MASSA, POTENZA, ADATTAMENTO AL MONDO COMPLESSO, di Pierluigi Fagan

Fu un articolo di Agamben del 2013 ad attirare allora la mia attenzione sul saggio di Kojève che prospettava l’idea dell’Impero latino. Da allora seguii questa traccia del pensiero come alternativa tra l’idea di un pieno ritorno allo stato nazionale o la continuazione della tormentata confederazione economico-giuridica dell’UE. Le ragioni erano le stesse di Kojève anche se sono passati più di settanta anni e quindi il mio punto di partenza non aveva nulla a che fare con le contingenze ideologiche del sovranismo e dell’europeismo. Kojève è detto filosofo, ma quello che scrisse sull’Impero latino lo scrisse soprattutto come funzionario del governo francese di cui poi divenne esponente della burocrazia direttiva (nelle istituzioni OEEC-CECA-UNCATD-GATT). K restringeva l’idea di impero europeo di Kalergi, alla comunità dei popoli latini.
Del resto, anche Kalergi, venti anni prima, era partito dallo stesso problema di Kojève, problema che continuiamo ad avere: che rapporti di forza ci sono tra i popoli europei e quelli anglosassoni o russi o cinesi (Kalergi temeva il Giappone dati i suoi tempi o forse la madre) o oggi anche la vasta area asiatica che è un sistema con un certo grado di vari tipi di similarità, pur nelle sue ricche partizioni etniche? O attualizzando l’agenda: come gestiranno gli europei il problema dell’Africa che crescerà nei prossimi trenta anni circa di altri due terzi di popolazione, età media intorno ai venti anni, per un rilevante totale di 2,5 mld, in genere poveri mentre noi saremo 0,5 mld, in genere ricchi?
Europa è geopoliticamente per destino geografico obbligata a definire i suoi gradi di interrelazione con Asia, Arabia, Africa. Qualunque società vogliate immaginar desiderabile avere nei prossimi trenta anni, questa dovrebbe esser quanto più possibile in grado di autodeterminarsi, ma poiché gli europei vivono in un ambiente di potenze che tentano di usarla a loro fini o che domani potrebbero minacciarla, tale facoltà si ottiene solo con la potenza. La potenza non scaturisce di per sé dalla massa, ma ne ha precondizione. Non ha alcuna rilevanza se a voi la “potenza” non piaccia come concetto o idea, è il contesto eco-politico in cui viviamo ad imporla. Non ci piaceva neanche fino ad un anno fa ed infatti ci siamo svegliati con una guerra terribile all’uscio di casa perché ci occupavamo più delle nostre paturnie ideologiche interne invece di curare le nostre relazioni confinarie, capendo dove andava a parare il Grande Gioco del Mondo.
L’Italia da sola potrebbe fare molto di più in politica estera come mi sembra sottolinei sempre Caracciolo, tuttavia quella non sarà mai “potenza”. Gli stati nazionali europei emergono da una specifica geo-storia. Basta prendere un Atlante se vi fa fatica qualche libro di storia e capirete come questa parte di mondo sia dedita alla speciazione varietale. Ma se queste furono le condizioni imperfette di partenza, due guerre fratricide hanno suicidato ogni condizione di possibilità di poter esprimere potenza. Nessun stato europeo da solo, neanche la Germania, ha la massa degli asiatici, degli indiani, cinesi, americani e financo russi e contraendo le proprie possibilità sul tavolo dei globali, ne avrà progressivamente sempre di meno.
Quale fosse l’interesse dell’Europa sul problema russo-ucraino era chiaro: non far scoppiare nessuna guerra, mediare e costringerli a trovare e rispettare un ….. di accordo. L’hanno fatto? Non hanno fatto rispettare gli accordi di Minsk, poi si sono svegliati attoniti davanti al mantra dell’aggressore e dell’aggredito scendendo di fatto come fronte di una proxy war degli americani contro i russi ed in parte viceversa. L’interesse geostrategico dell’Europa era fare guerra al proprio fornitore di gas con cui confina e svenarsi in spese militari per supportare il proprio non interesse? Per quanto gli europei siano strani, tutto ciò si spiega solo con un profondo difetto di potenza. La sottomissione di una antica civiltà, ormai senile per quanto aliena alla saggezza come poche, la culla della “democrazia” e della filosofia, un clamoroso fallimento adattivo.
Quindi il problema è sempre quello dei nostri due K precedenti, come fondere popoli, per ottenere potenza?
Fondere popoli è esercizio complesso e la sua precondizione è data dalla cultura e dal tempo. Il tempo è necessario per compiere i molteplici processi di una tale costruzione, tempo storico che esonda di molti gradi l’attualità, chi vive nell’attualità non ha sufficiente spazio mentale per affrontare questa questione, non è in grado di ospitarla mentalmente. Chi davanti a questo argomento si mette a pensare a Macron o Scholz o il neoliberismo o il globalismo lasci perdere, stiamo parlando di un altro livello.
