Il Medio Oriente post-Soleimani : 10 punti per capire le poste in gioco, di Anthony Samrani

Il Medio Oriente post-Soleimani : 10 punti per capire le poste in gioco

Soldati americani in partenza ieri AFP

E’ ancora possibile evitare l’escalation ?

 

Anthony SAMRANI | OLJ

06/01/2020

 

 

Ristabilimento dell’equilibrio della deterrenza o nuova escalation ?

Tutto dipende non dall’azione in sé, ma dalla percezione che ne ha ciascuno degli attori. Per gli Stati Uniti, l’eliminazione di Kassem Soleimani è un modo per ristabilire l’equilibrio della deterrenza dopo parecchi segnali di debolezza o quanto meno di esitazione da parte loro, in seguito agli attacchi nel Golfo attribuiti all’Iran, e ai quali gli Stati Uniti avevano deciso di non rispondere.

Si tratta di costringere l’Iran ad accettare la politica di massima pressione che le sanzioni economiche americane le fanno subire, e di cessare la sua strategia di graduale escalation controllata. In altri termini, è un modo di dire all’Iran “Smettila di giocare col fuoco o ti brucerai”.

Ma gli iraniani possono sentirci da questo orecchio? Dal punto di vista di Teheran, Washington ha appena eliminato il numero due del regime, una delle personalità più emblematiche del regime, e l’architetto della sua politica regionale.

E’ molto probabile che il regime iraniano percepisca questa azione come un atto di guerra al quale deve rispondere in modo proporzionato per non perdere la faccia e non inviare un segnale di debolezza a tutti i suoi nemici, nemici interni compresi. L’eliminazione di Kassem Soleimani è senz’altro un atto di dissuasione di prima grandezza, ma il regime può incassare senza reagire una simile umiliazione, quando a lungo termine il suo potere, se non la sua sopravvivenza, è seriamente minacciato dalla pressione economica americana?

 

L’Iran ha i mezzi per dare una risposta proporzionata ?

Sta lì il punto dolente per Teheran. La Repubblica islamica può certo dare il via a un’escalation su diversi teatri della regione, per mezzo delle milizie che le sono collegate, ma è assai difficile che possa “fare male” agli Stati Uniti senza correre il rischio di un confronto diretto, che non si può permettere, con la prima potenza mondiale.

Il regime iranano non è suicida, e probabilmente cercherà di trovare un equilibrio tra una risposta vigorosa e una risposta suscettibile d’esser percepita dagli USA come un atto di guerra.

Come fare il calcolo esatto dopo che tutte le convinzioni che s’erano formate su Donald Trump e la sua volontà di evitare ad ogni costo l’opzione militare sono andate in fumo dopo l’operazione contro Kassem Soleimani ?

In un’intervista concessa ieri alla catena americana CNN, il consigliere militare della Guida Suprema Hassan Dehghan ha affermato che “la risposta sarà militare, contro siti militari”. Il Segretario Generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha affermato ieri che l’esercito americano avrebbe « pagato il prezzo » dell’azione contro Soleimani. E’ possibile che Teheran ricominci a bluffare con Washington, facendo affidamento sul fatto che l’operazione contro il generale iraniano sia stata un atto limitato, e che gli Stati Uniti continuino a non voler andare oltre. Ma sarebbe una scommessa estremamente arrischiata.

Gli esempi del passato possono chiarire la situazione ?

In questi ultimi anni, gli israeliani hanno operato migliaia di attacchi in Siria contro gli interessi iraniani, uccidendo numerosi quadri dei pasdaran senza provocare risposte forti da parte di Teheran. Ma da un canto, le operazioni solo di rado vengono rivendicate, dall’altro non è mai stata eliminata una personalità del rango di Soleimani.

Il caso più simile è probabilmente l’eliminazione di Imad Moughniyé, il capo militare di Hezbollah, a Damasco nel 2008, che l’asse iraniano ha attribuito a Israele e promesso di vendicare con severità. A quasi dodici anni di distanza, la risposta di Teheran e di Hezbollah è rimasta piuttosto limitata.

