RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTA

Questo breve saggio era stato pubblicato sul n. 3/2001 di “Palomar”. Lo
si propone perché presenta spunti d’attualità.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

RAGION DI STATO E RAZIONALISMO GIURIDICO

  1. Malgrado le vicende del secolo scorso, in particolare le guerre mondiali e i regimi totalitari poterebbero contraddirlo, è un fatto che l’idea di Stato e la realizzazione della stessa è un’opera, a un tempo, in larga misura della ragione e del razionalismo (politico e giuridico) dell’età moderna.

Non a caso, appena nato lo Stato, per definire a un tempo il criterio di azione di questo e del Principe, si usò l’espressione “Ragion di Stato”; ma non è men vero che se essa individua il dovere e la “bussola” del governante (e in larga misura l’ambito, anche giuridico, dei poteri del medesimo) quello moderno è, insieme, mutuando il titolo di un’opera di Fiche, uno Stato secondo ragione. Anche se sull’esatta definizione di questa espressione e su cosa s’intenda per essa, è bene capirsi, per non confondere la ragione “storica” e “concreta” con le costruzioni intellettualistiche, (e nelle intenzioni, spesso utopiche), di cui la modernità ci ha fornito una pletora di esempi (al punto che De Maistre, affermava di non conoscere, nell’epoca pre-rivoluzionaria, un giovane letterato che non avesse scritto almeno un trattato di pedagogia e una costituzione); mentre il carattere peculiare della ragion di Stato, è sì d’essere “razionale”, ma di esserlo in una situazione data e su presupposti concreti, ovvero di costituire la regola di scelta in un contesto reale; è cioè l’applicazione – conseguenza del realismo politico, e non dell’intellettualismo utopico (e ucronico).

Se la ragion di Stato è nient’altro che la “tecnica” di difesa dell’unità politica e della sicurezza collettiva ed individuale (salus rei publicae suprema lex esto), lo strumento principale con cui si è attuato e garantito quelle è, per l’appunto, lo “Stato secondo ragione”, attraverso la progressiva e costante “razionalizzazione” delle strutture pubbliche. Funzionalizzazione, de-patrimonializzazione, centralismo, legalità, burocratizzazione sono state le principali vie percorse per innestare sul vecchio ceppo delle monarchie feudali la razionalità funzionalistica di un apparato che è, in larga parte, il prodotto di un processo cosciente (ed autocosciente) di costruzione della “gran macchina”, dell’ “uomo artificiale” concepito per la sicurezza (e il benessere) collettivo. Questo è nel contempo il risultato della secolarizzazione o meglio, in relazione al tema qui trattato, del weberiano “disincanto del mondo”, della cesura del legame tra cielo e terra; chiaro nella sfera politica, lo è meno, ma di poco, nell’ambito giuridico, probabilmente perché la razionalizzazione del diritto e del processo, nella cristianità occidentale, ha preso l’avvio diversi secoli prima della “scoperta” dello stesso termine di Stato (e della, di poco successiva, “Ragion di Stato”), ed è la risultante della recezione del diritto romano (del Corpus juris) e dello sviluppo di quello canonico. Ambedue costruzioni razionali, ancorché l’una “Deo auctore”, secondo l’espressione di Giustiniano, l’altro ordinamento di una  ierocrazia; ma al riguardo occorre notare che, ancora, la concezione del monarca (e del magistrato) come rappresentante di Dio, tipica della Riforma e, in parte anche, della Controriforma, fornisce la base legittima e “sacra” per la prima fase della razionalizzazione politica (e la seconda di quella giuridica)[1].

Per cui la stessa razionalizzazione “politica” ha un fondamento “aperto alla trascendenza”. Ciò non toglie che l’una (e l’altra) si fondino, come detto, sul “disincanto del mondo”, sulla costruzione di decisioni razionali, su presupposti realistici e razionalmente argomentati, su responsabilità umane, con l’esclusione sia di interventi “magici” o “divini”, che di norme non aventi una “promulgazione”, o un consenso all’applicazione, da parte dell’autorità sovrana.

  1. In questi termini, il razionalismo giuridico si coniuga con la razionalizzazione prodotta dallo Stato, che è, in primo luogo e, a un tempo, sia separazione-delimitazione (tra interno ed esterno, tra potere temporale e spirituale) che centralizzazione.

