ELEMENTI DI TEORIA DELLE CRISI ECONOMICHE, di Gianfranco La Grassa

ELEMENTI DI TEORIA DELLE CRISI ECONOMICHE

 

  1. Dovrei essenzialmente parlare della crisi del 1929. E’ ovvio che ogni avvenimento storico ha una sua singolarità specifica e va inquadrato nell’epoca del suo verificarsi. Do però per scontata la conoscenza di tutto il “contorno” storico della crisi del 1929, solitamente considerata la più grave delle crisi che comunque, in forme e con intensità diverse, coinvolgono il nostro sistema sociale detto capitalistico e ne arrestano il tendenziale sviluppo. Per larga parte del 1800, nell’epoca del capitalismo detto di concorrenza, le crisi erano fenomeni verificantisi all’incirca ogni 8-10 anni con caratteristiche molto simili fra loro. Negli ultimi decenni, in specie dopo la seconda guerra mondiale, la situazione di crisi appare meno regolare nelle sue cadenze e nelle sue forme di manifestazione, ma ciò non esclude che si cerchi sempre di cogliere le caratteristiche comuni di fenomeni diversi, comunque appartenenti alla “classe” di quegli accadimenti in grado di interrompere lo sviluppo capitalistico e di provocare anche, come appunto nel caso del 1929, netti arretramenti produttivi accompagnati da gravi sconvolgimenti dei circuiti economici e finanziari, e da sconquassi sociali di notevoli proporzioni con le loro brusche ricadute politico-istituzionali (per tutte si pensi all’ascesa del nazismo nel 1933, non certo causata dalla crisi ma senz’altro da questa favorita).

Prima di entrare direttamente nel discorso sulla crisi, con riferimento particolare a quanto accadde nel 1929 e anni successivi, voglio ricordare – poiché ciò avrà una sua utilità in seguito – la possibilità di catalogare tale fenomeno in due tipologie fondamentali. La prima trova la sua principale esemplificazione nel periodo 1873-96; si tratta di una sostanziale (lunga) stagnazione, non di un vero e proprio brusco tracollo economico-finanziario. Normalmente, si considera quel periodo storico come la fase di passaggio dal capitalismo di prevalente concorrenza a quello di prevalente mono(oligo)polio. Una fase non caratterizzata da troppo gravi sconvolgimenti (e arretramenti) economici, ma da ritmi di sviluppo estremamente bassi interrotti da inversioni di tendenza di non drammatiche dimensioni. Insomma, un’epoca il cui trend dovrebbe essere rappresentato graficamente da una linea quasi orizzontale. La seconda tipologia è appunto quella che si manifestò con particolare acutezza nel 1929: ad una punta di boom di notevole portata, che aveva fatto (stra)parlare di una ormai ininterrotta epoca di grande prosperità capitalistica, seguì una brusca e accentuata caduta di tutti gli indici economici, pur a partire dalla crisi di Borsa a New York ufficialmente iniziata il giovedì 24 ottobre e aggravatasi decisamente nel famoso “martedì nero” (il 29). Tale caduta dilagò praticamente in tutti i paesi capitalistici – con il prodursi di gravissimi disagi sociali susseguenti anche alla vastissima disoccupazione della forza lavoro – e poi si stabilizzò a livelli produttivi molto bassi fin praticamente al 1933. Vedremo più avanti che tipo di “ripresa” si verificò a partire da quell’anno.

Va ancora ricordato il carattere più generale della crisi capitalistica: il suo essere caratterizzata da una sovrapproduzione, poiché provoca impoverimento delle più larghe masse popolari nell’ambito di una sempre più elevata potenzialità produttiva del sistema economico, cui non corrisponde l’aumento della capacità di acquistare come merci i beni prodotti. Grandi quantità di questi ultimi restano quindi invendute e le varie unità produttive (le imprese capitalistiche) soffrono perdite (invece che godere di profitti) e dunque diminuiscono la produzione; molte chiudono e spesso vanno pure in fallimento, licenziando così mano d’opera. Diminuisce di conseguenza la massa salariale e cade ulteriormente la domanda dei beni di consumo e dunque anche quella dei beni di produzione (cioè gli investimenti delle imprese); così la crisi si generalizza e avanza a macchia d’olio.

Tale tipo di evento fortemente negativo in termini economici, con riflessi sociali ovviamente drammatici, colpisce le società ormai basate sulla produzione industriale. Si tratta quindi di un fenomeno del tutto differente da quello tipico delle società precapitalistiche, in cui prevaleva nettamente la produzione agricola. In queste ultime, le “crisi” erano in genere vere carestie dovute ad andamenti climatici sfavorevoli, al diffondersi di gravi fitopatologie, alle distruzioni militari, ecc.; processi devastanti in società ad ancora scarsa evoluzione tecnologica, caratterizzate quindi da quella che oggi indicheremmo come un’assai bassa produttività del lavoro. Quelle “crisi” dipendevano da vera e propria penuria di beni prodotti;  nel capitalismo, al contrario, esse sono provocate dalla produzione “troppo” alta di beni, dove il “troppo” è semplicemente relativo alla capacità (ormai generalmente monetaria) d’acquisto della gran parte della popolazione.

 

  1. Nella teoria economica tradizionale di origine neoclassica, il cui inizio viene solitamente fatto risalire al 1870 (con Walras, Menger e Jevons), per oltre mezzo secolo non fu mai presa in considerazione una vera teoria della crisi. Solo pochi autori (Veblen, Schumpeter e qualche altro) trattarono la crisi come una dinamica intrinseca all’organizzazione del sistema economico capitalistico; in genere, la quasi totalità degli economisti accademici considerava tale fenomeno come dipendente da fattori estranei al sistema in questione, comunque del tutto erratici e casuali, del tipo delle ondate di ottimismo o pessimismo (non è che oggi non si faccia ancora ampio ricorso a simili spiegazioni che…..non spiegano nulla). Solo il marxismo diede risalto alla crisi quale evento che non può non verificarsi nell’ambito del sistema economico in questione. Tuttavia, per ragioni di “tempo e spazio”, non mi diffonderò sulla spiegazione marxista, anche perché essa non ha mai dato origine a effettive politiche economiche atte a combattere la crisi. L’unica ricetta (non del tutto marxista per ragioni su cui non posso qui diffondermi) fu quella della pianificazione statale dell’economia, ma in una situazione di totale rivoluzionamento sociale e politico-istituzionale e di abolizione formale della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ricorderò comunque che, nel 1929, la crisi non toccò precisamente il paese sedicente socialista, l’URSS. Non m’imbarcherò comunque in una discussione su tale fatto e sui vantaggi e sopratutto svantaggi dell’economia pianificata poiché dovrei andare in una direzione del tutto diversa da quella che qui intendo affrontare.

In ogni caso, siamo oggi in un sistema capitalistico sostanzialmente rimondializzatosi, e dunque parlerò delle teorie che in campo capitalistico, una volta verificatasi la potente scossa del ’29, furono formulate con l’intento non solo di spiegare bensì anche di risolvere i problemi della crisi stessa. Ne parlerò in termini molto “intuitivi”, all’ingrosso, senza cercare una impossibile precisione che esigerebbe conoscenze e strumentazioni specialistiche. Mi guarderò bene dal tentare di riprodurre in sintesi il dibattito che si sviluppò per decenni. Tenterò soltanto di rendere sufficientemente chiara la logica di fondo dei ragionamenti afferenti alle posizioni fondamentali che si scontrarono sul problema della crisi e sugli strumenti di politica economica atti a contrastarla.
Quando si entrò bruscamente in una situazione critica nell’ottobre del ’29, data l’eccezionale portata e ampiezza del fenomeno e la sua durata, la teoria tradizionale si trovò in forte difficoltà nel fornire sia una spiegazione dello stesso sia una ricetta per ridurne la gravità e invertire la tendenza recessiva.

Fu all’inizio ampiamente sostenuto che il problema nasceva a causa delle “imperfezioni e rigidità” del mercato del lavoro. Senza entrare, come già detto, in particolari, si sosteneva che la forza sindacale dei lavoratori aveva ormai imposto un salario (prezzo della forza lavoro in quanto merce) al di sopra della sua produttività. Bisogna aggiungere “marginale”. Cercherò di spiegare brevemente il problema. Debbo necessariamente fare un détour che assomiglierà un po’ ad una lezione, noioso quindi ma necessario. A differenza dei “classici” (Smith e Ricardo in testa), che consideravano il valore dei beni prodotti in base al tempo di lavoro occorso nel produrli – e il prezzo effettivo, in base all’andamento della domanda e dell’offerta, oscillava attorno al valore; questa considerazione in merito a detta oscillazione vale per tutti gli economisti, di qualsiasi tendenza siano nel concepire il valore dei beni – i neoclassici lo pensavano in base alla quantità di bene a disposizione del consumatore in relazione all’intensità del suo bisogno di quel bene. Ma questa intensità, e dunque l’utilità del bene per il consumatore, diminuisce man mano che la quantità del bene a sua disposizione aumenta. L’ultima unità del bene disponibile ha quindi una certa utilità, detta appunto marginale; ed è questa a misurare il valore attorno a cui oscillerà il prezzo di quel bene (ovviamente sommando la domanda di tutti i consumatori che ne hanno bisogno.

Ciò che vale per il consumo, vale pure per la produzione. Se consideriamo i due fattori fondamentali di quest’ultima – il capitale (strumentazione e materie prime; per inciso, noto che qui, a differenza che in Marx, il capitale è cosa e non rapporto sociale) e il lavoro – si ha anche qui una produttività ad un certo punto decrescente delle diverse unità di tali fattori impiegate nel processo produttivo. E la produttività dell’ultima dose impiegata dei fattori è sempre quella detta marginale. I fattori hanno un prezzo unitario d’acquisto (il costo insomma). Quando la produttività marginale di quel fattore equivale a detto prezzo, l’imprenditore smette di acquistarlo poiché, ovviamente, ogni unità in più determinerebbe una diminuzione del suo utile. Quindi la crisi era determinata dalle eccessive richieste (sindacali) di aumento dei salari, che ad un certo punto andavano al di sopra della produttività marginale del fattore lavoro. Ergo: bastava ridurre i salari e la crisi si sarebbe risolta con comune soddisfazione di entrambe le figure cardine del processo produttivo: imprenditori (i capitalisti) e lavoratori salariati non più disoccupati. Questa ad es. era la tesi di Pigou, antagonista poi delle tesi di Keynes.

Evidentemente, l’abbassamento del salario diminuiva, sì, il costo di produzione per l’imprenditore, ma diminuiva nel contempo la massa salariale a disposizione del complesso dei lavoratori pur se poteva momentaneamente aumentare la convenienza – per ogni singolo imprenditore, attento al rapporto prezzo di vendita del bene prodotto e costo di quest’ultimo – di assumere lavoro. In realtà, uscendo dalla considerazione del singolo (sia consumatore che produttore) – quindi dalla tipica visione microeconomica dei neoclassici (liberisti puri) – e andando invece a quella macroeconomica del complesso della domanda e dell’offerta, si poteva ben supporre un aggravamento della crisi in atto, che vedeva un eccesso di produzione non assorbito dalla domanda. Diminuendo i salari, l’effetto complessivo (macroeconomico) sarebbe stato un ulteriore calo della domanda di beni di consumo; quindi una crescente sovrapproduzione “relativa”. Allora, gli imprenditori avrebbero ridotto la produzione e dunque pure gli investimenti, cioè la domanda di beni di produzione; subito quella delle materie prime (capitale circolante) e, alla lunga, anche quella degli strumenti produttivi (capitale fisso, di cui si sarebbe trascurato l’ammortamento).

In effetti, ci sarebbero stati sia meno profitti da investire sia la riduzione della profittabilità di detti investimenti data la caduta della domanda (di beni di consumo come di produzione). La crisi si sarebbe allora avvitata sempre di più, si sarebbe entrati in un circolo vizioso di continuo aggravamento della situazione. Entrò dunque in crisi la spiegazione tradizionale dei neoclassici liberisti puri, secondo cui la “causa iniziale”, cioè il motore della crisi, sarebbe stata la crescita dei salari al di sopra della produttività (marginale) del lavoro, con riduzione dei profitti imprenditoriali o addirittura il verificarsi di forti perdite. La “colpa essenziale” sarebbe quindi stata dell’eccessiva forza dei sindacati dei lavoratori; questi ultimi si sarebbero dovuti accontentare di salari più bassi. Alcuni cominciarono però a rilevare quanto già detto: i salari più bassi implicavano riduzione della domanda di consumo con conseguente ulteriore aggravarsi della crisi, che vedeva l’accumularsi di merci invendute per mancanza di una corrispondente capacità d’acquisto delle stesse. Da qui partì l’inversione della politica seguita e dunque il lancio del New Deal all’inizio del 1933 non appena eletto Roosevelt. E tale politica fu poi sistematizzata con l’importante opera teorica di Keynes uscita nel 1936.

Non si smise comunque di “brontolare” contro il New Deal da parte dei neoclassici tradizionali. Venne pure posta in evidenza la centralizzazione oligopolistica dei capitali – fusione di più imprese, incorporazione di quelle fallite da parte delle “sopravvissute”, accordi per sospendere la competizione e dividersi pacificamente le quote di mercato, e via dicendo – che la crisi avrebbe favorito accelerandone le conseguenze. Questo processo, in base alla teoria neoclassica (liberista), era trattato quale fattore che aggravava la rigidità dei mercati, indeboliva gli “spiriti animali” imprenditoriali e la spinta all’innovazione con ulteriore caduta della domanda per investimenti, dunque rallentamento dell’attività produttiva e licenziamento di forza lavoro in esubero, conseguente diminuzione anche della domanda di beni di consumo, e così via, con l’avvitamento del consueto circolo vizioso tipico della crisi. Probabilmente anche Schumpeter – il da lungo tempo teorico dell’importanza cruciale dell’innovazione imprenditoriale – ristette su questa posizione e non accettò veramente le tesi keynesiane.

Si noti bene: con questi aggiustamenti di certi neoclassici, si invertiva il rapporto causa-effetto della crisi. Qui si parte dalla caduta degli investimenti (domanda di beni di produzione) dovuta al mutamento della “forma di mercato”; niente più la “virtuosa” competizione in esso, non più affidamento alla sua “mano invisibile” che sollecita gli “spiriti animali” con affollarsi di innovazioni (di prodotto e di processo nel contempo). Qui, la colpa della crisi non era più semplicemente delle eccessive pretese dei sindacati che avevano spinto il salario al di sopra della produttività marginale del lavoro. Le imprese erano divenute troppo mastodontiche e la funzione imprenditoriale si era appannata nel gioco degli accordi per evitare concorrenza e spartirsi “pacificamente” i mercati. Le tesi sviluppate dall’ex trotzkista Burnham nel 1941 sulla “rivoluzione manageriale” – caratteristica tipica del capitalismo statunitense, una nuova formazione sociale rispetto al “capitalismo borghese” dell’Inghilterra all’epoca in cui Marx lo studiò, formulando la teoria espressa ne Il Capitale – erano molto più congrue e facevano giustizia dell’opinione secondo cui l’oligopolio aveva reso meno vitale il sistema capitalistico. Semmai risaltano le tesi leniniane del 1916 (nel saggio sull’imperialismo), secondo cui il monopolio non aveva eliminato la concorrenza, ma l’aveva “portata ad un più alto livello”, quello del conflitto tra grandi imprese per la conquista di sempre più ampie quote di mercato (quarta caratteristica dell’imperialismo nel saggio di Lenin), conflitto nettamente subordinato a quello in atto tra le maggiori potenze per le “sfere di influenza” (quinta caratteristica).

 

  1. Appunto con il New Deal rooseveltiano vennero seguite politiche di ampia spesa pubblica (statale) per opere infrastrutturali: strade, porti e aeroporti, dighe e canali di irrigazione, risanamento urbano di considerevoli dimensioni, ecc.; insomma tutto quello che spesso viene denominato capitale fisso sociale. Accanto a questo, vi fu, in particolare negli USA con il NIRA (National Industrial Recovery Act), la garanzia di un salario minimo; ufficialmente per fini di solidarietà sociale, ma in realtà per rallentare la brusca riduzione della domanda complessiva (di beni di consumo). Qui si vede appunto che le “nuove” tesi (ancora non formulate teoricamente, ma praticamente applicate) si basavano sulla crisi come caduta dei consumi, cui sarebbe seguita poi anche quella degli investimenti delle imprese in difficoltà per la riduzione dei ricavi rispetto ai costi. Quindi chi lanciò il New Deal si era già reso conto (in pratica) che, in mancanza di domanda sufficiente dei loro beni, le imprese riducono la spesa sia in capitale circolante sia ancor più in quello fisso (cadono perfino gli ammortamenti e non soltanto i nuovi investimenti).

