Michel Onfray, Teoria della dittatura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange
Michel Onfray, Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie 2020, pp. 219, € 16,50.
Michel Onfray con questo saggio ci offre una “nuova” concezione della dittatura, che non è quella classica del secolo XX, in cui il termine era usato (soprattutto) per designare il totalitarismo, ma è la dittatura mascherata, con parecchi punti di contatto con il dispostismo mite descritto da Tocqueville in un celebre passo della Democratie en Amérique (2,4,6).
L’autore si pone il problema se la società attuale sia veramente libera, o almeno, abbia fatto negli ultimi decenni progressi verso la libertà. Per rispondere a questi interrogativi usa criteri desunti dalle due opere di Orwell più note: 1984 e La fattoria degli animali, in cui il romanziere inglese descriveva i totalitarismi del XX secolo: nazismo e comunismo. Da queste, Onfray desume sette “comandamenti” idonei a demolire le libertà e realizzare una dittatura: distruggere la libertà, impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’impero.
Ai comandamenti seguono i “principi” che ne sono le deduzioni conseguenti, come Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Inventare la memoria, Cancellare il passato, Creare la realtà, e così via.
Comandamenti e principi che si trovano, per lo più, sia nei totalitarismo del ‘900 che nell’Europa di Maastricht, qui ovviamente in versione soft. Una particolare attenzione l’autore da alla comunicazione: Orwell in 1984 aveva descritto una società in cui il potere era esercitato prima che con la coazione, con un raffinato stravolgimento del legame tra realtà e rappresentazioni verbali. La neolingua è finalizzata a ridurre il pensiero “il potere sulle cose passa per il potere sulle parole”. La stessa riduzione dei vocaboli, la semplificazione della grammatica e della sintassi riducono le possibilità di un pensiero diversificato ed analitico. Ancor più se i termini sono (volontariamente) equivoci. Si arriva così a creare una realtà immaginaria: la realtà non ha un’esistenza autonoma, indipendente dal soggetto: è un prodotto della coscienza del soggetto che “le fornisce senso, vita e verità”. Continua Onfray “Una metafisica di questo tipo è estremamente interessante dal punto di vista politico… Se la realtà è solo quello che la coscienza le permette di essere, basta agire sulle coscienze per produrre la realtà che si desidera. In ambito di realtà, ciò che è, è soltanto ciò che si trova dentro la coscienza, quindi dentro la testa del soggetto. Grazie all’educazione delle coscienze, il potere potrà allora produrre la realtà che più gli conviene”.
Ovviamente per far questo occorre “non credere a quello che si vede o a quello che si sente; … credere soltanto a quello che il Partito sostiene”. Ossia la scissione tra rappresentazione verbale e realtà serve a corroborare l’esercizio del rapporto di comando-obbedienza, quindi a creare consenso al potere. Più consenso significa usare meno la forza.
L’autore riporta le frasi di uno dei personaggi di 1984, l’intellettuale-dirigente del Partito. Questi racconta al protagonista “Tu credi che la realtà sia oggettiva, esterna, che esista di per sé. Credi anche che la natura della realtà si riveli da sé… Ma, Winston, ti assicuro che quella realtà non è esterna…(esiste) soltanto nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Ciò che il Partito considera la verità è la verità”.. Anche la storia è vissuta e percepita in 1984 attraverso il ministero della Verità, solo in funzione del presente e in quanto serve al potere: il passato è riscritto per le esigenze contingenti del Partito.
Nella conclusione l’autore sostiene “Chi può dire, oggi come oggi, di non essere d’accordo sul fatto che il ritratto del totalitarismo abbozzato da Orwell sia quasi un affresco dei nostri anni? Anche oggi, in effetti, la libertà è difesa male, la lingua messa sotto attacco, la verità cassata, la storia strumentalizzata, la natura bypassata, l’odio incoraggiato e l’imperialismo in marcia”. Il culto votato oggi al progresso è un “progressismo nichilista”, una marcia verso il nulla: e Onfray enumera tutti i sintomi che riconducono ai “comandamenti” di Orwell la situazione attuale, tra cui la moralina, concetto di Nietzsche il cui “nome rimanda, da una parte alla morale” e dall’altra agli stupefacenti, la quale “contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il verso al falso, l’informazione all’intossicazione”. In un mondo siffatto il “progresso” consiste “nel mobilitare la scuola, i media, la cultura e il Web per fare propaganda… nel nascondere il vero potere e nello sviare altrove l’attenzione… consiste infine nel governare senza il popolo, contro il popolo e nonostante il popolo”.
Ossia nella mistificazione di un potere il quale diffonde un conformismo di massa per esercitare il dominio (detto nella vecchia lingua) o la governance, come si esprimono, nella neolingua, le classi dirigenti. Ma come possa ciò salvarci dall’evidente decadenza in cui sta sprofondando lentamente l’Europa e, più in fretta, l’Italia, non è dato comprendere. Anzi è (il frutto e) la derivazione, nel senso di Pareto, di questa stessa decadenza.
Teodoro Klitsche de la Grange