RIEDUCAZIONE, di Antonio de Martini

ASSASSINIO PREMEDITATO IN PIENO SOLE A FINI EDUCATIVI

Nessun media del mondo ha pubblicato ( o ripubblicato) gli articoli ( e nemmeno singole frasi) del “ giornalista” Khassoghi che, in realtà abbiamo saputo essere stato il segretario del principe Turki (ex capo dei servizi segreti sauditi e ex ambasciatore negli USA fino a che non si è provato un finanziamento a uno degli attentatori dell’11 settembre da parte della moglie).

La ragione del mancato “scoop” giornalistico è che leggendo gli scritti si capirebbe che le “accuse” fatte sul Washington post ( giornale di Jeff Bezos, padrone di Amazon e amico di Mohammed mani di forbice) sono note dalla fondazione del regno, insignificanti e ignote alla stragrande maggioranza dei sauditi che sono in gran parte analfabeti anche nella loro lingua.

Nessun giornale occidentale ha mai citato testi o notizie scritte da questo signore, reso cauto anche dal fatto che il divieto di espatrio al figlio rimasto a Ryad lo aveva in pratica reso un ostaggio a garanzia di eventuali intemperanze giornalistiche.

Un poliziotto direbbe che a questo delitto non c’è movente.
Non si tratta certamente di in tentativo di conculcare la libertà di stampa o del “ cervello che deve essere messo a tacere” come disse Mussolini di Gramsci.

Trovare il movente – dato che il colpevole è certo e ormai confesso – richiede conoscere il segreto meglio custodito del momento: perché mai Khassoghi abbia messo la testa nella bocca della belva.

La spiegazione della richiesta di un certificato è risibile.

L’Arabia saudita non ha una anagrafe degna di menzione.
Per matrimonio e divorzio sono ancora più spicci: al maschio per divorziare basta pronunciare tre volte la parola “ ti ripudio” e per sposarsi basta tirar fuori l’attrezzo.

Se davvero avesser avuto bisogno di un certificato , gli sarebbe bastato chiedere al figlio che viveva in loco e una mancia a un impiegato per ottenere qualsiasi pezzo di carta timbrato e firmato.

Scoprire cosa, e chi, lo ha convinto a entrare nel consolato significherebbe fare un grande passo avanti nella ricerca della ragione vera dell’omicidio e dello scempio.

Tutte le pene che vengono inflitte in Arabia Saudita hanno intento esemplare.

Faccio un esempio noto alla mia famiglia: durante la seconda guerra mondiale, mio padre Francesco, mentre era a colloquio con uno sceicco, si trovò ad assistere all’arrivo di un giovanotto trafelato che disse al capo villaggio di aver visto, abbandonati, cinque sacchi di caffè all’entrata del villaggio.
“ come sai che è caffè?” Chiese il vecchio. “ ho aperto uno dei sacchi”.

Quando il capo villaggio ordinò di tagliare la mano allo sventurato, mio padre chiese come mai questa pena visto che nulla era stato rubato.

“ non ha rubato perché era caffè, se fosse stato oro se lo sarebbe tenuto” disse il vecchio sheikh respingendo l’appello, “avrebbe dovuto informarmi senza informarsi del contenuto”.

Ho maturato il convincimento che il delitto con annesso scempio ha tutte le caratteristiche della esecuzione esemplare: nulla è stato fatto per nasconderlo.

Il luogo, la squadra di killer giunta con due jet privati invece che alla spicciolata come da prassi, l’aver lasciata viva la fidanzata- testimone, la noncuranza per il “ cover up” , l’immediata dichiarazione americana che le forniture USA non sarebbero state interrotte, il disinteresse per le conseguenze internazionali e, in pratica , la candida ammissione, la partecipazione all’esecuzione di intimi servitori del crownprince, tutto mostra che è una pubblica esecuzione.

Il fiume di denaro che ha distratto in Occidente la pubblica opinione non è stato speso nel mondo arabo che oscilla tra l’orrore e l’ammirazione, tutto induceva pensare che nessuno voleva nascondere il delitto, anzi.

La sequela di errori politici con Yemen, Siria e Katar e l’omicidio di due familiari concorrenti al trono, hanno certamente creato una corrente contraria a Mohammed mani di forbice. In seno al Consiglio di famiglia che deve eleggere il successore di re Salman ormai con entrambi i piedi nella tomba.

Le orribili torture inflitte a un agente, che gli USA hanno deciso essere sacrificabile” sconsiglieranno molti membri della famiglia reale dal cercare un altro candidato ed un eventuale candidato dall’accettare la candidatura.

Un piano di questa complessità prevede assicurarsi la complicità USA (110 miliardi di forniture più altre dall’anno prossimo) per la copertura media e il non boicottaggio ; la complicità dei padroni del luogo ( vedrete che investimenti giungeranno in Turchia) e l’immediato permesso alla polizia a perquisire locali coperti da immunità diplomatica completano il panorama.
Per non uccidere i suoi fidi esecutori Mohammed ha pagato il prezzo del sangue ( liberando il figlio e i beni di Khassoghi e li lascerà processare in Turchia.

LA CRISI LIBANESE SARA’ LA TOMBA DELLA DINASTIA SAUDITA? IN OGNI CASO E’ UN ALTRO SCHIAFFO AGLI USA. di Antonio de Martini, scritto il 13 nov 2017

Immaginatevi che il Primo ministro Paolo Gentiloni vada in America,  all’arrivo invece del benvenuto di prammatica si veda sequestrato il telefonino, venga catapultato davanti a una telecamera a leggere una lettera di dimissioni e a chi lo contattasse per sapere quando torna in Italia, risponda ” a Dio piacendo” e avrete la fotografia di quel che è accaduto tra Libano e Arabia Saudita in questi giorni.

La motivazione del perché avviene è più complessa e andrebbe spiegata con la psicoanalisi prima che con l’analisi politica. Proviamo a dipanare questa intricata matassa di lana di cammello.Procediamo in ordine cronologico distinguendo tra interno ed estero..

Da quando il nuovo principe ereditario ( MOHAMMED BEN SALMAN) ha ottenuto dal re suo padre,( SALMAN BEN ABDULAZIZ)  approfittando della sua infermità, i pieni poteri, la situazione interna ed estera saudita ha iniziato a muoversi con un moto progressivamente accelerato. Impossibile oggi  capire se verso i vertici del mondo o verso il baratro.

SUL PIANO INTERNO

, col solito pretesto della ” lotta alla corruzione” il nuovo aspirante re ha fatto uccidere due tra i figli di  predecessori del re suo padre che avevano la caratura per contendergli il trono ( il figlio di Abdallah e quello di Fahd; ha messo agli arresto nella sua residenza il cugino ministro dell’interno Mohammed Ben Nayaf suo predecessore nel ruolo, arrestato cinque altri cugini figli di re predecessori del padre  e dieci principi minori più undici ex ministri e le tre fortune più importanti del regno.

E’ di stanotte la notizia che avrebbe arrestato l’ex capo dei servizi segreti Bandar ” Busch” Sultan che fu l’iniziatore della guerra alla Siria,  amico intimo dell’ex Presidente USA George W. Bush ( di qui il suo nomignolo) ed è stato lunghi anni ambasciatore saudita a Washington. Per metterci un po di pepe nel minestrone , sua moglie è stata notata dalla commissione di inchiesta come generosa contribuente di un pio conterraneo il cui nome figura tra quelli dei caduti sauditi che hanno condotto l’attentato alle due torri del World Trade Center.

Mohammed Ben Salman , ormai l Crownprince , è figlio dell’attuale re Salman ben Abdulaziz ,ultimo dei sette fratelli di stessa madre ( Hassa , la preferita del fondatore della dinastia) che si sono trasmessi il trono, per via adelfica, dal 1945.                                                                                                                                                                                               Prima d’essere vittima dell’Alzeimer, Salman era reputato come il più rigido della famiglia reale e il solo che nel 1991 si oppose  – nel Consiglio di famiglia composto da 150 persone – alla concessione di basi militari USA sul territorio saudita, con la motivazione che una volta installati non se ne sarebbero più andati. E’ stato facile profeta. Essndo l’ultimo figlio di Abdelaziz,  otttantenne e malato, si pensò che non avrebbe creato problemi , anzi che avrebbe dato tempo per pensare alla successione e al passaggio generazionale.

Appena salito al trono invece, Salman ha nominato – come da attese-  Crownprince Mohammed Ben Nayaf che da quattro anni era succeduto al defunto suo padre nella conduzione del ministero dell’interno. Dopo qualche tempo, però, il re creò una nuova carica: vice principe ereditario, mettendoci suo figlio Mohammed Ben Salman ( ministro della Difesa e capo della polizia religiosa).

I due Mohammed, in perfetto accordo giubilarono Bandar Bush ( creando per un breve periodo una sorta di Consiglio per la sicurezza nazionale con dentro il figlio), misero da parte il principe Muqrin che aspirava a fare da ago della bilancia tra i due  e poi iniziarono il confronto culminato nella nomina a principe ereditario ( che ha unicamente funzioni di primo ministro dato che il re viene nominato dal Consiglio di famiglia) del trentaduenne  figlio prediletto  Mohammed  il quale non ha esitato a sbarazzarsi del più anziano cugino , accoppare i due principi-cugini  più quotati alla successione e terrorizzare i membri più anziani del clan arrestando in totale quindici principi di varia caratura, oggi ospiti del Royal Carlton Hotel  trasformato in una fastosa prigione e ” fully booked” . L’inchiesta sulla corruzione prosegue senza fretta. Sono ostaggi nella più genuina tradizione beduina. E’ stato proibito in tutto il regno, il decollo di jet privati.

Posto che il piano riesca e il Crownprince prevalga, gli resterà da sciogliere il nodo della modernizzazione ( es la patente alle donne) con il fatto che egli ( e il padre) rappresenta l’ala conservatrice wahabita e si è appoggiato alla polizia religiosa nella sua scalata….

SUL PIANO ESTERO

 Come ministro della Difesa , Mohammed Ben Salman avrebbe dovuto passare per il tramite del Ministero degli Esteri per guerreggiare nello Yemen, ma come figlio del re non si attardò in quisquilie e mosse all’attacco, creandosi così una buona rete di amicizie USA tra i fornitori di materiale bellico.

Per la prima volta nella storia della dinastia il ministro degli esteri fu scelto NON tra i membri della famiglia reale e questo fu un primo segnale che sarebbe stata una partita a due.