Nel 1936 uscì il fondamentale libro dell’economista inglese Keynes – Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – che diede fondamento teorico a quanto praticamente perseguito tramite la spesa pubblica in deficit, tipica del New Deal. Da allora, si sostenne per alcuni decenni che la crisi veniva combattuta e vinta tramite l’intervento dello Stato nella sfera economico-produttiva. Anche in tal caso, cerchiamo di capire la logica sottintesa ai ragionamenti teorici che si opposero frontalmente ai dettami della scuola neoclassica tradizionale. Innanzitutto, va chiarito che Keynes non propugna alcun intervento per limitare la portata del “libero mercato”. Inoltre, l’economista di Cambridge non parlava di spesa con finalità sociali (tipo pensioni, sanità, ecc., cioè il cosiddetto “Stato sociale”, che si affermò nell’Europa occidentale dopo la guerra mondiale). Nemmeno si sosteneva che non dovessero in nessuna misura ridursi i salari; anzi, tramite l’inflazione che, almeno inizialmente, veniva promossa tramite la spesa pubblica, una certa riduzione dei salari reali si verificava e ciò non era considerato certo dannoso, poiché alleviava comunque i compiti delle imprese dal lato dei costi di produzione.

Tuttavia, la causa principale della crisi – ma nei paesi capitalistici opulenti, ad alto livello di capacità produttiva di reddito – non era attribuita all’eccessiva altezza dei salari, cioè all’esorbitante (presunta) forza raggiunta dalle organizzazioni sindacali nella contrattazione del prezzo del lavoro. Keynes, inoltre, non prende nemmeno in considerazione il problema del mono(oligo)polio; parte anzi dalla presupposizione di una libera concorrenza, si attiene ai concetti marginalistici tradizionali, ma si riferisce a grandezze globali, aggregate, nel senso di variabili complessive attinenti all’economia “nazionale”. Si parla, ad es., di consumo, risparmio, investimento, ecc. in quanto dati relativi alla totalità dei consumatori, risparmiatori, investitori, ecc. esistenti in un determinato territorio (in genere un paese; comunque, ci si può anche limitare ad una regione di un paese o invece allargarsi ad un insieme di paesi di una certa area geografica, ecc.). Per questo si parla della teoria economica keynesiana come di una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria neoclassica tradizionale.

Man mano che cresce il reddito nazionale – somma dei redditi di tutti gli individui viventi in un dato territorio, in genere quello nazionale, senza riguardo alla loro collocazione in date classi o gruppi sociali – aumenta la quota (percentuale) del reddito risparmiata rispetto a quella consumata. La teoria neoclassica tradizionale riteneva che tutto il reddito risparmiato fosse anche investito. Quando il risparmio aumentava, si supponeva che diminuisse adeguatamente il saggio di interesse
(prezzo dei prestiti), per cui gli imprenditori si facevano dare a credito – con l’intermediazione delle banche – tale risparmio per effettuare gli investimenti, che sono appunto domanda di beni di produzione. Quindi, qualunque fosse la dimensione del prodotto (reddito) nazionale, la domanda era comunque della stessa entità dell’offerta, visto che quella di beni di investimento assorbiva la parte di reddito risparmiata (la parte consumata è ipso facto domanda di beni di consumo). Si sarebbe sempre realizzata la cosiddetta legge di Say per cui l’offerta dei beni (e dunque la produzione da cui dipende l’offerta) crea la sua propria domanda; non potrebbe perciò mai esserci crisi di sovrapproduzione, la merce prodotta non resterebbe mai invenduta per carenza di domanda.

Per Keynes, invece, vi è un livello della produzione nazionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, in cui si verifica comunque un eccesso di risparmio, che non viene assorbito dall’investimento degli imprenditori (privati) per quanto bassi siano i saggi di interesse sui prestiti; proprio perché la domanda privata di consumo non tiene dietro all’offerta di beni divenuta “troppo” elevata qualora ci sia il pieno impiego dei fattori produttivi, data l’elevata capacità produttiva raggiunta dall’insieme del sistema. La domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) non tiene allora dietro allo sviluppo (grazie pure agli avanzamenti tecnologici) della potenzialità produttiva di reddito, in cui cresce più che proporzionalmente la parte risparmiata rispetto a quella consumata. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva (C+I) la causa reale della crisi che poi certamente, una volta scoppiata, si avvita su se stessa facendo regredire il livello della produzione fino al punto in cui, nuovamente, l’intero risparmio, pur esso ovviamente diminuito, trova di fronte a sé un adeguato (ma assai calato) investimento in beni di produzione. Va rilevato, ed è cruciale, che nella crisi la debolezza della domanda induce la diminuzione della produzione e questa accresce la disoccupazione dei fattori produttivi; quella del fattore lavoro ha forte evidenza perché è socialmente squassante, ma la “disoccupazione” colpisce anche il “fattore capitale”, cioè l’insieme dei mezzi produttivi. Quando le imprese chiudono i battenti o diminuiscono fortemente la loro attività, cade anche la domanda di beni di produzione (quella detta investimento)

In definitiva, la causa fondamentale della crisi risiede nella carenza, evidentemente relativa, della domanda a livelli di reddito elevati, tipici di economie con elevate capacità produttive, quindi tecnologicamente assai avanzate; ecco perché la crisi scoppia soprattutto nel bel mezzo di una raggiunta opulenza ed altezza del tenore di vita. Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia; non certamente per una pianificazione della produzione, come propugnato dai marxisti e comunisti, il che esigerebbe la soppressione della proprietà privata (dei mezzi produttivi) e del mercato. Mercato e proprietà privata non vengono minimamente toccati, tutto resta come prima dal punto di vista politico-istituzionale, e da quello della preminenza dei ceti imprenditoriali e della subordinazione del lavoro salariato nella società capitalistica.

Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere quella pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è tanto utile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.; a breve e a lungo termine) perché è bene che l’organo “pubblico” si ritenga libero, anche in tempi lunghi, dal dover rimborsare alcunché. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione finanziando le imprese che dovranno dedicarsi alla costruzione di infrastrutture (decise ovviamente in sede governativa).

Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una più alta massa di moneta, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere – almeno nel breve periodo, in mancanza di aumento delle potenzialità produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie – la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; è però essenziale, come sopra considerato, che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione). Debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro. Può anche esserci, in un primo momento, un certo rialzo dei prezzi, ma si tratta di inflazione leggera e temporanea, poi i fattori prima “disoccupati” entrano progressivamente in piena produzione.

La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili (non solo case evidentemente). E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica. Non entro qui sul discorso del moltiplicatore, che mi sembra nell’attuale contesto esplicativo superfluo. Si deve invece notare che, ricrescendo nuovamente grazie a questa politica di spesa pubblica il cosiddetto PIL, si accrescono ovviamente anche le entrate fiscali; in definitiva, si ridurrà progressivamente il tanto deprecato (dagli economisti odierni) debito pubblico.

 

  1. Dalla fine della seconda guerra mondiale iniziò il dominio della corrente keynesiana negli ambiti accademici (e non) di tutti i paesi capitalistici avanzati; e anche negli organismi che orientavano la politica economica internazionale nel campo “occidentale”. Le politiche anticicliche basate sull’aumento della spesa pubblica divennero una sorta di dogma, e si credé così di poter scongiurare ogni declino dello sviluppo capitalistico, che invece si ripresentò più volte, anche se mai con la gravità del 1929; la crisi fu ribattezzata recessione, volendo con tale termine indicare dei brevi periodi di arresto della crescita e di sostanziale stagnazione, senza però il presentarsi di fenomeni di eccessiva gravità economica e sociale.

Ci si accorse abbastanza presto, in particolare negli anni ’70, che la spesa pubblica poteva provocare fenomeni inflazionistici di rilievo, e che la sua funzione anticrisi non era poi così incisiva come supposto subito dopo la politica del New Deal e l’opera di Keynes che ne dava una fondazione teorica. Già nel 1979 in Inghilterra con l’avvento della Thatcher, e poi nel 1980 con Reagan negli USA, si riaffermarono correnti neoliberiste che ripresero le tesi di una politica fondata sul rispetto dell’equilibrio del bilancio statale, cioè su un rigore nell’effettuare la spesa pubblica non più affidata consapevolmente, come sostenuto da Keynes, alla crescita del deficit di detto bilancio. Bisogna ben dire che all’inizio si trattò comunque più di affermazioni di principio che reali, poiché, almeno negli Stati Uniti, la spesa statale aumentò notevolmente (per motivi militari soprattutto) e così pure il deficit di bilancio. Soltanto però nel secolo scorso e soprattutto finché non si disfece il sistema detto “socialista” (mai comunista come dicono ancor oggi di Cina, Corea del Nord, Cuba, ecc. dei perfetti ignoranti) e finì quindi l’antagonismo tipico del periodo “bipolare”. In ogni caso, oggi in quasi tutti i paesi avanzati il liberismo è di nuovo saldamente in sella ed è particolarmente degenerato anche rispetto a quello tradizionale pre-keynesiano. Si tenga presente che, nei paesi capitalistici europei, le politiche di spesa pubblica condussero al cosiddetto “Stato sociale”, in cui si svilupparono in particolare l’apparato pensionistico e quello sanitario, attualmente in fase di ridimensionamento continuo in tutti i paesi capitalistici avanzati, ove più ove meno.

La politica economica keynesiana, nella sua funzione anticrisi, non si basava comunque sulle spese sociali; essa propugnava semplicemente la spesa pubblica, l’intervento dello Stato nel settore economico per il rilancio di una produzione che si riteneva fosse entrata in crisi per carenza di domanda. Che la spesa statale assumesse connotati sociali, come in Europa occidentale, è stato fenomeno dovuto a motivi più politici che economici: alla presenza cioè del campo “socialista”, di robusti partiti comunisti in alcuni grandi paesi europei (Italia e Francia soprattutto), alla preoccupazione insomma di possibile acutizzazione della lotta sociale.

Pian piano ha cominciato a farsi strada, anche presso certi ambienti di economisti accademici, una considerazione più meditata relativa sia alla spesa pubblica negli anni di Roosevelt sia all’opera teorica di Keynes. Ci si è resi conto che, esauritasi sostanzialmente la crisi nei primi anni del New Deal (terminato nel 1937), il sistema capitalistico rientrò in una fase di stagnazione proprio mentre veniva pubblicata, nel 1936, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta dell’economista inglese. Fu la seconda guerra mondiale a imprimere una decisa spinta economica agli Stati Uniti. Finita la guerra, iniziò la faticosa “ricostruzione” postbellica dell’Europa occidentale, favorita pure dal ben noto e decantato “Piano Marshall”, che non fu un gesto umanitario degli Stati Uniti ma un discreto propellente per l’economia di quel paese e soprattutto per il suo predominio assoluto nell’area ormai appartenente alla sua “sfera d’influenza”, cui apparteneva (e appartengono) i paesi capitalistici maggiormente sviluppati, compreso il Giappone nell’area asiatica.

Furono allora formulate – da critici radicals e, in particolare, da certe correnti del pensiero marxisteggiante – tesi di “keynesismo militare”. Sempre in omaggio alla convinzione che il sistema capitalistico, proprio al suo apogeo come opulenza, entra in difficoltà per l’insufficienza di domanda rispetto all’offerta e dunque alla produzione, si sostenne che a tale inconveniente le classi dominanti ovviarono con spese belliche di grande entità durante la guerra. Anche successivamente tali spese furono elevate per sostenere la competizione con l’URSS e per alimentare continue aggressioni statunitensi in svariate parte del mondo e in specie in quello denominato “Terzo”. I “riformisti” propugnavano soprattutto aumenti salariali (e spese sociali) per sostituire le funzioni della spesa militare con politiche che andassero a migliorare il tenore di vita delle popolazioni e rafforzassero il regime detto “democratico”; per alcuni si sarebbe anche potuta verificare, seguendo tali politiche, una pacifica transizione ad un “socialismo democratico” in quanto contraltare al sedicente comunismo dell’est, ritenuto troppo antidemocratico e autoritario.

La cosiddetta globalizzazione – cioè la rimondializzazione del capitalismo dopo gli eventi del 1989-91 – spazzò via molte illusioni. Si continuò ad oscillare – tipico il caso dell’Italia – tra due tesi opposte e poco consistenti. Da una parte, i neoliberisti attribuivano certe difficoltà economiche all’eccessivo debito pubblico, cui si doveva ovviare, in omaggio alla riaffermazione della necessità di un equilibrio del bilancio statale, con la riduzione della spesa pubblica. Da ottenersi soprattutto risparmiando su sanità e pensioni, le tipiche conquiste del cosiddetto Stato sociale. Bisognava insomma semmai aumentare la domanda dei privati (sia consumatori che investitori) restringendo invece l’intervento pubblico ritenuto fonte di rigidità burocratica e di soffocamento dello spirito imprenditoriale innovativo.

Dall’altra parte, vi fu chi – e fra questi vanno ricordati molti personaggi “di sinistra” – sostenne che, in un mondo ridiventato mercato globale in cui si acutizzava una forte competizione interimprenditoriale, era necessario essere particolarmente efficienti e produttivi; il che significava ridurre al minimo possibile i costi di produzione, effettuare spese per la ricerca di nuovi prodotti e di nuovi metodi produttivi, per creare migliori catene di distribuzione commerciale, ecc. Si doveva insomma diventare più competitivi in termini di costi, prezzi, qualità, e via dicendo. La crisi venne dunque ancora una volta considerata, da “destra” come da “sinistra”, non come qualcosa di intrinseco al sistema capitalistico, ma soltanto come una carenza di certe scelte politiche o di certe altre del tutto opposte.

In pratica, si può ben dire che la scienza economica dominante, praticamente l’unica al momento esistente, aveva (e ha tuttora) rinunciato ad ogni tentativo di trovare una spiegazione strutturale della crisi sempre latente in ogni sistema economico simile a quello, detto capitalistico, che ha iniziato ad affermarsi nel 1600-700, era in pieno sviluppo già nel secolo XIX e – pur con tutte le assai rilevanti modifiche intervenute nel frattempo, per cui si dovrebbe oggi cominciare a parlare di capitalismi e non di “capitalismo” – continua a permanere oggi in alcune sue forme decisive: imprese, mercati, concorrenza, innovazioni tecniche e di prodotto, decisiva importanza dei settori dello scambio mercantile (generalizzato) e della finanza, ecc.

Assistiamo così alla sostanziale incomprensione del tema della crisi nella “scienza” economica, sempre più ridotta ormai ad analisi empiriche di breve congiuntura e all’apprestamento di modelli da usare per tecniche di intervento politico-economico. Si torna ad affidare quindi le alterne vicende di un sistema complesso come quello capitalistico, ridivenuto mondiale, a variabili “soggettivistiche”: gli “spiriti animali” degli imprenditori privati, le ondate di fiducia (ottimismo) e sfiducia (pessimismo), ecc. Non si cerca per nulla una spiegazione scientifica, che non può non rinviare alla formulazione di ipotesi intorno agli elementi strutturali, di sistema, che provocano gli arresti dello sviluppo e il suo nuovo rinvigorirsi secondo cicli indubbiamente meno regolari di quanto si era supposto fossero fino alla metà del XX secolo (o poco dopo).

Faccio solo un esempio. Circa a metà anni ’90 del secolo scorso, entrò in una
lunga fase di crisi strisciante il Giappone, che all’inizio di quel decennio molti prevedevano sarebbe diventato in un periodo relativamente breve il più potente paese capitalistico al posto degli USA. Dopo oltre un decennio di stagnazione – con fenomeni di deflazione perfino dei prezzi, che per noi europei sono quasi inconcepibili, poiché non li abbiamo più vissuti dopo la crisi del 1929-33 – si cominciò a ritenere che ormai tale paese fosse destinato ad un inarrestabile declino. Improvvisamente, a qualche anno dall’inizio del secolo il Giappone riprese a crescere con buoni ritmi, senza che nessuno ne spiegasse in modo convincente i motivi. Ovviamente, non può non aver poi risentito della crisi iniziata nel 2008 e, proprio adesso, della “pandemia” che ci sta tormentando da pochi mesi. In ogni caso, ci si trova ormai da molto tempo in una vera impasse teorica, ed è inutile nasconderlo.

