Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3)
Le due Guerre Mondiali hanno archiviato definitivamente il “nazionalismo” tardo ottocentesco. Gli europei sono riusciti a procurarsi 88 milioni di morti ammazzati nell’assurda gara per stabilire la loro nazione “alpha”.
88 milioni di morti per non risolvere nulla e consegnare il presunto scettro degli “alpha” (perché “presunto” lo vedremo più avanti), fino a quel momento da loro posseduto, agli USA e ai sovietici…
I nazisti hanno fondato le loro dottrine nazionalistiche sul primato della loro razza “superiore”, ma nel bunker di Berlino il loro führer si troverà a dover amaramente constatare che questa “superiorità” non si è davvero dimostrata.
Mussolini e il re italiano, mai stati razzisti ma divenuti razzisti per “Realpolitik” nazionalistica, impareranno amaramente che l’approssimazione, il velleitarismo e il cinismo non sono risultati premianti. Nel ’41 hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America nella convinzione che quel paese non sarebbe stato in grado di trasformare la propria industria civile in industria bellica: nel solo mese di aprile del 1945 gli USA fabbricheranno tanti aerei militari quanto l’Italia in tutto il periodo compreso tra il 1941 e il 1945…
La mitologia “nazionalista”, ovvero la gara europea per stabilire il “Volkgeist” più duro e puro, costato 88 milioni di morti, è dunque stata definitivamente archiviata nel 1945.
Analoga archiviazione per la mitologia positivista “razziale” che, va ricordato, non fu una sola prerogativa del nazifascismo, ma trovò fervente accoglienza fino agli anni ’50 almeno in una parte del partito democratico statunitense, ossia nel partito di Clinton, Obama e Biden, con le leggi di Jim Crow propugnate, emanate e applicate nel Sud degli Stati Uniti proprio dal partito democratico.
Gli studi di genetica hanno ampiamente dimostrato l’infondatezza dell’esistenza delle “razze” umane di cui non era per niente convinto, già nel XIX secolo, lo stesso Charles Darwin.
Sulle cause che hanno reso negli ultimi tre secoli gli europei all’avanguardia mondiale nelle scoperte scientifiche, tecniche e nell’organizzazione sociale del lavoro, vi è un godibilissimo e chiaro saggio dell’antropologo statunitense James Diamond che consiglio vivamente a tutti: “Armi, acciaio e malattie”. Vi consiglio vivamente di leggerlo…
Dalle ceneri dell’Europa 1945 escono sostanzialmente fuori due vincitori: gli Stati Uniti, propugnatori della mitologia “liberale”, e l’URSS che propugna invece la mitologia “comunista”.
La storia la conosciamo tutti. L’URSS è imploso nel 1989, al suo posto c’è oggi la Russia del nuovo zar Putin. È implosa anche una successiva superpotenza, la Cina di Mao ossia quella della Rivoluzione culturale. La Cina sorta da quelle ceneri, la Cina non ancora ‘imperiale’ di Hua Guofeng e Deng Xiaoping è già assolutamente diversa.
Da queste due implosioni del comunismo emerge un dato sconcertante. Nonostante la rigida economia comunista e pianificata e l’indottrinamento capillare per circa tre generazioni, questi due immensi paesi non hanno partorito nemmeno un singolo “uomo nuovo”, con una coscienza diversa dal denaro, potere e filosofia dell’apparire. Nemmeno uno straccio di “uomo nuovo” che potesse, pure nell’implosione, rilanciare la rivoluzione e la coscienza proletaria. E già solo questo fatto denuncia la grave fragilità antropologica di quella ideologia. Da archiviare nella pattumiera come quelle precedenti: decine e decine di milioni di morti per non concludere nulla. Niente, solo souvenir per tardi e frustrati romantici di Che Guevara.
Gli Stati Uniti? Gli Stati Uniti per come li conoscevamo alla fine della guerra sono definitivamente implosi anche loro, nonostante il vano tentativo di restaurazione operato da Donald Trump.
Gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del secondo Dopoguerra sono coerenti con gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del primo Dopoguerra ma vi è una profonda cesura tra questi, richiamati dall’ultimo presidente repubblicano, e i nuovi Stati Uniti della mitologia “neoliberale” di Biden, già anticipati dai Clinton e da Obama.
Non sto parlando a livello geopolitico ma solo di storia delle idee. È quello che mi preme. E i due piani (geopolitico e di storia delle idee) non andrebbero mai confusi, e questo per buone ragioni. Ma li confondono quasi tutti.
Nel frattempo, dopo questa rapida ricostruzione delle origini delle idee in circolazione e prima di arrivare nel dettaglio al caso italiano ed europeo, passando per quello statunitense, invito ciascuno di noi intanto a domandarsi dove ci si intende collocare.
Siamo “imperiali”, “sovranazionali” o “internazionali/universali”? Beh… le dottrine e i valori dell’antica Roma, del cristianesimo, del Sacro Romano Impero, dell’aristocrazia europea fino al XVIII secolo, del comunismo e del pensiero neoliberale si muovono lungo quell’asse, anche se ne predicano diversi tipi.
Oppure ci si riconosce come nazionali o nazionalisti, come ad esempio i massoni del XIX secolo o i fascisti del XX secolo, e poi questo sul piano regionale, italiano o europeo?
Ecco che, sempre con valori diversi, oggi il supermercato delle idee ci propone di acquistare i nostri prodotti ideologici preferiti misurati secondo i nostri gusti.
Oggi possiamo acquistare davvero gelati identitari “tutti i gusti” persino abbinandoli: abbiamo comunisti sovranisti, nazionalisti sovranisti, neoliberali con visione europeista ma anche internazionalista, ci sono poi i nazionalisti europeisti, i comunisti internazionalisti, cristiani sovranisti ma anche internazionalisti o europeisti o regionalisti, etc.etc. Diciamo che nessuno ha più l’esclusiva, e anche i partiti possono facilmente cambiare idea a seconda della bisogna o del momento. E lo fanno e lo faranno, fin troppo frequentemente…
Ognuno cerca le sue identità, anche a seconda della moda, della confusione o della convenienza.
Ma c’è un fatto che molti dimenticano, e lo fanno in modo imperdonabile: i desideri, anche quelli identitari, possono essere infiniti, ma le risorse no, le risorse non sono infinite, per la semplice ragione che il nostro pianeta non è infinito e la nostra vita, almeno su questo pianeta, nemmeno.
E ci sono temi davvero cogenti che nessuno ha ancora sollevato se non nei ristretti ambiti accademici, lì dove nascono le idee che poi nutriranno tutte le lobby e tutte le tifoserie con le loro mitologie spesso mal comprese, di qualsivoglia colore o sua sfumatura.

 