Il primo aspetto è stato ampiamente considerato, nei suoi aspetti (politici e quel che più interessa, giuridici) da Thomas Hobbes. Questi rifiutava sistematicamente di considerare vincolante qualsiasi norma che non fosse legge di natura o comando del Sovrano, negava di conseguenza che fosse norma applicabile quella non proveniente (anche se tacitamente assentita) dall’unica autorità sovrana e che altre autorità avessero il potere di emanarle (nell’ambito dell’unità politica). Con ciò impediva la possibilità di conflitto tra centri diversi di (potere e) produzione normativa. A un sovrano corrisponde un solo diritto applicabile dallo stesso e dai giudici da questi istituiti. Daltro canto fa parte dello spirito dell’epoca, e in larga misura della modernità, ritenere che “non vi è mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi quanto in quelle costruite da uno solo”, come scriveva Cartesio[2]. Così la semplificazione andava di pari passo con la razionalizzazione. E con la centralizzazione: la quale non è identificabile solo con la struttura dello Stato francese, ovvero di quello che più coerentemente l’aveva e l’ha perseguita e realizzata, ma è connaturale alla stessa idea di Stato; anche se le forme per la sua realizzazione sono le più diverse, e spesso fanno ampio spazio a poteri decentrati ed autonomie regionali e locali. Tuttavia il “monopolio della violenza legittima” (il che significa anche dell’esecuzione delle pretese)  ed alcuni istituti ed uffici particolarmente significativi come, per esemplificare, le Corti supreme uniche (Cassazione, Consiglio di Stato) e il potere generale di annullamento amministrativo sovente riconosciuto all’organo statale apicale, ne sono la conferma per gli aspetti non solo politici, ma anche giuridici. Ed ancor più le “codificazioni” con le quali, dal ‘700 in poi, si sostituiva al diritto di formazione dottrinale-giurisprudenziale e consuetudinaria, una legislazione unitaria, emanata dall’autorità sovrana, di guisa che dal XIX secolo in poi non poteva generalmente più affermarsi quanto scriveva, sul finire del secolo precedente, il giovane Hegel della Germania pre-napoleonica, che si cambiava il diritto con la frequenza con cui si sostituivano i cavalli della diligenza.

D’altra parte Thomas Hobbes  non è stato solo il più conseguente teorico della sovranità, ma anche quello di un diritto razionale, sia perché chiaro ed applicabile, sia perché giusto (in quanto razionale o almeno ragionevole). In particolare nei capitoli XXVI-XXVIII del “Leviathan” ne elabora alcuni principi, quali la comprensibilità (“perché altrimenti un uomo non saprebbe come obbedire”) la conoscibilità (la legge positiva deve essere pubblicata, secondo la nota tesi di S. Tommaso) la non obbligatorietà delle “leggi positive divine” (cioè quelle oggetto di “rivelazione”) non “recepite” e “comandate” dal sovrano; il principio nulla poena sine lege; tutti caposaldi del diritto dello Stato moderno; meno attenzione Hobbes dava agli aspetti organizzativi e, per così dire, “professionali”, dato che l’esempio della organizzazione giudiziaria inglese non lo induce a preferire il magistrato “giurista” (cioè esperto di diritto) rispetto al giudice non professionale. La coniugazione tra sovranità e razionalismo giuridico è evidente anche in Rousseau: all’onnipotente legislateur corrispondono i caratteri intriseci della loi: conoscibile, durevole, chiaramente applicabile. Così anche nei giacobini la dittatura sovrana della convenzione si associa all’aspirazione alla semplificazione ed alla chiarezza legislativa. Anche se tra la concezione della sovranità e il razionalismo giuridico non c’è un rapporto di implicazione necessaria (ben può esistere un Sovrano che governi in base ai principi del “sultanismo” e della volontà arbitraria come nelle monarchie dispotiche orientali) tuttavia il rapporto, nell’età moderna, è stato costante, sia sotto l’aspetto delle realizzazioni pratiche, che sotto quello teorico. Allo sviluppo dello Stato sovrano moderno corrisponde quello del razionalismo giuridico; i teorici del primo , di solito, sono gli stessi che auspicano il secondo. Questo nesso è verosimilmente rafforzato dall’identità dei poteri che sovranità e razionalizzazione limitano e riducono: i poteri “intermedi”, “indiretti” e “spirituali” progressivamente privati dallo Stato sia della possibilità di regolare e giudicare, sia di eseguire coattivamente le loro pretese. Alla soluzione del problema politico, risolto dall’unità del comando, è corrisposta così quella, giuridica, della razionalità – sia del comando che dell’obbedienza: quest’ultima garantita in primo luogo, dall’unità di quello.

