Una terapia filosofica per una psicoterapia, di Paolo Di Remigio
Una terapia filosofica per una psicoterapia
Sulle vicende di Bibbiano Claudio Foti, direttore scientifico del centro studi ‘Hansel (sic!) e Gretel’, ha pubblicato una nota[1] redatta in un registro espressivo vago, generico, volto a rassicurare il lettore distratto; è però sufficiente una minima attenzione e sotto ogni riga si scorgerà un brulicare di infrazioni di ogni legge naturale e umana.
Vi si legge: “Piovono minacce quotidiane” su quanti sono “impegnati sul fronte dell’allontanamento dei bambini.” Mentre la pioggia cade alla cieca sugli uomini, le minacce sono un’espressione umana; se però piovono, le minacce cessano di essere umane, diventano un fenomeno naturale cieco, privo di razionalità, quindi di diritto. Le minacce piovono poi non su chi protegge i bambini e in casi estremi li allontana dalle famiglie, ma su chi li allontana semplicemente. Ne segue che nel mondo in cui Foti vive è così giusto, così razionale allontanare i bambini dalle madri e dai padri, che la reazione della gente agli allontanamenti è degradata a un fenomeno inanimato come la pioggia: la razionalità psicoterapeutica di Foti si erge sulla razionalità della gente come l’intelligenza dell’uomo si eleva sulla sorda materialità della cosa.
Le reazioni di odio, prosegue Foti, “si sono generate e sono cresciute mano a mano che crescevano gli interventi sociali e psicologici per sostenere i genitori, ma anche per limitare la loro onnipotenza (della serie “come ti ho fatto, ti disfaccio”).” Qui si presenta un doppio errore, fattuale e logico. Le reazioni di odio non sono affatto proporzionali agli interventi sociali e psicologici, ma sono nate da qualche settimana, dopo che la divulgazione di precisi documenti ha scosso l’incredulità verso fatti sì enormi e ha colpito nel profondo i punti più delicati di ogni individuo, il rapporto con i suoi genitori e quello con i suoi figli. La frase è dunque falsa. – È però anche illogica. Se le reazioni negative a una terapia, in questo caso gli interventi sociali e psicologici, sono tanto maggiori quanto più la si applica, allora la terapia è sbagliata; e un medico che non vede il prodursi di un rapporto proporzionale diretto tra applicazione della sua cura e aggravarsi della malattia del paziente è per lo meno un incapace. Constatando la proporzionalità diretta tra interventi sociali e psicologici e odio, da un lato Foti confessa di fatto l’errore, dall’altro non lo riconosce: egli si sente in errore ma non si sente in errore, si colloca cioè come coincidentia oppositorum al di là del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto. In quanto poi egli non è solo un teorico, ma anche un terapeuta, il suo sentirsi nel vero quando si sente nel falso si trasforma in sentimento di sovranità assoluta. Il lettore stesso potrebbe però sentire questa conseguenza, sentire che è stato superato il limite umano e si è compiuto il salto nell’infinità. Prima che il lettore focalizzi l’onnipotenza e gliela imputi, Foti la evoca e la sposta da sé alle vittime: ciò che gli doveva essere rinfacciato lo rinfaccia ai genitori in generale; e così la sua pretesa di onnipotenza diventa l’essenza della condizione genitoriale.
Come potrebbe il lettore non lasciarsi sviare da una mossa così astuta? Chi non ricorda che da bambino ha considerato i suoi genitori come dèi infallibili e per tutta l’adolescenza si è sforzato di sottrarsi alla loro onnipotenza? Foti ha dalla sua parte l’esperienza generale: tutti dobbiamo riconoscere l’onnipotenza dei genitori, ed è raro essere dei dialettici così esercitati da comprendere che tutti dobbiamo riconoscere anche l’assoluta impotenza dei genitori.