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (2)
Abbiamo dimostrato che il moderno concetto di “nazione” nasce in un contesto filosofico massone, in opposizione all’idea imperiale e religiosa “sovranazionale”.
Ma torniamo ai Romani, quindi a Roma che la tradizione vuole fondata da vari esuli di altre città italiche, ma non è questo il tema fondante. Il tema fondante di Roma sono le nozioni di “imperator” (che non è l’imperatore, sorta di supremo re per come è indottamente e comunemente conosciuto) e di “augus”. Nozioni molto importanti per capire cosa “muove” l’antica Roma.
Imperator: è così indicato colui che dopo l’”inauguratio” è ricolmo di “augus” (per intenderci l’”ojas” indoiranico) ossia è in grado di raccogliere, determinare e confermare la “maiestas” che il dio Iupiter ha consegnato a Romulus, fondatore della città, per uno scopo: la conquista delle altre città (e del mondo intero) affinché entrino nello spazio “sacro” del re degli dèi.
Il compito di Roma non può che essere ‘imperiale’, come quello dell’impero cinese o persiano o kuṣāṇa o mongolo.
Si parte da un uomo o da una comunità investita da un compito sacro: quello di conquistare il mondo perché tutti gli uomini si sottomettano ai dettami e dell’imperatore investito dal re degli dèi o dal principio del Dharma, ricevendo in cambio la protezione affinché ognuno possa realizzare compiutamente il suo destino e comprenderne i significati ultimi.
La cittadinanza romana viene quindi via via elargita a tutti coloro, anche appartenenti a ‘nazioni’ diverse, che mostrano di essere in grado di condividere, difendere e diffondere il “mōs maiōrum” che poi è il riverbero del principio sacro della stessa “maiestas”. I cristiani con il loro Sacro Romano Impero si muoveranno nella stessa identica logica in qualità di “populus dei” guidati dal loro pastore e pontefice e con un nuovo “imperator”, a volte sì a volte no a lui sottomesso.
Vero che i Romani, come i Greci prima di loro, dividono il mondo tra loro e i “barbari”. Ma questa divisione non inerisce al “sangue”, all’eredità, ma alla capacità di dominare la “cultura” e la “lingua” (ossia il “mōs maiōrum” di riferimento). D’altronde anche i cristiani additeranno i non-cristiani come “nationes”.
Per quanto riguardai miei studi, le uniche tradizioni che fanno riferimento in qualche modo alla stretta eredità famigliare, o di casta, o di sangue, sono quella vedica (con particolare riguardo a quella ancora odierna dei Nambūṭiri del Kerala), quella giudaica (ma solo dopo la riforma esdrina), quella zoroastriana (ma solo quella dei Parsi del Gujarat). Sui Germani è più impegnativo collocarli correttamente, a parte le prime tradizioni longobarde attestate che risultano invece ben evidenti.
Tornando alla Grecia, ad Atene, Zenone di Cizio, di origini fenicie, fondava nel IV secolo a.C. la Stoa dove predicava il primo cosmopolitismo: il cosmo è l’unica patria di tutti gli uomini resi comuni nella loro capacità di pensare, trovando secoli dopo in un imperatore romano, Marco Aurelio, un fervente seguace.
Ma questo solo a veloce titolo esemplificativo. E sempre solo a veloce titolo esemplificativo, ancora secoli dopo un altro fenicio di cultura greca, Porfirio, si scaglierà contro il cristianesimo considerato una “superstitio”, o meglio, un concorrente nell’ideologia imperiale romana.
Quindi i moderni filosofi, massoni, propugnatori della nozione moderna di “nazione” si scontreranno, e non solo culturalmente, con gli eredi della idea imperiale e delle aristocrazie sovranazionali, variamente declinate nei secoli…
Ancora nella modernità, interessante, come al solito, il contributo di Giuseppe Mazzini che indirizza il concetto di “nazione” non sugli abitanti di un territorio preciso ma lo lega a un nuovo termine, quello di “patria”, a sua volta non dipendente dal territorio ma dal sentimento di condivisione tra le genti. Mazzini non era un massone, quanto piuttosto e probabilmente un “carbonaro”, quindi appartenente a un’organizzazione clandestina abbastanza simile alla prima ma di origini diverse, o se si preferisce “eretiche”.
Ecco in arrivo il “nazionalismo”, che però è cosa diversa dai moti nazionali dei nostri intellettuali, più o meno rivoluzionari, sopracitati. È la sua radicalizzazione.
Dapprima il “nazionalismo” si fonda su un diffuso vissuto di “Realpolitik”, poi declina in una vera e propria ideologia. Detto con l’accetta esso parte da intellettuali tardoromantici tedeschi con una imprecisa nozione di “Volkgeist” (nozione già utilizzata dallo Hegel!) per individuare una sorta di spirito “nazionale” che rende la nazione come un ricettacolo che sovrasta i suoi componenti indicandone il destino spesso individuato come “eletto” o “suprematista”.
Gli intellettuali che in qualche modo predicano questo indirizzo sono diversi, tra tutti spicca, quantomeno per spessore culturale e per ruolo politico, il tedesco Heinrich von Treitschke.
Nel mentre sul finire del XIX secolo il tedesco von Treitschke diffonde le sue dottrine, il francese Arthur de Gobineau diffonde le sue, raccolte nel “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”.
De Gobineau predica la razza come il vero fondamento di una nazione. La razza ne decide anche il destino, se la razza si mischia con altre razze, quella nazione sarà destinata al declino. Va da sé che la “razza” più importante e ‘forte’ è quella “bianca”. Ma De Gobineau non inventa nulla, prima di lui altri autori si erano dilettati a descrivere le razze umane, tra tutti il tedesco Johann Friedrich Blumenbach.
Ma il periodo di De Gobineau e di von Treitschke è anche il periodo delle ricerche degli inglesi Herbert Spencer, propugnatore del darwinismo sociale, e di Houston Stewart Chamberlain devoto allievo di De Gobineau (grazie a Cosima Wagner).
La zuppa positivista e ancora liberale incontra il nazionalismo e il piatto è ora pronto per le varie dottrine naziste e fasciste (non sempre omogenee).
Ma la correlazione tra personalità, intelligenza e segno somatico non è proprio solo dei positivisti (eredi dell’Illuminismo) e dei successivi nazisti. Cesare Lombroso ed Enrico Ferri erano infatti convintamente socialisti…
Riassumendo nei primi dell’800 va in voga tra gli intellettuali massoni e romantici la critica all’idea sovranazionale delle aristocrazie europee e all’universalismo cattolico, che fonda l’idea di “nazione”.
Verso la fine dell’800 tale idea si nutre delle nozioni positiviste della “razza” e romantiche della “Volkgeist” fondando dapprima le diverse forma di “nazionalismo”, infine dei movimenti fascisti europei. I quali, sul finire della guerra, individueranno nell’Europa unita l’unica vera nazione. Così l’intellettuale fascista francese Pierre Drieu La Rochelle: «La race des Aryens retrouve son union/Et reconnait son dieu à l’encolure forte./Trois cents millions d’Humains chantent dans un seul camp./Un seul drapeau rouge à la cime des Alpes./Voici les temps sacrés remontant des enfers»…
Oggi gli eredi del nazionalismo radicale sono al contempo anche eredi dell’idea imperiale di Roma o del cosmopolita Federico II di Svevia, sono nazionalisti italiani antieuropei ma predicano il verbo europeista di intellettuali quali Drieu La Rochelle. Poche idee mal studiate e molto confuse… un po’ come la storia della vaccinazione obbligatoria criticata con motivazioni neoliberali… ma sempre tanto entusiasmo….
2 –segue, senz’altro-
NB_tratto da facebook

 