  1. Max Weber ha delineato i postulati del razionalismo giuridico, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla pandettistica[3]; sempre allo stesso Weber notoriamente dobbiamo le analisi del “tipo” di potere dello Stato moderno, ovvero quello razionale-legale con amministrazione (prevalentemente) burocratica, che è l’altro volto della razionalizzazione politica e giuridica; e l’individuazione del carattere distintivo del diritto borghese (e della funzione giudiziaria), costituito sia dalla “misurabilità” delle norme che dalla previsione di una puntuale applicazione delle stesse da parte del giudice “professionale ed esperto”, bouche de la loi. Tali principi, valevoli sia per un diritto codificato (continentale), sia per un sistema basato sull’autorità del precedente (come quello anglosassone), trovano comunque le proprie condizioni irrinunciabili da un lato in norme giuridiche, come scriveva Thibaut, chiare, inequivocabili e, complessivamente esaurienti, dall’altra nella razionale applicazione di esse da parte di giudici (competenti ed) indipendenti da tutti fuorché dalla legge medesima: ambedue caratteristiche dello Stato (borghese) di diritto, con la sua concezione della legge (che è tale perché ha precise “qualità”); e del giudice “bouche de la loi”. Il razionalismo giuridico trova pertanto le condizioni più favorevoli al proprio sviluppo nella fase “liberaldemocratica” dello Stato, cioè quella che inizia con la rivoluzione francese (anticipata, per certi aspetti che qui interessano, dall’Illuminismo); e trova il proprio “punto d’Archimede” nell’ethos e nelle istituzioni politiche della borghesia, al di fuori delle quali non è (compiutamente) realizzabile: il legame con lo Stato (e la politica) moderna ne è confermato.

Proprio al periodo immediatamente precedente la rivoluzione risalgono le prime codificazioni dell’età moderna, frutto, come cennato, del secolo dei Lumi, e diffusesi nei decenni successivi. Coerentemente con l’esigenza di “stabilità” della legislazione borghese (necessaria al capitalismo) alcuni di quei codici pre e post-rivoluzionari sono tuttora in gran parte vigenti. Le necessità di “sistematizzazione” e di “sicurezza” che stanno alla base delle codificazioni in genere, e di quelle in particolare sono state descritte da Max Weber; ed a questi, come a Tarello, dobbiamo l’osservazione, d’esser spesso state osteggiate dal ceto dei pratici del diritto, dei “causidici” che sovente trovano occasioni di lucro nelle situazioni d’incertezza ed oscurità del medesimo[4].

4 Così come aveva trovato l’ “ambiente” più favorevole nelle istituzioni dello Stato borghese, così il razionalismo giuridico l’ha perso in quello del XX secolo: in modo evidente negli Stati totalitari, in forma meno netta e decisa (“correttiva”) altrove. Quanto alle ideologie totalitarie queste negano proprio quei due caposaldi della legge “qualificata” e della neutralità/indipendenza del Giudice; e più in generale negano (riducono) l’essenza dello Stato (come “idea direttiva”, non come apparato di coazione, chè, anzi, è esasperato). Così che la legge debba essere interpretata in conformità ai principi della rivoluzione o del regime, significa renderne assai incerta l’applicazione; che questa poi possa essere modificata con disposizioni varie (dall’ “ordnung” al “befehl”, alle norme “interpretative” del Praesidium del Soviet supremo) e se ne teorizzi anzi la mutevolezza a seconda dello stadio raggiunto dalla rivoluzione (o della situazione) è l’esatto contrario del roussoviano “imiter les immuables décrets de la divinité”; peraltro una certa, marcata, inclinazione alla weberiana “razionalità materiale” (che spesso si trasforma nel contrario) serve anch’essa a vanificare quella “formale” legando la decisione del giudice a principi di carattere etico, politico o utilitaristico. In quei regimi, poi, parlare di neutralità/indipendenza del giudice era umoristico più che assurdo: basta leggere una delle costituzioni (qualsiasi) degli Stati del “socialismo reale” – veri reperti di archeologia giuridica – per rendersi conto che il sistema giudiziario era di nomina – e sotto controllo – politico.