 

  1. Non mi sognerò in questa sede di nemmeno iniziare una discussione sulla possibile formulazione di una teoria delle crisi. Dirò soltanto quello che, a mio avviso, non si dovrebbe più ripetere perché è senza senso; inoltre, si possono sommariamente indicare quali direzioni di ricerca sembrano utili per tornare a riflettere con maggiore realismo alla teoria in questione. Naturalmente, il primo passo è l’ammissione che non esiste alcuna considerazione di tipo scientifico che non sia di carattere oggettivo (e dunque strutturale); se ci si riferisce solo alle scelte di politica economica, ad errori commessi – e che nessun essere umano può evitare di commettere – e addirittura all’ottimismo o pessimismo degli “agenti economici”, allora si è già abdicato a voler fare opera di scienza.

E’ innanzitutto indubbio che la crisi economica, conosciuta dal moderno mondo capitalistico, è l’interruzione e l’inversione di una tendenza allo sviluppo impetuoso delle forze produttive, uno sviluppo che, è inutile negarlo, nessun’altra società (precapitalistica) ha conosciuto. Inoltre, la povertà e miseria (relative), in ogni caso gravi disagi sociali oltre che economici, si verificano sempre nel bel mezzo di un aumento notevole delle capacità produttive del sistema economico, aumento provocato in modo particolare dai continui (per ondate successive) notevoli progressi delle tecniche produttive. Le crisi capitalistiche sono dunque l’esatto contrario dei quelle delle precedenti formazioni sociali, in cui c’era la carestia, legata a eventi di varia natura: siccità, malattie delle piante o invece diffuse epidemie, guerre devastanti, ecc. Nella nostra forma di società, come aspetto di evidenza empirica, si deve invece ammettere il periodico (ciclico) ripresentarsi di un “eccesso” di produzione in relazione alle capacità di acquisto di parti consistenti, maggioritarie, della popolazione.

Abbiamo già considerato, all’ingrosso, la tesi keynesiana di un risparmio crescente a fronte di un investimento (domanda di beni di produzione) che non è in grado di crescere in modo corrispondente. Da parte marxista, si sono prodotte più tesi; ancora una volta, chiedo di capirle approssimativamente poiché manca la possibilità di una loro spiegazione esauriente, che esigerebbe delle lezioni sulla teoria del valore e plusvalore. Si è sostenuto che la tendenza dei capitalisti (imprenditori) a massimizzare i loro profitti provoca una forte spinta allo sviluppo produttivo nel mentre vengono tenuti relativamente bassi i salari (retribuzioni del lavoro dipendente che sono un costo di produzione per le imprese), da cui tuttavia dipende gran parte della domanda di beni di consumo; anche secondo tale prospettiva teorica, si suppone il verificarsi di un netto scarto tra produzione (quindi offerta) e domanda (a partire dal lato del consumo). Un’altra interpretazione dello stesso processo prende pur sempre le mosse dal forte sviluppo economico in quanto causato dall’intenso progresso tecnologico dei processi produttivi, che dovrebbe provocare la caduta del saggio di profitto, cioè il rapporto tra profitti e capitale investito (sia in mezzi produttivi che in salari), in cui cresce soprattutto la quota del capitale fisso. Diminuisce perciò la convenienza dei capitalisti ad investire; per di più, si sostituiscono macchine a lavoratori, cresce quindi la disoccupazione e cala così pure la massa salariale e la domanda di beni di consumo.

Un aspetto evidente della crisi è la rottura dei circuiti dello scambio delle merci e di quelli finanziari (con in evidenza la Borsa valori). Ciò accadrebbe perché le decisioni di investire e sviluppare la produzione di queste o quelle merci provengono da tanti centri – le varie imprese capitalistiche – fra loro autonome, in mano a gruppi privati e fra loro in aspra competizione per la preminenza nei mercati. Non vi è quindi alcun coordinamento, si manifesta e si accentua la cosiddetta anarchia mercantile nei vari settori produttivi, si creano ingorghi e accumulo di merci invendute in alcuni di questi; la mancata realizzazione di adeguati ricavi in essi, a fronte dei costi sostenuti, contrae la domanda di merci prodotte da altre imprese e in altri settori, in cui si verifica allora lo stesso processo, con suo allargamento ed intensificazione fino al limite oltre il quale si innesca la crisi generale dei mercati.

Da queste tesi si generò la proposta relativa ad una pianificazione generale – che esigeva in primo luogo il superamento della proprietà privata delle imprese – che facesse di queste ultime parti interdipendenti di un sistema complessivo, fra loro coordinate da un unico centro decisionale, l’organo della pianificazione statale. Quest’ultima è andata incontro ad un sostanziale fallimento, portando alla stagnazione delle economie di quella tipologia e alla loro disgregazione finale. Tuttavia, anche nelle economie capitalistiche – in cui i mercati dei vari settori produttivi più importanti sono controllati da oligopoli, attorniati da piccole e medie imprese ad essi subordinate – si sarebbero dovuti produrre fenomeni di tendenziale coordinamento in base agli accordi intercorrenti tra le imprese oligopolistiche in oggetto; nel mentre gli Stati dei paesi capitalistici avrebbero dovuto assumere funzioni di programmazione (versione attenuata della pianificazione). La programmazione è fallita tanto quanto la pianificazione, e sono saltati pure gli accordi interoligopolistici; la competizione, con connessa “anarchia mercantile”, ha teso a svilupparsi nuovamente ed è oggi in via di tendenziale acutizzazione. Gli accordi eventuali tra grandi imprese – e le fusioni e centralizzazioni proprietarie attualmente in atto in tutto il mondo – sono solo un mezzo per tentare di migliorare le capacità competitive di certi gruppi economico-finanziari contro altri nella lotta per la preminenza nel mercato cosiddetto globale.

Si constatano al presente chiare difficoltà ad una generalizzata e robusta ripresa economica, pur facendo solo riferimento ai paesi a più alto sviluppo. Alcuni paesi, già sottosviluppati (tipo Cina e India), sono entrati in decisa crescita; soprattutto la Cina fra le due, anche se attualmente tale paese vede un po’ indebolito il suo ritmo di aumento del PIL. Altri paesi, tipo il Giappone, sono da tempo in fase di discreto sviluppo mentre la nostra Europa è andata incontro a crescita nettamente differenziata da paese a paese e oggi è in fase di sostanziale stagnazione. Si è continuato per non so quanto tempo a parlare di ripresa generale del sistema capitalistico rimondializzatosi, ma si è tutto sommato ancora in attesa che ciò si verifichi in modo deciso ed univoco. Non sembra sia da attendersi, salvo eventi al momento imprevedibili, una crisi del tipo del 1929, ma non è improbabile una fase di gravi difficoltà, con tendenziale (salvo eccezioni) stagnazione – caratterizzata magari da qualche breve impennata in alcuni paesi – un po’ come accadde nel 1873- 96. E oggi non vi è alcun passaggio da un sistema capitalistico concorrenziale ad uno mono(oligo)polistico, passaggio già avvenuto appunto da oltre un secolo.

 

  1. Il vero fatto è che non sono sufficienti le analisi e considerazioni di natura quasi solo economica. Un conto sono certe onde cicliche di moderata entità e di “congiuntura”; un altro le crisi di maggior momento, “catastrofiche” come nel 1929 o invece di lunga stagnazione come alla fine del secolo XIX. Quest’ultima non fu semplicemente dovuta al passaggio da una struttura dei mercati di tipo concorrenziale ad una di tipo oligopolistico; spiegazione “volgarmente” economicistica, limitata in tutti i sensi. Gli ultimi decenni di quel secolo rappresentarono piuttosto la transizione all’epoca detta dell’imperialismo. Alla preminenza dell’Inghilterra nell’insieme dei paesi in cui si era affermato il capitalismo – preminenza durata dal Congresso di Vienna (1814-15, detto della “Restaurazione”) fino a subito dopo la metà del secolo – seguì il suo lento (inizialmente) declino e la sempre più acuta lotta per la successione tra alcune grandi potenze, con l’intervento, in particolare, di Germania (nata nel 1871 dopo la guerra vittoriosa sulla Francia, condotta dagli Stati tedeschi guidati dalla Prussia) e USA (dopo la guerra civile del 1861-65 e la netta vittoria del Nord industriale sui “cotonieri” del Sud). Tale periodo, contrassegnato poi, nel secolo successivo, da due guerre mondiali oltre che dalla “grande crisi” del ’29, si chiuse nel 1945 con la netta predominanza degli Stati Uniti in campo capitalistico, mentre il lungo confronto interimperialistico tra le varie potenze provocò una serie di crisi politico-sociali – innanzitutto in Russia (prima guerra mondiale) e in seguito, dopo la seconda guerra mondiale, in molti altri paesi a partire dalla Cina – con la formazione del cosiddetto “campo socialista”.

In seguito al “crollo” di quest’ultimo e alla rimondializzazione del capitalismo, gli USA sono rimasti il paese predominante nel mondo. Tuttavia si assiste, con sempre maggior nettezza, non semplicemente (e banalmente) ad una ripresa di conflittualità e competizione tra grandi imprese – dette “multinazionali”, mentre hanno spesso una ben precisa collocazione nazionale del “gruppo di comando” – nel mercato mondiale, ma soprattutto ad un inizio di contrasti politici in varie aree geografico-sociali; in questo momento, un’area di notevole turbolenza è quella che va dal Nord Africa (Libia in testa) al Medio Oriente. Siamo chiaramente entrati in una nuova fase di tipo multipolare. Fin quando esisteva (ma per poco più di un decennio) un unico paese sostanzialmente predominante – gli USA, la cui supremazia era tanto economico-tecnica e finanziaria quanto politico-militare e spesso anche ideologico-culturale; una predominanza che si prolunga ancor oggi nei vari organismi internazionali: politici come l’ONU o economici come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale per lo Sviluppo, il WTO (Organizzazione mondiale per il commercio), ecc. – si è assistito ad un relativo coordinamento delle varie economie “regionali”. In tali condizioni non era facile l’esplodere di una crisi come quella del 1929. Quella crisi, pur di carattere eminentemente economico-finanziario, risentiva dello scontro aperto tra più potenze capitalistiche e faceva quindi parte dell’epoca caratterizzata dalla lotta interimperialistica, epoca conclusasi con la seconda guerra mondiale; la supremazia statunitense diede nuovo ordine e riorganizzò i rapporti interstatali nel campo detto “occidentale” (del capitalismo avanzato).

Per il prossimo decennio (e oltre) è più facile che si verifichino fenomeni di crisi strisciante, di stagnazione interrotta da brusche, ma brevi (e non generalizzate) impennate, dal declino di certi paesi e aree geografico-sociali mentre altri saliranno a gradini più alti di sviluppo capitalistico, ecc. Insomma, sembrerebbe più probabile per qualche tempo una serie di fenomeni (di crisi) somiglianti in qualche modo a quelli del 1873-96 più che a quelli del 1929-33; in realtà del 1929-39, perché la crisi era soprattutto d’ordine multipolare e policentrico ed entrò in fase di risoluzione con la lotta per la supremazia, risoltasi a favore degli Stati Uniti nel campo detto capitalistico. Per comprendere appieno tali fenomeni, penso sia molto riduttivo limitarsi all’analisi dei processi economici, alla considerazione (quantitativa) degli andamenti di consumi, risparmi, investimenti, innovazioni tecnologiche, rialzi o ribassi dei saggi di interesse o di quelli dei profitti in settori produttivi diversi, sbalzi delle quotazioni di Borsa, e via dicendo. Questi sono certo sintomi, segnali, importanti e vanno seguiti con attenzione. Bisogna però capire che la competizione, anche per quanto riguarda la conquista di maggiori quote di mercato, non è mai solo basata su costi, prezzi, qualità, catene di distribuzione, sistema di finanziamenti, ecc.; è indispensabile la potenza militare, l’influenza politica sui Governi di vari paesi (alcuni in posizione geografica cruciale), una capillare penetrazione culturale dei propri modelli di vita sociale in aree fondamentali.

Sull’analisi economica, certo da eseguire, prevale perciò quella geopolitica; l’attenzione per le quote di mercato delle varie (grandi) imprese va “sottomessa” a quella relativa alle sfere di influenza da conquistare (o riconquistare) e da mantenere. Far credere che staremo tutti meglio se ci attrezziamo ad una virtuosa competizione economico-imprenditoriale in un mercato globale, privo di qualsiasi impaccio e restrizione, è pura ideologia (liberista). E’ grave l’incredibile ignoranza odierna di sedicenti economisti circa le vecchie ricette keynesiane condite di spesa pubblica in pieno deficit di bilancio, che almeno possono attenuare certi fenomeni estremamente negativi. Tuttavia, è indispensabile superare del tutto l’economicismo, tipico della tradizione neoclassica (in ogni suo versante); e deve essere combattuta ogni falsa credenza in un modello di sviluppo fondato sullo strapotere di gruppi economico-finanziari, che desiderano soltanto di essere lautamente assistiti dallo Stato, “serviti” da apparati politici – nuovi nella forma e nel personale ma vecchi nella sostanza – del tutto incapaci di analizzare a fondo la vera causa dell’attuale crisi: il disordine legato alla netta crescita del multipolarismo. Sia ai gruppi economici che a quelli politici manca del tutto una visione ampia, di carattere strategico.

Qui però mi fermo, in questa discussione, perché altrimenti il discorso dovrebbe aprirsi ad una considerazione più nettamente politica; e certo non univoca né precisa perché molte, troppe, sono oggi le variabili scarsamente conosciute proprio a causa della cortina fumogena che le ideologie neoliberiste stanno diffondendo ormai da un bel po’ di tempo. Invito solo a riflettere, cercando nuove vie, non restando incantati di fronte alle fumisterie di TV e stampa. La storia non sarà “maestra di vita”, ma ci insegna comunque qualcosa. E quanto è successo a partire dalla fine del secolo XIX e fino ai nostri giorni – le due crisi economiche di tipologia differente già più volte considerate (1873-96, di stagnazione, e 1907 e 1929 di crollo finanziario e netto declino economico), le due guerre mondiali, il confronto tra campo capitalistico e (presunto) “socialista”, il poco più che decennale predominio statunitense e infine l’attuale multipolarismo – è decisivo per orientarsi di nuovo nel mondo attuale e per i prossimi decenni. Facciamo tesoro delle tante lezioni già ricevute; ma cerchiamo di andare avanti nell’interpretazione del mondo in cui ci troveremo ad operare, probabilmente incontrando crescenti  difficoltà.

Per il momento è tutto. Detto succintamente, ma credo con sufficiente chiarezza. Sottolineo che si deve attaccare a più non posso l’economicismo, l’assenza totale di ogni analisi dell’evoluzione politica e sociale in quest’epoca di sempre crescente disordine e conflittualità internazionale. Non si cerchi però, nel breve (e forse medio) periodo, di voler riproporre la “riscaldata minestra” del conflitto sociale o addirittura “di classe”. Siamo ancora, ma certo con forme nuove (come sempre avviene nella storia), al conflitto tra gruppi dominanti (e di fatto nazionali; non “nazionalisti”, specifico), a quella che in tempi passati e con differente sistema di interrelazioni mondiali fu definita “epoca dell’imperialismo” (in realtà, detto con definizione più generale, del conflitto policentrico). In quell’epoca si svilupparono le grandi rivoluzioni che si credé orientate al socialismo: “rivoluzione d’ottobre” durante il primo grande conflitto “interimperialistico”; quella cinese con il secondo grande conflitto (anche se la nascita ufficiale di quello Stato avvenne nel 1949). E anche le altre (Cuba, Vietnam, ecc.) furono favorite dalla situazione “bipolare” creatasi con la seconda guerra mondiale.

In definitiva, basta con il micragnoso e gretto (e dunque sviante) economicismo, la malattia degli intellettuali blanditi da una classe dominante come quella “occidentale”; ma in modo speciale da quella europea, infame e inetta come forse non è mai accaduto nella lunga storia delle società umane. Le nostre popolazioni, che ancora accettano simili ceti dirigenti sono al momento inermi e imbelli. Si formerà una Forza Nuova capace di fare piazza pulita, in senso veramente definitivo ed esaustivo, di tali ceti? Per il momento nulla si vede. E finché la situazione resterà come ormai è da alcuni decenni, la si smetta di sognare addirittura le rivoluzioni dei dominati; anche se questi dovessero avere qualche sussulto di ribellione (e di dubbi ce ne sono tanti), verrebbero schiacciati e massacrati in assenza di una effettiva direzione strategica al loro vertice. Si ricominci a ragionare.

