stelle. Il Partito Democratico, che prima dominava, è allo sbando e, pertanto, quella fetta non esigua di elettori che continuano a essere filoeuropei non ha più un partito da votare. È, tuttavia, in corso un tentativo di organizzare una lista europeista congiunta, e un simile riordino del sistema partitico sta avvenendo anche in Francia, Polonia, Svezia e forse altrove.
Nel caso delle alleanze transeuropee, la situazione è ancora più grave. Se, infatti, i partiti nazionali affondano le radici in un qualche passato, le alleanze transeuropee si basano interamente sugli interessi personali dei leader politici. Il Partito popolare europeo (PPE) è il primo colpevole. Esso è quasi del tutto privo di principi, come dimostra la sua volontà di consentire a Fidesz, l’unione civica presieduta dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, di continuare a far parte della coalizione al fine di conservare la maggioranza e controllare l’assegnazione di incarichi di prestigio nell’Ue. Le forze anti-europee rischiano persino di fare bella figura in confronto poiché se non altro hanno dei principi, per quanto odiosi.
È difficile immaginare come i partiti filoeuropei possano uscire vittoriosi dalle elezioni di maggio se non anteporranno gli interessi dell’Europa ai propri. Si può comunque sostenere l’opportunità di preservare l’Ue per poi reinventarla del tutto. Ma questo richiederebbe un cambio di atteggiamento nell’Unione stessa. La leadership attuale rievoca il politburo all’epoca del crollo dell’Unione sovietica, che continuava a emettere ukase, i decreti dello zar, come se fossero ancora attuali.
Il primo passo per difendere l’Europa dai suoi nemici, sia interni che esterni, è riconoscere l’entità della minaccia che rappresentano. Il secondo consiste nel risvegliare la dormiente maggioranza filoeuropea e mobilitarla in difesa dei valori fondanti dell’Ue. Se ciò non avverrà, il sogno di un’Europa unita potrebbe trasformarsi nell’incubo del ventunesimo secolo.
tocca con accoratezza e puntualità alcuni dei punti deboli di un movimento straordinariamente pervicace, capace di logorare la credibilità di un Presidente dall’aura jupiteriana al momento dell’insediamento ma in netto declino e in crescente debito di autorevolezza. A Macron non resta che l’arma della delegittimazione; il movimento dei Gilet Gialli rischia di offrire più di un argomento e di un pretesto a questo disegno_Buona lettura_Giuseppe Germinario
UNA POLIZIA IN GIALLO –
DI MICHEL ONFRAY michelonfray.com
Non sono mai stato uno di quegli irenisti ( NdT. : pacifisti snob) di sinistra
che, eccitati e turbati dal pensiero del 68, sono arrivati a invocare
l’apertura delle prigioni, l’odio per la polizia, lo scioglimento dell’esercito, il
rifiuto dei servizi segreti, il veto per le carte d’identità biometriche. Senza
considerare però che per farsi un’idea della natura umana che escluda i
fatti – secondo il desiderio e il metodo di Rousseau che è il padre di tutta
la sinistra culturale – è necessario che nella società regni l’ordine, purché
sia davvero repubblicano e non l’ordine voluto da una minoranza, una
casta, un’oligarchia che sottomette la maggioranza al proprio potere.
Le forze dell’ordine, se sono al servizio di un ordine ingiusto, vanno
criticate. La polizia di Vichy non è la polizia di Macron, per quanto si possa
dire al riguardo. Allora la polizia aveva il diritto di vita e di morte sui
cittadini, ora no. Sappiamo che dove non arriva la polizia repubblicana in
genere emerge un desiderio di polizia privata. I “vicini che vigilano”, per
esempio, compensano le distrazioni di una polizia travolta dai furti con
scasso e il privato porta avanti una sorveglianza che definisco popolare.
Non vedo niente da obbiettare.
Hobbes aveva teorizzato la cosa: bisogna rinunciare alla propria libertà
individuale per ottenere, creandola, una sicurezza sociale. Questa è la
natura del contratto sociale: rinuncio alla legge della giungla e ottengo,
grazie a questa rinuncia, che metto alla base del contratto, la certezza che
la società mi proteggerà.