Tuttavia, la perdita di Soleimani è simbolicamente molto più grave, e non si può seriamente equiparare ad alcuun esempio del passato, tanto più perché l’operazione è stata rivendicata. E’ proprio perché l’evento non ha precedenti che è difficilissimo sapere come reagirà l’Iran.

Gli Stati Uniti hanno finalmente una strategia chiara ?

E’ il principale punto interrogativo dopo l’eliminazione di Kassem Soleimani.  I giornali americani hanno rivelato che l’eliminazione del generale iraniano era stata programmata domenica 29 dicembre, all’indomani della morte di un contractor americano attribuita a Kata’ib Hezbollah.

L’assalto all’ambasciata americana ad opera delle milizie pro-iraniane il martedì e il mercoledì successivi ai raids di rappresaglia contro il Kata’ib Hezbollah avrebbe finito per convincere l’amministrazione Trump a passare all’azione. Gli Stati Uniti hanno chiaramente preso la decisione di far montare la tensione di una tacca contro l’Iran, ma sono pronti ad assumerne le conseguenze?Concretamente : Washington deciderà di continuare l’escalation in caso di risposta iraniana ? E in che modo?

Sabato, Donald Trump ha minacciato di colpire 52 siti iraniani « molto rapidamente e molto duramente » se la Repubblica islamica attaccasse personale o siti americani. Il presidente americano che voleva lasciare il Medio Oriente e le sue “guerre inutili” è pronto, in piena campagna elettorale, a colpire direttamente l’Iran, il che, senza dubbio alcuno, provocherebbe una escalation senza precedenti nella regione tra Iran e suoi alleati, da un canto, e Stati Uniti e suoi alleati dall’altro? Qui si pone la questione della determinazione americana a impegnarsi a medio termine in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti hanno perso l’Irak ?

L’hanno mai preso ? L’invasione americana in Irak somiglia a una successione di errori che hanno largamente contribuito a peggiorare la situazione. Il parlamento irakeno ieri ha votato per mettere fine alla presenza americana nel paese. Ormai il governo deve prendere la decisione, e se la confermerà, di norma ci vorrà un certo tempo prima che sia messa in opera.

In queste condizioni, sembra difficilissimo che i 5.200 soldati americani restino sul posto. In ogni modo, l’Amministrazione Trump lo desidera, quando il presidente non ha nascosto la sua volontà di disimpegnarsi dalla regione? La partenza delle truppe americane sarebbe una vittoria politica e strategica per l’Iran, ma al contempo la priverebbe di un capro espiatorio in tempo di crisi, e di un bersaglio potenziale per rispondere alla pressione massima degli Stati Uniti.

Partite le truppe americane, gli iraniani sarebbero i padroni del paese. In certa misura lo sono già, ma allora dovranno gestire soltanto le manifestazioni popolari, le velleità d’indipendenza dei Curdi e l’ostilità dei sunniti, visto che Curdi e Sunniti hanno boicottato la seduta parlamentare di ieri. Soltanto 169 deputati su 329 erano presenti.

Che avverrà delle forze americane nella regione ?

Gli Stati Uniti dispongono di meno di 1000 uomini in Siria, la permanenza dei quali non può darsi per certa, vista la volontà di disimpegno da quel terreno di Donald Trump. Se lasciano l’Irak, lasceranno al regime iraniano la possibilità di passare da un paese all’altro, dall’Iran fino al Libano, senza incontrare una forza militare nemica.

Ieri, Hassan Nasrallah ha dichiarato che solo la partenza di tutte le truppe americane dalla regione potrebbe controbilanciare l’uccisione di Kassem Soleimani. Sabato Kata’ib Hezbollah ha invitato i soldati irakeni ad allontanarsi « di almeno mille metri » dai siti ove sono presenti soldati americani a partire da domenica sera, sottintendendo che quei siti potrebbero essere bersaglio di attacchi.

Dal canto suo, il Segretario di Stato Mike Pompeo ieri ha ammesso che le forze americane stazionate nel Vicino Oriente potrebbero subire le rappresaglie iraniane. Secondo il Comando militare centrale degli Stati Uniti, ci sono circa 60.000 soldati dispiegati nella regione. La base più grande è quella di al-Udeid nel Qatar, dove sono di guarnigione 13.000 soldati americani.