Ancor di più, è connaturale a comunismo e nazismo – le forme più coerenti di totalitarismo – negare (o limitare) l’idea direttiva dello Stato[5]. Il primo perché è un’ideologia dell’estinzione dello Stato: nella società comunista vagheggiata, lo stato di perfezione impedirà l’insorgere di conflitti (dovuti, notoriamente, al meum e tuum individuale), o se insorti ne consentirà la conciliazione ad un arbitro non “professionale”, dotato di bontà  e rettitudine naturale. In questa utopia, giudici ed avvocati “tecnici” sono altrettanto superflui di polizie e eserciti professionali. Nel nazismo, lo Stato più che forma dell’unità politica, è la macchina asservita al Führer ed al Bewegung, vere componenti attive (cioè politicamente decisive) dell’unità politica a tre “membra” come ricostruita da Carl Schmitt[6]. Il che conferma che, sviluppato (ancorché non esclusivamente) nello Stato moderno, il razionalismo giuridico deperisce con quello.

Sotto un diverso profilo il nesso tra Stato moderno (in particolare liberal-democratico) e razionalismo giuridico è dato dall’identica sottesa concezione della natura umana (e del potere pubblico). Nell’ideologia dello Stato moderno alla concezione “problematica” dell’uomo, come esposta da Machiavelli (che non cade né nel paradosso dell’uomo buono per natura, ma neppure nel pessimismo antropologico protestante), corrisponde, da un canto che un solo potere, quello sovrano, non ha bisogno di avere ragione per far eseguire le proprie decisioni, dall’altro che tutti gli altri, devono “giustificare” le proprie decisioni, sulla base delle norme emanate, o consentite dal primo. E tranne il sovrano, vige per lo Stato liberal-democratico la regola, esposta nel 51° saggio del “Federalista” laddove si legge “se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo sarebbe superfluo. Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere  altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi”.

Dato che per l’appunto i funzionari pubblici non sono degli angeli, ovvero non sono dotati di moralità ed intelligenza superiore a quella degli amministrati, si pone il problema delle giustificazioni e dei controlli, in modo non esclusivo, ma sicuramente assai più acuto che in altre forme  politiche. La motivazione, il richiamo alla norma “superiore” in minor misura lo stesso contraddittorio, l’uso di regole logiche e così via sono le garanzie che oltre a norme “misurabili” le stesse decisioni prese siano “controllabili” e “verificabili” (in particolare rispetto alle norme – alle leggi – applicabili, che impone la rispondenza della decisione al parametro “astratto”). In una forma di potere carismatico o tradizionale, tale esigenza non sussiste o lo è in misura ridotta. Il “profeta” può giustificare la propria decisione sulla rivelazione divina, o su un sogno; il cadì su un detto del Profeta più o meno applicabile al caso; Sancho Panza col buonsenso e la furbizia del contadino; ma il funzionario – amministrativo o giudiziario – dello Stato moderno ha il dovere di farlo in base alle norme, sia attributive di competenza, che di “merito”, razionalmente interpretate e sa fatti comprovati. Gli uni e gli altri molto più controllabili di profezie, sogni, esempi o detti, sia dal destinatario della decisione che dall’autorità di verifica (superiore “gerarchico”).

  1. Il razionalismo giuridico ha pertanto trovato nel secolo passato avversari meno diretti, aperti e determinati delle ideologie totalitarie, ma, a dispetto della minore incidenza, più persistenti e duraturi.