Quale razionalità? La pandemia e la filosofia, di Vincenzo Costa

Quale razionalità? La pandemia e la filosofia
La pandemia ha indotto molti filosofi, più importanti e meno importanti, a prendere posizione. Ma temo che la discussione sia divenuta l’occasione per una sorta di regolamento di conti. In questo regolamento di conti si sono sviluppate critiche che trovo mancare il bersaglio, del tutto campate in aria, in cui ci si inventa la posizione dell’altro, si operano ricostruzioni improbabili.
Io credo vi siano due posizioni da rifiutare: la prima è quella di Agamben, che non va confusa con quella di Cacciari, molto diversa. La seconda è quella del coro del “bisogna fidarsi della scienza”, un coro che oramai identifica la razionalità tout court con la fede nella scienza (da non confondere con la scienza, poiché la scienza è un’impresa razionale, mentre l’appello alla fede nella scienza è caratteristico dell’irrazionalismo di certe correnti filosofiche che si considerano custodi della razionalità).
Vorrei brevemente argomentare in tre passaggi:
1) Critica della posizione di Agamben
2) Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
3) Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
1. Critica della posizione di Agamben
Io non sono un esperto di Agamben, e su questo non sono del tutto sicuro di cogliere nel segno. Tuttavia, a me pare che, dal punto di vista filosofico, alla base dell’impostazione assunta da Agamben vi sia un concetto ben preciso, che merita di essere contestato. Alla sua base, non vi è Heidegger né tantomeno Hegel, come pure è stato detto. In Heidegger e Hegel vi sono tanti pericoli, passaggi da sorvegliare e di cui diffidare, ma questi vanno in direzione opposta a quella che si è voluta imputare a questi filosofi. Il pericolo che si annida in Heidegger e Hegel non è il libertarismo, ma la dissoluzione dell’individuo nello spirito oggettivo (nello Stato per dirla in maniera imprecisa ma chiara) o nell’epoca. Ricordo l’invito di Heidegger a decidersi per la propria generazione, per il destino. Ricordo le lezioni del 1934 sul Volk, sulla sua preminenza. Heidegger e Hegel non c’entrano niente. Poi ovviamente ci si può confrontare in maniera più specifica e questa cosa non la temo di certo. Testi alla mano.
Alla base delle posizioni di Agamben vi è invece, mi pare, il concetto foulcaultiano di “dispositivo disciplinare”, così come viene elaborato in Sorvegliare e punire e poi, secondo me con più chiarezza, ne Il potere psichiatrico:
«Nel sistema disciplinare non si è, secondo le circostanze, a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno o, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemernte osservati»,
dice Foucault. Il problema è che questo si estende a tutto: alla disciplina scolastica, sanitaria, manicomiale etc. Tutto diventa un dispositivo disciplinare. Tutto diventa “dispositivo di potere”, che mira a controllare i corpi, il tempo etc. A questo punto il potere è dappertutto, non esistono più questioni di razionalità, perché la razionalità stessa diventa un sistema disciplinare. E la mia critica è, molto semplicemente e rozzamente: che cosa NON è un dispositivo disciplinare?
Perché la formazione, l’alfabetizzazione, la crescita culturale del popolo invece di essere strumento di progresso diviene a questo punto “dispositivo disciplinare”.
Per la verità, Foucault, soprattutto l’ultimo Foucault che civetta con Habermas, è molto ironico, Chiarisce di non essere così matto da voler abolire l’istituzione scolastica. Ma semplicemente che bisogna avere coscienza del suo potenziale di “dispositivo disciplinare”.
Questo tema dilaga invece in Agamben, dove tutto è dispositivo disciplinare, e pare che Nancy abbia raccontato che Agamben gli avesse raccomandato di non farsi operare al cuore. Ovviamente Nancy sarebbe morto. Ovunque Agamben vede dispositivi disciplinari, e così si priva della possibilità di distinguere cose diverse, cioè tutela della salute da dittatura sanitaria, e chiaramente il lockdown prima e il vaccino dopo verranno visti come dispositivi disciplinari, per cosi dire a priori.
Questa dunque la radice, credo, e detto alla buona, mentre non c’entra niente Heidegger, Hegel, o Derrida, che peraltro attacca in maniera feroce Agamben ne La bestia e il sovrano. E solitamente Derrida è delicato nelle critiche.
Posizione del tutto diversa quella di Cacciari, autore con altra base culturale, più preoccupato del funzionamento della legge, di quello che può succedere quando questa viene meno e si sviluppa l’eccesso, la tracotanza. Tema che non trascurerei, poiché di tracotanza (e spocchia) se ne vede molta in giro.
Ecco, di questa idea di dispositivo disciplinare bisogna liberarsi, perché effettivamente impedisce di confrontarsi con la scienza, che ovviamente viene immediatamente ricondotta a dispositivo di manipolazione e controllo, mentre la scienza è anche e soprattutto uno strumento adattivo per sovravvivere in un ambiente che cambia.
2. Critica della fede nella scienza e messa in luce del suo carattere irrazionalistico
La pandemia poteva essere una grande occasione per sviluppare la divulgazione scientifica e la crescita culturale del paese. Ci si poteva immaginare programmi televisivi che spiegassero la differenza tra un virus e un batterio, un virus a dna e a rna, che cosa è un rna, come funziona un dna, quali parti codificano e quali no. Ci si poteva aspettare che fosse un’occasione per avvicinare a scuola gli studenti alla scienza, a partire da un’urgenza. Niente di tutto questo. Tutto si è risolto in una sfilata di cialtroni che hanno sbagliato tutto dall’inizio alla fine: il virus è una semplice influenza, poi lo stesso competente: “non uscite di casa che morite”. Poi: la comunità scientifica assicura, con evidenze assolute, che il virus è naturale, lo mostra la sequenziazione. Ora, la stessa comunità scientifica ci dice: “certamente uscito da un laboratorio”. Come ci si può fidare? Chiaro che emergono problemi di legittimazione del sapere.
Ora il complottismo è una brutta bestia, ma bisogna farne di strada per diventare così coglioni da considerare la scienza del tutto priva di rapporto con il potere e con il profitto. Bisogna seppellire almeno un secolo di ricerca scientifica sociologica, mandare in soffitta Habermas, la sociologica dalla conoscenza, il nesso tra conoscenza e interesse. Tutte analisi fallibili, per carità, ma che ci hanno insegnato uno spirito critico verso la scienza. Spirito critico che non rifiuta la scienza, ma anzi la protegge e ne tutela la legittimazione.
Poi, si continua a dire: bisogna fidarsi dei competenti, solo loro devono parlare. Dunque, solo i medici (e quali medici) decidono per il mio corpo e la mia salute, mentre io sono espropriato da ogni decisione che riguarda proprio il mio corpo e la mia salute. Solo i competenti decidono le scelte di politica economica, perché la ggggente non capisce niente. Che poi alla fine il competente è tal Marattin, che manco due lire gli affiderei.
Ma allora, se tutto deve essere deciso dai competenti, la democrazia a che cosa serve? Che cosa rimane della democrazia? Oltre che di calcio, c’è qualcosa di cui l’opinione pubblica può discutere? Che senso ha per voi la sfera pubblica e l’opinione pubblica, che si vede espropriata di ogni terreno di discussione?
Peraltro, esiste un’ampia letteratura, a partire da Max Weber sino allo Habermas della teoria dell’agire comunicativo, che ha ipotizzato che la scienza può indicarci quali mezzi usare per raggiungere un certo scopo. MA NON Può INDICARE QUALI SCOPI SIA DESIDERABILE PERSEGUIRE. Questo significa che accanto alla razionalità scientifica (strumentale, usando un vecchio linguaggio) vi è una razionalità comunicativa, che ha strutture e risorse razionali differenti.
Tutto questo viene spazzato via con un colpo di spugna dal detto: “fidati dei competenti”, “come osi parlare, lurido parvenu”? Viene spazzata via una discussione di secoli, che temo oramai si conosca poco, e con essa il concetto stesso di democrazia. Si passa, è stato opportunamente notato da un caro amico, alla tecnocrazia.
E tutto ciò indica anche una regressione del concetto stesso di liberalismo. Per un liberale come John Stuart Mill l’appello alla fede nella scienza sarebbe suonato come una bestemmia, e lo stesso per un’intera tradizione filosofica che pure ha costruito i pilastri della filosofia della scienza contemporanea. Mi chiedo che ne avrebbe detto Schlick, ucciso da un nazista se la mia memoria non mi tradisce. Emerge invece ora un liberalismo solidale con il totalitarismo, che niente ha a che fare con la tradizione liberale classica.
Al posto di una teoria critica, che sorvegli il discorso del potere (questo è Amartya Sen e Rawls, non Foucault), emerge ora una teoria critica del tutto solidale con i discorsi di potere. La nuova “teoria critica” (o critical Thinking) non mira a mettere in luce le contraddizione del sistema, i meccanismi di oppressione (e ce ne sono tanti), non sviluppa un discorso che smaschera il potere: sviluppa un discorso contro la ggggente, contro la loro ignoranza, per mostrare che chi si oppone, chi protesta, è a priori uno scemo, uno spostato, un terrapiattista, uno che a malapena sa dire sgrunt sgrunt. E a questo punto, davvero, contraddicendo me stesso (ma mica tanto), davvero questa teoria critica che mira a produrre la spirale del silenzio, la colpa, l’ammutolire del dissenso, è un dispositivo disciplinare. E’ il totalitarismo, e deve arretrare, perché gli italiani sono ancora capaci di difendere la loro libertà.
3. Proposta di un modo filosofico di affrontare le questioni del rischio, attraverso un uso libero di Ulrick Beck e del principio responsabilità di Jonas.
Ma su questo basta. Passiamo a una parte positiva, che trarrei non dai filosofi, ma da Ulrich Beck, in particolare dalla sua distinzione tra rischio e catastrofe. Qui voglio essere davvero breve, limitarmi a indicare un punto soltanto, ma sperando che Beck venga letto un poco di più:
“Rischio non è sinonimo di catastrofe. Rischio significa l’anticipazione della catastrofe. I rischi riguardano la possibilità di eventi e sviluppi futuri, rendono presente una condizione del mondo che non c’è ancora….. I rischi sono sempre eventi futuri che forse ci attendono, che ci minacciano”
L’anticipazione della catastrofe, nota Beck, “stimola a reinventare il politico”.
Beck pensa a molte cose. Qui potremmo piegare il suo ragionamento in maniera molto semplice: occorre un principio responsabilità, precauzione, un’anticipazione della catastrofe.
Nessuno può dire che cosa i vaccini produrranno tra 10 o 30 anni. Mettiamo che siano vaccinati 54 milioni di abitanti. Mettiamo che, con tutta probabilità, i vaccini siano innocui, non producano danni futuri. Tuttavia, può accadere che li producano. Anticipazione del rischio significa:
se (dico “se”) il 10% della popolazione sviluppasse problemi (cardiaci, tumori), quale sistema sanitario al mondo potrebbe essere in grado di gestire una cosa simile?
Che cosa significherebbe? Questa è l’anticipazione della catastrofe, questo è il principio responsabilità.
Chi si salverebbe? Chi verrebbe curato? E chi non lo sarebbe? Emerge un problema di classe, di differenze di ricchezza.
Mettiamo che il danno tocchi il 5% degli attuali adolescenti, con una malattia invalidante. Quale sistema sanitario e previdenziale potrebbe sostenere un costo simile? In che mondo ci troveremmo a vivere? Chi vivrebbe e chi morirebbe?
Abbiamo, nel caso questi problemi si presentassero, gli strumenti per gestire questa situazione?
Certo, ora vogliamo rischiare, perché il PIL deve salire, e questo ci serve per avere i finanziamenti europei, che sto iniziando a maledire. Si corre un rischio, va bene, corriamolo. Ma vogliamo almeno porci il problema di anticipare la catastrofe, anche se qualcuno è certo (nella sua razionalità) che non si verificherà?
E riempire di soldi (si vedano gli aumenti del costo dei vaccini) le case produttrici dei vaccini, che così saranno le uniche a poter fare ricerca, ci mette in condizioni di indipendenza o è un altro limite alla sovranità degli stati, e alle istituzioni democratiche. Che cosa prepara per il futuro questo spostamento di denaro pubblico?
Ecco, io penso che abbiamo bisogno di un altro tipo di razionalità rispetto a quella che si sta facendo strada. Quella che si sta facendo strada è solo un metodo di dissuasione, di emarginazione, per silenziare, ma che non ci aiuta minimamente a comprendere che cosa sta accadendo e come affrontarlo.
A questo punto credo di essermi inimicato provax e novax, continentali e analitici. Pazienza, a volte bisogna andare da soli, e può non essere spiacevole.