Già il presidente Barack Obama aveva designato come obiettivo strategico il disimpegno dal Medio Oriente, senza poterlo poi veramente perseguire a causa dell’evoluzione degli avvenimenti.

Donald Trump, che ha il medesimo obiettivo, potrebbe trovarsi di fronte alla stessa problematica, tanto più che desidera perseguire l’escalation nei riguardi dell’Iran. L’amministrazione Trump aveva annunciato, alla fine del 2019, che circa 3.000 soldati americani sarebbero stati dispiegati in Arabia Saudita per proteggere la regione “contro l’azione ostile dell’Iran e dei suoi satelliti”. Venerdì scorso, Washington ha annunciato che avrebbe dispiegato da 3.000 a 3.500 soldati americani nella regione per rafforzare la sicurezza delle posizioni americane.

Quali conseguenze per le petromonarchie del Golfo ?

Esse potrebbero essere in prima linea nella risposta iraniana contro gli Stati Uniti, per due ragioni almeno. Uno: sono quelle che ospitano il maggior numero di soldati americani nella regione. Due: niente indica che beneficerebbero nuovamente dell’ombrello americano, in caso di un attacco iraniano che non prendesse di mira i soldati americani. Altrimenti detto, se oggi si ripetesse uno scenario simile agli attacchi dello scorso settembre contro il gigante petrolifero Aramco in Arabia Saudita, attribuiti all’Iran, le monarchie saudite del Golfo non hanno la garanzia che gli Stati Uniti risponderebbero.

Ieri, un responsabile saudita ha dichiarato all’AFP che Riyad non è stata consultata da Washington in proposito del raid contro Kassem Soleimani.  Segno del timore del regno saudita di subire le conseguenze di questa nuova escalation, il responsabile saudita ha sottolineato “importanza di dar prova di moderazione”. Va notato che il ministro degli Affari Esteri del Qatar si è recato sabato in Iran, quando i due paesi intrattengono relazioni cordiali nonostante la presenza della grande base americana su territorio qatarino.

Che ne sarà della lotta contro lo Stato Islamico ?

Lo Stato islamico potrebbe approfittare nuovamente del caos geopolitico. Mentre l’organizzazione riprende le forze sia in Siria sia in Irak, la coalizione antijihadista diretta dagli Stati Uniti ha annunciato ieri “la sospensione” dell’addestramento delle forze irakene e dei combattimenti contro lo Stato Islamico, perché sono “ormai totalmente dedicati a proteggere le basi irakene che ospitano e sue truppe”

Quali conseguenze per l’accordo nucleare ?

La questione del nucleare è all’origine dell’escalation americo-iraniana , eppure la si è quasi dimenticata. Mentre gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo nucleare nel maggio 2018, ieri l’Iran ha dichiarato che non rispetterà più alcun limite nel numero delle centrifughe.

Questa decisione è stata ritenuta equilibrata dagli esperti, secondo i quali essa proverebbe che l’Iran non vuole, per ora, uscire completamente dal quadro degli accordi. Gli europei cofirmatari dell’accordo, che da mesi tentano di convincere gli iraniani a restare nel quadro da esso delimitato, si preoccupano di questa nuova prospettiva, che potrebbe anch’essa creare una escalation. Né gli Stati Uniti né Israele possono permettere, a priori, che l’Iran si doti dell’armamento atomico.

Resta una chance per la diplomazia ?

In questi ultimi mesi, Iran e Stati Uniti hanno già tentato di aprire un canale diplomatico attraverso il sultanato di Oman, ma il tentativo si è già arenato di fronte al rifiuto di transigere sulle rispettive esigenze di entrambe le potenze.

Anche la Francia ha tentato, senza successo, di farsi mediatrice nella crisi. Alcuni ritengono che l’attuale crisi, se permette il ritorno all’equilibrio della deterrenza, può essere un modo di rilanciare l’iniziativa diplomatica. Questo implicherebbe che Teheran accettasse alcune condizioni americane riguardanti la sua politica regionale. Tuttavia, nelle condizioni attuali, e tenuto conto della reciproca diffidenza dei due attori, ci sono molti motivi d’essere scettici sulla possibilità che si produca uno scenario del genere.

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