Ma – e tutto Hobbes si trova in questo “ma” – se la società non fa la sua
parte, se non mantiene la parola, se non mi protegge, se mi espone alla
legge della giungla che applicano gli altri , allora io de facto recupero il mio
diritto di difendermi. In altre parole: se la polizia non mi difende, io ho il
diritto di sostituirmi alla polizia. Perché una polizia impotente non può
avere la legittimità di essere e rimanere polizia. A cosa servono le forze
dell’ordine se non hanno forza e non riescono a mantenere l’ordine?
Il movimento dei GJ (Gilet-Jaunes) è travagliato da forti tensioni: tra un’ala
di estrema sinistra e un’ala di estrema destra, passando per un centro di
destra e un centro di sinistra, con Maastrichtiani e sovranisti, insomma vi
si trovano tutte le sensibilità della politica francese. Come potrebbe essere
altrimenti? Ingrid Levavasseur appare su una intera pagina sul Figaro per
cantare le lodi dell’Europa di Maastricht … Questa donna è una
benedizione per i media. Invece Eric Drouet, che rappresenta la versione
più brutale dei GJ , non avrà mai una pagina intera sul Figaro per esporre
le proprie idee …
Allo stesso modo, tra i GJ c’è tutto e il contrario di tutto in termini di
intelligenza e di cultura: persone istruite, che hanno fatto buone letture,
che sanno pensare, che riflettono e conoscono la storia e accanto a loro
dei perfetti ignoranti, che non conoscono le leggi della grammatica, della
sintassi e dell’ ortografia, come testimoniano i video che li raccontano,
messi in onda con genuina avidità dalle varie redazioni, anche se dicono
che, tra le tante idee disordinate e caotiche, c’è del buonsenso. Cultura e
intelligenza non sono garanzia di buonsenso, e viceversa.
Sono in contatto con alcuni GJ che mi invitano a leggere libri che prima di
incontrarli non sapevo nemmeno che esistessero. Ci scambiamo consigli
sulle letture e uno di loro sottolinea e annota il “Contratto sociale” di
Rousseau, un altro mi chiede di leggere Proudhon, un terzo vuole sapere
qual era il programma politico dei Girondini durante la Rivoluzione
francese o cosa è il comunalismo libertario di cui io dico un gran bene.
Nel momento in cui scrivo, vedo dalla mia scrivania una ventina di GJ
raccolti ai piedi della statua di Giovanna d’Arco a Place de la Resistance a
Caen. Uno di loro si arrampica sulla statua equestre e mette un gilet giallo
all’eroina. In mezzo al gruppetto, una ragazza grida: “Giovanna d’Arco,
che lavoro fai?” e tutti gridano. “Aspetta che faccio un video e lo metto su
una chiavetta USB, però lo devo cancellare dal mio portatile perché mi
hanno detto che potrebbe interessare altra gente oltre i miei soliti amici
…” Il video non si può metterlo in linea perché la polizia arriverebbe ai
suoi contatti, che potrebbero essere allertati e poi finire in prigione.
Ci sono quindi dei GJ che meditano sui grandi autori della filosofia politica
e dei GJ che teatralizzano la loro fratellanza in modo festoso e bonario.
Può darsi che sia la stessa cosa. Lo vediamo a livello nazionale, ci sono
GJ che sfilano pacifici e altri che giocano con il fuoco, in tutti i sensi. Ci
sono GJ che hanno simpatie per il Rassemblement National e altri per la France
Insoumise. Ci sono anche quelli che votano scheda bianca o che non hanno
votato sempre, altri che hanno votato Macron e sono rimasti delusi dalla
sua politica.
Ho detto altrove che la violenza stava montando da settimane per effetto
della strategia adottata dal governo e in particolare dal capo dello Stato: le
proposte sprezzanti, l’atteggiamento del non-ricevere, le moratorie
strategiche al posto di piccole rinunce per buonsenso, della
criminalizzazione di tutto in nome di un puntiglio, l’organizzazione di un
tour narcisista in provincia, pubblicizzato e presentato come un’opportunità
per parlare con i francesi dei loro problemi, non senza aver prima chiarito
che le conclusioni dovranno essere quelle già scritte da diversi mesi e che
la linea di Maastricht non si tocca …
Settimana dopo settimana, il potere non molla niente e alza il tono. Lo
sanno tutti! è come un pranzo della domenica. Facendo così, con questa
strategia, ci sono le migliori possibilità di buttare il tavolo all’aria prima di
arrivare alla frutta … Eccetto che nella dittatura, il potere ascolta quello
che dice la gente, quando esprime la propria sofferenza. Eccetto che nella
dittatura, il potere risponde alle richieste sedendosi al tavolo del negoziato.