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (1)
Tanti termini controversi a partire dalla loro polisemia. Provo a fare veloce e sintetica chiarezza (una sorta di “Bignami”), visto che in giro c’è davvero tanta confusione e, soprattutto, una stupefacente ingenuità.
Incominciamo con “nazione”. Il lemma procede dal latino “natĭo –ōni”, derivando dalla radice “nāsci” (nascere).
Da notare invece che il termine “razza” non possiede alcuna radice latina. Provenendo sì da una lingua romanza (cfr. il francese medievale “haras”) che però la prende dal norreno (G. Contini, “Studi di Filologia Italiana” 17.1959, pp. 319-327) laddove indica solo un allevamento di cavalli (vedremo poi come evolverà il lemma e la sua nozione).
I romani utilizzano il termine “nazione” per indicare una comunità indigena che abita un dato territorio. Nella modernità per indicare questa nozione viene utilizzato anche il lemma “etnia” (dal greco “éthnos”: popolo, nazione).
Diversamente “popolo” (dal latino “pŏpŭlu-m”) va a indicare la stessa comunità di genti che però risulta organizzata, ossia sottoposta a un’autorità di governo. Per inciso il latino “pŏpŭlu-m” viene dall’antico umbro “poplo” (di origine indoeuropea) dove indica anche la parte posteriore del ginocchio. In antichità quella porzione del corpo umano era connessa alla generazione (da qui la relazione con il “nascere”) in quanto organo che consente la stazione eretta del corpo umano.
Nel Medioevo i significati di “nazione” e “popolo” si sovrappongono. Così nelle università medievali le comunità di studenti che provengono da diversi paesi vengono additate con il lemma di “nazione” (“natio hispanica”, “natio italica”, etc.).
Solo la modernità ha iniziato la riflessione sui concetti che questi termini intendevano, anche se in modo spesso sovrapposto e approssimativo.
Comunque a partire dal XVIII secolo il termine “nazione” inizia a indicare un’entità organizzata dal punto di vista politico, ossia giuridico-statuale.
È Johann Gottfried Herder (“Idee per la filosofia della storia dell’umanità”, 1784) il primo a individuarne le radici “culturali”; mentre Johann Gottlieb Fichte (“Discorsi alla nazione tedesca”, 1808) è il primo che ulteriormente indica nella comune lingua la vera radice “spirituale” di una nazione, andando così a proporsi come uno dei padri spirituali del successivo “nazionalismo”.
A margine, è curioso che Fichte uno dei padri, o se si preferisce nonni, del nazionalismo (e delle sue derive radicali), era al contempo il vero padre filosofico della massoneria così come la conosceremo nel XIX e XX secolo (cfr. i suoi fondamentali contributi alla rivista “Eleusinie del XIX secolo”, 1802 e 1803)…
Subito dopo, nel 1815, il nostro Gian Domenico Romagnosi (anche lui, come lo Herder e il Fichte, massone) va a delineare la “nazione” come una realtà naturale e storica (cfr. “Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa”).
Con Pasquale Stanislao Mancini (“La nazionalità come fonte del diritto delle genti”, 1851), che parla di “personalità nazionale” e lo Hegel (“Lezioni sulla filosofia della storia”, 1837) che vede nel “popolo” un “individuo spirituale”, un “tutto organico”, chiudiamo con i padri della nozione moderna di “nazione”. Questa nozione non esisteva prima, essendo, prima, puramente descrittiva, indicativa.
Da ora la “nazione” risulta essere quella comunità di persone che condividono una “lingua”, un’eredità storica, una comune “cultura”.
Che i padri del concetto di “nazione”, e quindi i nonni del successivo “nazionalismo”, siano tutti massoni (di Mancini e di Hegel non è attestato, ma fortemente sospettato) non deve stupire: la massoneria è nata nel XVIII secolo come una sorta di fratellanza tra “liberi” intellettuali (per lo più filosofi con interessi “ermetici” come era costume dell’epoca) che intendevano opporsi al dominio culturale, e politico, degli imperi e della aristocrazie “sovranazionali” e della chiesa cattolica “universale”… va da sé che la massoneria non poteva che promuovere proprio una visione opposta all’idea di governo “universale”, “imperiale” e “sovranazionale”, alimentando le successive “rivoluzioni nazionali”.
Incredibile vero? Ma il bello deve ancora venire…
NB_tratto da Facebook

 

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti, di Davide Gionco

Il mito di Cassandra e il disprezzo dei profeti

di Davide Gionco

Secondo il racconto di Omero (Iliade, Libro XIII) Cassandra era la più bella delle figlie di Priamo, re di Troia. Cassandra aveva ricevuto dal dio Apollo il dono della profezia, il dono di prevedere il futuro.  Una volta ricevuto il suo dono, Cassandra avrebbe rifiutato di concedersi a lui. Il dio, fuori di sé dalla rabbia, le avrebbe sputato sulle labbra, condannandola con questo a restare per sempre inascoltata dagli altri.

Cassandra veniva presa per pazza, per una iettatrice, dato che annunciava le disgrazie che sarebbero ricadute sulla città di Troia. Non veniva presa in considerazione, perché annunciava cose che nessuno voleva sentirsi dire.
Una volta la città di Troia fu conquistata e distrutta dagli Achei, Cassandra venne rapita dal re Agamennone e condotta come ostaggio a Micene. Anche lì profetizzò al re che ci sarebbe stata una congiura contro lui, ordita dalla sua stessa moglie Clitemnestra, ma neppure Agamennone volle credere ad una profezia così inaccettabile. Dopo che la congiura fu messa in atto dalla moglie, come preannunciato, insieme al re Agamennone, fu anche uccisa la stessa Cassandra.

Sapere che si va incontro ad un destino inaccettabile è qualcosa che può condurre alla disperazione, per questo il nostro inconscio preferisce respingere quelle informazioni. Siccome si tratta di fatti che devono ancora accadere, non certi, si preferisce credere che “speriamo che non succeda”. E si va avanti, avendo come unico sostegno la speranza di un futuro migliore che non ci fa paura.
Sigmund Freud spiegherebbe che si tratta di impulsi irrazionali, legati al nostro istinto di sopravvivenza, che ci porta nel subconscio a sfuggire mentalmente ciò che ci potrebbe fare soffrire o addirittura morire.

Il destino dei profeti di essere inascoltati e perseguitati è qualcosa di ricorrente nella Bibbia. Ad esempio il profeta Geremia annunciava al popolo che sarebbe stato invaso dai “Popoli del Nord” (i Babilonesi), se non si fosse convertito a Yahveh e non avesse cambiato vita.
Come era accaduto a Cassandra, anche Geremia fu preso per un “annunciatori di malauguri”, non fu ascoltato, fu odiato e disprezzato e fu messo nella fossa per farlo morire.

In tempi molto più recenti, fra il 1933 ed il 1939 il giornalista americano Frederick Birchall (1868-1955) scrisse come invitato del New York Times in Europa moltissimi articoli sull’ascesa di Hitler e del nazismo, mettendo in guardia i lettori ed i leader politici sull’estrema pericolosità del fenomeno. Ma non fu creduto e non fu ascoltato, perché scriveva cose “inaccettabili”, dato che nessuno poteva accettare l’idea che Hitler avrebbe fatto ciò che la storia ci racconta che poi fu fatto dai nazisti.

San Giovanni Bosco (1815-1888) faceva fare periodicamente ai suoi ragazzi gli “esercizi della buona morte”. Oggi la morte è il più grande tabù di cui non si può discutere. Eppure per San Giovanni Bosco il ricordare ai ragazzi che “ciascuno di noi deve morire, che potremmo morire anche questa notte” non era per fare dei malauguri, ma per aiutare i suoi ragazzi a vivere in modo responsabile il tempo che ci è concesso di vivere, dato che non siamo padroni del nostro futuro e che il nostro tempo certamente finirà.

I profeti non sono coloro che preannunciano, per preveggenza, un futuro inevitabile quello che gli antichi romani chiamavano “il fato”), ma sono coloro che sanno leggere meglio degli altri i segni dei tempi, comprendendo come le cose andranno a finire.
Il termine “profeta” deriva dall’antico greco
προϕτης, che è la caratteristica di colui che è cosciente, razionale, poiché discerne ogni cosa con il “ragionamento.
Il profeta, quindi, non è qualcuno che annuncia un destino senza scampo o che diffonde dei malauguri, ma è una persone che annuncia un futuro condizionato dalle nostre scelte, avendo la piena comprensione del presente ed avendo coscienza di come la situazione si potrà evolvere.

Ma la gente non ama cambiare le proprie abitudini, perché costa fatica ed impegno. La gente non ama mettere in discussione le proprie scelte, perché significherebbe ammettere che prima ci si era sbagliati ed affrontare tutte le conseguenze sociali e materiali del cambiamento di decisione.
Ancora più difficile è ammettere da essere stati ingannati da chi ci ha convinti a prendere una decisione che poi ci rendiamo conto essere stata sbagliata.
Un detto sapiente ci ricorda che “
l’orgoglio muore un quarto d’ora dopo di noi“. Piuttosto che cedere al nostro orgoglio, si preferisce mantenere la propria decisione, anche se il profeta ci dimostra che è sbagliata e che ci porterà a conseguenze a cui non vorremmo andare incontro.

La gente preferisce una bugia rassicurante alla scomoda verità del profeta. E lo fa al punto di arrivare a mettere a tacere il profeta in qualsiasi modo: censurandolo dal punto di vista mediatico, escludendolo dal punto di vista sociale o addirittura eliminandolo fisicamente.

Ovviamente nessuno di noi è “la gente”. Siamo persone in grado di compiere le nostre scelte, di prendere atto dei nostri errori, di capire se chi ci parla è un profeta oppure no.
Dipende da ciascuno di noi, se preferiamo conformarci al fare comune della gente preferendo evitare ogni sforzo mentale e psicologico o se preferiamo invece essere persone che non si fanno sovrastare dalla paura e dall’orgoglio. Se vogliamo avere il coraggio di metterci in discussione e di ascoltare i profeti che, da che mondo e mondo, non sono mai mancati. Basta avere occhi ed orecchi per riconoscerli.

