L’energia del virus Tra catastrofisti e futurologi, di Giulio de Martino

L’energia del virus

Tra catastrofisti e futurologi

di Giulio de Martino

 

A un secolo dall’ultima pandemia – provocata nel 1918 dal virus H1N1, conosciuta dagli storici come «influenza spagnola»[1] – il mondo affronta una nuova patogenesi: diffuso a livello planetario è il virus SARS-CoV-2. La trasformazione microbiologica sempre in atto trova condizioni decisive di facilitazione pandemica in ambienti e ecosistemi specifici, ma anche nei processi di mondializzazione. Nel 1918 fu la Grande guerra con gli spostamenti di uomini e mezzi connessi, oggi sono l’intensa geolocalizzazione produttiva e l’interconnessione economica globale.

Osservata in forma cronachistica, la pandemia da coronavirus appare connotata da elementi specifici. Non mi riferisco soltanto al substrato microbiologico da cui ha avuto origine, o al suo terreno di coltura antropico, ma al correlato psicosociale che la sta accompagnando. La velocità e la refrattarietà del virus al controllo da parte degli organismi ha messo a dura prova sia le strutture sanitarie che quelle sociali circostanti, abituate a trend calcolabili e modellizzati.

Sul versante microbiologico emergono due caratteristiche: la rapidità della replicazione e circolazione del virus (non mesi, ma giorni) e la velocità dello sviluppo della malattia (non settimane, ma giorni). Potremmo aggiungere il virus si comporta come una «variabile indipendente» e si «sceglie» sia i contesti di diffusione che quelli di estinzione. Sono caratteristiche che confliggono con la planning e la clinica del mondo industrializzato basate su malattie di tipo degenerativo e cronicizzate, quindi non contagiose né acute e con l’assunto che la medicina costituisca un business che si avvale di una scienza e di una tecnologia sempre in grado, se non di curare, almeno di diagnosticare e prognosticare[2].

In eguale difficoltà si trovano gli economisti familiarizzati con concetti come quelli di crisi e di ciclo che consentono previsioni, calcoli e soprattutto interventi di gestione delle emergenze micro e macro economiche. La situazione effettiva di fronte alla quale si trovano i decisori politici è che si possa entrare in un territorio di distruzione irreparabile delle risorse che vada anche oltre le più avanzate strategie keynesiane di recupero sistemico.

L’aspetto che appare connotare, al di sopra di altri, l’ultima pandemia è il suo essere focalizzata sul rischio piuttosto che sul pericolo. Senza giungere a parlare di una infodemia, diciamo che si tratta di una pandemia anticipata, osservata e monitorata, alla quale si può partecipare come spettatori o come astanti anche senza esserne direttamente coinvolti[3]. I numeri – tolti dalla loro assolutezza e relativizzati rispetto alle dimensioni delle popolazioni coinvolte – mostrano che la società non è omogeneamente esposta al contagio, ma soltanto ad un rischio non precisamente calcolabile. Certamente, in alcuni settori – reparti di pneumologia infettiva – i sistemi socio-sanitari si sono rivelati sottodimensionati rispetto alla domanda di assistenza, ma il numero delle vittime è globalmente marginale. Tuttavia, poiché la società si è consegnata alla rete delle comunicazioni di massa – sviluppatasi enormemente negli ultimi venti anni[4] –  il rischio virtuale si è trasformato in un pericolo poiché ogni spettatore potrebbe diventare – se si verificassero specifiche condizioni – un protagonista dell’evento.

Il carattere probabilistico della scienza e il carattere statistico dei modelli previsionali è proprio dei saperi maturi: gli epistemologi del secondo ‘900 hanno evidenziato l’impianto definitivamente stocastico delle conoscenze[5]. Nel caso del coronavirus pandemico, a causa delle modalità di circolazione delle informazioni e delle opinioni lungo le reti massmediali, l’aleatorietà delle conoscenze si è trasformata in una forma di cogenza delle ipotesi. Per questo l’olismo della risposta politica al rischio di contagio – macrodecreti e macrodirettive – è diventato preponderante rispetto alle decisioni locali e differenziate per settori e ambiti. Un’unica priorità è subentrata alle molte, variegate e complesse, criticità precedenti: «evitare il contagio e la trasmissione del virus».

Sul versante sociale, si è velocemente passati dall’Homo oeconomicus – che si orientava sulla base di una valutazione ponderata dei rischi e dei benefici e con il «Watch and Wait» – all’Homo stocasticus che trasforma ogni rischio in una minaccia e che dà sfogo a quello che viene definito come «panico sociale» o, più precisamente come «crollo della fiducia reciproca». Non ci basa su di un processo di generalizzazione del dato specifico – che la matematica sconsiglierebbe – ma su di una universalizzazione del fatto singolare che assurge a simbolo della totalità[6].