PEGGIO FIORENZIO?,di Teodoro Klitsche de la Grange

PEGGIO FIORENZIO?

Un vecchio detto latino recita “historia docet”, ma l’esperienza insegna che spesso non è così. Gli è che per imparare dalla storia, occorre che gli studenti la conoscano, la capiscano e non trovino buone ragioni per non mettere in pratica quanto appreso.

E di fronte all’alzata di ingegno di deputati del PD di istituire un “contributo di solidarietà” a carico dei contribuenti con reddito superiore a € 80.000,00 (lordi) ci è venuto in mente quanto quell’adagio sia contraddetto dai comportamenti, in particolare della burocrazia.

Non che mi abbia meravigliato: è una condotta ripetuta in Italia che ad ogni sciagura collettiva segue, quasi sempre, un aumento delle tasse. Se Puviani fosse vivo lo spiegherebbe probabilmente coll’emozione collettiva, la paura hobbesiana dei sopravvissuti, i quali, scampati al peggio  accettano di sottomettersi ai nuovi balzelli. E di questo le classi dirigenti si approfittano, aumentando l’imposizione la quale, al contrario dell’emergenza che l’ha “giustificata” non ha un inizio e una fine (come tutto) ma la sgradevole tendenza a perpetuarsi da provvisoria a (tendenzialmente) eterna. Se si legge l’elenco delle accise sulla benzina, ad esempio, si ha il riassunto di gran parte delle sventure sopportate negli ultimi 90 anni dagli italiani. Si parte dalla guerra d’Etiopia (1935) fino al terremoto in Emilia di qualche anno fa per complessive: guerre e missioni militari 3, terremoti 5, alluvioni 3, varie (dagli autobus ecologici al finanziamento della cultura, al “finanziamento immigrati”) 5 e infine la peggiore di tutti, il decreto “salva Italia” del governo Monti che, caso unico, riassumeva in se i connotati sia della sciagura che dell’imposta corrispondente.

Quindi nessuna novità, neppure nell’aspetto socio-politico dell’imposta ventilata che colpisce (come al solito) i ceti medi, cioè i meno propensi a votare PD, e quindi i primi candidati allo sfruttamento fiscale.

Questo ricorda un episodio della vita dell’imperatore Giuliano, allora Cesare delle Gallie, subordinato al cugino, l’Augusto Costanzo, da cui era stato circondato di funzionari ligi all’Augusto. Racconta Ammiano Marcellino che il giovane Cesare, issato al comando pur dedicandosi alla filosofia, si rivelò un generale eccezionale. Dato che i franchi e gli alamanni avevano occupato gran parte della Gallia orientale da alcuni anni, li sbaragliò, passò il Reno e li costrinse a restituire il bottino (o almeno gran parte) e i galli da loro deportati e ridotti in schiavitù. Il prefetto del pretorio Fiorenzio, tutto contento del ritorno dei contribuenti e dei territori, si fregò le mani e propose a Giuliano di provvedere alle finanze pubbliche con requisizioni a carico dei sudditi.

Ma Giuliano, scrive Ammiano, “affermava di preferire la morte anziché permettere una simile misura” perché sapeva che provvedimenti analoghi avevano rovinato le provincie. Alle proteste di Fiorenzio si mise a fare i conti dimostrandogli che la somma ricavata col prelievo ordinario era già sovrabbondante. Dato che il prefetto del pretorio, dopo qualche tempo, tornò alla carica col decreto fiscale da firmare, lo buttò per terra. Ai rilievi di Costanzo (causati da un rapporto di Fiorenzio) Giuliano rispose che bisognava ringraziare il cielo che i sudditi galli, dopo le depredazioni subite, pagassero almeno le solite imposte, senza gli aumenti sollecitati dal burocrate.

Il quale, qualche anno dopo, fece carriera e fu fatto console da Costanzo; morto il quale e succedutogli Giuliano, vista la mala parata, scappò e fu condannato a morte in contumacia.

A fare scuola comunque fu più Fiorenzio che Giuliano, purtroppo per l’impero romano (d’occidente). Racconta Salviano, quasi un secolo dopo, che i sudditi romani scappavano dalle zone (ancora) amministrate dall’Impero a causa delle vessazioni della burocrazia imperiale, per rifugiarsi in quelle occupate dai barbari, dove quella non arrivava. E così l’Impero cadde.

Dalla narrazione di Ammiano Marcellino (e dal… seguito) risulta che quando, per garantire quello che Gianfranco Miglio chiamava “rendite politiche”, si sfruttano e s’impoveriscono le popolazioni (l’Italia con la crescita quasi zero degli ultimi vent’anni e la prospettiva di calo rilevante del PIL, causa pandemia ne è esempio) non si consolida lo Stato: lo si manda in rovina.

Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II

È inutile ripetere quanto già scritto (v. Coronavirus ed eccezione) su questo sito che le crisi sono spesso generatrici di cambiamenti decisivi; e questi quasi sempre – nascono da situazioni di emergenza. È l’eccezione e non la situazione normale l’acceleratore della storia.

Tocqueville, a proposito della rivoluzione francese scriveva che questa aveva compiuto bruscamente “con uno sforzo convulso e doloroso, …quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da se e in molto tempo”. La rivoluzione realizzò in pochi anni, e a prezzo di immensi dolori, quanto si sarebbe comunque realizzato. Perché iscritto nelle tendenze della storia, e in buona parte avviato dalla monarchia assoluta.

Certo tra crisi e cambiamenti la relazione non è simmetrica, nel senso che ogni crisi genera un cambiamento, ma è vero, come sopra cennato, che tutti (o quasi) i cambiamenti reali seguono una crisi,

E questa tendenza – quasi una regolarità – è sempre stata nella consapevolezza del pensiero politico giuridico, da Polibio a Machiavelli, da Spinoza ad Hauriou, da Santi Romano a Carl Schmitt. Proprio Machiavelli in un celebre capitolo del Principe (il XXV) ne da una spiegazione/descrizione nel rapporto tra fortuna e virtù.

Il segretario fiorentino ricorda che molti sostengono l’“opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno” tuttavia dato che gli uomini hanno il libero arbitrio, possono fronteggiare (l’avversa) fortuna con la virtù: e la fortuna “sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam ce ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”: ma proprio in Italia la situazione della penisola era dovuta alla mancanza nei governanti di “conveniente virtù” che invece non mancava in Francia, Spagna e Germania.

Ed è la fortuna – cioè la situazione critica che per così dire, “a dettare l’agenda”: per fronteggiarla il principe deve adattare “el modo del procedere suo con la qualità dei tempi”. Talvolta occorre essere decisi (ipotesi che Machiavelli ritiene maggiormente idonea) ma talaltra prudenti. É l’idoneità dei mezzi apprestati a conseguire lo scopo, data la situazione, a determinarne la validità.

Quando nei Discorsi passa da un discorso politico alla conseguenza politico-istituzionale (in un regime repubblicano) individua il rimedio nell’istituto della dittatura romana, la quale serve a fronteggiare la situazione emergenziale (“gli accidenti istraordinari”), e  a tal fine, rompere gli ordini (cioè prendere misure straordinarie in deroga alle leggi, valevoli per una situazione normale).

Nel corso della storia, in particolare in quella moderna, il rapporto “paritario” (o quasi) sostenuto da Machiavelli tra fortuna e virtù è stato spesso spensieratamente sostituito dalla fede nel progresso umano (non solo tecnico-scientifico, ma anche politico e “morale”) il quale farebbe si che l’esistenza della comunità potrebbe scorrere su un binario tranquillo, fino alla stazione d’arrivo. Anzi quella stazione sarebbe stata già raggiunta una trentina di anni orsono, con il crollo del comunismo e “la fine della storia” (Fukuyama docet). È chiaro che secondo i più (sprovveduti) seguaci di tale concezione, di misure d’eccezione non c’è bisogno, perché il controllo umano sul mondo attraverso la tecnica e quello sulla stessa natura umana con il “pensiero unico” è tale da allontanare qualsiasi situazione eccezionale. In primis la guerra che di tante crisi è stata quella più considerata. Ma, accanto a quella, meno drammatiche, ma assai più frequenti, ci sono crisi indotte dagli eventi naturali (terremoti, inondazioni, pestilenze, carestie). Anche se le emergenze provocate da eventi naturali, per lo più, non producono effetti politici e storici epocali, non è mancato il contrario. Secondo gli storici il crollo della talassocrazia minoica fu dovuto al maremoto causato dall’esplosione del vulcano di Santorini; la fine delle civiltà precolombiane alle epidemie dovute alle malattie diffuse dai primi marinai spagnoli sbarcati in America, e che facilitarono grandemente il compito dei conquistadores.

Ancor più possono pertanto produrre mutamenti non di civiltà, ma sicuramente di (costumi) legislazione e di forma politica. Se le misure eccezionali riescono a dominare la situazione (a batterla e urtarla scriveva Machiavelli con un paragone che probabilmente dispiace alle femministe) tornano, dopo la crisi, gli ordini normali; ma, talvolta è la crisi, anche dovuta ad eventi naturali, a portare cambiamenti, fino alle innovazioni di forma politica.

Credere il contrario, che la storia sia direzionale nel senso di un progresso lineare, cioè l’inverso dell’andamento ciclico familiare al pensiero politico e giuridico è quindi, in primo luogo, contraddetto dalla storia.

Peraltro lo stesso Fukuyama  “correggendo il tiro” del suo famoso saggio limitava (nel libro che ne seguì) la fine della storia alle forme politiche; e nell’opera stessa attribuiva la concezione direzionale della storia a due fattori, uno dei quali è la conquista tecnico-scientifica della natura. Ma se, per così dire, tale conquista non è ancora (totalmente) avvenuta, succede che la natura riprenda il proprio ruolo, peraltro solo parzialmente intaccato dalla scienza e dalla tecnica. Ed occorre costituire “ripari ed argini” (anche) nell’organizzazione dei poteri pubblici.

Perché, contrariamente ai corifei del progresso (ecc. ecc.) la natura (deus sive natura, scriveva Spinoza) torna sempre a bussare. Come cantava Orazio, natura expelles furca tamen usque recurret.

Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E DEMOCRAZIA

Non è un caso che negli Stati (sicuramente) democratici la proclamazione dello Stato d’eccezione nelle sue molteplici gradazioni e forme è attribuito a organi eletti direttamente o indirettamente dal corpo elettorale.

Così, per limitarsi all’esame delle costituzioni francese, tedesca e spagnola, l’art. 16 della Costituzione francese lo riserva al Presidente della Repubblica. Diversamente l’art. 116 della Costituzione spagnola alle Cortes, gli artt. 115 (e seguenti) della Costituzione tedesca al Parlamento. Anche se data l’urgenza che connota (alcune) situazioni eccezionali, misure d’urgenza possono essere decise dal governo salvo poi ratifica (approvazione, autorizzazione) del Parlamento (per la normativa spagnola e tedesca). A una prima disamina ciò può considerarsi una conseguenza logica del carattere democratico del moderno Stato di diritto, che ripugna a conferire tale competenza ad organi non elettivi (e burocratici) come i comandanti militari (almeno per le zone interessate); o dal carattere politico delle situazioni eccezionali e delle misure, pertanto demandate ad organi politici e non amministrativi; o anche dalla necessaria compressione dei diritti fondamentali, che richiedono, ancora, volontà e responsabilità politiche, e così via. È pertanto negata ad organi che non abbiano la fiducia, diretta (meglio) o indiretta del corpo elettorale. Il governo Conte 2 ha ottenuto sì la fiducia della maggioranza del  Parlamento, ma la ragione esternata per la nascita del suo secondo governo, era d’impedire a Salvini, attraverso elezioni anticipate, di ottenere la maggioranza parlamentare, sicura in base ai suffragi delle europee del 2019. A parte altre motivazioni un po’ bizzarre, a questa si aggiungeva l’argomento decisivo della Repubblica antifascista: la reductio ad hitlerum ossia l’aver Salvini auspicato di andare alle elezioni per ottenere dagli elettori i “pieni poteri”…. al fine di attuare il programma di governo. Un’assordante campagna di stampa (e TV) riduceva la dichiarazione del leader leghista alla (sola) parte centrale: omessa la richiesta di scelta da parte del corpo elettorale (decisiva per la legittimazione democratica) e dimenticato il fine della attuazione del programma di governo (non quindi d’instaurare una repubblica corporativa o dei soviet), la volontà eversiva del leader leghista era… manifesta (e… confessata).

Il tutto condito dalle solite litanie: la costituzione più bella del mondo, i valori della costituzione, i diritti dell’uomo (ma che c’azzecca?) e anatemi vari.

Non meraviglia che, con queste motivazioni ideali,  si avverte che nei decreti del Presidente Conte ci sia una assenza (vistosa quanto) evidente del “programma” agostano di Salvini: il consenso e la legittimazione democratica.

Cioè quello che fa la differenza tra un gorilla in divisa sudamericano e un Presidente eletto dal popolo: la legittimità o perlomeno il consenso democratico a chi decide.

Confermata dai pessimi risultati dei partiti di Governo – eccezione solo per l’Emilia Romagna – in tutte le elezioni regionali succedute a quelle europee.

Dando prova di prudenza più che di correttezza istituzionale, ha fatto bene il capo del Governo a coinvolgere a cercare di coinvolgere nella gestione dell’emergenza le forze d’opposizione, e bene hanno fatto queste ad essere coinvolte; tuttavia è chiaro che per un governo claudicante in legittimità vale il detto di Ovidio: anche se vacat culpa sed tamen omen habet.

Teodoro Klitsche de la Grange

Perché ci serve il concetto di comunità, di Gennaro Scala

Perché ci serve il concetto di comunità. Riflessioni a partire da un testo di Fabio Rontini su Costanzo Preve

Recentemente è stato pubblicato dal sito “intellettualecollettivo.it” un articolo, dal titolo un po’ internettiano-sensazionalistico La tesi di Costanzo Preve che spaventa i marxisti italiani di Fabio Rontini, che merita di essere discusso. Mi sia permessa un po’ di non malevole ironia, si direbbe che in Italia ci siano ancora schiere di marxisti, anche se facilmente prede dal panico, un po’ come le mandrie di mucche, ma ahimè secondo la mia esperienza ormai si contano sulle dita delle mani, se poi al sostantivo “marxista” aggiungiamo l’aggettivo “raziocinante” forse può bastare una mano sola. Rontini si chiede perché Costanzo Preve, uno dei migliori filosofi marxisti italiani, e che tale si è dichiarato fino all’ultimo anche se “non ortodosso e indipendente”, fosse stato ostracizzato, o posto in quarantena, se vogliamo utilizzare un termine più attuale, dalla sinistra marxista. Una prima risposta egli la trova in Carlo Formenti, notevole studioso delle trasformazioni sociali e politiche, anch’esso di formazione marxista, proveniente dall’operaismo, ma ha preso da tempo le distanze delle in-voluzioni negriane, restando invece estimatore del ben più profondo Mario Tronti. Formenti ha preso atto dell’irrimediabile deriva politica, e finanche antropologica, della sinistra dalla quale intende sottrarsi, e da questa via è giunto alla conclusione che è necessario un nuovo inizio, come sintetizza il titolo del libro Il socialismo è morto, viva il socialismo. Era conseguente quindi un ripensamento, espresso in un paragrafo del libro succitato, o per meglio dire un avvicinamento verso la figura di Preve, visto che afferma di aver “infine letto Preve”.

Veniamo alla tesi di Rontini, il quale sostiene giustamente che l’appartenenza dei marxisti al contenitore denominato sinistra perde di senso dal momento che è scomparsa ogni vestigia di borghesia progressista, desiderosa di rapportarsi con la classe operaia. Questa è la tesi di Preve, sintetizzata all’osso, che secondo Rontini spaventa i marxisti. Ciò è anche vero, ma non è questa sola tesi, ma la sua intera filosofia a costituire scandalo per il marxista benpensante e timorato … di Marx. Rontini utilizza il dibattito fra Preve e Losurdo che si svolse nel 2009, pubblicato in rete, come episodio esemplare dell’incomprensione della sinistra marxista nei confronti di Preve. Personalmente, direi di non focalizzare troppo su questo dibattito, i due si conoscevano bene tanto sul piano intellettuale, quanto su quello personale (conservo il ricordo di loro due discutere fittamente a distanza ravvicinata seduti ad un tavolino fuori da un convegno dalle parti di Assisi, adesso non ricordo quale, sono passati quasi vent’anni), per cui si tratta di un dibattito pieno di presupposti non esplicitati. Preve avrebbe voluto portare Losurdo dalla sua parte, quindi non va mai fino in fondo, esplicitando una rottura che poi era nei fatti. Il compianto Losurdo non avrebbe mai abbandonato una sinistra, nella quale la sua area, quella “antimperialista” dell’Ernesto e dintorni, non erano “ascoltati”. Erano isolati quanto lo stesso Preve ma continuavano e continuano fino alla fine a stare in essa, fino all’estinzione. Con Azzarà, che continua e continuerà fino alla fine a sbraitare contro la sinistra sul suo profilo facebook, ma a restare sempre al suo interno (immagino, perché mi ha bannato). Difendere la “distinzione destra-sinistra” voleva dire questo per loro, e che qualsiasi cosa faccia “la sinistra è sempre preferibile” ecc. ecc.