Noterella a margine, di Roberto Buffagni

Noterella a margine del post pubblicato stamani da Andrea Zhok, intitolato “LA COERCIZIONE LIBERALE”, con il quale concordo.
Ho l’impressione che stiamo assistendo all’istituzione di una vera e propria teologia civile legittimante l’ordine sociale, fondata sullo scientismo positivista, in una stupefacente fotocopia del programma di Auguste Comte: «L’Amour pour principe et l’Ordre pour base; le Progrès pour but» (“Systéme de politique positive”, 1853). Da questa teologia civile legittimante su base scientista discendono le relative inclusioni ed esclusioni culturali e politiche, che parzialmente riassorbono e integrano le precedenti, fascismo/antifascismo, fondate su una interpretazione storica (secondo me errata) che designa i fascismi come antimoderni e reazionari, “René Guénon + le Panzerdivisionen”. La definizione dei fascismi come fenomeno antimoderno facilita, ovviamente, l’integrazione del vecchio sistema di esclusioni ed inclusioni nel nuovo, che si autodefinisce identificandosi tout court con la Modernità e il Progresso (niente è più moderno e progressista dello scientismo).
Ovviamente una società che si fondi su una teologia civile scientista non può essere democratica, perché non esiste né può esistere una popolazione in grado di accedere, in massa, alle conoscenze, per es. matematiche, e ai metodi che consentono anche solo di farsi un’idea delle pratiche delle scienze dei fenomeni. La vitalità di un regime democratico nell’effettualità storica ha bisogno di tante precondizioni, culturali e sociali, ma sul piano dei principi, la democrazia moderna ha assoluto bisogno di un accordo in merito alle seguenti asserzioni: a) tutti gli uomini sono eguali, nel senso che tutti possono, almeno virtualmente, partecipare a una discussione razionale in merito ai fini che la comunità deve perseguire, sebbene la discussione in merito ai mezzi da impiegare, e la loro implementazione, possa e debba essere riservata a una minoranza tecnicamente capace b) corollario di a: gli uomini sono, almeno virtualmente, persuadibili per via razionale, ossia, tutti gli uomini partecipano, almeno virtualmente, a una medesima Ragione che scrivo con la maiuscola perché NON coincide con il solo intelletto astratto, e alla quale si può accedere per via filosofica, artistica, religiosa, sapienziale. Questo è il minimo comun denominatore umanistico sul quale hanno trovato accordo politico culture assai diverse come la cristiana, la liberale classica, la socialista.
Ora, la scienza dei fenomeni NON è in grado di fornire la minima indicazione in merito ai fini (perché viviamo, come dobbiamo vivere, che dobbiamo farne dei ritrovati della scienza, etc.). Di questo fatto nudo e crudo Comte si rese conto in un momento molto difficile della sua vita personale, ed è per questo che si inventò di sana pianta (con un po’ di copiancolla da Condorcet e Turgot) il suo demenziale progetto di “Religione dell’Umanità”, con tanto di Chiesa e Catechismo positivista, Consiglio degli Scienziati, etc. invitando per lettera il Padre Generale dei Gesuiti a collaborarvi (allora non ebbe risposta, ai suoi imitatori odierni andrà molto meglio). Non so se gli attuali powers that be si siano accorti di stare copiando il progetto di Comte, fatto sta che lo copiano perché sono andati a sbattere contro il problema che indusse il vecchio Comte a inventarselo, e che all’epoca non esisteva (ancora).
Ossia, il problema di governare una società composta da persone che, in larghissima maggioranza, hanno introiettato il senso comune relativista che logicamente discende dallo scientismo e dal liberalismo. Il senso comune relativista, in parole povere ma chiare, dice che la mia opinione vale la tua, e che è impossibile giungere, per mezzo della discussione razionale, a stabilire che una affermazione sia vera e un’altra falsa: “vera” o “falsa” non solo sul piano empirico, ossia corretta o errata (per es. perché i dati su cui basiamo l’argomento sono corretti o no) ma anche, per es., sul piano etico e metafisico, i piani più rilevanti per la determinazione dei fini; perché tutto dipende dal sistema valoriale che si adotta, e lo si adotta sempre arbitrariamente ( = vige il sistema valoriale affermato dalla forza sociale maggiore, e non ha senso interrogarsi se sia giusto o sbagliato, buono o cattivo) .
Siccome qualsiasi società ha bisogno, per non implodere nell’anarchia, che a fare il 90% del lavoro di controllo sociale sia la norma interiore, e solo il 10% la norma esteriore (polizia, tribunali, etc.), è chiaro quanto sia altamente instabile una società dove il 90% della popolazione condivide un senso comune relativista, ciascuno pensa di aver diritto alla sua opinione che vale quanto qualsiasi altra, e tendenzialmente rifiuta il principio di autorità (“Chi sono io per giudicare?” ha detto il Vicario di Cristo). L’unico salvagente a cui aggrapparsi per non annegare nell’anarchia e nell’anomia, e controllare bene o male una società molto complicata e delicata come l’industriale, pare essere la scienza, che tutti rispettano perché a) garantisce la vita quotidiana b) rende disponibile una potenza immane, ossia rimpiazza le due tradizionali sorgenti della norma interiore, il costume (vita quotidiana) e la religione (onnipotenza divina). Purtroppo però la scienza dei fenomeni sa inventare cose pazzesche, ma NON ci dice assolutamente niente in merito a come vivere, a come usare le cose pazzesche che inventa, etc.; e dunque ritorniamo alla casella di partenza, il relativismo dei valori e i suoi (enormi) problemi.
A questo punto, la mossa obbligata per i powers that be è la riedizione del programma comtiano, ossia l’invenzione di sana pianta di una religione scientista che sa di essere falsa, perché ha uno scopo puramente strumentale: non si tratta della vecchia politica dell’uso della religione come instrumentum regni, ma della fondazione di una nuova religione in perfetta, totale malafede, o, in altri termini, l’adozione affatto arbitraria -ma non esistono di altro tipo – di un sistema valoriale ufficiale che si autoconfeziona come religione laica. Naturalmente, lo si fa “per amore dell’umanità”. Come dice il don Giovanni di Moliére al mendicante che gli chiede l’elemosina “per amor di Dio”: “Te la do per amore dell’umanità”.
Al tempo di Comte, i suoi colleghi, scienziati e filosofi positivisti, attribuirono l’invenzione della religione positivista a un ottenebramento delle sue facoltà, perché a metà XIX secolo l’ambiente sociale era ancora alimentato e stabilizzato dal costume e dalla religione premoderni; e non solo non c’era alcun bisogno di ufficializzare la “Religione dell’Umanità”, ma tutti, positivisti compresi, avrebbero avuto una reazione almeno di imbarazzo, se non di rigetto, dinanzi a questa assurda, ridicola e preoccupante parodia del cristianesimo. Be’, adesso il bisogno c’è e la reazione di rigetto non ce l’ha neanche il papa, e quindi via col Progetto Comte 2, la Vendetta.