Come nemico fu scelta la tribù degli Houti confinanti con l’Arabia Saudita a sud . Il pretesto era che stavano diventando una spina nel fianco alleata con l’Iran.        Inaspettatamente, gli Houti – privi di aeronautica-  resistettero, contrattaccarono, occuparono la capitale Sanaa e il giovane principe ebbe il suo primo “scacco al regno”.  Ossessionato dalla onnipresenza iraniana , il saudita si lanciò sulla scia USA nelle vicende irachene  che hanno visto trionfare l’Irak ufficiale ormai in mano agli sciiti per decreto ( 2003)  del proconsole USA Bremer. I Curdi rientrarono nell’ordine e l’Arabia Saudita si trovò confinante con un Irak ricostruito e diventato potenza sciita invece che sunnita come era sempre stato. Potenzialmente soggetto a influenze iraniane.

Sempre in cerca di successi napoleonici che lo legittimassero agli occhi dei sudditi, specie dopo le prime pessime figure, Mohammed Ben Salman decise di egemonizzare il Consiglio del Golfo ( una sorta di UE degli Emirati) fino ad allora gestito assieme al Katar della famiglia Al Thani. La politica del Katar è sempre consistita nel far fluire i denari in tutte le direzioni e supplire alla dimensione minima del paese ( 300.000 abitanti) con partecipazioni e sponsorizzazioni sportive di caratura mondiale.

Invitato a rompere i contatti con l’Iran ,  Tamim al Thani ,  emiro del katar, finse di non sentire. La reazione smodata fu l’accusa ufficiale  di sostenere nascostamente  il terrorismo e la sanzione lampo fu l’embargo.

Gli americani, per mostrare equidistanza autorizzarono comunque una significativa vendita di armi all’emirato. La famiglia al Thani, approfittando che il padre dell’emiro, Ahmad ben Khalifa al Thani,   ( defenestrato su richiesta USA quando iniziarono a girare le voci sui finanziamenti al Daesch) utilizzò il padre installato negli USA, per una intervista televisiva bomba: nella sua veste di ex primo ministro, dichiarò davanti alle telecamere di aver in effetti finanziato il Daesch, e di averlo fatto suprecisa, insistente  richiesta del re Abdallahben Abdulaziz , predecessore dell’attuale, e d’intesa con il governo americano e la Turchia che si sono occupati della distribuzione dei finanziamenti, delle armi, e della selezione dei mercenari. Il gruppo era destinato a ” una partita di caccia alla volpe” siriana. A conclusione della intervista, il vecchio sceicco ha anche posto la pietra tombale al progetto, dichiarandolo fallito.

Come e dove colpire l’odiato Iran? Come recuperare prestigio alla corona? Sconfitto in Siria, scornato in Yemen e ridicolizzato a Doha, restava il Libano.

Mohammed Ben Salman, convoca il primo ministro libanese Saad Hariri ( figlio dell’ex premier, arricchitosi in Arabia Saudita e  saltato in aria nel 2009) e dopo una accoglienza fredda ( nessuno all’aeroporto ad accoglierlo) e quattro ore di anticamera l’indomani, gli ingiunge di muovere guerra all’Hezbollah. Sarebbe come chiedere alla Romania di muovere guerra alla Russia.

Giudiziosamente Saad Hariri gli deve aver risposto che ci ha già provato nel 2006, subendo una sconfitta netta – come sconfitto fu l’esercito israeliano che aveva sottovalutato il problema –  Oggi l’Hezbollah fa parte del governo, alle elezioni ottiene il 50% dei voti ed è armato fino ai denti con in più la campagna di Siria in cui ha acquisito esperienza  operativa di manovra anche a livello di brigata, cosa che l’esercito regolare non ha. Hezbollah è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche in USA, ma un movimento che ha dietro di se metà del paese, è un problema politico , non di ordine pubblico.

Altra reazione furente: Mohammed ingiunge a Saad di dimettersi da primo ministro e lo vuole sostituire col fratello maggiore Bahaa che, guarda caso è in Arabia anche lui.  Il Libano insorge in favore del suo giovanotto in pericolo, i dirigenti del partito di Hariri ( il 14 marzo) rifiutano di andare a Ryad a prestare giuramento di fedeltà a Bahaa come richiesto,  spiegando sprezzantemente che in Libano i dirigenti dei partiti li sceglie il partito in un congresso. Pietosa bugia che rivela la paura di non tornare a casa.

il presidente  della Repubblica, generale Aoun ( i cui volontari cristiani hanno combattuto assieme all’Hezbollah in Siria) si rivolge agli USA e alla Francia per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Il dipartimento di Stato USA rilascia una dichiarazione di solidarietà e rispetto per Hariri, mentre il presidente francese Macron va in Arabia Saudita a parlare col focoso giovanotto. Esce dichiarando di non essere d’accordo con la politica iraniana del Crownprince e di ritenere che Hariri è trattenuto. Gli americani cerchiobbottisti avventizi, dichiarano che studieranno delle sanzioni a Hezbollah e la Camera dei rappresentanti autorizza eventuali spese in questo senso.

Consapevoli della gravità del momento, Israele e Hezbollah hanno tenuto un profilo basso e insolitamente silenzioso. Il quotidiano Haartez commenta che l’Arabia Saudita vuole far fare a Israele ” il lavoro sporco”.  In sede di analisi, spiega che non vuole intralciare il processo in corso di accordo tra Hamas e Fatah al Cairo e abbisogna di almeno un anno per completare le sistemazioni difensive del Sinai.

Credo che il silenzioso Hezbollah stia cercando tra i familiari del Crownprince la persona adatta a sbarazzarci del matto, mentre Saad Hariri , rintracciato da un giornalista che voleva sapere quando sarebbe tornato in Patria,  avrebbe risposto ” tra giorni”. Inchallah.

Gli USA adesso non sanno che pesci pigliare. Se seguire il rampollo reale nella sua spericolata discesa e inimicarsi anche il Libano, oppure guardare alla dinastia giordana che potrebbe sostituire i sauditi ( wahabiti) nella custodia dei luoghi santi dell’Islam, visto che ormai i wahabiti vengono sempre più considerati come estranei all’Islam. E guidati da due matti. Sono quasi certo che prenderanno la decisione sbagliata.

Khashoggi, il buono e il cattivo_di Giuseppe Germinario

La sparizione e la probabile morte del saudita Jamal Khashoggi a Istanbul ha provocato una vera e propria indignata sollevazione di scudi. La Turchia in questi mesi ha conosciuto altri eventi drammatici che hanno riguardato diplomatici, nella fattispecie l’uccisione dell’ambasciatore russo; ha vissuto tragici attentati, un tentativo di golpe e una drastica conseguente epurazione di decine di migliaia di funzionari pubblici e giornalisti che hanno rafforzato il pieno controllo politico di Erdogan sul paese. In Arabia Saudita, d’altro canto, paese componente e sino a pochi mesi fa posto senza remore alla presidenza del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il confronto politico prevede da sempre, nella gamma delle modalità, la liquidazione fisica degli avversari ed altre amene trivialità; in un paese dove la pena di morte, le punizioni corporali e il controllo capillare sono connaturati al regime integralista sin dalla nascita. A conferma che queste pratiche non risparmiano nessuno il recente attacco sanguinoso con fucili di assalto nel palazzo del Principe Selmani prontamente censurato.

Da questa plumbea normalità il caso Khashoggi è emerso con grande clamore rimbalzando in tutto il mondo.

Il paladino della democrazia, il giornalista militante della libera informazione vittima della crudeltà triviale del Principe Saudita oscurantista e paranoico. In un mondo così confuso finalmente un chiaro discrimine tra il buono e il cattivo così in voga nella narrazione cinematografica.

Una nobile indignazione colta ed alimentata da quella grande stampa che negli ultimi anni pare aver spento ogni spirito critico e ogni precauzione alla manipolazione dei fatti.

Ma siamo proprio sicuri di trovarci ad un atto di redenzione sia pure tardivo?

Proviamo a porci e porre qualche domanda.

Come mai Erdogan, sino a pochi giorni fa presentato come il grande affossatore della libertà di stampa, il fustigatore di decine di giornalisti, l’epuratore per antonomasia assurge improvvisamente agli stessi occhi dei fustigatori di un tempo al ruolo di dispensatore della verità e di giudice della barbarie saudita? Eppure sono stati i turchi ad avvertire i sauditi del prossimo arrivo di Khashoggi a Istanbul; dicono di avere prove schiaccianti e filmati del barbaro assassinio, ma tardano ad esibirle. La stessa presenza di filmati, se confermata, confermerebbe piuttosto l’esistenza di una quinta colonna nel drappello saudita incaricato della missione. In operazioni analoghe i sauditi hanno per altro dimostrato ben altra perizia con il trasbordo forzato in madrepatria della vittima designata.

Come mai la testa dello schieramento dei partigiani della verità e della democrazia è fermamente e tempestivamente presidiata, tra gli altri del medesimo campo, da John Brennan, ex capo della CIA ai tempi di Obama, grande artefice delle primavere non solo arabe e del grande caos in Medio Oriente e dal Washington Post, giornale ormai ridotto a mera cassa di risonanza partigiana dell’establishment sconfitto alle elezioni presidenziali americane. Figure ormai poco attendibili e credibili per questo genere di proclami e di campagne.

Come mai il martire Khashoggi è stato unanimemente presentato come fine giornalista e scrittore e come paladino della democrazia liberale quando il suo curriculum è ben più nutrito e abbraccia un campo di interessi e di interventi ben più vasto e rilevante. La figura del giornalista, purtroppo non è più così ben definita. Il confine tra il ruolo di giornalista, quello di informatore e di agente sta diventando labile. La scena indecoroso fferta a Tripoli da buona parte degli addetti nel 2011 è rivelatrice di una insana commistione. Nel caso di Khashoggi per altro sembrano esserci pochi dubbi. Negli anni ’80 lo vediamo impegnato a buoni livelli nella resistenza jihadista in Afghanistan; successivamente lo si vede in contatto stretto con Al Qaida e con Bin Laden al punto da essere indicato dai sauditi come mediatore di una possibile riconciliazione del capo qadista con la famiglia saudita; ancora dopo lo si vede tra i sostenitori e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, notoriamente sostenuti e finanziati dall’emiro del Qatar e dai Turchi e ormai da tempo scaricati dai sauditi, dopo le fallimentari prove offerte in Egitto e in Libia. Obama e il suo cerchio magico aveva notoriamente riposto in essi le maggiori speranze di successo di un ribaltamento dei regimi in Medio Oriente. Da qui il suo impegno in Siria a favore dei “ribelli moderati”, almeno nelle sigle. La democrazia rivendicata da essi e dallo stesso Khashoggi, a leggere con attenzione i suoi testi, non era altro che un tentativo di imporre un diverso regime, alternativo al modello wahabita dei Saud, ma pur sempre nettamente integralista. Quanto alla sua visione geopolitica è sufficiente sottolineare la sua conclamata omologazione del Principe Selman alla figura altrettanto nefasta di Putin. Per ultimo Khashoggi è stato per anni segretario del capo dei servizi segreti sauditi, Principe Suleiman, acerrimo avversario del Principe Selman, attualmente capo di fatto della casa saudita. Negli ultimi tempi il giornalista, entrato nelle grazie di Obama, è apparso sempre più distante ed estraneo ai giochi interni alla casa saudita e sempre più legato alle trame dei servizi angloamericani. Lo stesso era addirittura in predicato di diventare uno dei capi all’estero di una eventuale rivoluzione d’Arabia che prevedeva il controllo diretto da parte americana dei pozzi di petrolio e l’instaurazione di un nuovo regime che spodestasse i Saud. Un progetto per il momento naufragato con lo stallo in Siria e l’elezione di Trump alla Casa Bianca.