Il candidato Macron, riempiendosi la bocca con citazioni del filosofo
Habermas, aveva detto che quello era il vero cuore della sua politica. Ma
la “azione comunicativa” del filosofo tedesco non è più all’ordine del giorno
del Presidente della Repubblica che pensa a un pensiero più complesso
… Eccetto che nella dittatura, il potere prende atto della parola della gente
e agisce di conseguenza, avendo in mente il desiderio di calmare le
acque: il capo dello stato non vuole calmare le acque. Sembra perfino che
si diverta a buttare olio sul fuoco.
Ho scritto che la polizia è stata pesantemente strumentalizzata nella
risposta repressiva a questa prima richiesta di rifondazione della
democrazia, perché è di questo che si tratta. Non si soddisfa una richiesta
di questo genere, buttando dieci miliardi sul tavolo, con lo stesso gesto
banale e volgare di un cliente che paga per usare il corpo di una prostituta.
Questo pacchetto di banconote (soldi dei contribuenti …) fa dire a
François Berléand (un amico del presidente che foto sorridenti mostrano in
compagnia di Romain Goupil e di Daniel Cohn-Bendit …) che i GJ
avrebbero dovuto farsi comprare, prendersi quei soldi, starsene zitti e
tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Si può andare sui media e in
mezzo alla gente, parlando di “grugniti” di un popolo che sta raccontando
la sua sofferenza, come si parla di un cane che ringhia rabbioso?
C’è nelle forze dell’ordine tutto e il contrario di tutto: cowboy che amano
picchiare, colpire, che amano malmenare, molestare, prendere di mira su
un volto teso, mentre si preparano a sfigurarlo con lo sporco piacere di
gente malata. Ma ci sono anche agenti di polizia che credono nella
Repubblica, nella legge, nel diritto, nella giustizia e che non amano che il
potere faccia svolgere loro il ruolo di una milizia governativa che deve far
rispettare l’ordine pubblico, ma che deve proteggere gli interessi privati di
gente che usa, e non serve, la Repubblica.
Tutti avranno visto che il governo, il Ministro degli Interni e, in prima fila il
presidente della Repubblica, garantiscono impunità per i loro cow-boys.
Questo è il modo migliore per buttare olio sul fuoco. La scelta della
repressione è tuttavia a geometria variabile.
Perché, è innegabile, ci sono dei casseur nelle manifestazioni dei GJ. Ho
regolarmente affermato che la polizia aveva lasciato tranquillamente che
sugli Champs-Elysees disselciassero la strada, e questa è una implicita
ammissione che il potere voleva e aveva bisogno di una violenza di questo
tipo. Ho anche detto di avere informazioni che attestano che c’era stato
qualcuno che aveva provocato le violenze a Caen, gente che indossava
un giubbotto giallo ma che era stata vista scendere da auto che di solito
servono al personale antisommossa che deve contenere le dimostrazioni
dei GJ …
Ci sono anche “block blocs”, come si dice, che il potere ha interesse, se
non ad infiltrare, almeno a lasciar fare. Tutto questo serve molto ai media,
dal momento che le dimostrazioni possono venir svuotate del loro
contenuto politico e di protesta per essere raccontate come esplosioni di
rabbia, come dimostrazioni barbariche, esplosioni selvagge, devastazioni
fatte da orde selvagge … Il francese medio davanti alla TV potrebbe
pensare di non essere contro le dimostrazioni ma che, viste queste cose,
si deve pur fare qualche cosa … È l’ ABC della propaganda di stato.
