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Indottrinamento e potere: una lettura sociologica_di Francesco D’Ambrosio

Indottrinamento e potere: una lettura sociologica

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 Francesco D’Ambrosio

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19 Giugno 2025

L’indottrinamento non è solo un discorso di psicologia. Esso può essere inquadrato in un ottica sociale come fenomeno che si manifesta quando una comunità interiorizza una serie di idee e valori senza metterli in discussione, spesso attraverso strumenti come l’educazione, i media e la propaganda.

Nel campo della sociologia dunque, l’indottrinamento non viene inteso semplicemente come una tecnica di manipolazione individuale, ma come un meccanismo sistemico di controllo sociale, profondamente radicato nella struttura delle istituzioni. Esso svolge una funzione strategica all’interno dei sistemi politici e religiosi in quanto opera sull’immaginario collettivo, contribuendo alla produzione di legittimità, alla normalizzazione dell’autorità e alla gestione del dissenso. Non è un dispositivo eccezionale dei regimi totalitari, ma una tecnologia ordinaria del potere, che si adatta perfettamente anche ai contesti democratici e post-secolari.

Indice

Il potere politico e la necessità del consenso ideologico

Ogni ordine politico, per sopravvivere, deve fare qualcosa di più che esercitare forza: deve convincereaddestrare alla lealtà, e soprattutto neutralizzare il pensiero critico che potrebbe minare la sua stabilità. In questo senso, l’indottrinamento è una risorsa fondamentale. Come spiegava Althusser (1970), lo Stato non agisce solo attraverso gli apparati repressivi (polizia, tribunali, esercito), ma anche — e soprattutto — attraverso quelli ideologici: la scuola, la famiglia, i media, la religione. In questi spazi si costruisce l’“uomo normale”, colui che accetta senza obiezioni il mondo così com’è.

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L’indottrinamento politico non è mai neutrale: seleziona il passato, definisce il presente, immagina il futuro. Lo vediamo nei regimi autoritari come in Russia, dove il controllo sul racconto storico e la gestione dell’informazione permettono al governo di giustificare l’invasione dell’Ucraina come “operazione speciale”, facendo leva su un’identità nazionale costruita ad arte attraverso la scuola, i media statali e la repressione selettiva del dissenso. Ma lo vediamo anche in democrazie liberali: basti pensare a come negli Stati Uniti l’amministrazione Trump stia combattendo ogni forma di dissenso – dalle politiche anti-migranti fino alle università – con l’obiettivo di voler proteggere “l’orgoglio nazionale” e creare una narrazione che rispecchi i principi MAGA, ossia l’esasperazione della cultura WASP.

Questi non sono semplici esempi di revisionismo: sono manifestazioni di un indottrinamento sistemico, in cui lo Stato si fa promotore di un’identità collettiva chiusa, semplificata, moralmente legittima. La sua funzione non è solo educativa, ma identitaria e normativa: decidere chi siamo, cosa possiamo sapere, cosa è lecito desiderare. È qui che la politica incontra la religione.

Religione e indottrinamento

La religione è storicamente uno degli strumenti più potenti di indottrinamento sociale. Non si tratta tanto — o non solo — di inculcare credenze metafisiche, quanto di strutturare comportamenti, ruoli, gerarchie e visioni del mondo in modo che appaiano non solo desiderabili, ma sacri e immutabili. Il sociologo Émile Durkheim già alla fine dell’Ottocento mostrava come la religione fosse la forma primaria attraverso cui una società prende coscienza di sé e si consolida come ordine normativo.

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Nelle sue forme istituzionalizzate, la religione funziona come una griglia interpretativa totalizzante, capace di spiegare tutto: la nascita, la morte, la giustizia, la colpa, la sessualità, il destino. È qui che l’indottrinamento trova terreno fertile: non solo perché le dottrine vengono trasmesse sin dall’infanzia, ma perché lo fanno con una pretesa di verità assoluta, non discutibile, che penalizza ogni forma di dubbio come peccato o devianza.