Il caso Khashoggi in realtà si sta trasformando in un’occasione e uno strumento da brandire da parte dei vari attori dello scacchiere geopolitico mediorientale e delle due fazioni in lotta negli Stati Uniti. Può servire ad Erdogan per ottenere un qualche salvacondotto nella politica di sanzioni all’Iran, visto il suo vitale interscambio commerciale con esso. Può servire a ridurre a patti e a ridimensionare il peso geopolitico del Principe Selman ed indebolire quindi il suo patto di ferro con Trump ed Israele e di conseguenza a ricucire il rapporti di Erdogan con i due schieramenti negli USA. Sarebbe in proposito interessante analizzare le linee di condotta Russa e Cinese nell’eventualità di un nuovo giro di valzer turco. Per la prima volta Trump appare stretto in un cul di sac, obbligato a due scelte alternative altrettanto costose: sostenere il maldestro Bin Selman e con questo rendersi complice di un comportamento efferato; scaricarlo e con questo mettere in discussione la triplice alleanza con i sauditi e Israele; il perno della attuale politica americana in Medio Oriente.

In realtà la componente wahabita più integralista, quella stessa osteggiata dal Principe Selman, potrebbe essere quell’avversario ancora più spietato e determinato, interessato a liquidare il “giornalista” troppo vicino ai Fratelli Musulmani e agli americani. Il temporaneo sodalizio di questa con il sultano turco e la sua simbiosi con la componente democratica-neocon americana potrebbe essere il trio diabolico più interessato a liquidare e sacrificare “il paladino della democrazia” addebitandone la responsabilità al Principe saudita di fatto reggente. L’improvvisa prudenza con la quale Erdogan in queste ore sta affrontando l’affaire lascia margini alla fantapolitica. Potrebbe essere la scappatoia che consentirebbe a Trump di uscire dalla trappola e di ribaltare sulle spalle altrui il dilemma; in questo, ancora una volta, sarà importante il lavoro sotterraneo di Israele, ben presente nei tre paesi principali di quell’area.

Intanto l’Arabia Saudita ha improvvisamente aumentato i volumi di produzione del petrolio; ci sarà da attendersi una pressione dei prezzi al ribasso. Russia e Stati Uniti sono avvertiti.

Ci attende un mondo sempre più complicato e dalle apparenze ingannevoli dove i buoni, in realtà, possono rivelarsi ben peggiori dei cattivi.

UN AVVOCATO FOLGORATO SULLA VIA DI DAMASCO, di Gianfranco Campa

Lo scontro politico, sia nel confronto interno agli stati e alle formazioni sociali che nello scacchiere geopolitico, si sta vieppiù imbarbarendo e brutalizzando. Sta assumendo sempre più l’aspetto di una guerra per bande dagli umori e dalle alleanze mutevoli corroborate da sodalizi trasversali. Non sono beninteso eventi straordinari. Gli “incidenti” sono sempre possibili, ma in periodi di quiete o di gerarchie e alleanze ben definite i colpi bassi avvengono sotto traccia, in maniera selettiva e sono coperti solitamente da una cortina di silenzio o di giustificazioni in caso di emersione. La realtà odierna dello scontro politico presenta invece aspetti crescenti di ferocia, brutalità e spregiudicatezza così ostentata da lasciare allibiti tanto è immensa la miseria, la grettezza e l’arroccamento di gran parte delle fazioni e delle classi dirigenti. Gianfranco Campa ci offre un altro schizzo del paesaggio e delle trame in azione all’interno degli Stati Uniti. Prossimamente allungheremo lo sguardo a migliaia di chilometri di chilometri, verso il Medio Oriente, al caso Khashoggi. Una vicenda impressionante nella sua brutalità; un episodio la cui dinamica apparentemente cristallina non deve ingannare. Il probabile intrico di interessi e di trame che lo hanno sacrificato lascia intendere la presenza di numerosi protagonisti. Vedremo come, tra le varie ipotesi, in un modo o nell’altro, l’assassinio del giornalista dalle molte professioni rischia di costringere Trump per la prima volta in un cul de sac. A meno che…_Giuseppe Germinario

 

A VOLTE PURTROPPO RITORNANO

Qualcuno di voi ricorderà il nome di Michael Cohen. E’ uno dei protagonisti dei nostri ultimi podcasts sul Pornogate e Russiagate, apparso più volte nelle note delle agenzie di stampa tradizionali. Michael Cohen è stato l’avvocato di Donald Trump fino a quando, una mattina deI 9 aprile 2018, l’FBI fece irruzione nel suo ufficio legale con un mandato di perquisizione federale. Mandato ottenuto per conto dell’ufficio del procuratore federale del distretto meridionale di New York. L’irruzione negli uffici di Cohen portò al sequestro di migliaia di documenti legati alle attività di Trump e delle registrazioni private fra il legale e il futuro Presidente.  Se avete seguito i nostri precedenti podcasts, saprete allora che l’indagine del distretto federale di New York seguiva il filone dell’inchiesta del pornogate a sua volta figlia illegittima dell’indagine del procuratore speciale sul Russiagate Robert Mueller.

Dopo il patteggiamento con il giudice e il conseguente voltafaccia nei confronti di Trump, l’avvocato Cohen sembrava uscito virtualmente di scena. Improvvisamente tre giorni fa il professionista di fiducia è rientrato in scena; Cohen, folgorato sulla via di Damasco, durante un’intervista alla CNN ha supplicato gli elettori americani di recarsi alle urne per le elezioni di Medio termine e votare contro il presidente Trump e il partito repubblicano, implorando loro di farlo per evitare la iattura di altri due o sei anni di Donald Trump.

Nell’intervista Cohen dice: “…la mia raccomandazione! Prendi la tua famiglia, prendi i tuoi amici, afferra i tuoi vicini e vai ai seggi, perché altrimenti, avremmo altri due o sei anni di questa follia” Sempre nell’intervista Cohen ha dichiarato di essere stato da sempre un Democratico, iscritto poi al partito Repubblicano su richiesta del vertice del partito Repubblicano stesso, quando Trump si presentò da candidato alle elezioni.

L’intervista a Cohen suona come un brutto presagio per Trump. Sottolinea l’importanza di queste elezioni di Medio Termine e risalta allo stesso tempo la potente macchina organizzativa responsabile dell’assedio alla presidenza di Trump. Macchina che è riuscita tramite la magistratura a trasformare Michael Cohen da protettore degli interessi di Trump ad ennesimo nemico arruolato alla causa anti-trumpiana. Mancano quattordici giorni alle elezioni di medio termine, se ne stanno vedendo di tutti i colori. Tutto è possibile, senza nessuna esclusione di colpi.

https://www.youtube.com/watch?v=gz4aet3AYkI&t=395s

 

27°-2 podcast_elezioni di medio termine, di Gianfranco Campa

Il 27° podcast di Gianfranco Campa è una autentica gemma; un pezzo di grande giornalismo degno di essere ospitato nelle più autorevoli riviste di analisi politica. Offre informazioni ed analisi introvabili nell’editoria più affermata. La grande stampa, però, è ormai schiava della peggiore e più ottusa partigianeria, condita da un livello di approssimazione sconcertante; offre rarissimi spazi ad analisi obbiettive ed approfondite. questo blog ha sottolineato più volte la crucialità della scadenza delle elezioni americane di medio termine sia per quella nazione che per le dinamiche geopolitiche. Sino ad ora si è soffermato soprattutto sulle vicende della Presidenza Trump, sul suo rapporto conflittuale, aspro con il Partito Repubblicano e con i settori maggioritari e più potenti dello Stato. A prezzo di pesanti cedimenti e compromessi del Presidente, ha tuttavia rivelato sì la forza di questi settori, ma anche la loro mancanza di una strategia coerente e di una prospettiva convincente tale da consentire il controllo accettabile della situazione e un recupero di credibilità. Una situazione che ha consentito l’acquisizione di un controllo accettabile del Partito Repubblicano da parte di Trump a costo però di una fronda disposta a tutto pur di affossarlo e ridurlo in minoranza rispetto ai democratici. La scadenza elettorale sta rivelando un accenno di strategia coerente del fronte di opposizione a Trump. Una strategia tesa a paralizzare il Presidente, presumibilmente, sino alla fine del suo mandato ma anche a controllare le possibili fratture che minacciano la tenuta anche del Partito Democratico americano. Si deve ricordare che la Clinton, in cambio del sostegno tiepido di Sanders, successivo alla vittoria fraudolenta alle primarie, ha dovuto cedere il controllo di ampi settori del partito in cambio della rinuncia all’astensione e ad una probabile scissione dei settori radicali di quel partito. La strada scelta è del tutto inedita e sorprendente; inquietante soprattutto. Si assiste, ormai, all’ingresso esplicito e massiccio nella scena politica di esponenti dello stato profondo. Una dimostrazione di forza e di debolezza allo stesso tempo. Per questo l’ascolto del podcast merita grande attenzione. La situazione in Italia e in Europa, del resto, dipende in gran parte dall’evolversi di questa situazione.

Qui sotto sono forniti i link ai quali fa riferimento Campa nel suo intervento e la lista parziale ma significativa dei candidati direttamente legati ai servizi di intelligence. Sono circa la metà del totale delle candidature alla Camera, al Senato e ai Governatorati. Se volete avete tutta la possibilità di approfondire e verificare l’attendibilità delle informazioni. 