Se vogliamo capire perché Preve è stato ostracizzato dalla sinistra, marxista e non, bisogna guardare alla sua intera filosofia che mira ad una sua riforma teorica complessiva, ma essendo questa “irriformabile” (Preve) la conclusione logica è quella della necessità di un nuovo inizio.

Come racconta egli stesso, Preve iniziò un percorso di rottura dopo lo spettacolo del “baffetto bombardatore” che con il suo “sorrisetto cinico” mostrava soddisfazione della grande arguzia politica che l’aveva portato ad una completa acquiescenza nei confronti del “bombardamento etico” (titolo di un suo libro) della Yugoslavia. Mentre il “circo Barnum” della sinistra saltava sul carro del vincitore, e appoggiava la guerra contro una nazione che non ci aveva fatto nessun torto, e con la quale anzi avevamo proficui rapporti economici, con incoerenti prese di posizione di Rifondazione e del “filo-sovietico” Cossutta che fece una scissione per sostenere il governo D’Alema. Mentre invece esponenti della “nuova destra” come Alain de Benoist erano nettamente contrari a questa guerra. C’era qualcosa che non andava nelle categorie di Destra e Sinistra. Da qui inizia un ripensamento delle categorie di destra e sinistra, e anche questa è solo una parte del discorso di Preve, indirizzato alle categorie filosofiche di fondo che poi generano il discorso politico. Riporto qui un passo che è, a mio parere, il nucleo della sua analisi:

La sua critica al giacobinismo robespierrista, sia pure ogni tanto un po’ ingenerosa e unilaterale (personalmente, sono un ammiratore di Robespierre), resta però nell’essenziale è giusta, ed a mio avviso è la critica anticipata del comunismo storico novecentesco migliore che conosca. Se non condividessi profondamente questa critica, che è “comunitaria” e quindi né individualista né tradizionalistica, non avrei scritto un elogio del comunitarismo, ma l’ennesimo elogio del comunismo tout court. Se invece ho fatto questa scelta relativamente innovativa rispetto alla tradizione comunista da cui provengo, e proprio perché la critica di Hegel ai “comunitarismi frettolosi” che infine si rovesciano nel loro contrario e si autodistruggono mi pare convincente. Per me, questa non è in alcun modo una rottura con il comunismo, ma, al contrario, una maniera (che considero matura) di essere ancora fedele a questa scelta giovanile assolutamente non rinnegata che tempo fa definii una “passione durevole”.

[…] Hegel stima Rousseau e gli riconosce volentieri la sincera intenzione di superare l’individualismo atomistico astratto (per Hegel, l’individuo isolato è sempre astratto, mentre la comunità tenuta insieme dai costumi è sempre concreta), ma ritiene che su basi russoviane si possa avere soltanto una “comunità illusoria”, ossia un’addìzione di individualità presupposte come originariamente solitarie che si lanciano insieme nel progetto ugualitario di un nuovo contratto sociale equo, che possa sostituire quello precedente iniquo. Hegel chiama questo progetto russoviano una “furia del dileguare”. E che cosa è che propriamente “dilegua” , cioè scappa in .. avanti, si affretta senza essersi prima consolidato? È una comunità illusoria, tenuta insieme fittiziamente da una virtù politica soggettivamente sincera, che salta i momentìi essenziali della comunità familiare, della comunità elettiva di amici, della comunità fondata sul mestiere e sulla competenza professionale riconosciuta, e su tutte le comunità “intermedie” senza le quali non può neppure esistere la comunità delle comunità, il contratto sociale virtuoso fra cittadini uguagliati dalla legge.

Personalmente, trovo questa critica hegeliana non solo intelligente e pertinente, ma addirittura risolutiva. Non si può volere la “comunità ideale” se si comincia a disprezzare e ignorare le comunità intermedie precedenti. Il comunismo è, tra l’altro, morto proprio di questa specifica patologia. Ha messo la comunità astratta del comunismo davanti a tutto il resto, ha creduto di potersi costituire saltando la famiglia e la società civile (spacciate frettolosamente come “borghesi”), e così ha costruito sulla sabbia. Quando ha cominciato a entrare in crisi sul piano economico e produttivo, si era bruciato i ponti alle spalle, e non aveva più trincee di difesa su cui attestarsi. Franturnato l’apparato burocratico del partito, tutto si è dissolto in pochi mesi (l’esperienza della Russia nel 1991 è stata in proposito esemplare). (Elogio del comunitarismo, pp. 151-153)

In questo passo geniale viene esposta sinteticamente la tara storica della sinistra, comunista e non (notare che si parte dalla rivoluzione francese). In altre occasioni occasioni ho sintetizzato con il termine individualismo-universalismo, ovvero il salto dall’individuo al genere, il paradigma su cui si è costituita la sinistra comunista e non,. Ricostruire le categorie del movimento comunista superando questo paradigma fu il programma filosofico di enorme portata in cui Preve si impegnò. Un faticoso quanto necessario lavoro di ricostruzione su nuove basi, nel quale i “compagni” non hanno saputo e non hanno voluto impegnarsi, perché costava la dolorosa ridefinizioni delle convinzioni di una vita e dei rapporti politici, che sono poi anche rapporti personali.

Come ho sostenuto in occasione di un convegno in onore di Preve tenutosi a Bologna il 6 dicembre del 2013, il comunitarismo di Preve mira a correggere quell’impostazione di fondo per cui i comunisti e la sinistra in generale, hanno avuto una concezione errata dello Stato. È senso comune tra i “marxologi” che la concezione dello Stato fosse la tara principale della teoria marxiana, ma un “comunista antimperialista”, che in genere è, inconsapevolmente, più leninista che marxista, mi risponderebbe: i comunisti non hanno affatto ignorato la questione nazionale, i movimenti di liberazione nazionale del secolo scorso hanno visto un ruolo fondamentale dei comunisti! Per un’adeguata trattazione della questione non posso che rimandare al mio libro Per un nuovo socialismo, qui posso solo accennare al fatto che l’antimperialismo riportava nel movimento comunista “la questione nazionale” ma aveva dei difetti di fondo per cui non potè essere un’effettiva correzione del movimento comunista su tale questione. L’antimperialismo ha svolto una funzione importante durante il periodo dell’ascesa delle principali potenze che si oppongono allo strapotere americano, Russia e Cina, ma dal momento che queste potenze si sono affermate questa categoria va abbondonata e sostuita con il concetto di “mondo multipolare”. Inoltre, la categoria dell’antimperialismo si applica solo alle nazioni che hanno subito l’oppressione coloniale, ma delle autentiche questioni nazionali si sono poste e si pongono anche nella nazioni occidentali, ad es. l’errata teoria del movimento comunista sulla “questione nazionale” portò i comunisti a commettere dei gravi errori che favorirono l’affermazione del nazismo (in merito rimando al mio suddetto libro), come ho cercato di dimostrare anche basandomi su un testo del borioso Stefano G. Azzarà, allievo di Losurdo e punto di riferimento per Rontini.

Preve era un uomo della “vecchia guardia”, aveva trascorso gran parte della sua vita all’interno del fu movimento comunista, del quale si rese conto che aveva chiuso il suo ciclo, e cominciò un immane lavoro di ripensamento, ma su alcune questioni, tra cui l’antimperialimo e lo Stato, non giunse a delle soluzioni. Non credo di essere ingeneroso verso quello che considero uno dei miei principali maestri, è normale che sia così, gli siamo grati per l’enorme lavoro fatto, ma onoriamo i maestri proseguendo il loro lavoro, e a costo di apparire presentuoso, credo che almeno sulla questione dell’antimperialismo di aver fatto dei passi avanti.

Anche se il problema della subordinazione agli Usa non scompare, il problema più prossimo e più immediato, e che rischia di sfasciare lo Stato e la società italiana, è la subordinazione alla Ue (come ha già da tempo capito chi non era oberato da un bagaglio culturale marxista, ma magari in una prospettiva più limitata). Certo Preve sapeva che l’Unione Europea non poteva funzionare, e aveva previsto anche una divisione tra Europa del Nord e una del Sud, ma non costituiva per lui questo il principale problema. E in questo si dimostrava ancora uno della “vecchia guardia” che considerava il problema principale l’“imperialismo statunintense”. Io stesso ho fatto fatica a comprendere la priorità di questo problema, che ora è sotto gli occhi di tutti. Ripeto il problema del dominio statunitense non è certo scomparso, ma per l’immediato è assolutamente necessario risolvere il problema europeo.

Però Preve aveva posto correttamente il problema della sovranità e per questo è considerato un filosofo di riferimento dai “sovranisti”:

Immaginare che ci potesse essere una demokratia ad Atene con una guarnigione spartana stabilmente insediata sull’acropoli sarebbe stata un’assurdità per gli antichi. Eppure questa assurdità è oggi la normalità (una normalità anormale, in cui Kafka e Borges hanno sostituito Erodoto e Tucidide) per i popoli europei” (La saggezza dei Greci)

In breve tutte le divisioni politiche tra destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini perdono di senso in assenza di sovranità, poiché qualsiasi decisione scaturisca da questa dialettica politica questa si risolve in nulla, non serve a niente, poiché la decisione sulle questioni decisive spetta ad altri. Per questo è meglio A. de Benoist che si oppone all’imperialismo americano piuttosto che Luxuria che è culturalmente e politicamente allineato ad esso. La fine del mondo bipolare che aveva garantito uno spazio di sovranità (limitata) all’Italia e la degenerazione della sinistra avevano posto in secondo piano la divisione destra/sinistra, poiché è necessario convergere sull’obiettivo del ripristino di un adeguato livello di sovranità (una sovranità assoluta non potrà mai esistere). Quando in un ipotetico futuro la sovranità sarà ripristinata, le divisioni in base alle classi sociali e ai valori ritorneranno in primo piano, potremo anche tornare a definirle destra-sinistra, anche se a me non piace tale definizione che non sfugge al gioco di specchi, esiste una destra perché esiste una sinistra e viceversa, senza poi che si sappia “cos’è la destra e cos’è la sinistra” (per dirla con Gaber), preferisco le divisioni tra socialisti, (neo)liberisti, repubblicani, nazionalisti o in base all’identità religiosa ecc, insomma in base ad una definizioni dei valori politici, culturali, ideologici di riferimento, non delle generiche destra e sinistra che di per sé non vogliono dire nulla.

Destra e sinistra, o come si voglia definire le differenze politiche, hanno senso solo in uno Stato sovrano. Lo Stato è una delle comunità che si interpongono tra l’individuo e il genere. Il concetto di comunità avanzato da Preve è cruciale oggi. La crisi sociale, economica, politica innescata dal Coronavirus ha portato alla luce l’inconsistenza della costruzione sottostante alla “Comunità Europea”, mai nome fu più inadeguato. È fondamentale analizzare tutte le misure economiche e di carattere legislativo emanate dalla Commissione Europea e dalla Bce da valutare con la massima attenzione, ed è benemerito il lavoro di chi si sobbarca questo ingrato compito, ma ciò che più conta è stabilire se noi e i tedeschi (o anche i francesi) apparteniamo alla stessa comunità, se loro ci considerano o noi consideriamo loro come appartenenti alla stessa comunità. È questo che alla fine determina le misure economiche che vengono prese. Come sosteneva Preve appartienamo al genere umano, ma vi apparteniamo attraverso comunità determinate a partire dalla famiglia, passando per le classi sociali a finire con lo Stato. Tali comunità non hanno una base naturalistica, sono costruzioni sociali, ma sono nondimeno reali, e hanno effetti concretissimi. Alla luce dei fatti non possiamo che concludere che no, non apparteniamo alla stessa comunità, che non basta il nome, non abbiamo costruito con gli altri popoli europei una comunità, ogni nazione europea sta agendo per proprio conto e in funzione esclusiva dei propri interessi, e ci conviene ripristinare gli strumenti economici della sovranità che avevamo prima di entrare nell’Unione Europea altrimenti saranno c…. e qui evito di terminare con una locuzione volgare.

ECCEZIONE E ORDINAMENTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E ORDINAMENTO

Dopo i primi decreti (amministrativi) sull’emergenza sanitaria è iniziato sulla stampa un lamento corale sulla triste “fine” dello Stato di diritto, col suo Parlamento, le sue leggi (e decreti-legge) ma soprattutto i suoi diritti, garantiti dalla Costituzione come (in genere) nelle altre costituzioni degli Stati democratici-liberali e nelle dichiarazioni (anche internazionali).

Di quella italiana la prima vittima è stato il diritto di locomozione (art. 16), ormai ridotto – in linea generale e salvo deroghe – alla facoltà di girare intorno al proprio isolato.

Tali considerazioni presuppongono che tra eccezione e norma vi sia incompatibilità assoluta e che un ordinamento “liberale” debba necessariamente bandire la prima – e le relative misure – dalla normativa.

Ma è vero ciò? Tra i tanti esempi contrari che si possono portare, è istruttivo ricordare le considerazioni – a  distanza più che secolare – che facevano sull’habeas corpus due pensatori come De Maistre e Gaetano Mosca.

L’habeas corpus è, come noto, un istituto dell’ordinamento inglese volto alla tutela della libertà personale e della legalità delle accuse, onde evitare arresti e detenzioni arbitrarie. Dopo la rivoluzione francese normative in qualche misura simili (anche se probabilmente meno efficaci) si diffusero agli ordinamenti europei (continentali) e nelle dichiarazioni internazionali dei diritti. A tale proposito Gaetano Mosca lo considerava lo strumento più semplice ed efficace pensato e praticato a tutela della libertà personale. Scrive Mosca che l’habeas corpustutela i cittadini inglesi… in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio”.

Proprio per la sua libertà ed efficacia, De Maistre, un secolo prima di Mosca, sulla base del fatto che spesso era sospeso dal Parlamento, lo considerava un’eccezione, nel senso che, se applicato sempre, avrebbe travolto la costituzione (id est l’esistenza ordinata) della Gran Bretagna. Sosteneva De Maistre “La costituzione inglese è un esempio più vicino a noi, e di conseguenza colpisce maggiormente. La si esamini con attenzione: si vedrà che essa funziona solo nella misura in cui non funziona (se è consentito il gioco di parole). Essa non si regge che sulle eccezioni. L’habeas corpus, per esempio, è stato sospeso così spesso e così a lungo, che si è potuto sospettare che l’eccezione fosse divenuta la regola. Supponiamo per un istante che gli autori di tale famoso atto avessero avuto la pretesa di fissare i casi in cui potesse essere sospeso: l’avrebbero con ciò stesso ridotto a nulla”. Ovvero l’ordinamento inglese riesce a funzionare nella misura in cui l’habeas corpus è sospeso. Ma chi aveva ragione: il costituzionalista siciliano o il diplomatico sabaudo? È facile rispondere: entrambi. La tutela delle libertà fondamentali è connaturale ad un ordinamento liberale, come la sospensione o la deroga delle stesse lo è nel caso sia in pericolo la vita comunitaria ed individuale: perché senza vita non c’è libertà. Così nelle legislazioni e anche nelle costituzioni – sia degli Stati liberali era ed è previsto che in situazioni eccezionali potevano essere sospese le libertà individuali. La “costituzione più bella del mondo” non lo contempla: ma la legislazione ordinaria ha riconosciuto, anche ad organi amministrativi eccezionali, creati ad hoc, di provvedere con ordinanze, in deroga alle leggi, col solo limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico (ad es. art. 1 L. 22/12/1980 n. 876, in occasione del terremoto campano-lucano).