Come ogni rapporto umano, il rapporto tra genitori e figli sottostà al principio del riconoscimento, l’Anerkennen hegeliano per cui il mio io si costituisce sdoppiandosi in un io altro: per il genitore, il figlio è il suo sé esistente in un corpo fuori di lui, che egli ha generato perché viva dopo la sua morte. Il loro rapporto è complesso; contiene addirittura una doppia contraddizione: io sono mio figlio, dunque non sono me stesso, sono altro da me – questa è la mia totale impotenza e la sua onnipotenza; viceversa, mio figlio è me, non è sé stesso, è altro da sé – questa è la sua totale impotenza e la mia onnipotenza. Foti vede soltanto questa seconda contraddizione; esce dunque dalla realtà dell’intero rapporto, e meno che mai può comprendere che la sua doppia contraddizione si risolve: sapendo che mio figlio è me stesso, sicuro cioè della mia onnipotenza, accetto la sua separazione e la mia impotenza, e sono me stesso nella mia alterità; viceversa, mio figlio mi conserva nella sua separazione. È vero dunque che i genitori sono onnipotenti in quanto il figlio è il loro sé, ma è altrettanto vero che sono impotenti in quanto sono sé stessi nel figlio, e questo vivere oltre sé stessi nella piena indipendenza dei figli, l’eternità della specie, l’Ἔρως platonico, è esattamente il motivo per cui si mette insieme una famiglia e si fanno bambini. Non occorre allora che una psicoterapia pelosa si insinui tra genitori e i figli a limitare l’onnipotenza di quelli e a tutelare l’impotenza di questi; onnipotenza e impotenza sono poste come soppresse dalla notte dei tempi; il problema è risolto da sempre e se la psicologia vuole avere qualche utilità oltre la correzione dei propri errori deve limitarsi a dare consigli sui casi eccezionali, quelli in cui l’idea della famiglia nell’attuarsi entra in contrasto con il proprio concetto.
Cercando di nascondere con una concessione generosa la sua radicale incomprensione dell’idea di famiglia, Foti arriva a pronunciare la blasfemia che essa “rappresenta la più straordinaria risorsa educativa dei bambini”. È del tutto illegittimo parlare di bambini come di esseri autonomi che frequentano la famiglia per farsi educare[2]; a questo mondo non c’è nulla di simile, ma ci sono figli che nei primi anni della loro vita sono bambini; in altre parole: il bambino è sostanzialmente figlio di qualcuno e il figlio può essere bambino per accidens; parlare di bambini come se non fossero figli equivale a strapparli già nel concetto alla famiglia. La famiglia non ha inoltre proprio nulla di straordinario, è anzi l’ordinarietà della riproduzione umana; altrettanto impropria è l’espressione che la famiglia sia la più straordinaria risorsa educativa dei bambini, innanzitutto perché la famiglia educa i bambini, certo, ma questa sua funzione non è l’unica, e poi perché non è in concorrenza con altre ‘risorse’ educative, di cui sarebbe migliore, ma è sic et simpliciter il mondo del bambino che da sempre, dunque molto prima che arrivassero gli psicoterapeuti e le altre risorse educative, lo allarga e infine se ne allontana crescendo.