Il paradosso è questo: se non possiamo fidarci che la polizia faccia la
polizia, allora dobbiamo boicottare tutta la polizia? La risposta è
ovviamente: no. E qui torniamo a Hobbes, che giustifica un cittadino che
chiede di recuperare i suoi diritti, quando viene abbandonato e quando lo
stato non gli dà più protezione, anzi peggio, lo stato non contento di non
dargli nessuna protezione, ormai gli dice che ci sarà una repressione !
È urgente che i GJ non cadano nella trappola che il potere gli sta
tendendo, dando spazio alla progressione della violenza. Gli attacchi ad
hominem, le vandalizzazioni di sezioni di partito, dei negozi e ultimamente,
la distruzione di una libreria a Parigi, le minacce anonime sui social
network, e poi le dichiarazioni di odio restituite a chi ha espresso odio –
penso a Berléand e ad altri oppositori … l’incendio in Bretagna della casa
del presidente dell’Assemblea nazionale e di quel ristorante, fuori Tolosa, il
cui Chef aveva detto di non essere solidale con il movimento: tutto questo
è geneticamente spiegabile ma moralmente e politicamente è
imperdonabile.
Questo è esattamente quello che vogliono Macron e i suoi: una escalation
della violenza che legittimerà l’escalation della repressione e che genererà
un recupero del capo dello stato nei sondaggi, e poi al successo nelle
prossime elezioni europee. Chiunque scelga la violenza vota
paradossalmente per Macron!
E poi, e poi, ahimè, tre volte ahimè, c’è in questo movimento una
innegabile corrente antisemita. Ho cercato di spiegare che non si deve
assimilare tutto il popolo dei GJ al comportamento di uno, due, o forse di
alcuni gilet-gialli. Ma uno solo, due o pochi di loro non vuol dire che non
esistano.
Un amico GJ mi ha inviato un certo numero di poster che sono stati
attaccati ai muri di Caen e che spiegano cosa vogliono i suoi compagni. Si
parla molto di giustizia sociale e fiscale, di responsabilità dell’Europa di
Maastricht, di negazioni della democrazia, di oblio del popolo, di
responsabilità della MEDEF, di Repubblica sociale, delle repressioni della
polizia, del RIC – il Referendum di Iniziativa Civica – della collusione di
Macron con il mondo degli affari, di disoccupazione, delle mutilazioni
prodotte dalla polizia, ci sono anche delle caricature di Emmanuel Macron,
di Christophe Castaner, di Luc Ferry, di Benalla, è tutto un gioco politico, e
poi, anche se lei non se lo meritava e niente e nulla lo giustifica, di
Brigitte Macron.
Ho esattamente 151 poster. Probabilmente però ne ho uno di troppo –
solo uno su centocinquanta – ma è uno che fa vomitare. Vediamo un
uomo che sembra un vecchio ebreo che legge un libro che potrebbe
essere il Talmud con una didascalia che dice: “Ci deve essere una
formula per sbarazzarsi di tutti questi con (sic) …” Questo poster è
davvero uno di troppo. Raccoglie tutti i cliché antisemiti e offre agli ebrei
il pretesto per voler “liberarsi di tutti i GJ” dato che qualcuno, a suo tempo,
aveva già voluto liberarsi degli ebrei. I nemici dei GJ hanno quindi una
strada aperta per poter dire che i GJ di oggi sono come gli antisemiti del
1933. Come dar loro torto? Cosa rispondere dal momento che ora
qualcuno ha portato loro gli argomenti da usare su un piatto d’argento?
Atti antisemiti sono esistiti fin dall’inizio in questo movimento dei GJ ed io
mi sono battuto per non far confondere questi gesti con la posizione di tutti
i GJ. Oggi mi hanno mandato una foto di una vetrina del negozio di Bagel
a Parigi con scritto “Juden” in giallo … sono allibito, indignato, mortificato
nel vedere una cosa del genere … Chi l’ha fatto? Chi? Sappiamo che molti
hanno interesse nel non chiedersi chi sia stato all’origine di questa infamia
per poterla addebitare al GJ. Ma potrebbe anche essere stato il lavoro di
un gilet giallo.