Parimenti gran parte degli ordinamenti liberali prevedevano e prevedono garanzie della libertà individuale simili (anche se – spesso – meno efficaci dell’habeas corpus). Pertanto è chiaro che lo Stato democratico-liberale tiene tanto alla libertà individuale quanto all’esistenza comunitaria, anzi in caso d’eccezione, limita quella per salvaguardare questa. In definitiva ha fatto proprie – come ogni ordinamento – le affermazioni di De Maistre che “non è nel potere dell’uomo fare una legge che non abbia necessità di alcuna eccezione”. E l’eccezione, tenuto conto del principio d’uguaglianza, è rapportata alla situazione oggettiva: se è realmente eccezionale sono necessarie e legittime le misure d’emergenza: se non lo è, deve applicarsi la normativa ordinaria. Di converso osservare questa se ricorre un caso d’emergenza significa fare un buco nell’acqua; del pari, attentare alla libertà individuale quando non ve ne sono i presupposti. Ossia dare all’apparato pubblico dei poteri enormi senza che ve ne sia ragione. Questi è stato il pretesto spesso usato per sovvertire l’ordine, giustificando abusi di potere, dal colpo di Stato in giù.

Il cui movente comune è salvaguardare la “poltrona” di chi esercita il potere talvolta in condizione di dichiarare legalmente lo stato d’eccezione. Ma all’uso improprio non c’è rimedio giuridico se non, come scriveva Locke (per i casi estremi) che l’“appello al cielo” ossia la disobbedienza e, al limite, la guerra civile.

Resta il fatto che la prima tutela che si ha in questi casi è la limitazione nel tempo soprattutto (e nello spazio) delle misure d’emergenza (la sunset clause della legislazione inglese), dimenticata talvolta in quella nazionale, dove misure eccezionali (anti BR) sono state in vigore anni dopo la fine della situazione che le aveva giustificate. La seconda, e la più importante: che i cittadini vigilino perché ciò non succeda.

Resta il fatto che in ogni ordinamento sia liberal-democratico che non, vale la regola che Machiavelli enunciava nei Discorsi sulla dittatura romana: “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”.

Esorcizzare l’abuso (sempre possibile) opponendosi alle misure d’emergenza ed alla loro previsione è credere che la storia non possa bussare più alla porta di casa. Mentre il problema è essere pronti ad accoglierla, quando prima o poi si presenta.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’energia del virus Tra catastrofisti e futurologi, di Giulio de Martino

L’energia del virus

Tra catastrofisti e futurologi

di Giulio de Martino

 

A un secolo dall’ultima pandemia – provocata nel 1918 dal virus H1N1, conosciuta dagli storici come «influenza spagnola»[1] – il mondo affronta una nuova patogenesi: diffuso a livello planetario è il virus SARS-CoV-2. La trasformazione microbiologica sempre in atto trova condizioni decisive di facilitazione pandemica in ambienti e ecosistemi specifici, ma anche nei processi di mondializzazione. Nel 1918 fu la Grande guerra con gli spostamenti di uomini e mezzi connessi, oggi sono l’intensa geolocalizzazione produttiva e l’interconnessione economica globale.

Osservata in forma cronachistica, la pandemia da coronavirus appare connotata da elementi specifici. Non mi riferisco soltanto al substrato microbiologico da cui ha avuto origine, o al suo terreno di coltura antropico, ma al correlato psicosociale che la sta accompagnando. La velocità e la refrattarietà del virus al controllo da parte degli organismi ha messo a dura prova sia le strutture sanitarie che quelle sociali circostanti, abituate a trend calcolabili e modellizzati.

Sul versante microbiologico emergono due caratteristiche: la rapidità della replicazione e circolazione del virus (non mesi, ma giorni) e la velocità dello sviluppo della malattia (non settimane, ma giorni). Potremmo aggiungere il virus si comporta come una «variabile indipendente» e si «sceglie» sia i contesti di diffusione che quelli di estinzione. Sono caratteristiche che confliggono con la planning e la clinica del mondo industrializzato basate su malattie di tipo degenerativo e cronicizzate, quindi non contagiose né acute e con l’assunto che la medicina costituisca un business che si avvale di una scienza e di una tecnologia sempre in grado, se non di curare, almeno di diagnosticare e prognosticare[2].

In eguale difficoltà si trovano gli economisti familiarizzati con concetti come quelli di crisi e di ciclo che consentono previsioni, calcoli e soprattutto interventi di gestione delle emergenze micro e macro economiche. La situazione effettiva di fronte alla quale si trovano i decisori politici è che si possa entrare in un territorio di distruzione irreparabile delle risorse che vada anche oltre le più avanzate strategie keynesiane di recupero sistemico.

L’aspetto che appare connotare, al di sopra di altri, l’ultima pandemia è il suo essere focalizzata sul rischio piuttosto che sul pericolo. Senza giungere a parlare di una infodemia, diciamo che si tratta di una pandemia anticipata, osservata e monitorata, alla quale si può partecipare come spettatori o come astanti anche senza esserne direttamente coinvolti[3]. I numeri – tolti dalla loro assolutezza e relativizzati rispetto alle dimensioni delle popolazioni coinvolte – mostrano che la società non è omogeneamente esposta al contagio, ma soltanto ad un rischio non precisamente calcolabile. Certamente, in alcuni settori – reparti di pneumologia infettiva – i sistemi socio-sanitari si sono rivelati sottodimensionati rispetto alla domanda di assistenza, ma il numero delle vittime è globalmente marginale. Tuttavia, poiché la società si è consegnata alla rete delle comunicazioni di massa – sviluppatasi enormemente negli ultimi venti anni[4] –  il rischio virtuale si è trasformato in un pericolo poiché ogni spettatore potrebbe diventare – se si verificassero specifiche condizioni – un protagonista dell’evento.

Il carattere probabilistico della scienza e il carattere statistico dei modelli previsionali è proprio dei saperi maturi: gli epistemologi del secondo ‘900 hanno evidenziato l’impianto definitivamente stocastico delle conoscenze[5]. Nel caso del coronavirus pandemico, a causa delle modalità di circolazione delle informazioni e delle opinioni lungo le reti massmediali, l’aleatorietà delle conoscenze si è trasformata in una forma di cogenza delle ipotesi. Per questo l’olismo della risposta politica al rischio di contagio – macrodecreti e macrodirettive – è diventato preponderante rispetto alle decisioni locali e differenziate per settori e ambiti. Un’unica priorità è subentrata alle molte, variegate e complesse, criticità precedenti: «evitare il contagio e la trasmissione del virus».

Sul versante sociale, si è velocemente passati dall’Homo oeconomicus – che si orientava sulla base di una valutazione ponderata dei rischi e dei benefici e con il «Watch and Wait» – all’Homo stocasticus che trasforma ogni rischio in una minaccia e che dà sfogo a quello che viene definito come «panico sociale» o, più precisamente come «crollo della fiducia reciproca». Non ci basa su di un processo di generalizzazione del dato specifico – che la matematica sconsiglierebbe – ma su di una universalizzazione del fatto singolare che assurge a simbolo della totalità[6].

Baudrillard aveva diagnosticato la «morte del sociale» nella civiltà postmoderna come una forma di entropia e di massificazione indecifrabili che avrebbero reso equiprobabile l’evoluzione del sistema[7]. In realtà, negli sviluppi attuali, il sociale sembra piuttosto patire una «morte simulata»: indotta dai sistemi politici che si difendono dai contraccolpi della pandemia provocando – sotto forma di prevenzione e contenimento del rischio – una «entropia di stato», pianificata e controllata attraverso i dispositivi dell’informazione e dell’ordine pubblico. E’ giusto non dare connotazioni «distopiche» al «coma sociale» prescritto alle popolazioni, come pure va evitato di demonizzare – quasi costituissero una sorta di «laisser faire» epidemico – scelte differenti. Si tratta sempre e comunque – sia nella ipotesi dell’attesa del Climax che in quella della provocazione del Plateau – di strategie deliberate in vista della conservazione delle condizioni di esercizio del potere politico, condizioni che, in regime democratico e liberale, includono anche il mantenimento del consenso – anche soltanto passivo – dei cittadini[8].

Al di là degli interventi specifici sul sistema sanitario, le misure di tipo precauzionale, pur comprimendo i diritti  di libertà dei cittadini (a cominciare da quelli di opinione, di riunione e di libera impresa), utilizzano formulazioni legislative compatibili con lo stato di diritto. Si vedano il reato di dichiarazione mendace, la raccomandazione dell’autoisolamento, la quarantena fiduciaria, l’autosospensione dal lavoro: sono prescrizioni che evocano altrettante assunzioni di responsabilità da parte dei cittadini. Certamente, in un contesto di rischio virtuale, la «responsabilità» del cittadino diventa anche un dispositivo di autotutela da parte del potere politico. Se la involontarietà e la colposità diventano identiche alla dolosità, il reato non deriva dalla contestazione di una «responsabilità penale personale», ma dal non aver ottemperato alle misure precauzionali imposte, dall’aver divulgato «notizie false e tendenziose», dall’aver provocato ad altri un danno biologico che poteva essere evitato. Ciò che viene imputato, in buona sostanza, è di aver impedito che l’«allarme virtuale» lanciato dalle istituzioni si diffondesse adeguatamente nel corpo sociale. Tutto ciò conferma il carattere democratico e perversamente liberale delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Gli stati democratici più che disciplinare le forme della libertà – come sosteneva Foucault – hanno comandato l’autosegregazione come «servitù volontaria»[9]. Nei fatti la società si è rispecchiata profondamente nelle scelte dei decisori pubblici. Lo ha fatto anche quando ha mostrato di non voler aderire ai divieti e alle proibizioni. Ciò ha evidenziato, piuttosto, una sorta di compiaciuto «masochismo» che ha attivato inconsciamente anche il gioco della trasgressione. È la logica di ogni proibizionismo che è, insieme, ragionevole cautela e adescante divieto[10].

Davanti alla «morte terapeutica» del sociale indotta dalle politiche antiepidemia, il mondo dei mass-media si è diviso. Quelli maggiori – ad esempio le trasmissioni televisive – hanno scelto di tenere un profilo basso e di condividere gli obiettivi del sistema politico. Quando si parla del SARS-CoV-19, accolgono volentieri il viso severo, ma sereno, di virologi e medici che propongono una teleologia della lotta al male. Invece, sui quotidiani e sulla rete, dove c’è un più contenuto e diluito impatto di massa, vi è spazio per gli influencer catastrofisti e per i ribelli che fanno sentire il gusto del proibito.

I catastrofisti parlano di trame internazionali, di ecatombe biologica, qualcuno di nemesi ecosistemica. Da quando si sono eclissati gli oppositori politici – oscurati dal virus e dai suoi rimbalzi che hanno disinnescato il populismo – c’è più ascolto per le profezie di catastrofe perché rendono disponibile un fattore di salvazione e un «capro espiatorio» su cui riversare il proprio disprezzo.

All’interno dei catastrofisti si colloca il gruppo degli altermondisti: quelli di «un altro mondo è possibile», anzi imminente. Ad essi si aggiungono gli ecoambientalisti che intonano, con nuovo vigore, il salmo della «decrescita felice»[11]. Tra gli apocalittici vi è anche il gruppo dei biopolitici. Questi ultimi, memori delle arditezze del marxismo, argomentano che il «regime al potere» utilizza lo «stato di eccezione»  per rivelare il vero volto dei sistemi democratici e liberali: quello di essere dei regimi totalitari. L’errore grossolano di costoro è di mescolare la biologia (e quindi l’ecologia) con la politica e di pensare che l’utilizzo delle problematiche biomediche nelle attuali strategie pubbliche avvenga in maniera strumentale e truffaldina, come appunto accadde al tempo di Hitler e Mussolini[12]. Sfugge loro che nei regimi democratici e liberali non vi è alcun nesso diretto fra le questioni biomediche e le decisioni politiche: sempre l’ultima parola viene data agli «esperti». Da parte loro, le disposizioni di legge osservano la schietta coerenza ordinamentale: il divieto di un diritto come tutela di un altro diritto. il sistema politico – come quello economico e finanziario – si stanno certamente riposizionando, ma lo fanno al solo scopo di tutelare e potenziare i propri mezzi di esercizio modulandoli sulla base delle reazioni della società agli avvenimenti naturali. Tra le reazioni sociali – oltre alle più evidenti forme di obbedienza e di ribellione – vanno incluse anche la volontà di approfittare dell’emergenza per assicurarsi vantaggi attraverso contrattazioni di tipo non competitivo, ma piuttosto assistenziale e beneficiale.

E’ sensato spostare l’attenzione dai rischi sanitari ai pericoli per le attività economiche e relazionali, sia per quelle novecentesche (industria, trasporti, commercio), sia per quelle di sentiment postindustriale (turismo, fitness, cultura e gruppalità). In quest’ultimo ambito i cambiamenti portati dall’epidemia e dalle politiche pubbliche di neutralizzazione del sistema sociale sono massicci e di segno fortemente negativo. Molti si illudono che, passata la bufera, ognuno tornerà alle abitudini e alle attività precedenti. Più plausibilmente, la società imparerà a modificare i suoi stili di vita e di sviluppo. In buona sostanza: attraverso le procedure di sospensione giusta legge dei diritti, quarantena fiduciaria, distanziamento interpersonale, isolamento ecc. si è indotta una trasformazione del legame sociale. E’ proprio in campo psicosociale che vi sarà il cambiamento più evidente, quello che lascerà il segno. Non sarà, però, un cambiamento di tipo totalitario, bensì di tipo individuale e, insieme, reticolare. Vi si riferiscono già – oltre alle grandi aziende del WEB e alle centrali della finanza – i numerosi sviluppatori, psicologi e influencer che forniscono indicazioni e consigli, ovviamente via internet o schermo, alle persone disorientate dalla crisi e dall’emergenza.

Si può ipotizzare che quelle che oggi sono considerate come modalità secondarie e occasionali di lavoro, di formazione, di scambio di merci e relazioni potrebbero diventare modalità primarie. Quella che si definisce «economia digitale» – il sistema di produzione e scambio basato sulle tecnologie informatiche – potrebbe potenziarsi sia nell’hardware che nel software, sia online che offline, influendo sulla circolazione monetaria e su quella dei beni. Il profilo etico che prevarrà sarà quello del player, che nella letteratura è noto come Il giocatore[13]. Il player incarna il principio economico marginalistico: la ricerca del miglioramento in un contesto di scarsità e di maggior costo dei fattori di esistenza. Un soggetto decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio che questa comporta gli appare minore della soddisfazione che essa procura. Per questo persiste nell’azione intrapresa solo fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. In buona sostanza, il player frammenta in segmenti uguali e piccoli il sacrificio di fronte alla decrescita degli elementi di soddisfazione, allo scopo di garantirsi una crescita meno rapida dell’insoddisfazione. Nelle relazioni di dipendenza ha convenienza ad accrescere la richiesta solo fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione, che ricava da una nuova dose del bene, eguaglia l’incremento del sacrificio che ha dovuto compiere per ottenerlo. Cercando di massimizzare il vantaggio e di minimizzare il costo, il player cercherà allora di vendere meglio i propri prodotti e di dipendere in misura minore da quelli che deve acquistare.

Con i dispositivi blockchain, cloud e mobile si potrebbe passare dal mondo dell’«Internet of Things» (IoT) e dei social network al riassestamento dell’intero sistema di mercato e di produzione. Questo implicherà che le persone dovranno trascorrere più tempo di fronte al pc o consultando il proprio smartphone, oppure che saranno abolite le relazioni frontali («Face to Face») per sostituirle con quelle mediate dalle reti[14]? Probabilmente no. Ciò che cambierà sarà il rapporto fra l’offline e l’online: il primo diventerà più intenso e cercherà nuove modalità di riferimento al secondo. Il cambiamento avverrà, prima di tutto, all’interno della nostra mente: continuerà a essere offline, ma cercherà la connessione con le altre menti e le altre esistenze, sempre più spesso, attraverso i sistemi audiovisuali e scritturali online.

[1] Johnson Niall, Britain and the 1918-19 Influenza Pandemic. A Dark Epilogue, London and New York, Routledge, 2006.

[2]  Van Rensselaer Potter II,  Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall, 1971.

[3] Massimo Conte, Reti ed epidemie: quando il gioco si fa serio, “Complexity Education Project”, Università di Perugia, febbraio 7, 2020.

[4] Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality; Oxford University Press, 2014; tr. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] Richard Feynman, Il senso delle cose (The Meaning of It All, 1998), Milano, Adelphi, 1999,

[6] Andrew Salmon, Democracies’ Covid-19 cures could be worse than the disease, in: “Asia Times”, march 18, 2020.