Baudrillard aveva diagnosticato la «morte del sociale» nella civiltà postmoderna come una forma di entropia e di massificazione indecifrabili che avrebbero reso equiprobabile l’evoluzione del sistema[7]. In realtà, negli sviluppi attuali, il sociale sembra piuttosto patire una «morte simulata»: indotta dai sistemi politici che si difendono dai contraccolpi della pandemia provocando – sotto forma di prevenzione e contenimento del rischio – una «entropia di stato», pianificata e controllata attraverso i dispositivi dell’informazione e dell’ordine pubblico. E’ giusto non dare connotazioni «distopiche» al «coma sociale» prescritto alle popolazioni, come pure va evitato di demonizzare – quasi costituissero una sorta di «laisser faire» epidemico – scelte differenti. Si tratta sempre e comunque – sia nella ipotesi dell’attesa del Climax che in quella della provocazione del Plateau – di strategie deliberate in vista della conservazione delle condizioni di esercizio del potere politico, condizioni che, in regime democratico e liberale, includono anche il mantenimento del consenso – anche soltanto passivo – dei cittadini[8].

Al di là degli interventi specifici sul sistema sanitario, le misure di tipo precauzionale, pur comprimendo i diritti  di libertà dei cittadini (a cominciare da quelli di opinione, di riunione e di libera impresa), utilizzano formulazioni legislative compatibili con lo stato di diritto. Si vedano il reato di dichiarazione mendace, la raccomandazione dell’autoisolamento, la quarantena fiduciaria, l’autosospensione dal lavoro: sono prescrizioni che evocano altrettante assunzioni di responsabilità da parte dei cittadini. Certamente, in un contesto di rischio virtuale, la «responsabilità» del cittadino diventa anche un dispositivo di autotutela da parte del potere politico. Se la involontarietà e la colposità diventano identiche alla dolosità, il reato non deriva dalla contestazione di una «responsabilità penale personale», ma dal non aver ottemperato alle misure precauzionali imposte, dall’aver divulgato «notizie false e tendenziose», dall’aver provocato ad altri un danno biologico che poteva essere evitato. Ciò che viene imputato, in buona sostanza, è di aver impedito che l’«allarme virtuale» lanciato dalle istituzioni si diffondesse adeguatamente nel corpo sociale. Tutto ciò conferma il carattere democratico e perversamente liberale delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Gli stati democratici più che disciplinare le forme della libertà – come sosteneva Foucault – hanno comandato l’autosegregazione come «servitù volontaria»[9]. Nei fatti la società si è rispecchiata profondamente nelle scelte dei decisori pubblici. Lo ha fatto anche quando ha mostrato di non voler aderire ai divieti e alle proibizioni. Ciò ha evidenziato, piuttosto, una sorta di compiaciuto «masochismo» che ha attivato inconsciamente anche il gioco della trasgressione. È la logica di ogni proibizionismo che è, insieme, ragionevole cautela e adescante divieto[10].

Davanti alla «morte terapeutica» del sociale indotta dalle politiche antiepidemia, il mondo dei mass-media si è diviso. Quelli maggiori – ad esempio le trasmissioni televisive – hanno scelto di tenere un profilo basso e di condividere gli obiettivi del sistema politico. Quando si parla del SARS-CoV-19, accolgono volentieri il viso severo, ma sereno, di virologi e medici che propongono una teleologia della lotta al male. Invece, sui quotidiani e sulla rete, dove c’è un più contenuto e diluito impatto di massa, vi è spazio per gli influencer catastrofisti e per i ribelli che fanno sentire il gusto del proibito.

I catastrofisti parlano di trame internazionali, di ecatombe biologica, qualcuno di nemesi ecosistemica. Da quando si sono eclissati gli oppositori politici – oscurati dal virus e dai suoi rimbalzi che hanno disinnescato il populismo – c’è più ascolto per le profezie di catastrofe perché rendono disponibile un fattore di salvazione e un «capro espiatorio» su cui riversare il proprio disprezzo.

All’interno dei catastrofisti si colloca il gruppo degli altermondisti: quelli di «un altro mondo è possibile», anzi imminente. Ad essi si aggiungono gli ecoambientalisti che intonano, con nuovo vigore, il salmo della «decrescita felice»[11]. Tra gli apocalittici vi è anche il gruppo dei biopolitici. Questi ultimi, memori delle arditezze del marxismo, argomentano che il «regime al potere» utilizza lo «stato di eccezione»  per rivelare il vero volto dei sistemi democratici e liberali: quello di essere dei regimi totalitari. L’errore grossolano di costoro è di mescolare la biologia (e quindi l’ecologia) con la politica e di pensare che l’utilizzo delle problematiche biomediche nelle attuali strategie pubbliche avvenga in maniera strumentale e truffaldina, come appunto accadde al tempo di Hitler e Mussolini[12]. Sfugge loro che nei regimi democratici e liberali non vi è alcun nesso diretto fra le questioni biomediche e le decisioni politiche: sempre l’ultima parola viene data agli «esperti». Da parte loro, le disposizioni di legge osservano la schietta coerenza ordinamentale: il divieto di un diritto come tutela di un altro diritto. il sistema politico – come quello economico e finanziario – si stanno certamente riposizionando, ma lo fanno al solo scopo di tutelare e potenziare i propri mezzi di esercizio modulandoli sulla base delle reazioni della società agli avvenimenti naturali. Tra le reazioni sociali – oltre alle più evidenti forme di obbedienza e di ribellione – vanno incluse anche la volontà di approfittare dell’emergenza per assicurarsi vantaggi attraverso contrattazioni di tipo non competitivo, ma piuttosto assistenziale e beneficiale.