Tutto è possibile: possono essere stati veri antisemiti ovviamente,
provocatori che vengono da ogni parte politica, dall’estrema destra (cioè
dalla destra oltre Marine Le Pen) all’estrema sinistra ( cioè la sinistra oltre
Jean-Luc Mélenchon), entrambe le parti sono judéophobes, per non
parlare di qualche settore dello Stato … Si può immaginare che, nel
dubbio, dal momento che questo crimine giova agli avversari e ai nemici
dei GJ, non verrà messo un grande zelo dalla parte dello stato per cercare
il vero colpevole o i veri colpevoli di questa scritta che, ahimè, entra nella
Storia.
A maggior ragione serve che i GJ si dotino subito di un servizio d’ordine
vero e proprio che farà quello che non fanno più molti agenti di polizia, per
tante ragioni: per mancanza di zelo, per ideologia, per mancanza di
tempo, per obbedire agli ordini … Serve che i GJ chiedano consigli su
come mantenere la sicurezza ai sindacati e ai partiti politici per sapere
come organizzarsi e subito; è compito loro contenere, entro certi limiti,
alcuni impulsi cerebrali rettiliani. Contro le carogne, contro gli antisemiti,
contro i manifesti contro i rabbini, contro le insinuazioni giudeofobiche,
contro i tag esplicitamente nazisti, scritti in tedesco, è contro tutto questo
che devono difendersi e tutto ciò che devono evitare i GJ.
Altrimenti, questa battaglia a favore dei GJ cesserà immediatamente di
essere mia.
Michel Onfray
tratto da https://michelonfray.com/interventions-hebdomadaires/pour-une-police-en-jaune
Antonio Pilati, La catastrofe delle élite, Edizione Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 143, € 17,50.
Dopo un silenzio durevole quanto innaturale, seguito da svalutazioni stizzose (tutt’altro che esaurite) da parte dalle élite in via di detronizzazione dopo il 4 marzo (le “idi di marzo” – anticipate rispetto al calendario romano – della seconda repubblica), la letteratura sul populismo e sul sovranismo ha avuto un’impennata spettacolare, proporzionale alla pluriennale compressione del dibattito su tale svolta storica. Di libri che ne parlano, e spesso, come questo, nel senso non di giudicarli rispetto a idee e valori, ma Wertfrei in ossequio al “fattuale”, ne escono non meno di uno a settimana. Al punto che, a leggerli tutti, sarebbe necessario di fare di un interesse una professione: quella di populologo o sovranologo (variante sovranosofo). Dato che non ho tempo di diventarlo, cerco di recensirne qualcuno. A questo attento saggio di Pilati mi è venuto in mente che potrebbe essergli assegnato il premio “eterogenesi dei fini” per l’importanza – tutt’altro che esagerata – data a tale costante delle vicende umane rispetto agli altri saggi in circolazione.
Una parentesi per il lettore: con eterogenesi dei fini si definisce quell’azione/i umana/e il cui risultato è tutt’altro che quello voluto dall’agente. Omne agens agit proter finem, sosteneva S. Tommaso, ma non è detto che le azioni portino alle conseguenze sperate, progettate, volute.
Ed è proprio quello che è capitato nella storia di questi anni, e che Pilati evidenzia sin dalle prime pagine del libro.
Le élite inconsapevoli (così – giustamente – definite) non hanno né capito quanto stava succedendo – dopo il collasso del comunismo – né elaborato una strategia che tenesse conto dei dati reali e delle regolarità del politico (e non solo). In fondo la rappresentazione più sintetica (o tranquillizzante) di tale visione l’aveva data Francis Fukuyama col notissimo saggio sulla fine della storia. Sul quale mi capitò di scrivere che il filosofo nippo-americano aveva affermato due cose: a) che le democrazie occidentali avevano vinto il confronto con il comunismo, ossia la guerra fredda (vero); b) che, venuto meno il conflitto borghesia/proletariato sarebbe venuto meno – o sarebbe stato eliminato, o almeno, minimizzato – ogni conflitto (falso). Cioè superata la regolarità amico/nemico. Invece già l’11 settembre 2001 (al più tardi) si aveva uno choc planetario, che provava quanto fosse frutto di (condivisibili quanto errate) aspirazioni la tesi di Fukuyama. E già da prima maturavano le condizioni politiche, economiche e sociali di un nuovo contenuto/scriminante dell’amico/nemico: quello tra globalizzazione e comunità (e identità). Ma di ciò si è letto poco fino a tre/quattro anni fa. Per cui chiamare inconsapevoli le élite che hanno gestito la globalizzazione nel ventennio a cavallo dei due secoli è tutto da condividere.
