SALVATE IL SOLDATO ESPOSITO di Marco Bertolini

Non tutti se ne sono accorti, ma con la fine della leva che proiettava le nuove Forze Armate in una dimensione nuova, è scomparso il Soldato. E’ scomparso realmente, materialmente, anche e prima di tutto da un punto di vista semantico, terminologico. Ed è scomparso anche come “grado”, seppellito da un ammasso di “caporali” “caporal maggiori”, “caporal maggiori scelti”, “caporal maggiori capi scelti” e “caporal maggiori capi scelti con qualifica speciale”, promossi indipendentemente dalla funzione, che relegano il vecchio “soldato semplice” ad una specie transeunte in via d’estinzione, riservata a poche reclute nei primi mesetti di servizio.

Al suo posto, è comparso il “Volontario”, titolare di un termine ambiguo che lo doveva rendere meno sospetto per la classe politica, non solo in questo periodo infastidita da tutto quello che sa di militare; termine che – a orecchio – lo confonde coi molti benemeriti volenterosi della nostra realtà nazionale, quelli delle Misericordie, delle Croci Rosse e dei Vigili del Fuoco, ma anche con quegli operatori normalmente ben remunerati delle ONG che si occupano di traghettare in Italia i clandestini in afflusso dalle coste libiche.

La scelta di questa definizione civettuola nascondeva un’avvilente pulsione al “travestimento”, una presa di distanza dal passato, come se il titolo di Soldato fosse andato stretto alla nostra realtà tecnologica, come se ce ne dovessimo vergognare! Forse, un motivo tra i tanti di questa scelta è da ricercare nel fatto che Volontario si declina meglio al femminile (Volontaria) del termine Soldato (Soldata? Soldatessa?); e questo non è un dettaglio per un’istituzione che si è dovuta aprire all’arruolamento femminile sulla spinta di istanze politiche che non puntavano a sfruttare l’indubbio valore aggiunto della femminilità in selezionati settori dell’orbe militare, quanto piuttosto a mettere la sordina a quel complesso di sgradevoli e politicamente scorrettissimi valori “virili” che lo caratterizzavano. Da questo rinnegamento sono poi scaturiti altri “frutti” tutt’altro che gustosi, come il venir meno di standard fisici che erano normali, oltre che ovvi, ai tempi della leva e che ora avrebbero il sapore di ingiusti ostacoli per le “pari opportunità” da assicurare a tutti, alti e bassi, belli e brutti, maschi e femmine, omo ed etero.

Contemporaneamente, è entrato di gran voga il termine “professionista”, per dare una asettica connotazione “lavorativa” al mestiere delle armi. I recenti provvedimenti volti a consentire l’associazionismo sindacale nell’ambito della Difesa derivano, in fin dei conti, da questa nuova prospettiva, mettendola alla mercé di frotte di faccendieri autoproclamatisi esperti di misteri militari e di stuoli di azzeccagarbugli specializzati nella “tutela dei diritti”, anche i più turpi, che fino ad ora sarebbero stati trascurati o addirittura conculcati da Comandanti col monocolo chiusi nelle torri eburnee dei propri Circoli Ufficiali. Cosa c’è di meglio, insomma, di una catena di comando parallela a quella tradizionale, che misuri i passi dei Comandanti, ne registri le parole, gli sguardi imbronciati, ne vagli gli ordini, gli atteggiamenti e ne stronchi i cazziatoni? Una catena di occhiuti inquisitori, non trasferibili e intoccabili, magari al riparo dagli obblighi dell’indice di massa corporea, che ci sbarazzi una volta per tutte del precetto della subordinazione militare, fastidioso caposaldo della militarità “vera”. Ha gettato una luce sinistra, ma chiara, sulle motivazioni di quest’ultimo provvedimento un recente “post” su FaceBook di un attuale sottosegretario alla difesa, con il quale lo stesso si è permesso di utilizzare uno spezzone di un noto film sulle ultime ore di Hitler per irridere con una serie di luoghi comuni le “vecchie” Forze Armate, quelle pre-sindacali e pre-antinfortunistica che per un paio di guerre mondiali, con tutto quello che c’è stato in mezzo, e tre quarti di secolo hanno servito l’Italia. Il Ministro ha preso le distanze da un’iniziativa certamente non adeguata da parte di un componente del vertice della Difesa; ma a tutt’ora il sottosegretario è ancora lì, adeguatezza o meno.