E’ sensato spostare l’attenzione dai rischi sanitari ai pericoli per le attività economiche e relazionali, sia per quelle novecentesche (industria, trasporti, commercio), sia per quelle di sentiment postindustriale (turismo, fitness, cultura e gruppalità). In quest’ultimo ambito i cambiamenti portati dall’epidemia e dalle politiche pubbliche di neutralizzazione del sistema sociale sono massicci e di segno fortemente negativo. Molti si illudono che, passata la bufera, ognuno tornerà alle abitudini e alle attività precedenti. Più plausibilmente, la società imparerà a modificare i suoi stili di vita e di sviluppo. In buona sostanza: attraverso le procedure di sospensione giusta legge dei diritti, quarantena fiduciaria, distanziamento interpersonale, isolamento ecc. si è indotta una trasformazione del legame sociale. E’ proprio in campo psicosociale che vi sarà il cambiamento più evidente, quello che lascerà il segno. Non sarà, però, un cambiamento di tipo totalitario, bensì di tipo individuale e, insieme, reticolare. Vi si riferiscono già – oltre alle grandi aziende del WEB e alle centrali della finanza – i numerosi sviluppatori, psicologi e influencer che forniscono indicazioni e consigli, ovviamente via internet o schermo, alle persone disorientate dalla crisi e dall’emergenza.

Si può ipotizzare che quelle che oggi sono considerate come modalità secondarie e occasionali di lavoro, di formazione, di scambio di merci e relazioni potrebbero diventare modalità primarie. Quella che si definisce «economia digitale» – il sistema di produzione e scambio basato sulle tecnologie informatiche – potrebbe potenziarsi sia nell’hardware che nel software, sia online che offline, influendo sulla circolazione monetaria e su quella dei beni. Il profilo etico che prevarrà sarà quello del player, che nella letteratura è noto come Il giocatore[13]. Il player incarna il principio economico marginalistico: la ricerca del miglioramento in un contesto di scarsità e di maggior costo dei fattori di esistenza. Un soggetto decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio che questa comporta gli appare minore della soddisfazione che essa procura. Per questo persiste nell’azione intrapresa solo fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. In buona sostanza, il player frammenta in segmenti uguali e piccoli il sacrificio di fronte alla decrescita degli elementi di soddisfazione, allo scopo di garantirsi una crescita meno rapida dell’insoddisfazione. Nelle relazioni di dipendenza ha convenienza ad accrescere la richiesta solo fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione, che ricava da una nuova dose del bene, eguaglia l’incremento del sacrificio che ha dovuto compiere per ottenerlo. Cercando di massimizzare il vantaggio e di minimizzare il costo, il player cercherà allora di vendere meglio i propri prodotti e di dipendere in misura minore da quelli che deve acquistare.

Con i dispositivi blockchain, cloud e mobile si potrebbe passare dal mondo dell’«Internet of Things» (IoT) e dei social network al riassestamento dell’intero sistema di mercato e di produzione. Questo implicherà che le persone dovranno trascorrere più tempo di fronte al pc o consultando il proprio smartphone, oppure che saranno abolite le relazioni frontali («Face to Face») per sostituirle con quelle mediate dalle reti[14]? Probabilmente no. Ciò che cambierà sarà il rapporto fra l’offline e l’online: il primo diventerà più intenso e cercherà nuove modalità di riferimento al secondo. Il cambiamento avverrà, prima di tutto, all’interno della nostra mente: continuerà a essere offline, ma cercherà la connessione con le altre menti e le altre esistenze, sempre più spesso, attraverso i sistemi audiovisuali e scritturali online.

[1] Johnson Niall, Britain and the 1918-19 Influenza Pandemic. A Dark Epilogue, London and New York, Routledge, 2006.

[2]  Van Rensselaer Potter II,  Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall, 1971.

[3] Massimo Conte, Reti ed epidemie: quando il gioco si fa serio, “Complexity Education Project”, Università di Perugia, febbraio 7, 2020.

[4] Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality; Oxford University Press, 2014; tr. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] Richard Feynman, Il senso delle cose (The Meaning of It All, 1998), Milano, Adelphi, 1999,

[6] Andrew Salmon, Democracies’ Covid-19 cures could be worse than the disease, in: “Asia Times”, march 18, 2020.

[7] Jean Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale, 1978, n. ed. a cura di Dario Altobelli, Mimesis, Milano 2019.

[8] Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus. Due strategie a confronto, L’Italia e il Mondo, 14 marzo 2020.

[9] Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Medusa Edizioni, 2001.

[10]  Bateson, G., Jackson, DD, Haley, J. & Weakland, J., Toward a Theory of Schizophrenia, “Behavioral Science”, 1956, 1, 251-264.

[11] Luigi Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, su: “il Manifesto” del 17.03.2020.

[12]  Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo, Mimesis, 2020.

[13]  Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, 1ª ed. originale, 1866.

[14]  Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli 2015.