Legittimazione e sacralizzazione dell’ordine sociale

Ancora oggi, in molte aree del mondo, le religioni agiscono come dispositivi centrali dell’indottrinamento politico. In Iran, il regime teocratico basa la sua legittimità su un’interpretazione sciita della legge islamica (shari’a), imposta attraverso l’istruzione religiosa obbligatoria, la censura culturale e la repressione delle donne. Le manifestazioni pubbliche di dissenso, come quelle nate dopo la morte di Mahsa Amini, non si oppongono solo a una politica, ma a un’intera infrastruttura ideologica — religiosa e patriarcale — che forma le coscienze fin dalla più tenera età.

Ma la religione come indottrinamento non riguarda solo l’Islam politico. Anche nelle democrazie occidentali, forme di fondamentalismo cristiano si infiltrano nel dibattito pubblico, influenzando scelte scolastiche, sanitarie, sessuali. Il caso dell’“evangelicalismo” negli Stati Uniti, che sostiene attivamente le politiche ultraconservatrici su aborto, diritti LGBT e istruzione sessuale, mostra come una visione religiosa possa diventare un apparato ideologico funzionale al potere politico. Non a caso, molti leader populisti contemporanei hanno cercato e ottenuto il sostegno delle chiese fondamentaliste, barattando libertà civili con adesione ideologica.

Indottrinamento sociale: l’esempio Israeliano

Nel contesto dello Stato di Israele, questo processo trova una delle sue espressioni più evidenti nel sionismo e nelle politiche attuate sotto il governo di Benjamin Netanyahu. Il sionismo, nato nel 1897 come movimento politico e culturale, ha plasmato l’identità nazionale ebraica intorno al sogno di un ritorno nella “Terra promessa”. Attraverso scuole, istituzioni e mezzi di comunicazione, questa narrazione è stata diffusa capillarmente, costruendo un senso di appartenenza e legittimità nazionale. Tuttavia, questa forte identità ha anche contribuito a creare una visione unilaterale del conflitto israelo-palestinese, limitando spesso la capacità di critica interna e il dialogo.

Con Netanyahu, questa narrazione si è intensificata: la retorica governativa sottolinea spesso il pericolo rappresentato dai palestinesi e dai vicini arabi, giustificando politiche di sicurezza severe, limitazioni ai diritti dei palestinesi e una forte militarizzazione della società. Campagne mediatiche, celebrazioni nazionali, simboli come la bandiera o la memoria dell’Olocausto, vengono usati come strumenti per cementare un’identità condivisa e per normalizzare un pensiero che tende a escludere il dissenso (Finkelstein, 2002).

Questo intreccio tra identità nazionale, politica e comunicazione rappresenta una chiave fondamentale per comprendere non solo la società israeliana, ma anche le difficoltà nel trovare una soluzione pacifica e condivisa al conflitto mediorientale.

L’indottrinamento jihadista oggi: come si fabbrica un soldato della fede?

L’indottrinamento jihadista si presenta come una ulteriore forma sofisticata di ingegneria psicologico-religiosa, che agisce su soggetti fragili, disillusi o marginalizzati, offrendo loro non solo un’ideologia, ma un’identità alternativa: pura, eroica, assoluta. È in questo spazio che la violenza diventa dovere, il martirio una promozione sociale, e la religione uno strumento di mobilitazione politica.

Gli attori estremisti costruiscono una narrativa potente: il mondo sarebbe spaccato in due, l’Islam “autentico” da una parte, il caos dell’Occidente e dei “traditori” musulmani dall’altra. Dentro questa visione binaria, il combattente non è un criminale, ma un “leone di Dio”, parte di una fratellanza globale. Ogni passaggio è scandito da rituali e simboli, testi religiosi decontestualizzati, video estetizzati come trailer epici. La morte violenta viene reinterpretata come rinascita gloriosa.