Si può identificarli, in generale, con alcuni presupposti – e conseguenze – delle ideologie del c.d. “Stato sociale” (altrimenti connotato come “Stato totale quantitativo” da Carl Schmitt); in particolare, per l’Italia, quelle ideologie hanno fortemente condizionato la prassi legislativa e l’evoluzione istituzionale della Repubblica. Connotato comune è l’aumento d’importanza della razionalità materiale rispetto a quella “formale” verso la quale quella viene fatta giocare in contrapposizione; e in effetti lo è oggettivamente, come  rilevato acutamente da Max Weber. Secondo il quale legislazione e giurisdizione “sono materialmente irrazionali quando per la decisione assumono rilevanza valutazioni concrete del caso singolo – siano esse di natura etica, affettiva o politica – e non invece norme generali”. Ma anche il diritto razionale può essere tale o formalmente, ossia perché individua le caratteristiche giuridicamente rilevanti “attraverso un’interpretazione logica, dando luogo alla formazione e all’applicazione di concetti giuridici definiti sotto forma di regole rigorosamente astratte” o in senso materiale. Ma questo non fa che accrescere “l’antitesi rispetto alla razionalità materiale. Quest’ultima implica infatti precisamente che la decisione delle questioni giuridiche deve essere influenzata da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di interpretazioni astratte – cioè da norme come imperativi etici o regole di opportunità utilitaristica e di altra specie, o massime politiche – che infrangano sia il formalismo della caratteristica esteriore, sia quello dell’astrazione logica”. In realtà nella legislazione italiana contemporanea troviamo sia elementi di irrazionalità materiale (in misura minore ma non trascurabile), sia, come cennato, il tentativo (l’espediente) di contrapporre la razionalità materiale a quella formale.

In un ordinamento giuridico coerente sia questa che quella (come, in certa misura, anche la valutazione concreta del caso singolo, ovvero il “materialmente irrazionale”) trovano una collocazione “armonica”. Così la discrezionalità (soprattutto amministrativa) viene esercitata in base ai presupposti “circoscritti” ed alle finalità determinate formalmente (cioè essenzialmente in base al principio di legalità), nell’ambito consentito dalla legge.

Quando invece si giustifica l’inosservanza o la disapplicazione di una norma legislativa, per le nobili finalità esternate dall’interprete (lottare contro la mafia, la criminalità, la plutocrazia, o più semplicemente provvedere per il bene di tutti, determinato dall’esegeta) si ha l’esempio di come l’una possa contrapporsi all’altra.

Quel certo eudemonismo, quell’aspirazione più intensa a realizzare la giustizia anche sociale sono elementi suscettibili d’introdurre e che spesso introducono dei discordi parametri valutativi nelle decisioni pubbliche. Ma è più interessante notare come, nella Repubblica dei partiti, è stata usata la razionalità materiale contro la formale, e come si è ridotto l’ordito del parametro principale di riferimento – la legge – nelle decisioni pubbliche.

Entrambi in modo spesso surrettizio, indiretto, e comunque non del tutto preponderante, sia per l’appartenenza al mondo occidentale (e all’economia di mercato) che per i vincoli costituzionali.

Quanto alla legge, cioè al principale parametro normativo delle decisioni, sono stati largamente disapplicati quei principi della legge “qualificata” tipici del Rechtstaat. Due ne sono i fenomeni più evidenti: la tendenza alla de-codificazione (ovvero alla sostituzione – talvolta totale, ma assai di più, parziale, di testi organici, come codici e testi unici con una miriade di leggi particolari e/o speciali), per cui gli stessi codici “tradizionali” costituiscono soltanto le stelle di prima grandezza di una nebulosa normativa d’incerta visibilità; e quella alla “amministrativizzazione” della legge.

Tra le distinzioni “classiche” dello Stato borghese c’è quella tra legge e provvedimento, la prima ratio, il secondo actio; la prima destinata a regolare situazioni e rapporti in modo durevole, il secondo a soddisfare necessità e bisogni mutevoli e concreti, spesso contingenti. Coerentemente al carattere “materiale” di Stato amministrativo della Repubblica, e non potendosi incidere sui principi costituzionali di legalità e riserva di legge, si è piegata, in larga misura, la legge a divenire essa stessa, nella funzione e nella sostanza un atto amministrativo preso con deliberazione parlamentare.