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Due importanti progetti sono in preparazione e in espansione in Medio Oriente; potrebbero presto scontrarsi. Di Alastair Crooke

Un interessante articolo di A. Crooke sulle dinamiche in via di formazione nel Medio Oriente. La traduzione presenta qualche difetto che non inficia la comprensione in quanto per mancanza di tempo è stato utilizzato un traduttore come base di lavoro_ Buona lettura_Giuseppe Germinario

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 18-09-2018

Sulle ceneri di due mega-progetti di questo decennio si conclude – vale a dire il tentativo di acquisizione da parte dei Fratelli musulmani e, invece, il progetto del Golfo per romperlo – e ripristinare l’assolutismo ereditaria tribale (il “sistema arabo”) – compaiono due diversi progetti contrapposti. Stanno guadagnando sempre più potere e inevitabilmente competeranno tra loro – prima o poi. In realtà, lo fanno già. La domanda è quanto lontano andrà la rivalità.

Uno di loro è l’assembramento dell’area settentrionale della regione attraverso la diffusione di un’etica politica comune (in base alla resistenza verso gli Stati Uniti i quali insistono che la regione aderisce a un’egemonia americana restaurata) e nel bisogno più concreto di trovare un modo per aggirare la macchina da guerra finanziaria americana.

Quest’ultima società ha conseguito una grande vittoria negli ultimi giorni. Elijah Magnier, un giornalista veterano del Medio Oriente, riassume la situazione in poche parole:

Il candidato preferito degli Stati Uniti al primo ministro [Haidar Abadi] perse la sua ultima possibilità di rinnovare il suo mandato per un secondo mandato quando le rivolte scatenarono attacchi incendiari nella città meridionale di Bassora. del paese e bruciato le pareti del consolato iraniano in quella città. Mentre i residenti manifestavano per le loro legittime richieste (acqua potabile, elettricità, opportunità di lavoro e infrastrutture), i gruppi sponsorizzati con diversi obiettivi si mescolavano alla folla e riuscivano a bruciare uffici, ambulanze, un edificio governativo e una scuola. associato con al-Hashd al-Shaabi e altri gruppi politici anti-americani. Questo comportamento di folla ha costretto Sayyed Moqtada al-Sadr, leader di 54 deputati, abbandonare il suo compagno politico Abadi e porre fine alla sua carriera politica. Moqtada cercò di prendere le distanze dagli eventi di Bassora per permettere che la colpa cadesse solo su Abadi. Si è unito al campo vincente, quello dell’Iran …

“Questa combinazione di eventi ha portato Moqtada a … portare i suoi 54 deputati a unirsi alla più grande coalizione. La sponsorizzazione aperta degli Stati Uniti e gli eventi di Bassora hanno messo fine alla carriera politica di Abadi in Iraq … La più grande coalizione dovrebbe ora includere molti più di 165 deputati, e quindi diventare eleggibile per scegliere il Presidente dell’Assemblea e i suoi due deputati, il Presidente e il nuovo Primo Ministro … La nuova grande coalizione non avrà più bisogno del sostegno dei curdi (42 deputati). “

Il capo di questa vasta coalizione di partiti sciiti e sunniti sarà probabilmente Faleh al-Fayyadi, il leader di Hashd al-Shaabi. Sul fronte politico, l’Iraq è ora incline a far parte del partenariato Russia-Iran-Siria guidato da Russia e Siria al Nord (anche se le divisioni all’interno del campo sciita iracheno rimangono una potenziale fonte di conflitto) . E se, come è probabile, l’Iraq è sotto embargo imposto dagli Stati Uniti per non aver rispettato le sanzioni statunitensi contro l’Iran, allora l’Iraq sarà spinto – dall’urgenza delle circostanze – nella mutevole situazione economica che è stata oggetto di importanti discussioni al vertice di Teheran lo scorso venerdì. Cioè, in una serie in continua evoluzione di quadri economici per la de-dollarizzazione e la violazione delle sanzioni statunitensi.

La portata di questo errore di calcolo (l’istigazione di proteste violente) a Bassora (una complicità saudita è ampiamente sospettata) ha implicazioni più ampie per gli Stati Uniti. Innanzitutto, è probabile che alle forze americane verrà ordinato di lasciare l’Iraq. Secondo, complicherà la capacità del Pentagono di mantenere la sua presenza militare in Siria. La logistica degli schieramenti statunitensi nella Siria nord-orientale, che attraversano l’Iraq, potrebbe non essere più disponibile e le forze statunitensi in Siria saranno inevitabilmente isolate e quindi più vulnerabili.

Ma un’inversione di tendenza in Iraq è anche il culmine dell’aspirazione del presidente Trump a riaffermare il predominio energetico americano nel Medio Oriente. Iran – si sperava – sarebbe poi capitolare e cadono sotto la pressione economica e politica, e come e quando il domino capovolgimento iraniana avrebbe portato con sé il domino iracheno che sarebbe caduta rumorosamente all’accettazione politica

Con questo scenario, gli Stati Uniti finirebbero con le principali fonti di energia del Medio Oriente a “basso costo di produzione” (cioè petrolio, gas e petrolio del Golfo, dell’Iran e dell’Iraq) nelle loro mani. Alla luce degli eventi di questa settimana, tuttavia, sembra più probabile che queste risorse – o almeno le maggiori risorse energetiche di Iran e Iraq – finiranno nella sfera russa (con le prospettive inesplorate del bacino levantino in Siria). E questo “cuore” russo, la sfera che produce energia, potrebbe alla fine rivelarsi un rivale più che sostanziale rispetto alle aspirazioni degli Stati Uniti (che è appena emerso come “il più grande produttore di petrolio al mondo”). ) per ripristinare il loro dominio energetico in Medio Oriente.

L’altra opposta “dinamica” che sta guadagnando massa critica è l’obiettivo di Kushner-Friedman-Grrenblatt di porre fine all’insistenza del popolo palestinese che la sua stessa rivendicazione è precisamente un “progetto politico”. L’obiettivo (secondo i dettagli divulgati finora), è quello di svuotare la forza politica della loro rivendicazione – tagliando gradualmente i principali lavatori di salami che costituiscono in primo luogo questa affermazione che si tratta di un progetto politico.

In primo luogo, ponendo fine al paradigma dei due Stati, che deve essere sostituito da uno stato, uno “stato-nazione” ebraico con diritti differenziati e diversi poteri politici. Secondo, rimuovendo Gerusalemme dal tavolo dei negoziati come capitale di uno stato palestinese; e in terzo luogo, tentando di dissolvere lo status di rifugiato palestinese, per reindirizzare il peso della colonizzazione sui governi ospitanti esistenti. In questo modo, i palestinesi devono essere cacciati dalla sfera politica in cambio della promessa che possono diventare più prosperi – e quindi “più felici” – seguendo la ricetta di Kushner.

E, a quanto pare, facendo affidamento sulla loro esperienza immobiliare nel gestire inquilini scomodi che si distinguono da qualsiasi importante sviluppo immobiliare, è in corso il “restringimento” di Kushner-Friedman: ritiro dei fondi da UNWRA [L’Agenzia di Soccorso e Lavori delle Nazioni Unite per i profughi della Palestina nel Vicino Oriente è un programma di assistenza delle Nazioni Unite ai rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, Giordania in Libano e in Siria, 1949, chiusura dell’Ufficio degli Stati Uniti dell’OLP; rimozione degli aiuti agli ospedali di Gerusalemme Est e demonizzazione dei funzionari palestinesi accusandoli di corruzione e ignorando le cosiddette aspirazioni della Palestina (per un’esistenza materialmente migliore).

Recentemente, la squadra di Kushner ha riproposto una vecchia idea (sottolineato in ebraico quotidiano Yedioth Ahoronot da Sima Kadmon, 7 settembre 2018) Abu Mazen [Mahmoud Abbas Selman soprannome NdT] non ha rilasciato direttamente quando è stato avvicinato). È nata con il generale israeliano Giora Eiland nel gennaio 2010 in un articolo che ha scritto per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies. Eiland ha scritto:

“La soluzione è stabilire un regno unificante giordano con tre” stati “: la Banca orientale, la Cisgiordania e Gaza. Questi stati, nel senso americano del termine, saranno come la Pennsylvania o il New Jersey. Godranno della completa indipendenza in materia di affari interni e avranno un budget, istituzioni governative, leggi distintive, un servizio di polizia e qualsiasi altro simbolo esterno di indipendenza. Ma, come la Pennsylvania e il New Jersey, non avranno alcuna responsabilità in due aree: politica estera e truppe militari. Queste due aree, come negli Stati Uniti, rimarranno di competenza del governo “federale” di Amman. “

Eiland ha ritenuto che tale soluzione avesse evidenti vantaggi per Israele, rispetto alla soluzione dei due stati. “Primo, c’è un cambiamento nella storia. Non stiamo più parlando del popolo palestinese che vive sotto occupazione, ma di un conflitto territoriale tra due paesi, Israele e Giordania. In secondo luogo, la Giordania potrebbe essere più conciliante su alcune questioni, come la questione territoriale. Aggiungendo che “il Medio Oriente, l’unico modo per garantire la sopravvivenza del regime è quello di garantire un controllo efficace della sicurezza … quindi, il modo per prevenire disordini in Giordania, che sarà alimentato da un futuro regime di Hamas a West Bank, è il controllo militare giordano su questo territorio [più una Cisgiordania smilitarizzata su cui Israele insiste] “.

Nel complesso, i palestinesi di Gaza (secondo i rapporti) saranno installato in Gaza / Sinai (e “controllato” dai servizi segreti egiziani), mentre le restanti enclave palestinesi in Cisgiordania saranno controllati da ufficiali giordani sotto controllo della Sicurezza generale degli israeliani. È un governo “federale” giordano che riceverà le denunce e sarà ritenuto responsabile da Israele per l’intera situazione.

Naturalmente, questo potrebbe essere solo un palloncino di prova di Kushner et al. Non sappiamo quale sarà il Trion’s Century Coup (è stato ritardato molte volte), ma ciò che sembra chiaro è l’intenzione di estinguere la nozione di tutto il potere politico palestinese in sé e rendere docili i palestinesi tagliando i loro capi e offrendo loro un guadagno materiale. I palestinesi sono attualmente deboli. E non c’è dubbio che gli Stati Uniti e Israele, lavorando insieme, potrebbero riuscire a soffocare ogni opposizione al “colpo di stato”. Gerusalemme sarà “data” ad Israele. I palestinesi saranno politicamente de-fenestrati. Ma a quale prezzo? Cosa succederà allora ai re del Golfo?

In un articolo di opinione sul New York Times , lo studioso di Oxford Faisal Devji ha osservato il mal di testa dell’Arabia Saudita:

Dopo la prima guerra mondiale, la marina statunitense sostituì gli inglesi e il petrolio rese il regno una risorsa cruciale per il capitalismo occidentale. Ma la sua supremazia religiosa ed economica è stata contestata dalla continua emarginazione politica dell’Arabia Saudita, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e anche l’esercito pakistano essere responsabile per la stabilità interna e la sua difesa contro le minacce esterne.