[7] Jean Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale, 1978, n. ed. a cura di Dario Altobelli, Mimesis, Milano 2019.

[8] Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus. Due strategie a confronto, L’Italia e il Mondo, 14 marzo 2020.

[9] Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Medusa Edizioni, 2001.

[10]  Bateson, G., Jackson, DD, Haley, J. & Weakland, J., Toward a Theory of Schizophrenia, “Behavioral Science”, 1956, 1, 251-264.

[11] Luigi Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, su: “il Manifesto” del 17.03.2020.

[12]  Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo, Mimesis, 2020.

[13]  Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, 1ª ed. originale, 1866.

[14]  Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli 2015.

La riforma dello Stato, di Giancarlo Elia Valori

In calce un articolo particolarmente interessante di Giancarlo Elia Valori che affronta il tema della riforma dello Stato, di fatto il tema della modalità di selezione di una classe dirigente e di esercizio del potere in un contesto altro rispetto al bipolarismo, fase nella quale di fatto si è formata la classe dirigente emersa, già in stato abortivo al suo sorgere, dalle pesanti scorie di una tangentopoli mai terminata, ormai a trenta anni di distanza dal suo inizio. L’uscita di Valori ha coinciso con la drammatica crisi del coronavirus. La concomitanza non è detto che sia voluta, ma non è certo casuale. La crisi pandemica, sia pure ancora incipiente, già colpisce emotivamente le popolazioni e le stesse classi dirigenti, destruttura ulteriormente, in maniera ormai irreversibile, i residui equilibri geopolitici e il sistema di relazioni economiche fondati su una visione unipolare e multilaterale dei rapporti internazionali. Una visione accantonata formalmente dalla Russia di Putin sin dall’importante discorso alla conferenza di Monaco del 2007, ma che verrà ormai sancita definitivamente ob torto collo anche dalle élites dominanti della Cina e degli Stati Uniti lungo un percorso al cui traguardo non si può prefigurare al momento un vincitore certo. Non si deve mai trascurare in politica l’aspetto emotivo di una crisi, specie se dal carattere così dirompente, legato alle modalità stesse di esistenza delle persone e delle formazioni sociali. Accresce le esigenze di efficacia e centralizzazione del potere. Se le formazioni sociali sono sufficientemente articolate ma provviste di una identità forte la realizzazione di questa esigenza produce formazioni e soggetti coesi in grado di navigare con sufficiente autonomia nelle incertezze del multipolarismo; al contrario si rischia la formazione di élites arroccate nelle proprie cittadelle e sempre più dipendenti dal volere degli agenti esterni. Dall’articolo di Valori appare chiaramente questo sentimento. L’esigenza, però, di una redifinizione dei centri e delle modalità di esercizio non può prescindere ed è connaturata agli obbiettivi strategici e alla collocazione geopolitica delle aspiranti nuove élites di potere. La collocazione politica e specificatamente geopolitica di Valori, strettamente e indefettibilmente atlantista e filoisraeliana, tanto per stigmatizzarne un aspetto che da adito a tali perplessità da far temere la mutazione di una azione di trasformazione delle dinamiche di esercizio magari ben intenzionata in quella di una classica operazione trasformistica. Il richiamo alle grandi virtù della tradizione liberale senza citarne i macroscopici difetti, messe a nudo soprattutto nella fase politica di fine ‘800 e di fine ‘900, propedeutiche alle crisi stagnanti e logoranti successive, destano più di qualche sospetto. Una visione di “bene pubblico” insita nell’azione politica di una possibile nuova classe dirigente troppo neutra, tipicamente propria del punto di vista liberale. Non vi è cenno nell’articolo sulla funzione positiva di un conflitto sociale ben indirizzato e sulla funzione di coesione delle associazioni, in un contesto però agli antipodi di quello parassitario, remissivo e decadente dell’Italia presente; manca una caratterizzazione e distinzione tra le figure politiche trainanti ed espressive di una strategia politica e l’azione dei centri strategici più o meno presenti negli ambiti nevralgici di esercizio del potere, nonché un disvelamento delle dinamiche di conflitto interno ai centri e di relazione con i centri esterni al paese; come pure viene sottovalutata colpevolmente la funzione regressiva e ammorbante di gran parte di quei centri accademici e di elaborazione che dovrebbero formare altrimenti élites alternative. La via di formazione di queste ultime si prospetta purtroppo molto più tortuosa, defatigante, approssimativa e avulsa dai centri istituzionali principalmente preposti. Forse è chiede troppo ad un semplice articolo; l’impressione, però, è che queste omissioni svelino il limite di un tema sollevato meritoriamente. Ciò nonostante l’articolo mette in evidenza aspetti, dinamiche virtuose e punti di crisi decisivi, corroborati coraggiosamente dalla rievocazione di figure politiche, quali Cossiga, da riconsiderare e ricollocare storicamente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

tratto da https://formiche.net/2020/03/stato-cossiga-costituzione-italia-governo-presidente-del-consiglio/

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

La riforma dello Stato si può fare. Le istruzioni di Valori

A partire dal 1991 la nostra Costituzione è cambiata. Ora si può ancora riformare lo Stato centrale. Ma bisogna stare attenti a…

Fin dal suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, Francesco Cossiga ebbe chiarissimo che il sistema degli equilibri costituzionali, nel dopo-Guerra fredda, stava inevitabilmente per saltare.
Nella sua visione, c’era un insieme di processi positivi e di altri potenzialmente pericolosi, che avevano messo entrambi in crisi il grande progetto iniziale della Costituzione repubblicana: l’aumento della partecipazione popolare non direttamente politica, poi la trasformazione dei partiti, da non dimenticare nemmeno la fine dell’equilibrio bipartitico della suddetta guerra fredda, poi ancora la diversa collocazione, dopo la “caduta del Muro”, delle forze politiche, infine una ulteriore differenza del ruolo dell’Italia rispetto a quello del mondo dei due blocchi contrapposti.
La Costituzione nasceva dalla Guerra fredda. Finita quest’ultima, doveva cambiare anche la Carta fondamentale e lo Stato.

Poi, per Cossiga c’era un altro elemento strutturale da notare: tutti i partiti immaginavano, in fase costituente, di poter essere, un giorno, collocati all’opposizione, e non si sa nemmeno quanto democratica, quindi programmarono di concerto un sistema di controlli e contrappesi quasi paralizzante.

Niente esecutivi forti e stabili, quindi, solo continue e successive maggioranze deboli, temporanee, e con un grande partito di opposizione, da dover essere escluso, per ovvi motivi internazionali, dal potere: ma che comunque era presente con un meccanismo ad consociandum nelle amministrazioni locali, negli apparati (tutti) poi nel sistema economico, nel potere territoriale.
Un equilibrio paradossale tra centro e periferia che disegnava anche il flebile potere, garantito dalla Costituzione, di poter rimanere nella Nato e in Occidente.

Salvo, poi, dare al Pci e ai suoi alleati il potere di fatto di destabilizzare lentamente il Governo, ma senza destabilizzare, per quanto possibile, il Paese. Ognuno dei due schieramenti si presentava con la capacità di interdire la realizzazione dell’egemonia, termine gramsciano, all’altro. Questa, la destabilizzazione dico, la fecero altri, amici e nemici.

In quegli anni ero molto vicino a Francesco Cossiga, e di queste cose ne parlammo appassionatamente per mesi, prima del suo straordinario messaggio alle Camere. Per il presidente, finita la Guerra fredda, e trasformatasi l’entità, la natura e la forma del sistema politico italiano, occorreva riformare subito la Costituzione e l’intero Stato. Aveva ragione, come spesso gli è capitato, ma oggi siamo davvero alla morte cerebrale e fisica del nostro sistema politico.

Non mi riferisco, ovviamente, a questo o quel partito, ma l’incapacità patologica di reggere le sorti del Paese è ormai evidente in tutti i gruppi parlamentari. Dopo la crisi della fine della Guerra fredda, che parlava di noi, soprattutto di noi, con la trasformazione rapida dell’Est e dei Balcani, la nuova dimensione politica e militare del mondo arabo, la crisi programmata dei vecchi alleati africani e islamici dell’occidente, con le “primavere arabe”, poi il jihad della spada, la conclusione delle nostre alleanze nel Mediterraneo, infine la fine di un automatismo fin troppo facile, nella Nato, e anche tra noi e gli Usa, tutto doveva far pensare, nella povera testa delle nuove classi politiche, che occorreva cambiare soprattutto una cosa: l’architettura costituzionale.
Per evitare, almeno, di entrare nel XXI secolo con un vecchio automezzo degli anni ’60. Ora, siamo alla fine definitiva del sistema politico incompleto che ha seguito, rabborracciato e spesso inane, la fine della Guerra fredda.

Ed è stata la lunga epoca, invece, il post-Guerra fredda italiano, dei modesti succedanei.
Invece di pensare, le classi politiche successive alla guerra fredda si sono baloccate soprattutto con la “comunicazione”. Che non è un sostituto del pensiero, anzi. Chi sa non parla, chi non parla sa, come diceva il saggio cinese Lao-Tzu. Ovvero, abbiamo assistito, dopo la crisi del 1994, generata dall’operazione Tangentopoli, alla creazione del partito-brand pubblicitario, con il solito uomo solo al comando che, però, comanda ben poco e si annoia a far politica, che lascia fare ad altri, ma che poi seleziona i parlamentari con il criterio del casting Tv; poi abbiamo anche avuto il riciclaggio del vecchio Partito democratico Usa, in un lungo remake, con tanto di asinelli e di primarie, e ci mancavano solo gli hot dogs e la pessima senape.

Sembrava un vecchio film di Bud Spencer e Terence Hill. Quando ci si vende, in politica, è bene mascherare l’identità del compratore. Ed è morto, invece, caduto sempre nella rete della operazione Tangentopoli, che operazione infatti fu, il Centro democratico e liberale, in ossequio alla vecchia battuta, detta proprio in Assemblea Costituzionale, di Togliatti: “fuori i pagliacci”. E si perse così, nella cultura politica italiana attuale, il senso della tradizione risorgimentale, liberale, statuale.
Ed è morta proprio la tradizione risorgimentale, asse dello Stato unitario, che era stata inserita nella Costituzione Repubblicana sia dai cattolici che da socialisti, con figure del calibro di Don Sturzo, Costantino MortatiFanfaniMoroLa PiraVittorio FoaMario ZagariPaolo Rossi.

Il cattolicesimo politico è stato certamente anti-risorgimentale, ma non ha distrutto la tradizione dello Stato unitario, questo lo si deve ad altri. Ogni fenomeno politico del post-guerra fredda, in Italia, è quindi stata la continuazione, con altri mezzi, come la guerra in Von Clausewitz, della vecchia guerra fredda, ma a polveri bagnate. Il meccanismo della inutile litigiosità da spot pubblicitario è oggi lo stesso, il livello di scontro è ancora elevatissimo, ma il reale meccanismo costituzionale è figlio di una fase storica definitivamente passata e, anzi, produttrice di sventati anacronismi e inutili, pericolosi, impedimenti.

Cossiga scrisse, dopo i tentativi dell’on. Aldo Bozzi, di De Mita e di Nilde Iotti, fino alla intelligente e sfortunata operazione della Bicamerale di Massimo d’Alema, nel 1997, che venne dopo, un tracciato chiaro e inevitabile: l’uso dell’art.138 Cost. per il rinnovamento della Carta Costituzionale, la fine della sciocca diminutio capitis dell’Esecutivo, che non è un luogo di transazioni, infine il ripensamento, militare, geopolitico, economico del ruolo italiano nel Mediterraneo.

La fine, in altri termini, del vecchio sistema derivato dal Trattato di Parigi del 1947. Chi aveva vinto con il solo eroismo litigioso di De Gaulle, ma che aveva patito la vastissima Repubblica di Vichy, chi poi aveva sofferto il dramma del frazionamento della patria tedesca, con il controllo alleato perfino della emissione dei francobolli, chi aveva patito la dittatura spagnola, tutti si ritrovavano, nel post-guerra fredda, in un nuovo contesto, privo delle leve strategiche del mondo diviso in due blocchi. Era, questa, la riedizione del documento di Camaldoli, insomma, a cui partecipavano anche, lo ricordiamo, laici e cattolici. E che fu poco ascoltato, anche all’inizio. Ritornare lì è ancora essenziale. Leve, quelle strategiche, che allora si trovavano ovunque, peraltro. La pervasività della lotta tra i due blocchi non permetteva una concentrazione del potere e dell’esecutivo.

Cosa fare, allora?
a) garantire la stabilità dell’esecutivo, non tramite alchimie elettorali, ma con garanzie costituzionali, poi b) evitare il frazionismo estremo delle rappresentanze regionali, provinciali, comunali, consortili, o comunque altrimenti ordinate, c) incentrare nel duopolio presidente del Consiglio-presidente della Repubblica, senza eccessive mediazioni, la responsabilità strategica e militare della politica estera italiana, che opera a contrappassi parlamentari post-factum, ma non di più di quelli, d) riformare i servizi, ancora una volta, in modo che siano strumento efficientissimo e potente dell’esecutivo; e anche capaci di azioni efficacissime e immediate, senza inutili noie parlamentari, che casomai lavorano, lo abbiamo detto, ex post, d) riformare il comando dell’economia, che è oggi troppo policefalo e, talvolta, anche acefalo.

Il mondo è fatto di velocità, di decisioni quasi immediate, di mediazioni, quando ci sono, con entità che poco hanno a che fare con i vecchi partiti politici. Altro che Aula: oggi, chi manovra il potere reale, ha a che fare con ben altri gruppi di potere. Occorre uno Stato capace di parlare e talvolta imporsi a questi nuovi attori geopolitici, finanziari, tecnologici. Il mito del mercato che si autoregola va bene per gli studenti di economia che leggono, annoiati, certi manuali che, ai miei tempi, avrebbero fatto ridere generazioni di studiosi.

Occorre dunque velocità e accuratezza insieme dell’esecuzione dell’atto di governo, la cui verifica di legittimità, qualora occorra, è demandata ad altri organi tecnici, non solo a intermediazioni politiche. Che arrivano, se arrivano, in seconda istanza. Cosa proporre, quindi, come riforma dello Stato, dopo che la nostra Repubblica soggiace a una torma di ragazzini che credono di salvare il mondo, come in un vecchio romanzo di Elsa Morante?