Scrive l’autore che i punti-chiave della globalizzazione non compresi dai governanti di allora, erano quattro: la crescita economica auspicata creava nuovi squilibri; indeboliva il primato economico americano; genera divisioni tra Stati e all’interno degli Stati tra i vincitori (pochi) e i perdenti (tanti) della globalizzazione; infine le classi dirigenti erano cieche e insensibili alla “caduta sociale (e al dolore esistenziale) di chi soffre con la nuova globalizzazione ipertecnologica”. Ma ciò generava una nuova offerta politica, corrispondente alla domanda degli insoddisfatti. “La spaccatura diventa insanabile e il conto arriva alle elezioni del 2016” (e non è finita). Anche il tentativo di correre ai ripari, trovando (e costruendo) una versione pop del Katechon paolino (che era l’Impero romano, istituzione di tutt’altra consistenza e serietà) si risolve in un’eterogenesi dei fini: “l’invenzione in provetta dello sprezzante elitista Macron”, peraltro lì per lì riuscita, pare stia risolvendosi in un’abnorme crescita dell’opposizione anti-elitaria ed extraparlamentare dei “gilet gialli”. In altre parole le ostetriche dei populisti sono state le élite inconsapevoli (e mediocri). Scrive Pilati, a tale proposito sull’Italia e sui governi Monti (e successivi) che la loro azione “accumula stasi dell’economia, che si traduce in una cronica perdita di attività produttive e di reddito per molta parte della popolazione, disordine amministrativo, che sfocia nel proliferare dei poteri di veto, fragilità nei rapporti internazionali che stringono i vincoli gravanti sull’Italia e impongono più volte soluzioni onerose (sicurezza, banche, energia)”.
Da cui la prevedibile vittoria dei partiti anti-sistema; la quale conseguiva però anche da un’incapacità di sintesi sistemica. Mancando questa, il concretizzarsi di un’opposizione anti-sistema, è una logica conseguenza; e anche d’altro, già evidenziato da Lasch oltre vent’anni fa.
Tuttavia la conclusione di questa fase è ancora da venire. “Il voto del 4 marzo 2018, con il suo dirompente risultato che dà oltre metà dei voti a due movimenti o neonati (M5S è alla sua seconda elezione nazionale) o appena rifondati (Lega) e mette ai margini le forze che da un quarto di secolo dominano la scena parlamentare e fanno i governi, è soprattutto un sintomo di malessere: chiude una fase storica, ma non mostra la forza e la visione di aprirne una nuova. Inaugura una transizione incerta, ancora da definire nei suoi tratti operativi, esposta a molti contrasti e a contrattacchi violenti: più che un momento di decollo segna una frattura – un’altra – nella storia della politica recente” ma rispetto alle alte due crisi recenti (Tangentopoli nel ’91-’94 e governo dell’establishment del 2011-2012) c’è qualche chances in più: “Nei casi trascorsi i cambiamenti non hanno provocato esiti felici e la crisi italiana nel tempo non ha fatto che aggravarsi: l’esasperazione testimoniata dai risultati elettorali lo dimostra. Oggi però è il contesto internazionale, che in passato non ha giocato per noi, è molto fragile… In Italia la presa dell’establishment, che ha sempre penalizzato gli impulsi innovatori, appare confusa e contestata, l’innovazione della tecnologia offre chance favorevoli”. Speriamo bene.
C’è tanto altro in questo interessante saggio, ma la natura succinta della recensione non consente di scriverne: ai lettori scoprirlo.
MONACO DI BAVIERA – L’Europa sta scivolando nell’oblio come in preda al sonnambulismo, e i popoli europei devono svegliarsi prima che sia troppo tardi. Se questo non avverrà, l’Unione europea è destinata a finire come l’Unione sovietica nel 1991. Né i nostri leader né i cittadini sembrano comprendere che stiamo vivendo un momento di grande rivoluzione, che abbiamo davanti a noi un ventaglio infinito di possibilità, e che per questo vi è grande incertezza sul risultato finale.