Basta leggere, tra le tante similari, una delle ricorrenti “finanziarie” per rendersene conto: l’esigenza che “unifica” una congerie di disposizioni disparate, spesso raggruppate nello stesso articolo, è lo scopo “gestionale” di soluzione di uno o più problemi contingenti che certe misure si propongono. A ciò si aggiunge la pletora legislativa, in larga parte determinata sia dalla de-codificazione che dall’amministrativizzazione, ma anche dalla settorializzazione e corporativizzazione (norme fatte per esigenze di piccoli gruppi, pubblici e/o privati); e la vieppiù scadente tecnica legislativa. Di guisa che a trovare nella Gazzetta ufficiale una “legge” che abbia le caratteristiche dei teorici dello Stato borghese (generale, astratta, destinata a durare, chiara, non ridondante ecc. ecc.) vi sono le stesse probabilità che incontrare una vergine in un bordello. In una situazione del genere, il problema più urgente ed essenziale che si pone a chi la deve applicare, non è tanto l’interpretazione, ma la ricerca e la “scoperta” della norma applicabile al caso: con l’inevitabile potenziamento sia della “discrezionalità interpretativa”, cioè della possibilità di scelta, per l’interprete, di due o più soluzioni plausibili, che dell’incremento degli errori.

Quanto alla “razionalità materiale”, nei testi normativi non risulta un deciso incremento di quelle norme, volutamente – e, in parte, anche necessariamente – indeterminate, che consentono all’interprete d’introdurre parametri etici o di opportunità nella decisione (il “comune senso del pudore”, la “diligenza del buon padre di famiglia” e così via); e questo potrebbe consolare, se il diritto fosse un insieme di norme. Ma questo è, in primo luogo, come riteneva Santi Romano, istituzione, cioè la varia e complessa organizzazione dello Stato, con i suoi rapporti di sovra – e sotto-ordinazione, i collegamenti di potere e autorità, la ripartizione di competenze. Se da un lato il clima politico e sociale incentiva o sollecita l’introduzione di regole etiche o di opportunità, anche attraverso il “pluralismo dei valori”; e dall’altro l’istituzione non reprime o, addirittura, facilita certi comportamenti, è naturale che, queste si diffondano nell’applicazione del diritto. Se l’oscurità e la proliferazione delle norme aumentano le incertezze interpretative, queste vengono applicate secondo il filtro dei giudizi di “valore” fatti propri dall’interprete. Il vincolo del funzionario alla legge viene così doppiamente attenuato. Anche perché il “pluralismo dei valori” con cui si delinea un aspetto – importante – del liberalismo, viene qui, trasposto, in modo nient’affatto liberale, dal privato al pubblico.

Se nel “privato” – nella società civile – è del tutto ammissibile la coesistenza di realtà, credenze e “sistemi di valori” diversi, come per esempio, le confessioni religiose – nel “pubblico” si richiede l’osservanza di un “sistema di valori” unitario, che consente solo modesti e parziali aggiustamenti, autorizzati legalmente. Se un cittadino italiano può legittimamente essere musulmano o buddista, un funzionario dello stato civile, pur musulmano o buddista, non può celebrare matrimoni poligamici o “a termine”.

Pluralità di credenze ed opinioni “private” non si trasforma nella pluralità di diritti, doveri e “garanzie istituzionali” tutelati (o imposti) dallo Stato. In realtà un simile “pluralismo” o “politeismo” di valori, oltre ad essere dissolutorio dell’unità e dell’omogeneità, connotati peculiari del pubblico, appare come la giustificazione di un assetto policratico di poteri, organi ed uffici non (o poco) coordinati e autoreferenziali.

Il tutto sfocia poi nel soggettivismo interpretativo, che è proprio ciò che il razionalismo giuridico è vocato ad evitare. Sulle forme in cui il soggettivismo si esercita ed articola, è importante leggere le acute pagine dedicate da Hegel alla fenomenologia della soggettività elevante se stessa ad assoluto “der sich als das Absolute behauptenden Subjektität”, con riferimento alla morale, ma utili anche nel diritto[7]: specie alle “figure” del “probabilismo”, della “buona intenzione”, dell’ “etica della convinzione” e dell’ “ironia romantica”, si possono ricondurre le giustificazioni esternate di una prassi interpretativa che finisce col negare oggettività al diritto e controllabilità alle decisioni, per cui costituisce un catalogo del soggettivismo burocratico: ma, purtroppo, al contrario di quello, più celebre, di Laparello, che si riferisce a un’attività forse non morale, ma piacevole, questo inquadra comportamenti immorali e  – per lo più – dannosi per tutti, fuorché, s’intende, per chi li pone in essere.