1. Un sistema elettorale con una soglia accettabile e razionale per l’entrata in Parlamento, ma non è poi questo il vero problema. Occorre, invece, un sistema elettorale che possa selezionare automaticamente i “campioni” rappresentativi. Ma non è nemmeno questo il punto, addirittura. Occorre, alla fine, che il governo non possa essere sciolto da una serie di costrizioni parlamentari che riprendono il vecchio modello della guerra fredda, ma senza motivo alcuno. Per esempio, la questione militare, che è troppo “commissionata”. Oppure, la inevitabile longa manus dell’Esecutivo sulla Banca d’Italia, al di là di chiacchiere illuministe sull’autonomia, peraltro mai verificatesi nella realtà.

a) La durata del governo liberamente eletto deve essere davvero di cinque anni, con un meccanismo come la tedesca sfiducia costruttiva. Lo so bene che, in questo caso, si arriva rapidamente alla conta (o al mercato) delle vacche, ma questo è sempre l’applicazione di un vecchio detto di Voltaire, “un piccolo male per un grande bene”. Al governo devono arrivare tutte le decisioni essenziali della politica, dell’economia, della strategia globale, senza mediazioni inutili, poi esso deve trattarle, ma com grano salis, e solo quando occorre, in Parlamento. Basta con le mediazioni infinite tra commissioni, sottosegretari avversi, lobbies, apparati burocratici. Chi decide è solo il governo liberamente eletto, poi si vedrà.

b) La regolamentazione delle lobbies. 200 sono oggi le organizzazioni di interessi registrate in Parlamento dal 2017 a oggi, ma in Parlamento Europeo sono 11.882 con ben 7526 persone fisiche accreditate. Se un parlamentare non sa farsi una idea dei problemi da solo, allora vada a casa.
c) Quindi, regolamentazione durissima dei “rappresentanti di interessi”, ma anche una raccolta dei dati di prima mano che sia a disposizione di tutti i parlamentari. Certo, già Costantino Mortati riteneva che il Parlamento futuro fosse soprattutto “in Commissione”, dove si lavorano i particolari e si tralascia la retorica ufficiale, ma qui siamo arrivando a una vera e propria privatizzazione della rappresentanza politica eletta.
d) L’autonomia relativa dei corpi separati, che va sostenuta. Che saranno comandati solo dai vertici politici e non da una infinita mediazione parlamentar-partitica. Basta con la vecchia tradizione per la quale i Servizi di Sicurezza, per esempio, erano obbligati a eseguire gli ordini del Presidente del Consiglio, o alcuni gruppi del Consiglio di Stato per questa o quella corrente politica. Possibilità di interlocuzione, riserva di scelta al ministro o al presidente del Consiglio, responsabilità tecnica e anche politica (Mortati parlava di alta burocrazia come politica) delle burocrazie.

e) Espansione dei settori che davvero contano: Intelligence, controllo delle transazioni finanziarie, ordinamenti di pubblica sicurezza, Forze Armate, Ricerca & Sviluppo, politica tecnologica e di investimenti. Il resto va bene per i consorzi agrari, detto senza offesa per i Consorzi stessi.
f) Ogni scelta futura verso la stabilità del sistema politico italiano avrà a che fare soprattutto con l’ideologia europeista. Anche l’Italia, Paese fondatore, deve utilizzare l’UE à la carte, per quel che gli serve, e rendere tranquillamente inutile quello che non gli serve. Come fanno gli altri Paesi europei, peraltro.

g) La nostra naturale direzione strategica è disegnata dalla geografia: il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Maghreb, perfino certe aree dell’Estremo Oriente. Altro non v’è. Quindi, la nostra espansione commerciale, pacifica, in accordo non necessariamente ovvio con gli alleati Nato e Ue deve essere in queste zone, non nel Nord Europa dove, come diceva Napoleone per l’Europa dell’Est, “c’è troppo pieno”. Quindi, mano libera, nei limiti del possibile, in queste aree, ma anche capacità di spostare i limiti del possibile, quando occorra.

h) Una selezione diversa delle cariche pubbliche. Basta con il gioco degli sherpa che, dopo aver fatto i ghost writers, divengono burocrati, ma iniziare a creare burocrati tramite le normali filiere che tutti i Paesi moderni usano. Ovvero le grandi università, le Scuole di eccellenza, i Centri di Ricerca, i think tank di qualità. La porta girevole tra Pubblica amministrazione e professioni, alta cultura, burocrazia, scienza, deve funzionare stabilmente. Basta con questa sceneggiata russoviana e assolutista del Concorso pubblico, si inizi la chiamata ad personam di chi ha amplissimi titoli. La burocrazia, che va riformata ab initio, deve diventare il passaggio naturale, stabile o meno, delle migliori intelligenze del Paese. Quindi, molti posti senza lista di riferimento e indipendenti (lo fa già il mercato, con le società di recruiting) e, poi, una carriera possibile dentro o fuori lo Stato. Magari, tutto questo lo potrebbe fare la presidenza della Repubblica.

i) Basta con la “immonda anzianità”, come la chiamavano i Futuristi. Chi è bravo, verificabilmente bravo, va avanti, chi è solo vecchio rimane dove è. I meccanismi giuridici si possono fare in un attimo, basta volerlo.
j) Elezione dal basso del presidente della Repubblica, che deve avere un peso politico tale da obbligare parti del sistema politico a tacere, quando occorra.
k) Unica Camera. Ma le Regioni avranno, per i loro interessi, le varie strutture di settore che già operano benissimo. Le quali comunicheranno con la presidenza del Consiglio. Se riforma dello Stato dovrà essere, sarà certamente meno ossessivamente regionalista/localista della ormai pluridecennale tradizione politica post-guerra fredda, che credeva di risolvere tutti i busillis del sistema distruggendo lo “Stato centrale”, mostro puerilmente pericoloso. Una ingenuità davvero pericolosa. Il problema è la riforma dello Stato centrale, non la sua diluizione in piccole Patrie. La Svizzera è, infatti, esattamente il contrario: una federazione fortissima e centralizzata che devolve ai Cantoni solo quello che intralcerebbe la Grosse Politik di Berna.

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA

Caro Carlo,

rispondo al cortese intervento sul tuo blog del 6 marzo u.s..

In primo luogo quando scrivo nella mia recensione di “usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa)” mi riferivo al noto episodio dell’invito (rivolto se, ben ricordo, dalla Feltrinelli) a De Benoist, poi annullato per le “contestazioni” di insegnanti di sinistra, e non alla Tua recensione, dotta e ragionata, non come quelle dei contestatori “a prescindere”.

Quanto al resto, ritengo di essere da sempre un seguace del liberalismo “triste”, che a me piace chiamare “forte”: ossia quello che non dimentica né la realtà e la storia, né i presupposti del politico, cioè le regolarità, le leggi sociologiche che non solo Miglio ma, come puoi leggere dalla mia recensione, anche il giovane V. E. Orlando (nel 1881) riteneva ineluttabili, che (anche) il giurista non può accantonare.

E venendo ad Orban, Ti posso rimandare per un’analisi più dettagliata al mio articolo “Costituzione ungherese e Stato di diritto” pubblicato da “Italia e il mondo” nel gennaio 2019 e mesi dopo, col titolo: “Attacco alla costituzione ungherese” su stampa da Nova Historica, in cui analizzavo la risoluzione del parlamento UE per la procedura d’infrazione all’Ungheria per violazioni dello “Stato di diritto” (ecc. ecc.).

Da tale risoluzione risulta che lo Stato di diritto ungherese era messo in pericolo da:

  1. a) l’assenza nei sussidiari ungheresi di immagini di famiglie omosessuali (del tipo Tognazzi e Serrault nel “Vizietto”).
  2. b) Dal fatto che i vigili urbani di un paese ungherese elevavano troppe contravvenzioni ai rom.
  3. c) Dal fatto che la Corte EDU avesse condannato l’Ungheria per la brutalità della polizia nel respingere i migranti.
  4. d) Dall’abolizione del ricorso diretto alla Corte Costituzionale (mentre nel ventennio circa – dopo il crollo del comunismo –era stato in vigore). Ma anche in Italia ai cittadini non è dato adire direttamente la Corte Costituzionale (come avviene per il TAR, p.es.) e all’UE nessuno ne mena scandalo; come neppure del fatto che l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU per la brutalità nella repressione e le torture poliziesche a Genova nel 2001 (e perché non aprono la procedura d’infrazione?). Peraltro, non è stato notato che la Costituzione ungherese prevede oltre a quelle “classiche” un’istituzione di garanzia che manca in quella italiana: il difensore civico.

Penso che risoluzioni come questa non colgono l’obiettivo esternato, ma servono più che altro alla guerra (psicologica) delle elite decadenti.

Più meritatamente una procedura d’infrazione spetterebbe all’Italia della Seconda Repubblica che, tante volte sanzionata dalle Corti europee (sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia) ha poco o punto cambiato l’abitudine di conculcare i diritti, anche quelli più elementari, dei cittadini.

Per questi, e altri fatti e i correlativi comportamenti strabici della UE mi chiedevo se quello che dispiaceva tanto della Costituzione Ungherese fosse invece che, nella stessa, era ben chiaro e solennemente affermato la centralità del popolo e ancor più la continuità storica della comunità nazionale, a partire da Santo Stefano d’Ungheria.

Dichiarazioni che, specie la seconda, difficilmente si trovano in documenti analoghi, ma sono nient’altro che l’enunciazione di un fatto: che l’esistenza di una comunità è il presupposto dello Stato, anche quello “borghese di diritto”. Spesso attualmente dimenticato. E che, aimè, contribuisce a spoliticizzare ed emasculare il liberalismo. È esatta, a mio avviso, la critica di Schmitt che questo non fonda un potere, ma lo limita; per cui il liberalismo forte è quello che riconosce il nemico nell’oppressore delle libertà (politica, in primo luogo) e delle garanzie di queste. Ma se il nemico dei liberali non è più chi conculca la libertà ma diventa chi difende la famiglia tradizionale, i rapporti comunitari e la comunità, ciò non significa altro se de-politicizzare il liberalismo (chi difenderà la libertà politica, se neppure i liberali lo fanno?), e, ancor più, compiere l’errore più grave in politica: quello di identificare il nemico sbagliato. Quanto alla mafiosità di Orlando ritengo che la Sicilia abbia dato alla cultura tre dei maggiori esponenti del diritto e della scienza politica a cavallo del XIX e XX secolo: Gaetano Mosca, V.E. Orlando e Santi Romano. Sono orgoglioso che fossero italiani e non mi interessa cosa nelle loro azioni o scritti può essere valutato prossimo all’ “onorata società” (anche qualche affermazione di Santi Romano è imputata di “mafiosità”).

Ricambio i saluti, con immutata stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

In calce il testo di riferimento di Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/03/storie-di-liberalismo-e-di-amicizia-una.html?spref=fb&fbclid=IwAR2_qadultF2O4tJ9h5qt8k31lOLjqJpJIIM0Vr3sl4l_LAyEP-vbt8AbNg

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’, di Alessandro Visalli

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’.

Scrive in un passo giustamente famoso Antonio Gramsci: “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[1].

Quando, scrive ancora, gli Stati più avanzati, nei quali “la società civile è diventata una struttura molto complessa e resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)”, allora si può porre questa precisa analogia: “le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco di artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.” E prosegue, “si tratta dunque di studiare con ‘profondità’ quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione”[2].

Ma, dunque, se così formidabili sono le difese, che vanno studiate “in profondità”, quando va combattuta contro di esse una “guerra di movimento” (il cui prototipo è la rivoluzione d’ottobre del 1917) e quando una “guerra di posizione”? E questa non è l’unica possibile in occidente, come scrive Ilici, citato da Gramsci[3]?

Ma, ancora, si può scegliere? Risponde che “la verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante del nemico”, questa (di posizione) può essere imposta dai rapporti generali delle forze in campo. Rapporti generali significa “tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato”.

Presumere dunque, come attribuisce alla Rosa Luxemburg, che l’esistenza di una crisi economica, di per sé, provochi le condizioni della “guerra di manovra” (o “di movimento”) è, per Gramsci, effetto di una rigidità ideologica, di ferreo determinismo ideologico. Significa immaginare, cioè, che la semplice volontà, o il corso indefettibile della struttura, possa di per se stesso: “1) aprire un varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”[4].

Le strutture, dunque, o le crisi (l’artiglieria nella metafora di Gramsci) non contano? O, in altre parole, come avviene che da esse nasce effettivamente il movimento storico? Nasce dalla forza materiale e dalla credenza popolare, o dalla ideologia? In effetti forze materiali e ideologia, sono sempre e necessariamente contenuto e forma del “blocco storico” che può rendersi protagonista del cambiamento, perché “le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero sghiribizzi individuali senza le forze materiali”.

In “Contenitori dell’ira e contenitori di potere[5], tentavo di fissare queste distinzioni all’opera nella coppia del “Momento Polanyi” (determinato da una crisi che è molto più che meramente economica e che è la faccia visibile di una fase di caos sistemico e perdita di egemonia) e del “Momento populista”, che ne è la forma politica (o ideologica, se si preferisce).

Riassumiamo: i sistemi di ordine egemonici, ed imperiali, della modernità contemporanea (grosso modo la fase che sussegue al terzo quarto del secolo scorso) sono definitivamente entrati in una fase di ‘caos sistemico’. La fase terminare della finanziarizzazione e della globalizzazione, sulla quale ci affacciamo, ne è immagine e manifestazione. L’Europa è uno dei baricentri di questo caos.

Nel quadro di un “Momento Polanyi”, che si distende su tutti i decenni del nuovo millennio, la rivolta del sociale alle costrizioni disgreganti dell’economico trionfante, abbiamo assistito nel decennio trascorso ad un ciclo breve “populista”. Una forma politica che si è nutrita, mimeticamente e senza riuscire a determinare né egemonia, né nuovo blocco storico, del veleno che ha condotto entro il “Momento Polanyi”.

Questo ciclo è terminato perché, nella sua debolezza, non è riuscito a compiere i tre passi indicati da Rosa Luxemburg ed è stato riassorbito. E’ stato riassorbito in tutte le sue varianti.

Ha avuto dei meriti, parzialmente ha compiuto la fase 1) dello schema (ha aperto un varco), rompendo per un poco lo schema destra/sinistra polarizzato al centro. Ma ha fallito in 2) organizzare le proprie truppe e formare quadri e soprattutto 3) “creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”. E lo ha fatto proprio perché si è limitato a trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di concentrazione ideologica[6].

Ha creato alla fine solo “contenitori dell’ira”, che si limitavano a raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta[7] e la sua attitudine alla “sorveglianza”[8]. Inoltre, facevano leva sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali (le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo individualismo ne sono stati la cifra.

Il riassorbimento ha sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi potere, e ha ampliato la tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata alla cosa.

Insomma, gli assaliti non si sono demoralizzati e non hanno perso fiducia nelle proprie forze, e la robusta catena di fortezze e casamatte ha retto.

Ciò vuol dire che bisogna arrendersi? Direi tutt’altro.

Occorre ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”.

Nelle “Notarelle sul Machiavelli[9], è contenuta una netta opposizione che parla ancora al presente:

  • tra l’azione collettiva messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta”);
  • e l’azione storico politica che si manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.

La prima strada, in altre parole, è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova, e di un nuovo “senso comune”, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare[10] una direzione politica originale ed organica.

La seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso comune che è già in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.

Ne abbiamo avuto una notevolissima dimostrazione con i movimenti apparentemente rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del secondo decennio del secolo in corso. Movimenti “di tipo boulangista” nel suo linguaggio[11].

Un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo Stato.

Non ci sono dunque due strade possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è accaduto ed evitare, accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi sempre nello stesso circolo in forma di volta in volta minore. Non limitarsi a produrre sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva strategica.

Ma, soprattutto, se non si può scegliere che tipo di guerra combattere, bisogna continuare a stare sul campo, politici, materiali e populisti ad un tempo, dicevo. Non fare think thank, ma “guerra di posizione”[12].

 

[1] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60 bis.
[2] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[3] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60.
[4] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[5] – “Dai ‘contenitori dell’ira’ ai ‘contenitori di potere’”.
[6] – Nel febbraio 2014, al momento dell’esplosione del fenomeno del Movimento 5 Stelle, con simpatia del resto immutata nel tempo, scrissi che il Movimento aveva trovato, quasi per caso, assorbendo l’umore del paese, una sua posizione. E continuavo: “Ma questo non è preciso, ciò che viene assorbito e condensato è l’umore, il linguaggio, i lemmi, gli enunciati, i blocchi emotivi di un nuovo popolo che si sta separando nel paese. Che si incrocia nei bar, nelle strade, nei negozi dietro i banconi, negli uffici spesso cambiati, a spasso nei giardini, di fronte ad una partita di calcio o nelle sue curve. Un popolo certamente arrabbiato, vittimizzato, stanco di sentirsi inutile, sprecato, rigettato, isolato e capace di riconoscersi. Questo “popolo” ha costruito se stesso intorno a un’identificazione negativa; “non”, per differenza dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro.” E, ancora: “Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile, pericolosa. Intendiamoci, anche io sotto alcuni profili la considero tale. Alcuni dei “materiali” di montaggio mi appaiono “nemici”. E li combatterò. Ma non si capisce nulla se non si vede che in questo c’è del nuovo. Si rischia di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese. Di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia. Dato che un’aristocrazia schiavista ed imperialista resta tale, anche quando ha come nemico Napoleone, io vorrei restare in equilibrio. Allora tornerei qui, Grillo non costruisce il suo movimento, lo trova a tentoni e per tentativi. Si tratta della storia di una co-evoluzione”.“una sorta di “spugna”. L’elemento più costante, in essa è morale. Anzi moralistico. E’ uno schema noi-loro che proietta nel nemico di turno ogni bruttura ed ogni colpa, lo fa responsabile del dolore e dell’insuccesso, del fallimento. Lo rende balsamo delle ferite.” Concludendo: “Ciò che gonfia le vele è la capacità di non avere forma e di prendere tutte le forme, contemporaneamente. E’ la tecnica dello spettacolo. E’ la società che in esso si rispecchia e il nuovo popolo che si muove dentro questi <frame>.” Si veda, “Grillo e Casaleggio. Trovare la forma”.
[7] – Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, 2003
[8] – Si legga Pierre Rosanvallon, “La politica nell’era della sfiducia”,
[9] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10
[10] – Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[11] – Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
[12] – Che definivo così: “non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
Inchiesta, mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento, militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di posizione”, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque”.

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