Nel Progetto Comte 2, la Vendetta, prende un rilievo enorme la manipolazione psicologica di massa, perché a) “la scienza” non ci dice nulla in merito alla persuadibilità degli uomini in quanto partecipi a una comune Ragione (metèxis, un concetto metafisico o religioso) b) “la scienza” ci dice invece un botto di cose in merito alla manipolabilità psicologica degli uomini. Regola base del positivismo è «non si può aver scienza se non di fatti». Poiché l’osservatore e l’organo osservato coincidono, non è possibile avere osservazione dei fenomeni intellettuali in atto, per cui, ritenendo impossibile la descrizione dei processi mentali e della psiche come indipendenti dai fatti fisiologici o da quelli sociali, Comte riconduce la psicologia alla biologia e alla sociologia: e qui si ritrova l’origine del Green Pass e dei metodi behaviouristici con i quali viene introdotto.
Faccio rilevare en passant che in merito all’umanità della quale si sta fondando la religione, la scienza dei fenomeni – in questo caso, la genetica – può dirci una cosa sola: che tutti gli uomini, a qualunque razza appartengano, condividono, con minime varianti, il medesimo corredo genetico, ossia che sono tutti appartenenti alla specie umana. La scienza dei fenomeni, però, NON ci dice come vada trattata, questa specie tra le specie che è la specie umana. Se si volesse massimizzare il suo rendimento, ad esempio, anche in conformità a un criterio positivista classico quale l’utilitarismo, “il maggior bene per il maggior numero”, sarebbe certamente opportuno potarne i rami secchi, ossia provvedere con i metodi adeguati a una vasta politica eugenetica, che incoraggi le caratteristiche genetiche più favorevoli e scoraggi le meno favorevoli, inserendosi – come è la norma per tutte le scienze dei fenomeni – nelle catene di causazione (non tutte individuate) del fenomeno “specie umana”. In un progettino come questo ci sta di tutto, e in questo tutto ci sono cose che oggi nessuno è in grado di immaginare, ed è anche meglio perché immaginandole potrebbero venire i capelli bianchi.
Andrea Zhok
SULLA COERCIZIONE LIBERALE
Gli stati, sotto certe condizioni di emergenza o urgenza, possono esercitare atti di imperio e coercizione sulla propria popolazione.
La coercizione classica, ad esempio la chiamata alle armi a difesa della patria, era esercitata ad un tempo come chiamata etica ad uno sforzo di protezione dell’intera collettività e come assunzione di responsabilità del governante, che si faceva garante della giustezza (e della buona gestione) dell’iniziativa.
Quest’assunzione di responsabilità, automaticamente implicita nell’atto di pubblica coercizione, non era priva di conseguenze: di fronte ad esiti nefasti di quell’iniziativa coatta i governanti erano chiamati a risponderne. Non a risponderne legalmente, con qualche forma di “responsabilità limitata”, ma fisicamente, in prima persona. L’esito tipico delle sconfitte militari era, ed è, l’abbattimento dei vertici che hanno promosso l’azione, e spesso la loro fine ingloriosa o violenta.
Questa premessa ci permette di focalizzare su cosa c’è di indecente nella forma di “coercizione soft” connessa ad iniziative come il Green Pass.
Se i nostri governanti fossero assolutamente sicuri di quello che stanno facendo, se fosse vero che l’unica strada per affrontare la pandemia in questa fase è la vaccinazione a tappeto, se fossero davvero certi – come dicono di essere – che l’operazione è del tutto sicura sul piano delle conseguenze per la salute dei cittadini, allora non ci sarebbe nessun problema a prendere la strada dell’obbligo universale.
Questo creerebbe, come è giusto che sia, due gruppi ben definiti: quelli che si assumono la responsabilità delle decisioni e quelli che le decisioni le subiscono. Tutta la cittadinanza starebbe dalla stessa parte, sarebbe accomunata da un destino comune, ed eventualmente si potrebbe mobilitare in comune nel momento in cui qualcosa nella strada presa si mostrasse erroneo o esiziale.
Ma – nonostante tutti i proclami – questa non è affatto la situazione reale. Ed è per questo che viene adottata la forma tipica della coercizione liberale: la coercizione dissimulata, recitata come se si trattasse di libera scelta.
E’ importante vedere che si tratta di un modello classico, non di una recente escogitazione in occasione del Covid. Il modello liberale è quello che ti dice che se non vuoi lavorare per un tozzo pane sei liberissimo di crepare di fame: è una tua libera scelta e nessuno ti ha costretto. Il modello liberale è quello che spacca sistematicamente la società in brandelli perché mette tutti in competizione con tutti gli altri, insegnando a vedere nel tuo vicino un avversario.
Così, il modello della coercizione liberale applicato all’emergenza Covid è quello che ti dice che nessuno ti obbliga a vaccinarti, è una tua libera scelta.
Certo, se non lo fai, o se non lo fai fare ai tuoi figli, beh, vi scordate il cinema, la palestra, il ristorante, il teatro, il bar, la piscina, il treno, l’aereo, l’università e spesso anche il lavoro.
Però è una tua scelta e nessuno ti obbliga.
Poi, è vero, a parte questo, se non lo fai vieni additato anche come un traditore, un nemico della patria, un cretino, un paranoico, un egoista, un ignorante e un perdente, alimentando l’odio o il disprezzo altrui.
Però sia ben chiaro, puoi esercitare una libera scelta.
E nel caso tu voglia esercitare la tua libera scelta, prenderti il tuo appuntamento, firmare una liberatoria, mostrando il tuo consenso (dis)informato, bene così.
Ricorda che l’hai voluto tu.
Questa procedura consente al governante di trattare con la massima serenità qualunque azzardo.
Chi se la sentirebbe di obbligare ad assumere un farmaco sperimentale un ragazzino o una donna in stato di gravidanza in mancanza di una schiacciante evidenza che le alternative sono peggiori?
Ma con la forma di coercizione liberale il problema non si pone. L’obbligo a tutti gli effetti concreti sussiste, ma assume le vesti della scelta personale, di cui si fa carico chi sceglie.
Se – Dio non voglia – tra un paio d’anni dovessimo scoprire che l’azzardo è andato male, che sussistono conseguenze rilevanti, chi pensate che sarà possibile chiamare a rispondere?
Tra un paio d’anni gli stessi che oggi imperversano con disposizioni normative e certezze apodittiche saranno irreperibili.
Chi sarà a curarsi dei suoi quattro alani nella tenuta in campagna, chi si godrà una pensione dorata, chi sarà stato promosso ad altro prestigioso incarico.
Le eventuali lamentele, gli eventuali danni saranno risolti con un’alzata di spalle da nuovi “responsabili” e con qualche mancia di indennizzo estratta dall’erario pubblico.
In ogni caso, anche se l’azzardo andasse a buon fine, o con danni collaterali non massivi, ne saremo usciti peggiori: il paese una volta di più spaccato, con un senso di impotenza diffusa e di irresponsabilità generale.