Poi c’è la cultura poiché la natura stessa di definizione di “popolo” è culturale. Le stesse fusioni operate tra XV e XVI secolo e seguenti per formare gli stati-nazione europei si compirono operando suture lungo linee di diversa identità relativa. Ancora oggi baschi, catalani, isolani (corsi, ad esempio) hanno parziale rigetto delle varie unificazioni pur in condizioni di omogeneità relativa con coloro con cui si sono associati. Meno problematiche ma ancora presenti differenze interne agli stati, soprattutto in Spagna, Francia, Italia e relativamente anche la Germania. Lasciando sospeso lo statuto “europeo” del Regno Unito che è un problema a sé. Se quindi la definizione stessa di popolo è culturale questi progetti di unificazione tra diverse entità che ormai hanno una soggettività secolare distinta, è un problema culturale.
Per questa ragione l’Unione europea non ha alcuna possibilità storica di unificarsi compiutamente perché c’è un eccesso di eterogeneità. Dai matrimoni alle fusioni societarie ai partiti, eccesso di eterogeneità porta al fallimento di fusione ovvero al rigetto. Da questo punto di vista, l’Europa geostorica ha varie aree di relativa omogeneità interna che rimane eterogeneità reciproca. L’area latino-mediterranea con anche l’area greca, l’area anglosassone, l’area germano-balto-scandinava, l’area slavo-carpato-danubiana che però è geostoricamente assai tormentata e tutt’altro che omogenea. Se i popoli europei capissero il problema della loro dotazione di potenza per il nuovo problema della convivenza planetaria e non più regionale come è stato per due millenni passati, è a queste aree che dovrebbero riferirsi per progetti di progressiva fusione federale. Tra loro, queste nuove entità potrebbero rimanere in una intesa confederale che non abbia istituzioni centrali se non quelle necessarie a supervisionare una qualche forma di mercato in comune (ma non di moneta) e magari una forza armata continentale non esclusiva.
Kalergi fu forse il primo a comprendere questa questione della potenza necessaria alle dinamiche di scenario di una piattaforma mondo tra Prima e Seconda guerra euro-mondiale, ma non comprese il vincolo culturale. Del resto, era austro-ungarico. Questa posizione era diversa dalla sottile tradizione di utopico unionismo europeo che risale all’ecumene cristiano poi fino a Kant ed alcuni idealisti del XIX secolo. Tutti questi ragionavano ancora come se lo scenario fosse solo la convivenza europea. Se Kalergi fu il primo a comprendere il problema esterno, Kojève fu il primo a comprendere la necessità di un certo grado di omogeneità culturale, cosa che mi sembra sfugga ad Agamben. Né una astratta ragione di filosofia politica o geostorico-politica, tantomeno ragioni economiche possono mediare i problemi di fusione culturale.
Noi italiani siamo la dimostrazione pratica di come tali fusioni andrebbero fatte con tempo e criterio. Dall’Italia dei Comuni e principati alla tarda unificazione dall’alto del XIX secolo, pur avendo ampi gradi di omogeneità culturale relativa, siamo la dimostrazione vivente di come processi mal condotti lascino intatte molte contraddizioni che poi minano la compattezza del soggetto geostorico che si voleva unificare.
Questo argomento però non ha alcuna possibilità di esser discusso prima ancora che condiviso. Manca la conoscenza diffusa sotto il profilo storico e geografico, manca la conoscenza relativa a quanto il mondo sia oggi e sempre più domani il contesto decisivo. Manca la conoscenza dei vari aspetti di necessaria profilazione culturale e di contro abbiamo varie teorie supportate con estrema passione, a favore o contro, su lo Stato-nazione, l’Unione in atto, il fatto economico, l’euro, l’idea di società, la diatriba tra nazionalismo e cosmopolitismo, tutte cose che purtroppo non dovrebbero aver alcun vero peso nel discutere questo problema.
In fondo, anche gli unificatori dell’Italia, per quanto commisero vari errori, avevano chiaro che il problema principale era esterno quel “…calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”. Allora il problema era verso la Francia, il Regno Unito ed ovviamente la Germania e l’Austria Ungheria. Oggi il problema è la convivenza euroasiatica, il Mediterraneo, la Turchia ed il Medio Oriente, nonché il mondo arabo ed il grande problema africano, l’emancipazione dall’Impero anglosassone. Ma anche le questioni climatico-ambientali, quelle di potenza tecnologica, di dotazione militare, demografiche, energetiche ed ovviamente economiche e finanziarie ed anche poi culturali come scelta di civiltà, di come la nostra antica civiltà intende affrontare il XXI e seguenti secoli visto che il moderno è terminato.
Per affrontare questi problemi ci vuole massa a base di potenza tra coloro che sono in grado di darsi un interesse comune, quindi non certo con gli europei del nord o dell’est e tantomeno con gli anglosassoni che vivono su un’altra piattaforma continentale.
Qualunque società vi piaccia immaginare, dovete prima dotarvi di un soggetto politico statale in grado di sopravvivere al meglio nel contesto di un mondo di prossimi 10 miliardi di umani. Ma non essendo in grado neanche di intavolare la discussione, preferiamo dedicarci a discutere se è meglio farlo liberale o conservatore o socialista, un tipico caso di idealismo impotente in cui la forma si pensa prima della sostanza.

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