L’esempio di Hamas

Nel caso di Hamas, questa logica assume una dimensione più capillare e comunitaria. Il movimento islamista palestinese ha costruito un sistema educativo parallelo — scuole, moschee, campi estivi — in cui la narrazione religiosa si fonde con la memoria della Nakba, l’umiliazione dell’occupazione e l’ideale della liberazione. Già nei manuali per bambini compaiono immagini di Gerusalemme “da riconquistare”, versetti coranici sul jihad, e l’esaltazione del martirio. Non solo un’ideologia, dunque, ma una pedagogia integrale della resistenza, in cui l’individuo cresce immerso in un linguaggio simbolico che normalizza la violenza.

E oggi? Sebbene l’ISIS abbia perso i territori del califfato, l’indottrinamento jihadista è tutt’altro che scomparso. Ha cambiato pelle. ISIS-K, attivo tra Afghanistan, Pakistan e Asia centrale, sta conquistando spazio anche sul piano mediatico. L’attentato del marzo 2024 alla sala da concerti Crocus di Mosca, è stato rivendicato proprio da questa sigla. Gli attentatori erano giovani radicalizzati online, cresciuti a migliaia di chilometri di distanza dal centro operativo dell’organizzazione.

Anche in Europa la minaccia persiste. Ci si radicalizza da soli, spesso in camera propria, attraverso gruppi Telegram, forum chiusi o video su piattaforme opache. Si può parlare oggi di una nuova era dell’autoindottrinamento, dove la figura del predicatore carismatico è sostituita da contenuti algoritmicamente potenziati e confezionati per suggestionare, commuovere, attivare.

In questo contesto, l’indottrinamento jihadista non è una semplice trasmissione di idee: è una costruzione parallela del reale, capace di sostituire affetti, futuro e senso del vivere. Combatterlo richiede strumenti non solo repressivi, ma culturali e sociali: perché dove fallisce l’integrazione, prospera il fanatismo.

L’indottrinamento come ordine: perché funziona?

L’aspetto più profondo, e più inquietante, dell’indottrinamento sociologico è che non ha bisogno necessariamente della menzogna per essere efficace. La sua forza risiede nella capacità di rendere invisibili le alternative. È un’azione che non convince tanto con la persuasione, quanto con la saturazione del senso. Quando un’intera società converge su un’unica visione della realtà, allora chi dissente non è semplicemente in errore: è impensabile, inaudito, indegno. L’indottrinamento riesce quando il pensiero critico appare come una minaccia e non come una risorsa.

Nel mondo contemporaneo, questa forma si è evoluta, diventando più fluida ma non meno efficace. Non si impone più solo attraverso le prediche o i proclami politici, ma anche attraverso la cultura popolare, il consumo, la spettacolarizzazione dell’identità. I social network, lungi dall’essere spazi neutri di espressione, funzionano spesso come camere di eco in cui le convinzioni vengono rafforzate, i nemici costruiti, la complessità espulsa. In questo scenario, l’indottrinamento non appare più come imposizione verticale, ma come adesione orizzontale e autoindotta, con individui che contribuiscono attivamente alla costruzione della propria gabbia cognitiva.

Una società senza indottrinamento è possibile?

Ogni gruppo umano ha bisogno di stabilire delle cornici comuni, dei valori guida, delle narrazioni condivise. Ma la differenza cruciale sta nel grado di trasparenza e pluralismo con cui queste narrazioni vengono prodotte. Quando l’indottrinamento diventa strumento del potere — politico o religioso — per blindare la realtà ed escludere il dissenso, allora diventa pericoloso. Il compito della sociologia non è smascherare una verità nascosta, ma rendere visibile l’invisibile: mostrare come certi pensieri dominino non perché sono veri, ma perché sono diventati normali.

Riferimenti

Francesco D'Ambrosio Caporedattore sociologicamente

Francesco D’Ambrosio

Docente di comunicazione e Gestione HR. Giornalista pubblicista laureato in Sociologia con lode. Redattore capo di Sociologicamente.it.
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