SFERA DEL MONDO E DELL’IMMAGINE DI MONDO, di Pierluigi Fagan

SFERA DEL MONDO E DELL’IMMAGINE DI MONDO. Partiamo da una ipotesi sulla realtà. Come si vede nel grafico, all’11 luglio, il Governo italiano si trova al vertice basso delle richieste di vaccinazione da parte della popolazione. Il dato è riferito a “prima dose” poiché se hai fatto la prima va da sé che -più o meno- farai la seconda. E’ già da qualche giorno che ti trovi lungo questa linea discendente, è da metà Giugno che quella linea scende. Questa situazione, come dinamica, è simile -più o meno- presso tutti i paesi occidentali. Si può inferire che liberatasi la possibilità vaccinazione in primavera, una marea di “early adopter” (coloro che adottano un atteggiamento per primi) ha subito usato la possibilità. Ma questa massa relativa non è la totalità e quindi ad un certo punto declina e si esaurisce. Più o meno ti trovi con un 50-55% di persone con prima o già seconda dose. Ma il tuo obiettivo, poiché questa è la strategia scelta nei paesi occidentali, è arrivare ad una massa vaccinati da 70% o meglio sarebbe perché così dice la strategia, all’80%. Lì la strategia dice che per ragioni statistiche, anche se non tutto l’universo (la totalità delle persone) è vaccinato, in pratica la vita può riprendere normalmente dove per normalmente s’intende il ripristino delle forme e dinamiche di vita associata precedenti l’inizio della pandemia. Con un brutto nome, la chiamano “immunità di gregge”.
Tu sei in estate e si sa che la vita normale in estate ha dinamiche tutte sue. Il tuo obiettivo è arrivare all’immunità di gregge, sperabilmente all’80% a fine settembre come da precoce annuncio del General Figliuolo, dato -mi sembra- addirittura a marzo. Questo perché la vita normale riprende per convenzione, pienamente, ai primi di ottobre. E questo, anche perché il tuo mandato è ristrutturare il sistema Italia (da cui la riforma della giustizia che dovrebbe ripristinare la certezza del diritto -durata dei processi-, fondamentale per ambienti in cui si vogliono attrarre “investimenti”), stante che preventivamente devi portarlo fuori dall’impiccio Covid. Anche perché ti stanno dando, più o meno sulla fiducia, un pacchetto di miliardi dall’Europa, la cui corretta spendibilità (che dovrà convincere i tuoi arcigni critici tedeschi, olandesi, finlandesi et varia) verrà valutata con metro economico, ovvero in base a quanta crescita produrrà. Se non si ripristina la “normalità” scordati la crescita, ovvio.
Non pertinente qui discutere se la tua strategia, che abbiamo visto è concordata a livello di G7, è giusta o sbagliata. Siamo qui, solo, a cercar di capire come va il mondo e in parallelo come va la sua immagine riflessa in vari tipi di mentalità. E del resto è proprio dalla comune immagine di mondo economicista da G7 il pensare che per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Quindi, com’è nella logica economicista “one-size-fit-all”, tempeste epidemiche di virus mutanti da una parte? Vaccini mutanti (come le annate dei vini) dall’altra, in una sorta di Achille e la tartaruga che non arrivano mai ad appaiarsi. Del resto a capo del G7 c’è un tizio che presiede il paese che ha il monopolio della produzione occidentale di vaccini (assieme al fido scudiero britannico), quindi si fa così, allineati e coperti ed anzi pur con ritocchino del prezzo, un bel +25% circa, la salute costa. Il tempo è poco le chiacchiere stanno a zero, mica stai sui social, tu.
Ti trovi quindi con due mesi davanti per arrivare a 80 e stai a 55 circa, che fai? In quei giorni, il presidente del paese vicino che ha un suo rilievo in ambito europeo e che ti ha anche un po’ aiutato ad avere quegli agognati miliardi che molti non volevano darti, la mette giù dura. Il tipo pensa di prender il passaporto vaccinale sdoganato in Europa per facilitare i transiti interni (arriva l’estate e capisci che Spagna, Italia, Grecia ma anche molti altri, se il turismo ha una seconda botta, muore e con esso posti di lavoro, Pil e quant’altro) ed usarlo internamente. Pensiero forse derivato da una teoria economica che valse addirittura il Nobel nel 2017 (dalle parti degli economisti si dà il Nobel per ragioni spesso surreali, ma del resto non è un vero Nobel ma un premio istituita dalla Banca di Svezia) al suo autore, un certo Tahler. Si chiama “nudge” ovvero “spintarella”. Che male può fare una “spintarella” spesso definita anche spintarella “gentile”?
Ma quello che per un economista è una “spintarella gentile”, per uno psicologo o un sociologo o un giurista o un politologo, non è gentile per niente. In effetti, non lo è neanche per parte della tua popolazione che infatti, in Francia, scende in piazza indignata. Come ti permetti di creare diseguaglianza oltre quelle che ci sono già in abbondanza? Tu sei un banchiere centrale, neanche un economista, infatti ti sei circondato di una pletora di economisti e gli economisti, si sa, di psicologia, sociologia, politica, giurisprudenza ed affini, nulla sanno. Non sanno ma non sanno neanche di non sapere. Proprio perché non sanno, pongono assurde dogmatiche a capo di catene inferenziali, poi con abuso di linguaggio matematico, dimostrano che il dogma era giusto. Sarebbe ragionamento circolare, ma non sapendo di non sapere, non sanno neanche quanto nuoce la misconoscenza della logica di base. Per loro la matematica è tutta la logica da conoscere, quindi non c’è problema. Per cui, decidi di fare come Macron, ma con più gentilezza ulteriore. Limitiamo l’utilizzo ad incentivo negativo del Green pass ad alcune situazioni limitate, poi vediamo. Infatti, da quando annunci di voler fare il decreto sul Green pass, al quando lo fai, la curva di richieste di vaccinazione riprende! Magia del “nudge”!
Funziona, un po’, ma ha affetti collaterali. Una parte della popolazione non la prende bene. Difficile dire chi sono, ognuno di loro pensa che tutti gli altri sono lì ad indignarsi in piazza per il suo stesso motivo, con la sua stessa ragione. Ma non è così. Ci sono No-Vax radicali, addirittura negazionisti della prima ora, antiscientisti ed antiscienza, naturopati, ex trumpiani, libertari anti-liberisti, esperti di diritto, filosofi politici, truppe salviniane e meloniane in astinenza da “azione politica” ora che l’uno è al governo e l’altra fa finta di fargli opposizione, ma “gentile” anche quella. Ma anche anticapitalisti smarriti, erotomani del conflitto sociale non importa su cosa, democratici di principio giustamente preoccupati per l’abuso di “stato eccezionale”, allarmati preventivi ipersensibili al concetto di “capitalismo della sorveglianza”. Non hanno davvero letto la Zuboff, se avessero letto la Zuboff da mo’ che sarebbero scesi in piazza per la ben più legittima indignazione e paura verso il vero “capitalismo della sorveglianza” digitale. Ma la gente va a titoli, slogan, non legge, anche per loro ogni problema complesso ha una soluzione semplice e sbagliata. Così si organizzano per la rivolta contro il temuto (e temibile) “capitalismo della sorveglianza”, utilizzando i social ed Internet ovvero i dispositivi del capitalismo della sorveglianza. Non però quello vero, quello versione “dittatura sanitaria”, variante Delta del Panopticon nata su Internet. La descrizione sintetica data non copre tutto l’universo che per altro è per lo più fatto di semplici “indecisi” che tra il trambusto social e il perdurante delirio degli esperti televisivi, con aggiunta di “un mio amico medico mi ha detto” et varia, passano facile dall’indecisione allo smarrimento.
Peccato che quelli bravi, i veri capitalisti della sorveglianza che gli psicologi, i sociologi, gli esperti di diritto, gli statistici e financo i filosofi o quantomeno i teorici avveduti, li usano e da tempo, non si sono minimante sognati di fare una cosa così stupida come imporre il certificato di vaccinazione a popolazioni incerte ed indecise. Hanno usato il “nudge”, versione incentivo positivo, il sale della strategia di ogni marketing, il “push and pull” lo spingerti ma attraendoti. Ecco allora che scopriamo che mentre Draghi e Macron sono gli architetti della dittatura sanitaria con baffetti hitleriani di rigore, negli USA regalano canne di marjuana ai riottosi o i pigri della vaccinazione, target giovani s’intende. Birre e cibo per i bovari dell’entroterra americano. Biglietti per eventi sportivi o per lotterie fantastiche la cui vincita di cambierà la vita. Fino addirittura a pagarti: 100 euro per puntura! “Sorvegliare e punire” per gli italiani diventa “incentivare e premiare” per gli americani, strano no? Seguono uova gratis per i cinesi, polli per gli indiani (o sconti fiscali? ognuno ha il suo incentivo, si chiama “segmentazione”), giorni di vacanza retribuita ad Hong Kong, app di dating o Uber o Deliveroo in UK, pizza e birra in Israele, sconti ristorante nei EAU. Insomma, gli unici a cadere nella trappola dell’incentivo negativo e repressivo, digiuni di ogni minima norma di buonsenso per altro da sociologia liberale, sembrano esser stati francesi ed italiani. Gli uni con un tizio selezionato da banchieri, gli altri direttamente con a capo un banchiere. Un po’ poco per gridare alla dittatura sanitaria, visto poi che gli occhiuti dittatori si fanno pure rubare le banche dati da gruppetti di hacker della domenica rivelando tutta la loro sterminata incompetenza.
Insomma, ad 80% manca ancora poco meno di un 20%. La partita si gioca al centro (come sempre), tra gli indecisi. Nei prossimi due mesi, cederanno e si vaccineranno riportando l’Italia nella “normalità” o saranno catturati dal nucleo irriducibile degli scettici-contrari mossa da plurali istanze di cui molte confuse? Cosa sperare? Il ritorno alla normalità del consumo senza pensieri o l’irrigidirsi delle posizioni con scontro sociale che potrebbe realizzare l’incubo della “dittatura” (si fa per dire …) per cause di forza maggiore (con i prestiti EU non si scherza) a cui Sorgi ha dato voce paradossale, ma poi neanche tanto?
Secondo me il problema è un altro ed è più grave. Il mondo dei fatti va da una parte, il mondo delle immagini di mondo da un altro. Questo non è mai un bene ed ognun dovrebbe interrogarsi sul contributo che porta a questa dissociazione foriera di una certezza: il fallimento adattivo. Vale oggi per la pandemia, domani per la lunga sequenza di accidenti tutti giù ampiamente previsti, come del resto lo era la stessa pandemia.

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…, di Teodoro Klitsche de la Grange

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…

Scusate se insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei luoghi comuni sulla giustizia. Uno dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora) più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e contrastanti).

Se è certo che detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza dell’ordine etico, converte il mos in ius perché meglio congiunge, così tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò, storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.

Per cui a seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare (almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva (e fa osservare) il diritto.

Nella specie l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.

Circostanza la quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.

Ma, oltre a ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa, la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna civile e amministrativa.

Non nel senso, però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno) alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto comune.

Ebbene (ingenuamente?) il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato “in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il giudice gl’imponeva, non se la cavava col semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta – a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.

Piuttosto tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello “robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure generale, ma burofila. Come sosteneva Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”; il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino, che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto quelli ai quisque de populo? Non mi risulta d’averlo letto.

Speriamo che i giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.