Che poi il tutto abbia effetti dissolutori verso lo Stato (di diritto e non) e incrementativi del potere – un potere non, o poco, funzionale all’ordine, in particolare a quello di una società moderna – è altrettanto evidente: lo notava già Hegel, contrapponendo la soggettività “particolare” alla soggettività del potere sovrano “identisch mit dem substantiellen Willen”, proprio perciò garante e conservatrice dell’unità politica, al contrario dell’altra, che la decompone[8]. Quanto al potere, quando chi lo esercita viene dispensato dal’onere di aver ragione – o quantomeno di doverla argomentare logicamente – e dalle correlative responsabilità, è moltiplicato per il numero di coloro che lo esercitano, anche se attenentisi alle loro (più o meno) limitate competenze[9]: invece di avere un Grande Fratello, ne abbiamo qualche centinaia di migliaia, spesso dannosi od inutili, e talvolta avidi: e nel cambio tra l’uno e i molti non c’è da guadagnare.

P.S.. Qualche mese fa suscitò commenti ironici, da parte degli (allora) futuri        oppositori, l’affermazione dell’on. Berlusconi che il suo futuro governo avrebbe operato come “Napoleone e Giustiniano” togliendo dalle leggi “il troppo e il vano”, e ci sia permesso di aggiungere, l’oscuro e l’equivoco. L’immagine più usata dagli oppositori (attuali) fu quella del Cavaliere con lo scolapasta in testa. In effetti per esponenti di partiti che hanno nel DNA l’estraneità ai principi dello Stato democratico-liberale e la diffidenza (a dir poco) verso il razionalismo giuridico, la pretesa di voler fare l’inverso di quanto da loro praticato può apparire incomprensibile e folle, anche perché vi sono tanti interessi (di partiti e di corporazioni) alla conservazione dello statu quo, e quindi l’impresa non sarà facile. Per gente abituata a pesare il potere col bilancino e ad adeguarsi di conseguenza è un argomento decisivo. Ma, a voler infondere coraggio al centro-destra a proseguire in quella (difficile quanto ragionevole) via occorre ricordare il giudizio di Max Weber “che tutte le innovazioni politiche favoriscono le codificazioni”.

Nella misura in cui il governo è innovatore, non può sottrarsi a confermare questa tendenza, a sostegno della quale sta che  la mera enunciazione di essa ha intimorito le forze della conservazione. C’è da sperare, pertanto, che le future azioni confermino la constatazione di Weber.

T.K.

[1] A tale proposito basti ricordare Calvino, il quale definisce così i magistrati – cioè i governanti – “En somme,  s’ils se souvienent qu’ils sont vicaires de Dieu, ils ont à s’emploiyer de toute leur étude, et mettre tout leur soin de répresenter aux hommes en tous leurs faits, comme une image de la providence, sauvegarde, bonté, douceur ed justice de Dieu ”; e Bossuet, che a sua volta, considera il monarca “ rappresentante” di Dio (v. ne “Politique tireé de l’écriture sante” e nel “Sermon sur les devoirs des rois”).

È inutile aggiungere che mentre il primo negava al Papa di rappresentare alcunché, il secondo negava allo stesso di poter intervenire nelle questioni temporali (v. la “Cleri gallicani de ecclesiastica potestate declaratio” secondo l’opinione più seguita, redatta da Bossuet).

 

 

[2] E poco dopo “se Sparta è stata un tempo così fiorente, ciò si deve, non alla bontà delle sue leggi particolari… ma al fatto che dettate da uno solo, tendevano tutte a uno stesso fine”. Discours de la méthode, p. II.

[3] V. Max Weber Wirtshaft und gesellshaft, trad. it., vol. III, Milano 1980, p. 17.

[4] v. G. Tarello Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, III edizione p. 25-26, Genova.

[5] Su questo concetto v. M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social) trad. it., Milano 1967, pp. 14-15.

[6] v. Carl Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, trad. it. nei Principi politici del naziolsocialismo, Firenze 1936, pp. 186-190.

[7] Lineamenti di filosofia del diritto, prgf. 140.

[8] Op. cit., prgf. 320.

[9] Evitiamo, per motivi di spazio, di approfondire, nel contesto contemporaneo, l’opinione di Weber sul contributo a ciò delle “ideologie interne di ceto dei pratici del diritto” e degli interessi intellettualistici, che incidono, ovviamente sulla distribuzione del potere e sull’ “onore sociale” (v. M. Weber, op. cit. p. 192 ss.)

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