Oggi l’Arabia Saudita si oppone apertamente all’Iran, ma le sue pretese di dominio sono rese possibili solo dal declino dell’Egitto e dalla devastazione dell’Iraq e della Siria. La Turchia rimane la sua unica rivale, ancora ambigua, con l’eccezione dell’Iran.

… Il regno del principe Mohammed è più simile a uno stato “laico” che a uno stato “teocratico”, in cui la sovranità è stata finalmente strappata da clan e religiosi per essere richiesta direttamente dalla monarchia. Ma l’Arabia Saudita non può assumere un maggiore potere geopolitico se non mettendo in pericolo il suo status religioso … [Enfasi aggiunta].

Il progetto di fare dell’Arabia Saudita uno stato politicamente definito, piuttosto che religioso, rischia di demolire la visione secolare di una geografia islamica [sunnita], che è sempre stata basata sulla costituzione di un centro depoliticizzato in Arabia Saudita. La Mecca e Medina continueranno ad accogliere i loro pellegrini, ma l’Islam [sunnita] potrà finalmente trovare la sua casa in Asia, dove vive il maggior numero di suoi seguaci e dove la ricchezza e il potere del mondo continuano a fluire.

Ma questo non è semplicemente il caso dell’islam sciita, che ha saputo unire il potere politico con status religioso restaurato – come dimostra la straordinaria crescita del centro di pellegrinaggio sciita di Karbala – e il successo della L’Iran nella sua lotta contro i jihadisti wahhabiti in Siria e Iraq. (Per l’Arabia Saudita, d’altra parte, il conflitto nello Yemen ha minato la sua credibilità politica e religiosa.

Eppure … eppure, nonostante le traiettorie contrastanti, è qui che può verificarsi una collisione: Israele si è inevitabilmente alleata con l’Arabia Saudita e l’Islam sunnita. Allo stesso modo, gli Stati Uniti hanno adottato la posizione partigiana di Israele e Arabia Saudita contro l’Iran. Entrambi spingono il re saudita da dietro per condurre una guerra ibrida contro il suo potente vicino.

Alon Ben David, corrispondente militare israeliana, scrivendo sul quotidiano Ma’ariv in ebraico (7 settembre 2018), illustra la narrazione israeliana Promethean celebra il suo successo (grazie al pieno supporto di Trump): “L’esercito di difesa “Israele [IDF], che era indietro di diversi anni nel rilevare la potenziale minaccia dell’espansione dell’Iran, ha capito che doveva agire … questa settimana l’IDF ha rivelato che erano stati effettuati oltre 200 attacchi aerei in Siria dall’inizio del 2017. Ma se si guarda alla somma delle attività dell’IDF, di solito segrete, nel contesto di questa guerra, negli ultimi due anni, l’IDF ha condotto centinaia di transazioni transfrontaliere di tipo diverso. La guerra tra due guerre divenne la guerra dell’IDF, ed è stato condotto giorno e notte … Finora, Israele è stato più forte nella guerra diretta con l’Iran … quando colpiamo, il nostro potere deterrente diventa più forte. ”

Beh … è una questione di opinione (alto rischio).

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 18-09-2018

27°-1 podcast_elezioni di medio termine, di Gianfranco Campa

Raramente, nei settant’anni di vita politica della Repubblica Italiana, le incertezze del conflitto politico negli Stati Uniti si sono riflesse in maniera così diretta nel nostro contesto nazionale come oggi. Gran parte delle fortune presenti e future del Governo Conte, pur tra tanti errori e difetti di impostazioni spesso grossolani, dipendono dalla sopravvivenza se non dall’affermazione dell’attuale leadership americana. Le elezioni di medio termine della Camera e del Senato statunitensi segneranno probabilmente un punto di svolta in un senso o nell’altro. Solitamente rappresentano una scadenza enfatizzata mediaticamente, ma dalle conseguenze poco rilevanti nella concretezza del confronto politico. Questa volta è diverso. Non a caso l’avvicinarsi dell’appuntamento è accompagnato da una serie di atti intimidatori di estrema gravità nei confronti di singoli esponenti politici della compagine conservatrice prossima al Presidente apparsi nella stampa nazionale americana e del tutto ignorati in quella europea. L’atteggiamento tattico adottato dalla compagine democratica e neocon teso a sopire lo spirito di militanza dello schieramento avverso non deve trarre in inganno. Di questo il blog renderà conto prossimamente. Sta di fatto che, per tornare a casa nostra, tutte le vecchie classi dirigenti europee sembrano in attesa di un evento salvifico che consenta loro di tornare rapidamente in sella. Gianfranco Campa, da par suo, nel frattempo ci illustra le varie possibilità che si potranno verificare in base all’esito di queste votazioni e, soprattutto, nella seconda parte ci svelerà alcuni risvolti inquietanti delle scelte di parte democratica riguardanti le candidature. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-27-1

decolli e naufragi, di Antonio de Martini

IN UN ORGIA DI LIQUIDITA’ L’AFRICA DECOLLA SOTTO IL NOSTRO NASO.

Il Senato degli Stati Uniti ha adottato il 3 di ottobre, un provvedimento ” storico” di cui nessuno ha parlato nei media italiani.

Gli USA hanno creato lo strumento per controbattere la penetrazione cinese in Africa:: l’USIDFC, una nuova istituzione finanziaria per lo sviluppo. ( United States Development Finance Corporation).

Si tratta della risposta americana al progetto ” ONE BELT, ONE ROAD” col quale la Cina si propone di ricreare una nuova ” via della seta” e sulla quale Xi JINPING, il presidente cinese, ha stanziato – lo scorso settembre – in occasione del ” FORUM PER LA COOPERAZIONE CINA-AFRICA tenutasi a Pechino- 60 miliardi di dollari di cui 15 da erogare parte come Doni e parte senza interessi.

Trump, un mese dopo, ha stanziato lo stesso ammontare e il Senato americano dilaniato da lotte mortali, in un eccezionale momento di coesione nazionale, ha votato il provvedimento a 93 contro 6, questo BUILD ACT, una legge per ottimizzare gli investimenti in Africa.

Il BUILD ACT ha ordinato la fusione di alcune agenzie americane L’Overseas Private Investment Corporation ( OPIC) e l’ United States Agency for International Development ( USAID).

Ai trenta miliardi di dotazione dell’ OPIC, il governo, oggi, ne ha aggiunti altri trenta e ha tolto il veto a investire direttamente nelle imprese finanziate e in Africa. Il modulo prescelto è la collaborazione pubblico/privato.

Si tratta di una opportunità storica per l’Africa ( 120 miliardi di dollari in totale) che contribuiranno al decollo del Continente a noi più vicino e che sancirà la nostra irrilevanza – anche in quanto europei- perché siamo incastrati in beghe di cortile e guidati , a livello europeo, da Agenti di potenze imperiali vecchie e nuove che sviano l’attenzione del mondo dal business del secolo.

Basterebbero le briciole di questo progetto per trasformare l’Italia nel trampolino del super sviluppo data la nostra vicinanza logistica, le nostre tecnologie e la nostra mancanza di un passato coloniale imbarazzante.

Vedrete che perderemo anche questo treno.

La necessità di un vertice Trump-Putin. Di Stephen F. Cohen, a cura di Giuseppe Germinario

La necessità di un vertice Trump-Putin. Di Stephen F. Cohen

Fonte: The Nation, Stephen F. Cohen , 06-06-2018

Dieci modi in cui la nuova guerra fredda USA-Russia diventa più pericolosa di quella cui siamo sopravvissuti.

 

3Stephen F. Cohen, professore emerito di studi e politica russa alla NYU (New York University) e Princeton, e John Batchelor discussioni continue (di solito) settimanali sulla nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Russia. (Puoi trovare gli episodi precedenti, ora al loro quinto anno, su TheNation.com. )

I rapporti recenti suggeriscono che un incontro formale tra i presidenti Donald Trump e Vladimir Putin è stata seriamente discussa a Washington e Mosca. Tali ‘vertici’ rituali ma spesso significativo, come venivano chiamati, sono stati utilizzati frequentemente durante il 40-year Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, tra gli altri, ridurre i conflitti e aumentare la cooperazione tra la due superpoteri. Erano i più importanti quando le tensioni erano le più forti. Alcuni hanno avuto molto successo, altri meno, altri sono stati considerati fallimenti. Date le circostanze politiche straordinariamente tossiche di oggi, anche lasciando da parte la forte opposizione di Washington (compresa all’interno dell’amministrazione Trump) ogni forma di cooperazione con il Cremlino, ci si chiede se qualcosa di positivo sarebbe venuto da un vertice Trump-Putin. Ma è necessario, anche imperativo, provare Washington e Mosca.

La ragione dovrebbe essere chiara. Come Cohen ha iniziato a discutere per la prima volta nel 2014, la nuova Guerra Fredda è più pericolosa della precedente e sta diventando sempre di più. È ora di aggiornare, anche brevemente, i motivi, di cui ce ne sono già almeno dieci:

  • 1.L’epicentro politico della nuova guerra fredda non è nella lontana Berlino, come è stato dalla fine degli anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, degli stati baltici e dell’Ucraina vicino a casa. ex repubblica sovietica della Georgia. Ognuno di questi nuovi fronti della Guerra Fredda è, o è stato recentemente, segnato dalla possibilità di una guerra calda. Le relazioni militari tra Stati Uniti e Russia sono particolarmente tese oggi nella regione del Baltico, dove è in corso un rafforzamento della NATO su larga scala, e in Ucraina, dove una guerra per procura tra Stati Stati Uniti e Russia si intensificano. Il “blocco sovietico” che fungeva da cuscinetto tra NATO e Russia non esiste più. E molti incidenti immaginabili sul nuovo fronte occidentale dell’Occidente, intenzionale o no, potrebbe facilmente innescare una vera guerra tra Stati Uniti e Russia. Qual è l’origine di questa situazione senza precedenti ai confini della Russia – almeno dall’invasione nazista nel 1941 – è, naturalmente, la decisione estremamente imprudente, alla fine del 1990 per espandere La NATO ad est. Nel nome della “sicurezza”, ciò ha solo aumentato l’insicurezza di tutti gli Stati interessati.
  • 2. Le guerre Proxy erano una caratteristica della vecchia Guerra Fredda, ma in genere limitate a ciò che era noto come il “Terzo Mondo” – in Africa, per esempio – e raramente coinvolgevano molti, se non nessuno, militari Sovietica o americana, per lo più solo denaro e armi. Le guerre per procura USA-Russia odierne sono diverse, situate al centro della geopolitica e accompagnate da troppi consiglieri militari, assistenti e forse persino da combattenti americani e russi. Due sono già scoppiati: in Georgia nel 2008, quando le forze russe hanno combattuto un esercito georgiano finanziato, addestrato e guidato da fondi e personale statunitensi; e in Siria, dove, a febbraio,dozzine di russi sono stati uccisi dalle forze anti-Assad sostenute dagli Stati Uniti. Mosca non ha reagito, ma si è impegnata a farlo se c’è “una prossima volta”, come potrebbe essere. Se è così, sarebbe una guerra diretta tra Russia e America. Nel frattempo, il rischio di un tale conflitto diretto continua a crescere in Ucraina, dove il presidente Petro Poroshenko, sostenuto dagli Stati Uniti ma politicamente imperfetto, sembra sempre più tentato di lanciare un nuovo attacco militare totale al Donbass controllato dai ribelli, sostenuto da Mosca. Se lo fa, e l’assalto non fallisce rapidamente come i precedenti, la Russia interverrà certamente nell’est dell’Ucraina con una “invasione” davvero concreta. Washington dovrà quindi prendere una decisione fatidica di guerra o pace. Avendo già rinunciato ai propri impegni nei confronti degli accordi di Minsk, che è la migliore speranza di porre fine pacificamente alla crisi ucraina che dura da quattro anni, Kiev sembra avere un impulso incrollabile per essere un cane da guerra. Certo, la capacità di provocazione e disinformazione è senza precedenti, come dimostra ancora una volta la settimana scorsa il “assassinio e la risurrezione” falso del giornalista Arkady Babchenko.
  • 3. La demonizzazione occidentale, ma soprattutto americana, del leader del Cremlino Putin, che dura da anni, non ha precedenti. Troppo ovvio ripetere qui, nessun leader sovietico, almeno da quando Stalin, è mai stato oggetto di diffamazione personale così prolungata, infondata e grossolanamente dispregiativa. Mentre i leader sovietici sono stati generalmente considerati partner negoziali accettabili per i presidenti degli Stati Uniti, anche a grandi vertici, Putin sembra essere un leader nazionale illegittima – nella migliore delle ipotesi “un KGB canaglia” nel peggiore dei casi un “padrino mafia “assassino.
  • 4. Inoltre, la demonizzazione di Putin ha generato diffamazione diffamatoria Russofobica della stessa Russia , o ciò che il New York Times e altri media mainstream hanno definito “la Russia di Vladimir Putin”.. Il nemico di ieri era il comunismo sovietico. Oggi è sempre più la Russia, delegittimando così la Russia come una grande potenza con legittimi interessi nazionali. “Il principio di parità”, come lo ha definito Cohen durante la precedente Guerra Fredda, il principio secondo cui entrambe le parti avevano interessi legittimi in patria e all’estero, che erano alla base della diplomazia e dei negoziati, e simboleggiato dai vertici dei leader – non esiste più, almeno sul versante americano. Né il riconoscimento che entrambe le parti erano da biasimare, almeno in parte, per questa guerra fredda. Tra gli influenti osservatori americani che riconoscono almeno la realtà della nuova guerra freddasolo la “Russia di Putin” deve essere criticata. Quando non c’è una parità riconosciuta e una responsabilità condivisa, c’è poco spazio per la diplomazia – solo per relazioni sempre più militarizzate, come stiamo assistendo oggi.
  • 5. Nel frattempo, la maggior parte delle misure di salvaguardia della guerra fredda – la cooperazione e norme di comportamento meccanismi reciprocamente osservate che si sono evolute nel corso dei decenni per prevenire la guerra calda delle superpotenze – sono stati spruzzati o compromesso, giacché la crisi ucraina nel 2014, come riconosciuto, quasi da solo, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres“La Guerra Fredda è tornata – con ardore raddoppiato ma con una differenza. I meccanismi e le protezioni per gestire i rischi di escalation che esistevano in passato non sembrano più essere presenti. ” recenti attacchi missilistici di Trump sulla Siria ha accuratamente evitato di uccidere russi lì, ma ancora una volta Mosca ha promesso di vendicarsi contro gli aggressori americani o altre forze coinvolte se c’è un “la prossima volta Come, di nuovo, ci possono essere alcuni. Anche il processo di controllo degli armamenti, che dura da decenni, potrebbe, dice un esperto, arrivare a “finire”. Se questo è il caso, ciò significherà una nuova corsa alle armi nucleari senza ostacoli, ma anche la fine di un processo diplomatico in corso che ha servito da cuscinetto per le relazioni USA-URSS in tempi di pessimi periodi politici. In breve, se ci sono nuove regole di condotta per la guerra fredda, non sono ancora state formulate e accettate reciprocamente. Questa semi-anarchia non tiene conto né della nuova tecnologia bellica degli attacchi informatici. Quali sono le sue implicazioni per il funzionamento sicuro dei sistemi di comando e controllo nucleare e anti-allarme nucleare russo e statunitense esistenti che proteggono da un lancio accidentale di missili ancora in stato di allerta?
  • 6. Le accuse su Russiagate che il presidente degli Stati Uniti è stato compromesso – o addirittura un agente del Cremlino – sono senza precedenti. Queste affermazioni hanno avuto conseguenze profondamente pericolose, tra cui l’assurda ma ripetuta dichiarazione come un mantra guerriera che “la Russia ha attaccato l’America” ​​durante le elezioni presidenziali del 2016; gli assalti paralizzanti al presidente Trump ogni volta che parla con Putin stesso o per telefono; e rendono Trump e Putin così tossici che persino la maggior parte dei politici, dei giornalisti e dei professori che capiscono i pericoli attuali sono riluttanti a denunciare i contributi americani alla nuova Guerra Fredda.
  • 7.Ovviamente, i media mainstream hanno svolto un ruolo deplorevole in tutto questo. Contrariamente al passato, quando i sostenitori del pro-rilassamento avevano un accesso pressoché uguale ai media tradizionali, i nuovi media odierni della Guerra Fredda rinforzano il loro discorso convenzionale secondo cui la Russia è l’unico responsabile. Non praticano la diversità di opinioni e relazioni, ma il “bias di conferma”. Le voci alternative (con, sì, fatti alternativi o opposti) appaiono raramente nei giornali mainstream più influenti in televisione o in radio. Un risultato allarmante è che la “disinformazione” generata da Washington e dai suoi alleati ha conseguenze prima che possa essere corretta. Il falso assassinio di Babchenko (presumibilmente ordinato da Putin, ovviamente) è stato prontamente denunciato, ma non il presunto tentativo di omicidio di Skripal nel Regno Unito, che ha portato alla più grande espulsione di diplomatici russi nella storia degli Stati Uniti prima della versione ufficiale di Londra di la storia non inizia a crollare. Anche questo non ha precedenti: la Guerra Fredda senza dibattito, che a sua volta ci impedisce di ripensare e rivedere spesso la politica americana che ha caratterizzato i 40 anni della precedente Guerra Fredda – in effetti, una “dogmatizzazione” forzata della politica americana che è estremamente pericoloso e antidemocratico. che ha portato alla più grande espulsione di diplomatici russi nella storia degli Stati Uniti prima che la versione ufficiale della storia di Londra iniziasse a crollare. Anche questo non ha precedenti: la Guerra Fredda senza dibattito, che a sua volta ci impedisce di ripensare e rivedere spesso la politica americana che ha caratterizzato i 40 anni della precedente Guerra Fredda – in effetti, una “dogmatizzazione” forzata della politica americana che è estremamente pericoloso e antidemocratico. che ha portato alla più grande espulsione di diplomatici russi nella storia degli Stati Uniti prima che la versione ufficiale della storia di Londra iniziasse a crollare. Anche questo non ha precedenti: la Guerra Fredda senza dibattito, che a sua volta ci impedisce di ripensare e rivedere spesso la politica americana che ha caratterizzato i 40 anni della precedente Guerra Fredda – in effetti, una “dogmatizzazione” forzata della politica americana che è estremamente pericoloso e antidemocratico.
  • 8.Così come non sorprende, e come molto diverso dalla 40enne Guerra Fredda, non c’è praticamente nessuna opposizione significativa nella corrente principale americana al ruolo degli Stati Uniti nella nuova Guerra Fredda – né nei media, né al Congresso, né nei due principali partiti politici, né nelle università, né a livello di base. Anche questo è senza precedenti, pericoloso e contrario alla vera democrazia. Basti pensare al silenzio assordante di dozzine di grandi aziende statunitensi che da anni fanno affari redditizi nella Russia post-sovietica, dalle catene di fast food e dalle case automobilistiche ai giganti dell’industria farmaceutica ed energetica. E confronta il loro comportamento con quello degli amministratori delegati di PepsiCo, dati di controllo, IBM e altre importanti società statunitensi che cercavano di entrare nel mercato sovietico negli anni ’70 e ’80, quando sostenevano e finanziavano anche organizzazioni e politici pro-rilassamento. Come spiegare oggi il silenzio delle loro controparti, che di solito sono così motivate dal profitto? Hanno paura di essere etichettati come “pro-Putin” o forse “pro-Trump”? Se è così, questa Guerra Fredda continuerà a svolgersi con esempi di coraggio molto rari negli alti luoghi? chi di solito è così motivato dal profitto? Hanno paura di essere etichettati come “pro-Putin” o forse “pro-Trump”? Se è così, questa Guerra Fredda continuerà a svolgersi con esempi di coraggio molto rari negli alti luoghi? chi di solito è così motivato dal profitto? Hanno paura di essere etichettati come “pro-Putin” o forse “pro-Trump”? Se è così, questa Guerra Fredda continuerà a svolgersi con esempi di coraggio molto rari negli alti luoghi?
  • 9. E poi c’è il mito diffuso che la Russia oggi, a differenza dell’Unione Sovietica, sia troppo debole – la sua economia troppo piccola e fragile, il suo leader troppo “isolato negli affari internazionali” – a condurre una Guerra Fredda duratura, e che alla fine Putin, che “scatole nella categoria superiore”, come vuole il cliché, capitolerà. Anche questa è un’illusione pericolosa. Come Cohen ha mostrato in precedenza“La Russia di Putin” è difficilmente isolata negli affari mondiali, e ancor meno, anche in Europa, dove almeno cinque governi si stanno allontanando da Washington e Bruxelles, e forse dalle loro sanzioni economiche. contro la Russia. In effetti, nonostante le sanzioni, l’industria energetica russa e le esportazioni agricole stanno prosperando. A livello geopolitico, Mosca ha molti vantaggi militari e connessi nelle aree in cui si è svolta la nuova Guerra Fredda. E nessuno Stato con armi nucleari e altre armi moderne in Russia sta combattendo “al di sopra della sua categoria”. Soprattutto, la stragrande maggioranza della popolazione russa si è radunata dietro a Putin perché crede che il suo paese sia sotto attacco dall’Occidente guidato dagli Stati Uniti.. Chiunque abbia una conoscenza rudimentale della storia russa comprende che è molto improbabile che possa capitolare in qualsiasi circostanza.
  • 10.Infine (almeno per il momento), c’è una crescente “isteria” di guerra, spesso evocata sia a Washington che a Mosca. È motivato da vari fattori, ma i programmi televisivi, che sono comuni in Russia come negli Stati Uniti, svolgono un ruolo importante. Solo uno studio quantitativo approfondito potrebbe discernere chi ha il ruolo più lamentevole nella promozione di questa frenesia – MSNBC e CNN o loro omologhi russi. Per Cohen, la caratteristica russa pessimista sembra appropriata: “I due sono i peggiori” (Oba khuzhe). Anche in questo caso, parte del dell’estremismo trasmissione americana esisteva nella precedente guerra fredda, ma quasi sempre equilibrata o addirittura superati dai pareri veramente informati e più saggio, ora in gran parte esclusa.