Teodoro Klitsche de la Grange

ESONOMIA, di Pierluigi Fagan

ESONOMIA. [Post rilevante] Incontro il termine-concetto in un libricino di Pierre Clastres, etno-antropologo di propensione politica, allievo prediletto di C. Levy-Strauss, anarchico, prematuramente scomparso per incidente a poco più di quaranta anni. Se digitate il termine su Google, almeno a me (saprete che gli algoritmi personalizzano i risultati di ricerca, Google è un dispositivo relativistico ovvero relativo alla tua immagine di mondo) viene fuori, come avessi commesso un errore di digitazione: “economia”. Poi Google si sforza di trovare qualcosa e mi propone “isonomia” dal vocabolario Treccani. Cerchi sul vocabolario Treccani e viene fuori nulla. Ah! Un concetto nuovo, penso. Poiché però avevo capito al volo cosa intendeva il Clastres, mi sorprendo che il concetto venga ritenuto inesistente, cioè nuovo. Perché ciò avviene e perché merita un post? Ora provo a spiegarlo.
Di per sé il termine si compone di “eso” che vuol dire esterno e “nomia” da nomos che significa legge, quindi “legge che proviene dall’esterno”. Il suo opposto sarebbe endonomia, da “endo” ovvero interno, ma siccome il termine-concetto non esiste, non esiste neanche il suo contrario.
Relativamente alle questioni sociali (ma il discorso vale anche per gli individui), politiche e culturali, la nostra cultura prevede per principio solo approcci endonomici. Il “motore della storia” sarà interno alle forme sociali, le forme politiche dipendono chi pensa dai modi economici, chi altro pensa da preferenze ideologiche, così le culture, poi come “unità metodologica” c’è chi pone solo gli individui, chi invece i gruppi magari chiamandoli comunità o classi o società etc. etc. Ovvero, data un società x, cercheremo le ragioni del perché è così e non cosà, analizzando il suo interno nello statico o nel dinamico del tempo storico. Comunque, partendo dall’assunto dato, ma non giustificato, che tutte le cause dei vari modi in cui la società è e si struttura, dipendono da forze interne, condizioni che impongono la legge “nomia” partendo da fatti interni “endo”.
Esonomia, invece, dice il contrario, pone ciò l’attenzione all’esterno della società, ciò in cui è posta la società. Può esser l’esterno ambientale, quello geo-storico, il tempo caratteristico della civiltà di appartenenza, la complessa rete sistemica in cui ogni società è iscritta di natura e cultura. Esonomia segnala quando la legge, intesa qui come pressione adattiva, proviene non dall’interno ma dall’esterno. Il che ci porta al concetto di adattamento. Infatti, se ti devi adattare, vorrà dire che c’è un esterno a te con il quale devi andare d’accordo.
Il concetto di adattamento, diversamente da esonomia, esiste nella nostra immagine di mondo ma non è molto sviluppato. Darwin, a suo tempo, ha proposto una teoria dell’adattamento, ma gli interpreti della sua opera del 1859, hanno preferito apporgli concetto di “evoluzione”, termine che non esiste nella prima edizione dell’Origine delle specie. Quindi Darwin scrive l’opera fondativa della teoria dell’evoluzione, ma senza mai usare il termine, così come Marx scrive le opere fondative il concetto di capitalismo usando il termine, pare, solo due volte nella corrispondenza privata. Fu un sociologo, Sombart, a chiamare capital-“ismo” il sistema a lungo analizzato da Marx e fu un altro sociologo Spencer a chiamare evoluzione la teoria di Darwin, potenza degli interpreti!
Glielo appose Spencer che, in quanto anche filosofo, era legittimato poiché artigiano nella “fabbrica dei concetti” (questa è la funzione della filosofia o almeno “una delle funzioni”) e poiché era anche il produttore principale del concetto di “progresso” (siamo nella seconda metà del XIX secolo in quel della Gran Bretagna), gli veniva bene appaiare il concetto di progresso con quello di evoluzione.
Ma l’opera di Darwin non è del tutto sull’evoluzione, è più sull’adattamento. Però, la cultura occidentale, poiché ha coartato per secoli natura ed altri popoli per favorirsi l’adattamento, non ha ritenuto utile problematizzare il fatto adattivo, lo ha fatto e basta, passando poi il resto del tempo della sua auto-riflessione a domandarsi quali forze interne (endonomiche) hanno fatto sì essa abbia sviluppato i suoi modi che siano la società di classe, il capitalismo, la democrazia liberale, la tecnoscienza e molto altro della nostra storia culturale di famiglia. Colpa o merito di individui o classi sociali o specifiche ideologie o teorie, tutte però nate come Atena dal nulla, gratuitamente, per genio (o perversione) umano endogeno o forse per caso. Nessuno pare si sia mai domandato quali fossero le pressioni esterne che hanno mosso individui o classi o teorie ed ideologie a fare quel che hanno fatto o pensato.
Tant’è che oggi, che il modo sta cambiando radicalmente, pare che nessuno capisca bene il perché visto che cercando all’interno non si trovano poi questi complessi forti di cause agenti. Il fatto che sia il mondo fuori di noi ad esser cambiato, quello umano (altri popoli e civiltà) o naturale (ecologia e clima), pare interessi dal nulla al poco. Non si comprende ciò la carica esonomica che ci imporrebbe di cambiare molte cose per il semplice fatto che dovremmo adattarci ad un mondo nuovo. A noi piace il concetto di Nuovo Mondo ovvero la scoperta dell’America, ma abbiamo difficoltà insormontabili con il Mondo Nuovo, perché non siamo abituati a domandarci del “fuori di noi”. In particolare quelli del Nuovo Mondo hanno difficoltà col Mondo Nuovo, poverini, si capisce …
Ne verrebbe fuori a seguire un lungo e bellissimo discorso anche sulla nascita delle gerarchie, anche perché il Clastres usa il concetto proprio nella sua ricerca sulla nascita dello Stato e la rottura dei regimi egalitari sociali dei selvaggi che si potrebbero, con giudizio, retroproiettare al passaggio tra Mesolitico e Neolitico ovvero nascita delle società complesse e delle gerarchie sociali ab origine. Ma qui non c’è spazio e tempo, quindi andiamo a chiudere.
Volevo solo segnalarvi che, in prima istanza, le perturbazioni profonde, continuate ed incrementali che vanno ad affliggere i nostri ordini sociali, provengono proprio da questo “fuori di noi” che fatichiamo a considerare nel suo continuo proporci nuovi dilemmi adattivi. La nostra, oltreché complessa, è una era potentemente esonomica. Forse pari per intensità solo al passaggio tra Mesolitico e Neolitico. Specifico che il “noi” qui usato non si riferisce come solitamente intendiamo senza curarci della nostra ipertrofia egotica occidentale, nel senso di “umanità”. Noi non siamo l’umanità siamo solo una parte, pure piccola (intorno un sesto, circa). Alla nostra civiltà o civilizzazione si voglia intendere, l’era propone potenti ed inediti, specifici dilemmi adattivi, per questo la diciamo esonomica. Familiarizzare col concetto è un buon primo passo per sviluppare nuove strategie adattative, necessarie ed urgenti. Su questa riformulazione strutturale della nostra immagine di mondo siamo molto in ritardo e ciò non va bene.
Per involontaria saggezza implicita la logica delle immagini di mondo, sia il concetto di “economia”, che quello di “isonomia” che era il nome originario di quella che poi si chiamerà “democrazia”, hanno in realtà molto a che vedere con l’esonomia. L’equazione adattiva del nostro futuro ha infatti questi tre poli: data una certa esonomia, come si mette a quadro funzionale ed adattivo l’economia con la democrazia nelle società della civiltà occidentale?

 

PRESCRIZIONE E BUROFILIA (II), di Teodoro Klitsche de la Grange

PRESCRIZIONE E BUROFILIA (II)

Aveva la vista lunga Giustino Fortunato, quando, oltre un secolo fa, sintetizzò il programma dei socialisti suoi contemporanei nello slogan “le terre ai contadini, le fabbriche agli operai, gli uffici agli impiegati”. Nel secolo passato sono venute meno le prime due rivendicazioni. La terra ai contadini, perché con la riforma agraria dei governi De Gasperi (soprattutto, ma non solo) il latifondo fu espropriato e le terre distribuite, onde la rivendicazione è cessata. Anche le fabbriche agli operai non è più d’attualità: un po’ perché di operai ce ne sono assai di meno, ma soprattutto per scarsità delle fabbriche le quali in gran parte, nell’ultimo trentennio, sono state delocalizzate in paesi dalla manodopera più economica e dal fisco meno rapace. Resta, anzi è incrementata, la terza, cioè la patrimonializzazione surrettizia degli uffici, non nelle forme delle società feudali, con le funzioni pubbliche conferite (appaltate, vendute) ai privati (che in tali casi, almeno, ne sopportavano i costi, oltre a percepirne i benefici); ma attraverso la riduzione delle responsabilità del funzionario (disciplinare ma soprattutto patrimoniale) il boicottaggio legale delle pretese dei cittadini danneggiati da atti illegittimi, la compiacenza politica e talvolta giudiziaria nei confronti dei comportamenti delle PP.AA.. Ma soprattutto, come spesso scrivo, dalla disparità – processuale e sostanziale – tra cittadino e P.P.A.A..

Fortunato avvertiva a cosa avrebbe portato l’andazzo, in gran parte confermato a distanza di oltre un secolo: che non è solo un problema di diritti lesi, ma anche di ordinamento dello Stato. Scrive l’economista lucano: “non è punto immaginario, di avere, un giorno, i pubblici poteri a disposizione de’ funzionari contro l’interesse della collettività” e “noi, vecchi liberali,  crediamo ancora di parlare, come già i partiti storici della Destra e della Sinistra, in nome del popolo, ossia, secondo il significato classico della parola, in nome della universalità de’ cittadini” mentre i socialisti impiegano “le maggiori energie a vantaggio degl’impiegati dello Stato; e assumendone ufficialmente il patrocinio, mettendosi a capo di tutto il movimento burocratico”. La burocrazia “non concepì i servizi amministrativi se non immaginandoli pari a quelli di una macchina, che dovesse agire per solo uso e consumo de’ suoi congegni, nel particolare esclusivo interesse di coloro che vi fossero addetti, – la macchina per la macchina, l’ultima forma, e la più bizzarra, di un nuovo assolutismo di classe” (il corsivo è mio); e questo implica “la tendenza al dominio universale della burocrazia, – il cui trionfo sarebbe la resurrezione, sott’altra forma, dell’antico assolutismo, o, meglio, della peggiore delle tirannie, quella della servilità uniforme e meccanica”.

Dato, quindi, che tra i principi dello Stato borghese c’è che la funzione pubblica è nazionalizzata e pertanto tutti i poteri pubblici non sono appropriabili, ottundere e ridurre, escludere le correlative responsabilità e doveri è difficile.

Ma lo si è fatto, in particolare in Italia, come constatava (e prevedeva) Fortunato sia attraverso normative apposite, sia con comportamenti compiacenti ed assolutori.

Per la prescrizione la normativa non è del tutto favorevole alla P.A., e comunque la possibilità di sanzionare i funzionati inerti c’è, anche se di attivazione non facile; pertanto occorre ai burofili, come è stato fatto, cambiare il bersaglio: dal funzionario pigro al contribuente fetente. Proprio cioè il contrario di quello che succederebbe in un’impresa privata: nella quale un impiegato che, incaricato di recuperare i crediti, li facesse prescrivere, sarebbe licenziato subito e magari gli sarebbe richiesto di rifondere i danni. Nella seconda repubblica, le privatizzazioni hanno imperversato, ma spesso a chiacchiere, perché in tanti casi, come questo, i comportamenti sono stati opposti; la burofilia continua ad imperversare. E il potere non ha di meglio per occultare prassi complici o, nel migliore dei casi, fiacche e di prendersela, come il re di G.G. Belli con i vastalli buggiaroni, colpevoli di tutto. E quindi da punire, anche con la forca perché il potere, come il sovrano del poeta “la vita e la robba ve l’affitto”.

L’unico tentativo per far cessare queste mistificazioni è non fare come i sudditi nel sonetto, che rispondono, inconsapevoli, “è vero è vero”.

Teodoro Klitsche de la Grange

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