Tornando a noi, questi “professionisti” hanno portato all’eclisse del soldato, termine al quale si ricorre raramente, per lo più quando lo si può aggettivare con l’espressione “…di pace”. Non c’è dubbio che la pace sia un bene al quale teniamo tutti (anche se a ben vedere qualche pazzo scatenato che soffia continuamente sul fuoco delle guerre – anche civili – c’è sempre), ma l’imbarazzo che deriva dalla constatazione che non esiste ancora nessuna risorsa migliore dell’uomo col fucile per tutelarla ha portato a inventare l’ossimoro del “soldato di pace”, chiara contraddizione in termini, vuota affermazione retorica priva di significato. Un po’ come “paese denuclearizzato” o “città della pace” che campeggia sui risibili cartelli stradali di tanti nostri borghi più o meno di provincia.

Inoltre, tale aggettivazione lascerebbe intendere che in essa risiede la vera nobiltà del militare di oggi, quasi fosse una giusta presa di distanza da chi non poteva fregiarsene, i nostri vecchi: quelli che abbiamo ricordato l’anno scorso in occasione del centenario della Vittoria; quelli che erano i destinatari di antichi monumenti nelle nostre piazze, inaugurati alla presenza di vedove ed orfani commossi ed oggi spesso oltraggiati da imbrattamuri senza fantasia consapevoli della propria impunità; quelli che tra di loro si consideravano camerati, o commilitoni per usare un nobilissimo termine coniato da Cesare stesso, e non colleghi, come con civetteria è in voga oggi anche a livello truppa; quelli che non avevano bisogno di travestirsi da “soldier of fortune de noantri” con tutti gli ammennicoli del caso: berrettino da baseball e pecetta nera ad occultarne gli occhi nelle foto, come si trattasse di agenti dei Servizi in missione speciale e non di spavaldi rappresentanti di un paese grande e pulito.

La negatività di questo approccio culturale diventa, se possibile, ancora più odiosa quando applicata alla categoria dei “Caduti”, quando il soldato che perde la vita in operazioni viene commemorato e onorato soprattutto perché “Caduto per la pace”, quasi che non bastasse il fatto che abbia sacrificato tutto “solo” per il Dovere. Ne consegue un’indotta graduatoria morale, per la quale il soldato caduto semplicemente in guerra ottanta o cent’anni fa sarebbe meno meritevole del nostro affetto e della nostra riconoscenza di quello che ha perso la vita distribuendo aiuti umanitari o prendendosi a fucilate col talebano di turno.

Per concludere queste riflessioni nelle quali ho voluto parlare solo di parole – dalle quali peraltro derivano deviazioni, e malattie, che intaccano la realtà – vorrei soffermarmi su un’altra idea falsata, per la quale le Forze Armate sarebbero semplici strumenti per fronteggiare ogni (ogni!) situazione di emergenza, ovunque si manifesti. E’ il precetto del “doppio uso”, termine utilizzato come una clava per convincerci che altro non sarebbero che una specie di Protezione Civile più o meno “militarizzata”, pronta ad intervenire dopo la prima scossa di terremoto e solo in ultima istanza in contesti bellici, dai quali il dettato costituzionale ci metterebbe al riparo, con un semplice artifizio retorico. Un ribaltamento di prospettiva incredibile, se si tiene conto che è solo grazie all’addestramento all’impiego in contesti bellici che le Forze Armate, soprattutto l’Esercito, furono in grado in passato di prestare la propria entusiastica e meritoria opera di soccorso alle popolazioni vittime di calamità e di proporsi quale esempio per chi sentì finalmente il bisogno di dotare l’Italia di una Protezione Civile efficiente. Si è, così, persa l’occasione di affermare semplicemente che le Forze Armate sono uno dei principali strumenti di Politica Estera del nostro paese, con il quale l’Italia può affermare i suoi interessi, funzione essenziale e non delegabile ad altri nel momento storico attuale. E chi conosce il rispetto e anche l’ammirazione che i nostri militari si sono guadagnati in tutto il mondo, sa di cosa parlo. Dovrebbero saperlo anche coloro che per motivi banalmente politici hanno l’onore di esserne al vertice, seppur temporaneamente; ma questa è un’altra triste storia.

Lungi dall’aver la pretesa di rappresentare, in tale contesto, lo strumento risolutivo per ogni situazione, i nostri uomini dovrebbero essere quindi considerati, in Afghanistan come in Libano, Somalia, Iraq, Niger o Libia, degli ottimi “alzatori di palla” che altri potrebbero e dovrebbero “schiacciare” nell’interesse di tutti, e l’osservazione di quello che fanno al proposito altri Paesi a noi molto vicini potrebbe essere illuminante.
Insomma, per quel che ci riguarda, per sostenere questa realtà e quella nella quale i nostri soldati vivono ogni giorno, pericolosamente, il primo dovere che dobbiamo rispettare è quello di coltivare una freschezza e chiarezza di idee che non può essere disgiunta da un corretto uso delle parole.
Che non sono solo fiato al vento, ma pietre, come sanno anche i sassi (appunto!).

Marco Bertolini