Questa analisi dei pericoli insiti nel nuovo estremista o allarmista della guerra fredda? Persino alcuni specialisti normalmente riluttanti sembrano concordare con la valutazione generale di Cohen. Gli esperti riuniti da un think tank di centro a Washington hanno pensato che su una scala da 1 a 10 ci sono da 5 a 7 reali opportunità di guerra con la Russia. Un ex leader britannico del MI6 ha riferito che “per la prima volta nella memoria dell’uomo esiste una possibilità realistica di un conflitto di superpotenze”. E un rispettato generale russo in pensione ha detto allo stesso gruppo di esperti che qualsiasi confronto militare “si tradurrà nell’uso di armi nucleari tra gli Stati Uniti e la Russia”.

Nelle attuali circostanze disastrose, un vertice Trump-Putin non può eliminare i nuovi pericoli della Guerra Fredda. Ma i vertici USA-Sovietici hanno tradizionalmente servito tre scopi corollari. Hanno creato una sorta di partenariato per la sicurezza – non è una cospirazione – che ha coinvolto limitato capitale politico di ciascun dirigente del paese, l’altro dovrebbe riconoscere e non mettere a repentaglio il indipendentemente. Hanno mandato un messaggio chiaro ai rispettivi burocrazie della sicurezza nazionale dei due leader, che spesso non ha favorito un tipo di rilassamento di cooperazione, il “capo” è stato determinato e che dovrebbero porre fine alla loro lentezza o addirittura di sabotaggio. E i vertici, con i loro solenni rituali e la loro intensa copertura, hanno generalmente migliorato l’ambiente politico-mediatico necessario per rafforzare la cooperazione nel mezzo dei conflitti della guerra fredda. Se un vertice di Trump-Putin raggiunge anche alcuni di questi obiettivi, potrebbe portare ad un allontanamento dal precipizio che al momento sta minacciando.

Stephen F. Cohen è professore emerito di studi e politica russa presso la New York University e la Princeton University e redattore di The Nation .

Fonte: The Nation, Stephen F. Cohen , 06-06-2018

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE, di Antonio de Martini

LA SOLUZIONE PER LA SIRIA E’ IN VISTA, MANCA SOLO UN MEDIATORE. O FORSE TRE.

Il professor Jeffrey Sachs della Columbia University ha rotto il fronte dei Think Tank americani rilasciando una pacata intervista alla MSNBC in cui dichiara di aver ben spiegato, sette anni fa, al Presidente Obama che la situazione siriaana era tale da non permettere la riuscita di un ” regime change” in Siria.

Adesso, ” dopo mezzo milione di morti e dieci milioni di profughi” il professore ribadisce il concetto e invita Trump a fare quel che ” istintivamente aveva capito” cioé a ritirare dalla Siria i 2.200 uomini che si trovano ” nel terzo orientale” del paese e rinunziare al cambio di regime voluto da Obama e Clinton.

Il ritiro é inevitabile, specie non appena sarà caduto, senza l’ecatombe prospettata dalla stampa, IDLIB, l’ultimo bastione su cui sventola la bandiera della ribellione. La Siria avrà truppe sufficienti per riprendere il controllo di tutte le sue frontiere.

L’accordo per creare un ” buffer zone ” ( zona cuscinetto) tra Putin e Erdogan è stato il primo passo per diminuire la pressione ed evitare scontri su iniziativa di comandanti minori. IDLIB non può resistere al prossimo inverno e questo lo sanno tutti. Siamo dunque agli sgoccioli.

Lo si evince anche dai comunicati sempre più stizziti dei “media da combattimento” USA impegnati a descrivere una utilità delle truppe americane che nessun altro nota.

Il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton ha presentato le condizioni della resa: parlando a un uditorio di iraniani residenti negli USA, ha detto che le truppe americane resteranno in Siria ” fintanto che in quel territorio ci saranno truppe e milizie iraniane”. In pratica propone un ritiro bilanciato dei contendenti dal campo di battaglia.

Rouhani, anche lui negli USA per partecipare all’Assemblea dell’ONU, ha fatto rispondere a denti stretti che ” L’Iran non si farà condizionare da terze parti nel suo appoggio alla Siria”.

Nel linguaggio orientale, significa che è disponibile a trattare, ma non direttamente con gli USA. Cercasi mediatore accettabile da tutte le parti in causa.

La reazione israeliana non si è fatta attendere e sta cercando di accreditare un Rouhani in avvicinamento al Presidente iraniano Ali Kamenei, mostrato come l’estremista da cui gli USA devono guardarsi. E’ falso.

Difficile per Putin offrirsi come mediatore dato che è parte in causa, ma indispensabile che la Russia accetti e colabori con una figura di mediazione gradita.
Una coppia , uno per parte, sarebbe una buona soluzione, dato che ha già fatto le sue prove disinnescando la bomba di Idlib.

Forse è per questo che Erdogan, dopo l’assemblea ONU – alla quale partecipa – domenica volerà a Berlino per incontrare la Cancelliera Merkel.

Lui cerca di rassicurare i mercati, gli alleati NATO e gli investitori esteri tentennanti ( tedeschi?) e lei cerca di rinverdire il blasone appannato da anni di governo pacioso in un mondo turbolento e porre autorevolmente la sua candidatura alla presidenza della Commissione UE, liberando al contempo Trump dal sospetto di un accordo diretto con la Russia.
Tra un mese gli USA hanno le elezioni di mezzo termine.

L’ULTIMA FRONTIERA, di Gianfranco Campa

L’ULTIMA FRONTIERA

La prima volta che attraversai il confine fra gli Stati Uniti e il Messico era l’ormai lontano Giugno 1993. All’epoca viaggiavo su una Oldsmobile Cutlass Cruiser, versione familiare, con motore, se la memoria non mi inganna, di 3300 cc di cilindrata. Una di quelle macchine che per ogni miglio di strada si beveva il carburante di un’intera stazione di servizio. Ma all’epoca questo poco contava; in California un gallone di benzina costava intorno a un dollaro. In altre parole, 3,8 litri di benzina mi costavano intorno agli 80 centesimi di Euro.

Un anno strano il 1993; l’anno prima era stato eletto alla presidenza un certo Bill Clinton che aveva sconfitto alle elezioni presidenziali George Bush (padre) con l’aiuto di un miliardario Texano di nome Ross Perot. La ancora relativamente sconosciuta first lady, Hillary Clinton, aveva viaggiato in gioventù con la versione berlina della Oldsmobile con cui mi apprestavo ad attraversare il confine messicano.

L’avvento di Perot aveva dirottato verso il magnate, dall’accento provinciale, tipicamente Texano, una larga fetta di voti che in teoria sarebbero dovuti andare a Bush, aprendo quindi la strada alla vittoria di  Bill Clinton. Una vittoria fra amici di merende poiché la differenza fra Clinton e Bush si rivelò alquanto minima per quello che riguardava la politica e geopolitica americana. Perot al contrario è stato invece, in un certo senso, un apripista di Trump, un precursore, anche se Perot sbagliò tattica opponendosi al sistema bipartitico americano, invece che infiltrarsi e addomesticarlo dall’interno. Fatto sta che fino a questo momento Perot rimane nella storia moderna Americana come l’unico tentativo serio di rompere il regime tradizionale politico a stelle e strisce. Perot fu colui che in tempi remoti si è confrontato con l’establishment dell’epoca, opponendosi anche alla prima Guerra del Golfo e all’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio, meglio conosciuto come NAFTA. Tra l’altro Ross Perot rimarrà famoso anche per la sua frase “pittoresca” con cui defini NAFTA come il “suono di un succhiatore gigante.” Succhiatore di posti manifatturieri (complice insieme ad altri accordi mondiali globali), svuotatore e trasformatore di intere aree industriali in zone fantasma, solo parzialmente rimpiazzate dal settore ad alta tecnologia e dal terziario. Succhiatore anche di speranze latine, speranze che in quel tardo Giugno del 1993 erano ancora palpabili per le strade della città messicana.

L’accordo NAFTA sarebbe entrato in vigore nel Gennaio del 1994, ma nonostante la povertà da terzo mondo, la città di Tijuana appariva relativamente ordinata, sicura e vivace in quell’estate del 1993. Parlando con la gente per la strada, tra un venditore di deliziosi Churros e uno di gustosi Tacos, traspariva l’ottimismo che la vicinanza ai gringos li avrebbe favoriti in questa visione globale del futuro prossimo.

Di quelle speranze rimarrà, a 25 anni di distanza, poco o niente. Nonostante quello che sostengono Wikipedia, gli economisti e i mass media, l’area metropolitana di Tijuana è stata sì parziale beneficiaria di alcuni investimenti nei settori dell’High Tech e manifatturiero, ma nonostante i proclami entusiastici riguardanti le potenzialità di quella città, la realtà si è rivelata col tempo ben diversa. Tijuana è anche una delle tante vittime di quella che possiamo definire la sindrome anti-trumpiana che pervade i mass-media e la politica Californiana. Le élites, abbagliate dall’odio viscerale per Trump, confidano in Tijuana come in uno strumento da rispolverare e mettere in mostra per avallare la teoria che la globalizzazione ha funzionato nonostante l’avvento di Trump. Trump come forza demoniaca distruttrice del sogno globalista e del libero scambio Nordamericano. Nel loro immaginario Tijuana oggi come oggi celebra le potenzialità come hub dal futuro economico roseo, dove invece di costruire muri si auspicano ponti di fratellanza e collaborazione. Ma tutto ciò rimane solo sulla carta e nel pio desiderio di chi la realtà si rifiuta di analizzarla e riconoscerla.