Come se fosse il guru di una setta, Foti rafforza la compattezza del suo gruppo esaltando la propria generosità e la sua armonia interna ed esasperando la malignità del mondo esterno. Nel suo mondo gli istituti e le famiglie a cui sono affidati i bambini tolti ai genitori sono un’oasi di pace; i genitori sono invece membri di una minacciosa congiura per la restaurazione del diritto romano, in cui veramente i figli erano proprietà dei padri. Egli deplora quindi che per “una parte della comunità sociale la famiglia (sia) sacra e intoccabile… (sia) sempre e comunque un microcosmo idealizzato (sic!) dove i bambini (sarebbero) protetti e benvoluti”. ‘Come si può pensare – sembra dire Foti – che la famiglia sia sacra quando la cronaca quotidiana ci racconta di genitori sciagurati che abusano dei loro figli, che li picchiano a morte?’ E invece non soltanto lo si può, lo si deve pensare, perché le due frasi che Foti esprime come se fossero identiche, sono separate da un abisso: dire che la famiglia è sacra non equivale affatto a dire che la famiglia è sempre e comunque un microcosmo ideale. In primo luogo, già nel concedere la possibilità che essa sia un microcosmo ideale Foti riconosce, senza accorgersene, proprio la sacralità dell’idea di famiglia: l’idea di famiglia è sacra, e lo è anche se non sempre e non ovunque le famiglie empiriche proteggono i bambini e vogliono loro bene. Di ogni idea esistono infatti esemplari imperfetti, ma il cattivo esemplare non dimostra affatto il difetto dell’idea: il fatto che le persone abusino della libertà non è un argomento a favore del totalitarismo, come pure non è un motivo per abolire le leggi il fatto che i delinquenti le infrangono. La limitatezza dell’idea non può essere mostrata a livello fattuale, deve essere dimostrata dalla critica a priori: non gli operatori che si occupano dei singoli casi, ma solo il filosofo morale può mostrare il limite della famiglia; esso consiste non nel fatto che ci sono cattive famiglie, ma nella possibilità che essa si sciolga con il mutare del sentimento dei coniugi e nella necessità che con il diventare adulti dei figli essa si sciolga in una pluralità di famiglie tra loro estranee.
“Laddove c’è un processo di cambiamento sociale (Foti intende la nuova attenzione al tema della tutela dei bambini) si crea sempre una reazione sociale ostile.” La vaghezza della frase non impedirà al lettore attento di vedervi una dichiarazione di guerra. La famiglia è essenzialmente tutela dei bambini: i genitori si preoccupano innanzitutto e spesso esageratamente di proteggere i figli assicurando loro la salute e la crescita fisica, desiderandone la libertà e la felicità. E non lo fanno per bontà o per generosità – se così fosse la famiglia sarebbe un’istituzione non meno pericolosa delle ‘risorse educative’ –, ma perché vedono sé stessi nei figli, perché non possono distinguere il proprio interesse da quello dei figli, quindi per un egoismo allargato. La nuova attenzione alla tutela dei bambini, l’espressione astratta usata da Foti, tradotta in forma concreta, significa dunque che ci sono nuove entità interessate a tutelare i bambini. È interesse di queste nuove entità diffondere l’opinione che la famiglia non sia in sé stessa tutela dei bambini, per farsi riconoscere il potere insindacabile di sottrarle i figli. ‘So bene – così dobbiamo tradurre il discorso di Foti – che voi famiglie reagirete in modo ostile a questa operazione, ma il cambiamento sociale è già un processo, cioè è già avviato e non può essere né fermato né riportato indietro’ – troppi gli interessi che alimenta, troppi i complici che lo coprono all’interno delle istituzioni. Così Foti dichiara la sua guerra alla famiglia.
Il completo rovesciamento etico che traspare da tutta la nota era in fondo già suggerito dal nome del centro, ‘Hansel e Gretel’, di cui Foti è direttore scientifico. Innanzitutto il primo dei due nomi offende l’ortografia tedesca, che è Hänsel o, se si vuole, Haensel; la scelta della favola in cui i fratellini sono abbandonati nel bosco su istigazione della matrigna e sono accolti da una strega che li vuole divorare offende poi il buon senso. Soltanto degli adepti della psicanalisi direbbero che vi si manifestano due desideri inconsci, quello di mutare l’anima del bambino e quello di sfruttare situazioni familiari difficili per impossessarsi dei figli altrui, suggestionarli e annientarli; è però stupefacente che al centro studi che ne ha usato il titolo come sua denominazione sia sfuggito il finale della fiaba: Hänsel e Gretel tornano a casa dopo aver bruciato la strega.
[1] Consultabile al seguente indirizzo: https://www.facebook.com/claudio.foti.583/posts/1507426572744281
[2] L’ideologia progressista non ha problemi ad affermare con la stessa forza la totale dipendenza del feto e la totale indipendenza del bambino.