La frontiera messicana dal centro di San Diego dista solo venti minuti di macchina; all’entrata in Messico l’attesa e il controllo sono insistenti, diversamente dal ritorno, dove il controllo alla frontiera Statunitense, quella cosiddetta di San Ysidro, ti sottopone a ore di tediosa attesa, a volte sotto un solo cocente. Questo di per sé testimonia il fallimento della rappresentazione del Nord America formato da nazioni senza frontiere: Canada-USA-Messico. Infatti alla NAFTA avrebbe dovuto far seguito un trattato stile Schengen mai materializzatosi.

Dopo il 1994, con NAFTA a pieno regime, Tijuana si evolse da centro turistico a centro produttivo. Aziende del calibro di Panasonic, Samsung aprirono grandi impianti di assemblaggio.

Strano destino quello di Tijuana! La benedizione della vicinanza al confine avrebbe dovuto essere la sua salvezza, ma il sogno americano si e` infranto contro il muro della realta`.

Dopo un iniziale boom, Tijuana (e il Messico) sono entrati in un periodo di declino economico. La speranza era che NAFTA riducesse le disparità di reddito tra Stati Uniti e Messico; a 25 anni dall’accordo, il divario è continuato a crescere.

Nel 2014, a vent’anni dalla firma del NAFTA, anche  la disparità di reddito all’interno del Messico fra la classe ricca e quella povera è aumentata a dismisura. La quota del reddito nazionale dalla classe più ricca del paese è aumentata oscillando dal 24% fino al 58% lasciando al palo il resto della popolazione Messicana. A Tijuana, dal 2000 in poi sono stati persi 33.000 posti di lavoro.  Secondo Garrett Brown, ex-capo della rete per la salute e la sicurezza dei Maquiladora (Maquiladora è il termine usato per descrivere una fabbrica in Messico gestita da una società straniera e che esporta i suoi prodotti nel paese di tale società), il salario medio messicano nel 1975 era pari al 23% del salario di produzione degli Stati Uniti. Nel 2002 era meno di un ottavo. Secondo Brown, dopo il NAFTA, i salari reali messicani sono calati del 22%, mentre la produttività dei lavoratori è aumentata del 45% .  Alle società statunitensi è stato concesso di possedere terreni e fabbriche, ovunque in Messico, non solo a Tijuana. Per esempio la compagnia ferroviaria Union Pacific, con sede negli Stati Uniti, in collaborazione con la famiglia oligarca messicana dei Larrea, una delle più ricche del Messico è diventata proprietaria della principale linea ferroviaria nord-sud del paese e ha soppresso l’intero servizio passeggeri a scapito di quello merci. L’occupazione nel settore ferroviario messicano, in questi anni è crollata da 90.000 a 36.000 impiegati. I sindacati delle ferrovie hanno lanciato scioperi a catena nella speranza di salvare i loro posti di lavoro, ma alla fine hanno perso la loro battaglia e il loro attuale sindacato è diventato una pallida memoria del suo passato

I bassi salari sono la calamita utilizzata per attrarre gli investitori statunitensi e altri investitori stranieri.  La Ford, uno dei maggiori datori di lavoro del Messico, ha investito 9 miliardi di dollari nella costruzione di nuove fabbriche, ma nel frattempo Ford ha chiuso 14 stabilimenti statunitensi, eliminando il lavoro di decine di migliaia di lavoratori statunitensi. Entrambe le mosse erano parte del piano strategico dell’azienda per ridurre i costi di manodopera e spostare la produzione. Quando nel 2008  la General Motors è stata salvata dal governo degli Stati Uniti (Obama), chiuse una dozzina di stabilimenti statunitensi, mentre ha prosequito con  la costruzione di nuovi impianti sul territorio Messicano.

Nel 2010, secondo il Monterrey Institute of Technology, 53 milioni di messicani vivevano in condizioni di povertà, circa la metà della popolazione del paese. La crescita della povertà, a sua volta, ha alimentato la migrazione. Nel 1990, 4,5 milioni di persone di origine messicana vivevano negli Stati Uniti. Un decennio più tardi, quella popolazione è più che raddoppiata a 9,75 milioni, e nel 2008 ha raggiunto il picco di 12,67 milioni.

Tra il  2001 e il 2015, 267 aziende manifatturiere sono scomparse dalla città di Tijuana. Molto della produzione manifatturiera che ha lasciato gli Stati Uniti si è indirizzata verso l’area Asiatica (Cina in primis), lasciando Tijuana e il Messico al palo. In altre parole si sentono forti i suoni del succhiatore gigante….

(Carovana di un cartello mafioso della droga)

Altre componenti hanno contribuito alla crisi di Tijuana e a rendere monco il NAFTA: l’attacco dell’undici di Settembre, la crisi finanziaria del 2008,  l’emergenza del virus H1N1, ma soprattutto la violenza dei cartelli della droga.  Di conseguenza molti dei turisti americani hanno smesso di visitare la regione e le attività turistiche sono crollate. Resiste ancora il turismo del sesso, visto la larga presenza di prostitute e quella dell’alcol, soprattutto da parte di studenti americani che nel fine settimana si recano al di là del confine per delle facili sbronzate.

Tijuana così rimane per il momento nel limbo, un progetto iniziato e rimasto in sospeso con la città che potrebbe essere in teoria il ponte della California verso l’America Latina, con un potenziale vantaggio economico per entrambe le parti. La  California è la sesta economia al mondo, pari al 13% del PIL USA. Un bacino Tijuana-San Diego offre un potenziale di forza lavoro di oltre 3 milioni di persone.

(Sparatoria tra Forze dell’Ordine e componenti del pericolossissimo cartello Los Zetas.)

Nell’attesa che finalmente le fortune di Tijuana si invertano, in questi anni  si sono arricchiti solo gli oligarchi messicani e i cartelli della droga (sovvenzionati dall’Appetito degli Americani per le droghe). Il livello di violenza è allarmante, con cifre che riflettono quelle di una vera e propria guerra civile. A Tijuana dal Febbraio scorso ci sono stati in media 8 omicidi al giorno. Nel solo mese di Luglio si sono registrati 242 omicidi. Tijuana è considerata la quarta città più violenta del mondo; in altri termini gareggia di pari passo con città situate in piene zone di guerra. La violenza ha mietuto vittime non solo fra criminali dei cartelli della droga ma anche fra civili innocenti, incluso molte figure politiche e giornalistiche. In Tijuana l’ultima agenzia di Stampa ancora aperta è guardata a vista dai militari messicani 24/7. Insomma siamo in una situazione che ricorda molto più la Siria piuttosto che un paese Nord Americano.

In Mexico, rails are risky crossing for a new wave of Central American migrants - The Washington ...

C’è un altro aspetto inquietante che contribuisce ai problemi di Tijuana. La vicinanza col confine Californiano l’ha resa meta del pellegrinaggio migratorio. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, disperati di ogni tipo da ogni parte del globo, si ritrovano alla fine del loro viaggio travagliato a Tijuana. Tijuana rappresenta il capolinea del viaggio e l’inizio di quella che dovrebbe essere la speranza di una vita nuova nell’America dei sogni, la realizzazione del sogno americano. Ma i sogni finiscono a Tijuana; lì si trasformano in incubi e le vite di milioni di disperati si intrecciano con i problemi di un tessuto sociale ormai al collasso. Prima ancora dell’avvento di Trump il confine a Tijuana era sommerso da immigrati clandestini convergenti da tutto il mondo bloccati dalle sempre più imponenti misure di controllo doganale. Da quando Trump è entrato alla Casa Bianca la situazione è solo peggiorata. I più fortunati pagano i cosiddetti coyotes ( trafficanti di esseri umani) fino a 20.000 dollari  per farsi trasportare oltre il confine, a piedi nel deserto, per finire il più delle volte intercettati dalla polizia di frontiera (Border Patrol). I meno fortunati (la maggioranza) rimangono bloccati al confine.

Secondo le statistiche del governo americano: Nel 2016 un totale di 409.000 immigrati clandestini sono stati catturati mentre tentavano di attraversare illegalmente il confine sudoccidentale con gli Stati Uniti. Un aumento del 23% rispetto all’anno precedente. Inutile dire che la tendenza è in deciso aumento. Arrivano da tutte le parti gli immigrati a Tijuana; Dal Centro e Sud America, Zone Caraibiche, Zone Asiatiche, Africane, e Mediorientali. Non sono solo i Messicani a voler attraversare il confine.

Immigrant family separation: Why do they flee their home countries?

Se tutto ciò non bastasse si aggiunge un altro problema per la città e il governo messicano. Mentre Tijuana si gonfia di immigrati bloccati al confine americano, si aggregano ogni giorno a questi anche quelli privi di documenti che vengono deportati, rimpatriati dagli Stati Uniti. Tijuana è al collasso, sopraffatta da un marea di persone senza casa e senza futuro. I centri di accoglienza sono colmi e traboccano di gente. In Italia e in Europa i centri di accoglienza sono delle regge reali paragonate a quelle Messicane dove mancano anche delle forme più elementari di assistenza. Lo stato Messicano non ha le risorse per poter seguire tutti questi disperati che gonfiano la frontiera Messico-USA

Tijuana rappresenta l’ultima frontiera dove  vanno a naufragare i sogni di milioni di persone. Sogni alimentati dalle false promesse dei trattati internazionali mirati solamente ed esclusivamente ad arricchire le multinazionali a spese di lavoratori e immigrati. NAFTA è ora morta, soppressa da Trump cecchino della globalizzazione sfrenata. In molti non ne sentiranno la mancanza, altri continueranno a far finta che Tijuana abbia un grande potenziale e che i trattati internazionali sono la panacea che cura tutti i dolori sociali.

Tijuana rappresenta la visione di un futuro non troppo lontano per l’Italia stessa. Italia paese di frontiera svuotato di contenuti e idee. Impoverito da anni di abusi sovranazionali travestiti da trattati internazionali spacciati come rimedi a tutti i nostri problemi. Immigrati e rifugiati che arrivano dai posti più disparati e disperati con la speranza di superare il confine con la Francia, Svizzera, Austria etc.

Tijuana città fallita, di un bellissimo paese come il Messico ricco di storia e bellezze naturali. Anche l’Italia un paese fallito? Si sente nel sottofondo  il suono di un succhiatore gigante…

 

 

http://zetatijuana.com/2018/08/tijuana-estado-fallido/

 

https://www.politicalresearch.org/2014/10/11/globalization-and-nafta-caused-migration-from-mexico/

 

https://www.sandiegoreader.com/news/2018/aug/08/stringers-tijuanas-most-violent-month-all-history/

 

https://www.nytimes.com/2017/01/27/world/americas/mexico-border-tijuana-migrants-haitians-trump-wall.html

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